martedì 28 settembre 2021

Dune (2021)

Di ritorno dalla vacanza settembrina, sono corsa a vedere Dune, diretto e co-sceneggiato dal regista Denis Villeneuve a partire dal romanzo omonimo di Frank Herbert


Trama: in un lontano futuro, il pianeta Arrakis è teatro di guerre all'ultimo sangue per il controllo della Spezia, indispensabile elemento per navigare nello spazio. A farne le spese, i membri della casata Atreides, inviati dall'imperatore proprio su Arrakis...


Io sono estasiata. Felice, assolutamente e per una volta, della mia ignoranza crassissima. Credo infatti di essere parte delle pochissime centinaia di persone in tutto il mondo che sono andate a vedere Dune senza sapere nulla non solo di tutto l'universo creato da Frank Herbert, ma anche delle altre due fallimentari (a quanto pare) versioni cinematografiche e televisive che sono state tratte dal primo libro della saga; di conseguenza, penso di essere stata anche una dei pochi spettatori che si sono goduti un racconto completamente nuovo, magico e misterioso, fatto di personaggi complessi e colpi di scena a non finire, a prescindere dall'effettiva bellezza della regia di Villeneuve. Come ho detto al Bolluomo a fine visione, durata due ore e mezza volate in un soffio, "Dune agli ultimi Star Wars, ma anche a quelli vecchi, con tutto il rispetto, spiccia casa". Quella di Dune è una fantascienza adulta, che non vive per il product placement, ma porta sullo schermo personaggi a tutto tondo invischiati in una trama complessa sviscerata a poco a poco, senza spiegazioni al limite del didattico, ma lasciando molto spazio all'intelligenza dello spettatore; non ci sono solo il bianco e il nero, il bene e il male in Dune (tranne forse per la casata Harkonnen, i cui membri sono gli unici connotati come mostri veri), ma moltissime sfumature di grigio, che rendono i protagonisti tridimensionali ed imprevedibili, ricchi di segreti, anche poco piacevoli, da scoprire senza fretta. I fan rideranno a leggere queste parole ma ho particolarmente apprezzato, senza fare troppi spoiler per chi è ignorante come me, le azioni "disonorevoli" (ahimé, anche inutili) compiute da un personaggio che dell'onore aveva fatto la sua bandiera fino a un secondo prima, la vena di profonda e dura oscurità che permea l'animo di chi dovrebbe tradizionalmente essere donna e madre, e in generale tutto il percorso di presa di consapevolezza del protagonista, Paul, legato alla spezia e a qualcosa di assai più grande e pericoloso prima ancora di cominciare il suo cammino di uomo. Le visioni di Paul, oniriche e spesso terrificanti, spingono a volerne sapere di più non solo su ciò che sarà del suo futuro, ma anche su quei Fremen che qui vengono più nominati che visti, incarnati da occhi azzurri che rendono Zendaya ancora più bella di quanto non sia normalmente e da un deserto caldo ed accogliente che contrasta con l'inferno mortale sperimentato nella realtà dai vari personaggi, popolato da creature mostruose ma forse più clementi del sole.


Buona parte di questo incredibile trasporto che ho avuto verso quasi tutti i personaggi è sicuramente da ricercare nella bravura degli attori e del regista che li ha diretti. Fa un po' ridere che Villeneuve si sia unito al gruppo di registi anti-Marvel quando metà del cast di Dune viene dalle ormai sempre più folte scuderie Disney/DC, eppure come si vede la differenza quando anche un "cojone" come Jason Momoa si ritaglia momenti talmente epici da spezzare il cuore (ma non toglietegli mai più la barba, vi prego, che pare Cicciobello!) e Oscar Isaac, dimenticabilissimo nei panni di Dameron Poe, sembra uscito dritto da una tragedia di Shakespeare. Certo, a colpire più di tutti sono due che con la Marvel poco c'entrano, ci mancherebbe. Timothée Chalamet è il perfetto connubio di bellezza "maledetta" e fragilità di ragazzino, due caratteristiche che, a mio avviso, al personaggio di Paul Atreides calzano alla perfezione, ma perdonatemi se darei ogni premio da qui all'eternità ad un attrice che aveva già dimostrato di sapere il fatto suo in Doctor Sleep, quando ha incarnato quell'indimenticabile Rose Cilindro; Rebecca Ferguson è IL motivo per cui chiunque dovrebbe correre a vedere Dune, con quegli occhi profondissimi e nervosi, l'apparenza fragile di chi è abituata a stare sempre un passo indietro che lascia spazio, nel giro di un secondo, alla durezza quasi fanatica di chi rimane sì indietro, ma per tirare i fili nell'ombra e mettertelo nello stoppino. Ripeto, non ho mai letto i libri di Herbert quindi magari questa versione di Lady Atreides è farina del sacco di Villeneuve, ma trovare un personaggio femminile così particolare in un'opera degli anni '60 per me ha del miracoloso e non vedo l'ora di capire come si svilupperà il rapporto tra lei e il figlio, visto il finale sospeso e quello sguardo da suocera del Sud rivolto a Chani.


Ciò detto, diamo a Villeneuve quello che è di Villeneuve. Dune è una meraviglia da vedere e ogni fotogramma è pura emozione. La grandiosità delle astronavi davanti alle quali gli uomini sembrano degli infinitesimali granelli di sabbia, l'ingannevole e placida bellezza di un deserto il cui calore pare trasudare dallo schermo, smosso dai mostruosi (e bellissimi) vermi della sabbia pronti a trasformare le dune in onde di un oceano sconfinato, perfetto contraltare del mare reale che circonda le terre della Casata Atreides, la fotografia che cambia con il cambiare dei pianeti, dal grigio-bluastro di quello da dove proviene Paul, ai colori caldi di Arrakis, alla cupezza "nazista" del pianeta degli Harkonnen, le scene d'azione e di corpo a corpo che rimangono fluide, chiare e talvolta angoscianti anche col PG-13, la brillantezza della spezia, tutto concorre a fare di Dune un sogno ad occhi aperti, o un incubo, a seconda dei momenti. Se, infatti,  davanti al pupazzo gnappo dell'imperatore Palpatine al massimo mi veniva da fare un sorrisetto scazzato, tutte le sequenze imperniate sulla casata Harkonnen e i mostri che la popolano mi hanno messo la stessa ansia di un horror e quel maledetto Barone probabilmente popolerà i miei incubi per mesi. E per mesi, probabilmente, ascolterò la colonna sonora di Hans Zimmer, talmente evocativa ed esotica da risultare quasi ipnotica, uno score emozionante come non mi capitava di sentire da tempo in un "blockbuster", per quanto d'autore. Non so se riuscirò ad aspettare anni per avere il seguito di Dune e non so neppure se, nel frattempo, resisterò alla tentazione di sapere (magari guardando il Dune di Lynch o meglio ancora leggendo i libri) quale sarà il destino di Paul, ma se l'attesa verrà ripagata con un film bello come questo, ne sarà valsa la pena. 


Del regista e co-sceneggiatore Denis Villeneuve ho già parlato QUI. Timothée Chalamet (Paul Atreides), Rebecca Ferguson (Lady Jessica Atreides), Oscar Isaac (Duca Leto Atreides), Jason Momoa (Duncan Idaho), Stellan Skarsgård (Barone Vladimir Harkonnen), Stephen McKinley Henderson (Thufir Hawat), Josh Brolin (Gurney Halleck), Javier Bardem (Stilgar), Chen Chang (Dr. Wellington Yueh), Dave Bautista (Rabban Harkonnen), David Dastmalchian (Piter De Vries) e Charlotte Rampling (Reverenda Madre Gaius Helen Mohiam) li trovate invece ai rispettivi link.

Zendaya (vero nome Zendaya Maree Stoermer Coleman) interpreta Chani. Americana, la ricordo per film come Spider-Man: Homecoming e Spider-Man: Far From Home. Anche produttrice, cantante e sceneggiatrice, ha 25 anni e un film in uscita, Spider-Man: No Way Home.


Nel caso Dune andasse bene al botteghino dovrebbe uscire nei prossimi anni un seguito, sempre diretto da Villeneuve; nell'attesa, se volete sapere (come me!) come va a finire la storia, potete sempre recuperare il Dune di David Lynch o la miniserie televisiva Dune - Il destino dell'universo, anche se nel secondo caso non so onestamente quanto vi convenga! ENJOY!

 

venerdì 24 settembre 2021

L'uomo nel buio - Man in the Dark (2021)

Ci ho messo qualche mese a recuperare L'uomo nel buio - Man in the Dark (Don't Breathe 2), diretto dal regista Rodo Sayagues, e onestamente un film simile poteva aspettare ancora un po'...


Trama: la vita di un uomo cieco e della figlia prosegue senza intoppi finché un gruppo di malviventi non penetra nella loro casa...


Avevamo lasciato l'uomo cieco interpretato da Stephen Lang su una barella, pronto per essere portato in ospedale dopo un'epica lotta contro i tre ragazzi che avevano tentato di derubarlo senza sapere di stare infilandosi nella tana di un mostro. Lo ritroviamo, anni dopo, più arzillo di prima e alle prese con una figlia di undici anni che tiene praticamente segregata in casa, tra homeschooling e lezioni di sopravvivenza nei boschi, consentendole solo di tanto in tanto un giretto in una Detroit popolata da reduci di guerra, drogati, trafficanti di organi e delinquenti della peggior specie. Tutto scorre "sereno" finché, come già nel primo film, qualcuno non decide di penetrare all'interno della casa del reduce cieco per portargli via qualcosa di molto importante, scatenandone la furia. Nel primo Man in the Dark il meccanismo straniante e il conseguente shock che ne derivava nasceva dal fatto che gli invasori erano sì dei ladri, ma per due terzi erano anche dei ragazzini disperati costretti a dover affrontare un mostro rapitore, assassino e stupratore, cosa che ovviamente ribaltava il punto di vista della "vittima" cieca e anziana costringendo lo spettatore (giustamente) ad empatizzare con i suoi rapinatori. Man in the Dark 2, purtroppo, non potendo più contare sull'effetto "sorpresa" e dovendo capitalizzare sull'innegabile carisma di un villain come l'uomo cieco, getta in pasto allo spettatore una scorrettissima storia di redenzione dove il rapitore, assassino e stupratore di cui sopra viene messo contro a gente ancora peggio di lui, pronta a sputare sulla maggior parte dei valori umani e a prendersela con i cosiddetti "intoccabili", ed elevato per questo a difensore di pargoli e San Francesco della situazione.


Una cosa simile può funzionare per chi non ha mai visto Man in the Dark, perché la rivelazione sulla natura abietta del protagonista viene liquidata con poche, lacrimevoli parole sul finale e, in tempi di cinema mordi e fuggi con un occhio allo schermo e uno al telefonino, il rischio di non capire la portata delle dichiarazioni dell'uomo cieco c'è; d'altra parte, anche chi ha visto Man in the Dark si ritrova a non temere mai per la ragazzina tutelata dal protagonista, il che rende il film un percorso di redenzione che comincia già in maniera sbagliata e si conclude nel più banale dei modi, con una punizione (subito smentita dalla scena post-credit) accompagnata dal perdono di chi ha rischiato di vedersi rovinare la vita per le fisime non già di un antieroe, ma di un vero e proprio psicopatico. Poi, se vogliamo apprezzare come sempre il phisique du rol di Stephen Lang e i modi estrosi con cui il suo personaggio riesce a superare l'handicap fisico che lo caratterizza oppure le morti violente di gente che non meriterebbe altro nella vita, ci piace vincere facile e chi sono io per giudicare chi guarda i film col cervello spento visto che spesso lo faccio a mia volta. Per quanto mi riguarda, in questo periodo non sono particolarmente dell'umore per tollerare qualcosa di simile: o mi realizzi un film stupido al 100%, fatto di puro divertimento gore tra l'assurdo e il surreale ma comunque coerente, o dell'idea di stravolgere completamente la percezione di un pazzo omicida facendo leva su uno scorrettissimo senso di pietà che i due sceneggiatori si sforzano di inculcare allo spettatore ne faccio anche a meno, grazie. 


Di Stephen Lang, che interpreta l'uomo cieco, ho già parlato QUI.

Rodo Sayagues è il regista e co-sceneggiatore della pellicola, al suo primo lungometraggio. Uruguayano, è anche produttore e attore. 


Fiona O'Shaughnessy
, che interpreta la madre, era la Nina di Nina Forever. Se L'uomo nel buio - Man in the Dark vi fosse piaciuto recuperate Man in the Dark, disponibile su Netflix. ENJOY! 


martedì 21 settembre 2021

Teddy (2020)

La Summer of Chills di Shudder ormai è finita da un pezzo, io però sto ancora recuperando i film della rassegna, tra i quali c'è anche Teddy, diretto e sceneggiato nel 2020 dai registi Ludovic Boukherma e Zoran Boukherma.


Trama: dopo essere stato morso nel bosco, il giovane Teddy comincia a subire un'inquietante trasformazione...


Nel giro di una settimana o poco più mi sono sparata tre horror francesi senza soluzione di continuità e, per quanto i nostri cuginastri continuino a starmi poco simpatici, c'è da dire che i loro film di genere sono sempre ben lontani dall'esser banali. E' il caso di questo Teddy, uno schiaffo fortissimo in faccia a pellicole come l'adorato e adorabile Voglia di vincere ma anche qualcosa che si distacca parecchio da grandi classici del genere "licantropia" come L'ululato o Un lupo mannaro americano a Londra e che segue una strada tutta sua a partire dalla scelta di utilizzare attori ben distanti dai canoni di bellezza che avremmo ritrovato invece in un coming of age americano. Il film racconta la storia di Teddy, un ragazzo normalissimo, forse più "scemo" di molti altri, se mi passate il termine, che non ha mai finito la scuola (ha abbandonato alle medie), non ha genitori (vive con una zia ridotta quasi in stato vegetativo e uno zio fuori di testa) e viene generalmente considerato lo "strano" del paese, persino mezzo satanista a causa dei suoi gusti musicali; in realtà, Teddy è una persona incredibilmente buona, dai saldi principi, follemente innamorato della coetanea Rebecca, al punto da sognare una vita con lei, una casa, una famiglia come quella che lui non ha mai avuto. La vita un po' trasandata ma comunque felice di Teddy cambia nel momento in cui viene morso da una bestia, probabilmente un lupo, evento che lo sottopone a cambiamenti fisici e psicologici acuiti da una situazione esterna che sta già cominciando a precipitare a causa dell'imminente fine della scuola e di un futuro che rischia di apre le porte solo a Rebecca, lasciandolo indietro e da solo. 


Come già Lo sciame, altro horror francese visto di recente, Teddy gioca con i cliché dell'horror ma cerca di evitare di renderli il fulcro di una pellicola che preferisce raccontare altro, senza lesinare momenti abbastanza schifosi (tutti legati all'abbondante crescita pilifera di Teddy, che poverino si ritrova peli in posti che non augurerei a nessuno, con conseguenti tentativi di rimozione che mi hanno portata distogliere lo sguardo reprimendo brividi di puro disgusto) e anche un finale risolutivo assai gore, realizzato in maniera perfetta nonostante le evidenti carenze di budget, che in questo caso hanno aguzzato l'ingegno dei gemelli Boukherma; per la maggior parte della sua durata, Teddy è una commedia, soprattutto nel primo atto, che tuttavia a poco a poco si tinge di malinconia, con la maledizione del protagonista che non fa altro che sottolineare la sua natura di "diverso", alimentando la diffidenza che gli altri abitanti del paese provavano nei suoi confronti già da prima. E' triste vedere Teddy affrontare il suo problema in totale solitudine, privo di amici con i quali confidarsi al di fuori dello zio che, tuttavia, ricerca solo soluzioni "mistiche", terrorizzato com'è da ciò che percepisce (giustamente o meno) come maligno, ed è triste vedere come, nonostante questo terrore, sia comunque lo zio l'unico in grado di guardare negli occhi la profonda sofferenza di Teddy e di liberarlo nel modo più altruistico, pietoso e terribile possibile. L'atmosfera tutta particolare di Teddy si appoggia anche a una fotografia dalle palette coloratissime e a degli attori che, come detto sopra, non sono bellissimi (anzi, spesso l'esatto contrario) eppure sono, oltre che bravi, perfetti per l'immagine bucolica e anche un po' "squallida" di un piccolo paesino delle campagne francesi, dove è fin troppo facile gridare "al lupo" e scagliarsi contro la bestia senza nemmeno provare a capirla, persi nella rassicurante certezza di una ridicola banalità spacciata per gran traguardo sociale. Provate a guardare Teddy e fatemi sapere se anche voi avete apprezzato la particolare atmosfera di questa strana pellicola! 

Ludovic Boukherma e Zoran Boukherma sono i registi e sceneggiatori della pellicola, al loro secondo lungometraggio, sono fratelli gemelli e hanno 29 anni. Francesi, anche produttori, Zoran ha lavorato anche come attore. 





venerdì 17 settembre 2021

Il collezionista di carte (2021)

Mi ha fatta un po' penare e ho rischiato che lo togliessero ma finalmente sono riuscita ad andare al cinema a vedere Il collezionista di carte (The Card Counter) diretto e sceneggiato dal regista Paul Schrader.



Trama: l'ex detenuto William Tell è diventato uno dei più bravi giocatori d'azzardo d'America. Ma il passato, inaspettatamente, torna a bussare alla sua porta...


Vi è mai capitato di andare in crociera? A me sì, un paio di volte. Ho ovviamente apprezzato le visite esterne, rigorosamente effettuate in piena libertà, senza acquistare quei pacchetti ridicolmente cari zeppi di inutili optional che propongono a bordo, mi sono fatta coinvolgere dagli animatori (per quanto detesti ogni genere di animazione) arrivando persino a divertirmi, mi sono fatta due risate con le compagne di viaggio e, in generale, nonostante sia un modo di viaggiare poco consono alla mia natura, non mi sono trovata male. Eppure qualcosa, all'interno delle navi da crociera, mi ha sempre messo addosso una certa tristezza e, col tempo, sono arrivata ad identificare quel "qualcosa" con lo squallore nascosto dall'apparenza faraonica di arredi e luci, tra i quali si muove un'umanità in buona parte fatta di accattoni, di gente che si scofana in mezza giornata tutto quello che basterebbe a sfamare per un mese un villaggio in Africa solo perché "è tutto incluso e ho pagato", che fa scivolare via le notti nel casinò di bordo sperando di racimolare qualche spicciolo. Lo so, ora mi chiederete perché ho dovuto scomodare le navi da crociera per parlare del casinò. E' che io sono stata solo nel Casinò di Sanremo e lì un minimo di dignità mi è parso di trovarla ancora, mentre gli ambienti descritti nel film di Schrader mi hanno messo addosso la stessa repulsione provata all'interno dei casinò delle navi e non ho fatto fatica né a percepirne la natura di Purgatorio per il personaggio di William Tell, né a capire perché il miraggio dei soldi, delle partite e della fama non abbiano fatto presa sulla mente di Cirk, per nulla distolto dai suoi propositi di vendetta.


Il casinò di Schrader non è quello di Scorsese, che figura tra i produttori. Qui non ci sono personaggi larger than life capaci di farci dimenticare il pantano di violenza e bassezze umane nel quale si dibattono finché non è troppo tardi: ne Il collezionista di carte l'Inferno segue costantemente William e la sua ricerca di una routine, di un modo per tenere impegnato il cervello, altro non è che un modo per punirsi per colpe impossibili da dimenticare, che lo blocca in un limbo senza sfogo. Uno come William, capace di "contare le carte" e quindi giocare d'azzardo a livelli altissimi, potrebbe aspirare a una vita di agi e lusso, invece sceglie di nuotare sul fondo dell'acquitrino composto da casi umani che nella vita non sanno fare altro che giocare e scommettere, vivendo in camere di motel impersonali, mangiando il cibo insapore di quei postacci per turisti, bevendo drink notturni fatti al 50% di alcool e al 50% di tristezza. Nel mondo asettico che l'ex detenuto si è creato, il passato non ha spazi per penetrare ma non ci sono nemmeno appigli per ottenere una redenzione, quindi. Serve l'intervento di un agente esterno, Cirk, per smuovere le acque e spingere William ad uscire dalla sua illusoria comfort zone così da arginare l'orrore mai tenuto a bada del tutto e cercare di trasformarlo in qualcosa di buono per un ragazzo che ha perso tutto a causa di colpe non sue. L'ultima opera di Schrader diventa così una lotta per non soccombere, un percorso a spirale che apparentemente non porta da nessuna parte e che rischia, per molti, di diventare "quel film in cui Oscar Isaac gioca a poker e ogni tanto ripensa ai tempi in cui torturava prigionieri di guerra". Ma è proprio la natura ripetitiva de Il collezionista di carte il mezzo attraverso cui il regista ci fa "sentire" tutto il disagio di William, la sua ansia di salvare Cirk e lasciarsi così alle spalle uno schifo troppo profondo per venire mondato da dieci anni di carcere militare.


La calma apparente della vita di William, scandita da regole come una partita a carte e altrettanto controllata, si rispecchia nella regia classica di Schrader, nei primi piani e nei controcampi, nella generale aria "anni '70", da New Cinema Americano, che si respira fin dai titoli di testa, ma in sottofondo c'è sempre il filo teso del passato pronto ad inghiottire il protagonista, incarnato da una splendida ed inquietante colonna sonora che non sfigurerebbe in un horror. Quella stessa colonna sonora, a tratti, "impazzisce"; è quando William ricorda la cacofonia orribile di urla, musica e altri suoni assordanti dei campi di prigionia, la sovrabbondanza sensoriale di rumore, odori e stimoli visivi che si traduce per lo spettatore in grandangoli e piani sequenza che restituiscono le immagini deformate di un incubo purtroppo documentato da fatti di cronaca realmente accaduti, dove vittime e carnefici arrivano a confondersi, dove non esistono più leggi né moralità e bisogna diventare mostri per non soccombere alla pazzia. In tutto questo, Oscar Isaac regge quasi da solo l'intero film, prestando corpo e volto ad un personaggio complesso e di indubbio fascino che a tratti ricorda le migliori interpretazioni del vecchio De Niro o di Sean Penn; William è una persona che ha fatto cose orribili e che si è abbandonato al lato peggiore di sé, a prescindere dalle circostanze "attenuanti" dietro cui sempre si trincerano quelli che eseguono gli ordini, eppure è difficile odiarlo e non provare per lui almeno un minimo di pena, anche solo per la goffaggine con cui pretende di aiutare una persona ormai impossibile da dissuadere o per la rassegnazione quasi "umile" con cui sopravvive, senza vivere. A completare il cast ci pensano Willem Dafoe, mostro (letteralmente) sacro a cui bastano dieci minuti di presenza per generare una quantità di sensazioni che vanno dall'odio al disgusto al terrore, e un Tye Sheridan ben distante dai ruoli "leggeri" che lo hanno reso famoso, mentre ammetto che La Linda di Tiffany Haddish non mi ha detto assolutamente nulla, sia come personaggio che come attrice. In definitiva, non penso che Il collezionista di carte sia un film per tutti i gusti, ma io ne sono rimasta affascinata e coinvolta e non posso fare altro che consigliarlo, perché è raro di questi tempi trovare pellicole che si prendono il lusso di dialogare con lo spettatore e farlo riflettere, invece di servirgli subito delle semplici e rapide risposte.  


Del regista e sceneggiatore Paul Schrader ho già parlato QUI. Oscar Isaac (William Tell), Tye Sheridan (Cirk) e Willem Dafoe (Gordo) li trovate ai rispettivi link.




martedì 14 settembre 2021

A Nightmare Wakes (2020)

Tra gli originali Shudder usciti qualche mese fa c'era A Nightmare Wakes, diretto e sceneggiato nel 2020 dalla regista Nora Unkel.


Trama: Mary Shelley, reduce dall'aver perso un bambino, si butta anima e corpo nella scrittura di Frankenstein, finendo per cadere preda della follia...


A Nightmare Wakes
è un film che percorre il sentiero già tracciato da pellicole come Shirley (certo, non solo, ma è il primo esempio recente che mi viene in mente) ed è quindi un biopic misto ad un what if?, all'interno del quale si intrecciano elementi reali, tratti dalla biografia non solo di Mary Shelley ma anche del poeta Percy Bysshe Shelley, di Polidori, Byron e di tutti coloro che erano presenti alla nascita della leggenda di Frankenstein durante la fatidica sera della "sfida" a chi avrebbe scritto l'opera più spaventosa, ed elementi di pura finzione. In pratica, se avete un minimo di dimestichezza con la biografia di Mary Shelley, alla fine vi renderete conto che la Unkel ha condensato all'interno della famosa "vacanza" sul lago ginevrino un timespan di decenni, infilandoci persino la morte di Shelley, realmente annegato ma in mare, e i periodi di profonda depressione di Mary, che spinsero i due coniugi a farsi sempre più distanti sentimentalmente, nonostante non si fossero mai fisicamente lasciati. L'incubo che si risveglia del titolo è il romanzo di Frankenstein, all'interno del quale il mostro è la stessa autrice, donna che "osa" mettersi sullo stesso piano del marito scrittore e cercare nell'inchiostro la propria identità individuale; vittima di aborti quindi incapace di essere madre, unita ad un uomo già sposato e quindi priva della dignità di una moglie, impossibilitata a mantenersi da sé, Mary sembra destinata a non dover esistere se non in funzione di qualcun altro e il suo Frankenstein non incarna solo la possibilità di avere un "figlio", per quanto cartaceo, ma anche un modo per autoaffermarsi e creare un mondo solo suo, anche se ovviamente influenzato da tutte le speranze e le delusioni di una vita non tenera.    


Messo giù così, il film sarebbe anche interessante, il problema è che la Unkel non fa nulla per renderlo profondo o accattivante, e il risultato è un'ininterrotta e pesantissima serie di sequenze di puro drama durante le quali Mary si dispera per l'assenza di Shelley, altre in cui l'odiosa sorella Claire alternativamente la critica o cerca di farsi Byron, altre ancora in cui i due Shelley fanno sesso, il tutto intervallato da visioni "da incubo" in cui Mary si ritrova catapultata all'interno del romanzo che sta scrivendo, perseguitata da un Victor Frankenstein che è banalmente la versione dark del marito, interpretata dallo stesso attore. Mi sento di dover specificare questo fatto, in quanto Giullian Yao Gioiello (giuro, si chiama così) è uno degli attori meno carismatici che abbia avuto modo di vedere in un film, ha la faccia un ragazzino delle medie pur avendo già comunque i suoi 29 anni, e l'idea di fargli interpretare la versione dark e sexy di Victor Frankenstein sfiora picchi imbarazzanti che fanno rivalutare l'edonistica fisicata di Kenneth Branagh. Intriso di un'atmosfera depressiva che riverbera nella fotografia cupa tipica di un videoclip, salvato giusto dalla bella interpretazione dell'attrice che veste i panni di Mary Shelley (costretta tuttavia in un personaggio che è poco più di una macchietta isterica), A Nightmare Wakes è forse la prima delusione che mi arriva da Shudder ed è un film che probabilmente rischia di ammorbare non solo chi non ha idea di chi fosse la scrittrice di Frankenstein, ma anche gli appassionati.   

Nora Unkel è la regista e sceneggiatrice del film, al suo primo lungometraggio. Americana, è anche produttrice e attrice.


Se l'argomento vi interessa mi dicono che dovreste provare a recuperare Gothic di Ken Russell, cosa che farò io perché non l'ho mai visto. ENJOY!


venerdì 10 settembre 2021

Malignant (2021)

Dopo una breve pausa alle prese coi blockbusteroni, James Wan è tornato all'horror nei panni di regista e co-sceneggiatore con Malignant, di cui vi parlerò cercando di non fare SPOILER. 


Trama: dopo la morte del marito violento per mano sconosciuta, "tragedia" coincisa con un aborto, Madison si ritrova sola in un'enorme casa, vittima di visioni terrificanti che non riesce a controllare...


Malignant
è uno degli horror "commerciali" più belli che possiate vedere quest'anno e tanto più vi divertirete guardandolo quanto più arriverete impreparati in sala, quindi cercherò di scrivere il post puntando molto sulle mie "sensazioni", senza scendere in dettagli sgradevoli sulla trama. Riguardo a quella, vi basti sapere che la protagonista è una donna dal passato tormentato, vittima di un presente fatto di violenze per mano del marito ubriacone e fancazzista che non fa altro che colpevolizzarla per gli innumerevoli aborti subiti; come nei migliori film diretti e prodotti da Wan, il marito muore praticamente a inizio film per mano di una creatura sconosciuta che parrebbe in grado di controllare l'elettricità e, da quel momento, Madison comincia a venire perseguitata proprio da questa presenza, tra aggressioni fisiche all'interno delle mura casalinghe e terrificanti visioni di omicidi. Di più non vi conviene sapere anche perché, per una volta, il trailer è fatto molto bene e, giustamente, asseconda la percezione comune del cinema secondo Wan, autore che ci ha regalato sì il Conjuringverse, ma che, anche se molti tendono a dimenticarlo, ha cominciato la sua carriera con un film per nulla raffinato né giocato sui jump scare, ovvero Saw. Rimaniamo un attimo nell'ambito dell'opera più famosa di Wan, The Conjuring e tutto ciò che ne è seguito. Malignant, nella sua prima parte, contiene molti aspetti che ricordano le peripezie sovrannaturali dei Warren, in primis una regia capace di rinchiuderci all'interno di ambienti casalinghi cupi ed ostili, potenzialmente popolati da qualunque orrore pronto a strisciare nelle tenebre per attaccarci, e per tutta la sua durata mantiene come fulcro il legame inscindibile tra due sorelle che affrontano il male senza mai perdere fiducia l'una nell'altra, un po' come succede per i coniugi Warren nel Conjuringverse. Ci sono anche parecchi tocchi di umorismo che, onestamente, non ho apprezzato granché, ma è un difetto davvero trascurabile all'interno di un film in grado di prendere lo spettatore, sfruttarne i pregiudizi e anche l'eventuale, arrogante sicumera, e portarlo in territori sorprendenti e sconosciuti.


C'è un punto in cui Malignant deflagra, letteralmente. Non lo fa tutto "debbotto, senza senso". L'anima più nera di Malignant, quella in cui Wan riesce finalmente a sfogare tutta la sua voglia di gore, si percepisce nel corso di tutta la sua durata come qualcosa che fa fatica a trattenersi e che è sempre presente sia sullo schermo sia nella vita di Madison; a partire dalla violenza con cui il marito sbatte la protagonista al muro (ho fatto un salto sulla sedia e mi sono sentita male, perché lei è incinta e l'inquadratura è tanto rapida quanto esplicita), passando alle visioni di morte che cominciano ad affliggerla, virate in colori ed ombre che richiamano tantissimo il giallo all'italiana (anche per il sembiante della mano ignota che perpetra omicidi efferatissimi con un'arma che avrebbe fatto la gioia dell'Argento migliore), tutto concorre a far giungere gli spettatori (im)preparati agli ultimi, cattivissimi minuti di film, dove quello che probabilmente avevamo già intuito nel primo atto di Malignant... è peggio di quanto avessimo pensato. Come ho già scritto su Facebook, il momento in cui Wan scopre le carte con flashback dallo stile "lurido" e una panoramica a dir poco scioccante è stato quello in cui la mia mascella s'è slogata sotto la mascherina e così mi ha lasciata, con la bocca spalancata in un godutissimo stupore fino alla fine dei titoli di coda e anche dopo, a casa, a ripensarci, a riassaporare sensazioni "antiche" provate anni fa guardando i film di Henenlotter. A onor del vero, quelle sensazioni erano molto più viscerali e faticose da razionalizzare, mentre comunque Malignant è molto più trattenuto e "patinato" se vogliamo, ma non posso davvero lamentarmi: l'ultima opera di Wan è uno dei film migliori del 2021 e io vi consiglio di correre in sala e non perderlo, soprattutto perché da me lo hanno tenuto pochissimo ed è stato un mero colpo di fortuna essere riuscita a beccarlo.   


Del regista e co-sceneggiatore James Wan ho già parlato QUI. Annabelle Wallis (Madison), McKenna Grace (giovane Madison) e Madison Wolfe (giovane Serena) le trovate invece ai rispettivi link.

Maddie Hasson interpreta Sidney. Americana, ha partecipato a film come We Summon the Darkness e a serie quali Mr. Mercedes. Ha 26 anni e un film in uscita.



mercoledì 8 settembre 2021

The Queen of Black Magic (2019)

Sia sempre benedetta la piattaforma Shudder, che aveva promesso, tra gennaio e marzo, di offrire un po' di prodotti recenti interessanti. Uno è di sicuro questo The Queen of Black Magic (Ratu Ilmu Hitam), diretto nel 2019 dal regista Kimo Stamboel.


Trama: tre uomini ritornano a fare visita all'orfanotrofio dove sono cresciuti, portandosi dietro le rispettive famiglie. Lì cominciano ad accadere cose orribili...


A furia di guardare horror, è diventato sempre più raro per me provare un reale senso di tensione durante la visione. L'ultima volta era successo con The Dark and the Wicked, un po' con Hunter Hunter, ma The Queen of Black Magic, oltre alla tensione che si taglia col coltello, aggiunge anche un notevole senso di disgusto e orrore fisico, che vanno ad arricchire una trama piacevole e per nulla scontata. Come da titolo, tutto si basa su una fantomatica "Regina della magia nera", un'inquietantissima tutrice zoppa che, in passato, aveva terrorizzato i piccoli ospiti di un orfanotrofio. Tre di quegli stessi ospiti, ora cresciuti, tornano nel luogo dove hanno passato l'infanzia perché il proprietario dell'orfanotrofio, Mr. Bandi, sta morendo e i tre vogliono rendergli un ultimo omaggio assieme alle loro famiglie; non passa moltissimo prima che l'orrore cominci ad insinuarsi in quello che sembrava un piacevole weekend, complice anche la grande distanza dell'orfanotrofio dalla città, la presenza di una natura insidiosa, selvaggia, che isola ancora di più i protagonisti, e persino interessanti disparità a livello di classi sociali, che porta con sé un serpeggiante senso di colpa nei confronti di chi non è riuscito a staccarsi dall'orfanotrofio, assieme ad una crescente diffidenza. La sceneggiatura di Joko Anwar, liberamente ispirata al The Queen of Black Magic del 1981, non risparmia nessun colpo basso né allo spettatore né agli sfortunati personaggi, adulti o bambini che siano, e li imprigiona in una tela fatta di violenza, orribili visioni, possessioni e stravolgimenti fisici, tutti frutto di una vendetta spietata dai risvolti inaspettati che vi converrebbe scoprire guardando il film, per rimanerne catturati com'è successo a me, oltre che orripilati.


Parlando per l'appunto di orripilio: The Queen of Black Magic non fa solo abbondante uso di torture (a quanto pare ispirate a un popolarissimo fumetto indonesiano dal titolo Torture Hell) e copiose dosi di sangue ma anche, e soprattutto, di animaletti sbifidi e striscianti che adorano insinuarsi in ogni orifizio, rendendo una sequenza in particolare molto difficile da sostenere per chi soffre, magari senza saperlo, di tripofobia. Io non sapevo di essere tripofobica, mi tocca ringraziare quella meravigliosa fake news di qualche anno fa in cui venivano mostrati i risultati dell'applicazione costante di uno shampoo, una cosa per cui sto ancora maledicendo non solo il misterioso creatore del fotomontaggio, ma anche gli amici coglioni che lo hanno condiviso in lungo e in largo. Vi meritereste una Queen of Black Magic nel letto, cretini. A parte questa parentesi, ci sono molte sequenze di The Queen of Black Magic che sono di una spietatezza rara e che stringono lo stomaco, anche perché i vari protagonisti non solo non sono particolarmente odiosi, soprattutto alcuni, ma i bambini coinvolti non hanno colpa alcuna e cadono comunque vittime della furia cieca di una donna spietata e, per inciso, inquietantissima. Viva dunque Shudder che ha distribuito questa cattivissima perlina e viva il cinema indonesiano, che negli ultimi anni mi sta dando grandissime soddisfazioni. 

Kimo Stamboel è il regista della pellicola. Indonesiano, spesso in coppia con Timo Tjahjanto col nome di Mo Brothers, ha diretto film come Macabre, Killers e Headshot. Anche produttore, sceneggiatore e attore, ha 40 anni.


Il film è il remake di The Queen of Black Magic, diretto nel 1981 da Liliek Sudjio, che purtroppo non sono riuscita a trovare da nessuna parte (anzi, ogni suggerimento è ben accetto visto che vorrei guardarlo). Ario Baryu, che interpreta Hanif, era il Ki Saptani di Impetigore, che vi consiglio di guardare assieme a Soul e Satan's Slaves se The Queen of Black Magic rientra nei vostri gusti. ENJOY!


martedì 7 settembre 2021

Shang-Chi e la leggenda dei Dieci Anelli (2021)

I cinema hanno riaperto ed è tornata la gioia di guardare anche i cinepanettoni Marvel su grande schermo. Domenica è toccato a Shang-Chi e la leggenda dei Dieci Anelli (Shang-Chi and the Legend of the Ten Rings), diretto e co-sceneggiato dal regista Destin Daniel Cretton.


Trama: Shaun è un immigrato cinese che si arrabatta con un lavoro da parcheggiatore assieme all'amica Katy. Tuttavia, dopo essere stato aggredito da degli energumeni sul bus, Shaun è costretto a rivelare a Katy di essere figlio di un supercriminale millenario, deciso a riunire la famiglia dispersa...


Come al solito, avevo letto le cose peggiori su Shang-Chi e la leggenda dei Dieci Anelli: è una baracconata, è noiosissimo, è lungo come la morte, è inutile, ecc. Poiché non avevo assolutamente idea di chi fosse il personaggio Shang-Chi, non avendolo mai incontrato durante le mie varie peregrinazioni all'interno del Marvel Universe cartaceo, una volta seduta in sala mi sono preparata psicologicamente a guardare un film da recuperare solo per motivi di completezza e da stroncare appena tornata a casa. E invece, carramba che surprise!, mi sono divertita molto e, dovessi proprio dire, il buon Shang-Chi non sfigura davanti a molti prodotti minori delle fasi precedenti del MCU (se non sbaglio siamo alla quarta, ma correggetemi pure). Togliamoci subito il dente dei dolorosi e inevitabili difetti, uno molto soggettivo e l'altro, spero, oggettivo per tutti quelli che avranno visto il film. Soggettivamente parlando, l'ultima mezz'ora a base di CGI, talmente invasiva che i miei bulbi oculari stavano per rotolare a terra, mi ha fatta piangere come si dice sia successo al povero Ian McKellen sul set de Lo Hobbit e sentivo fortissimo nelle orecchie l'urlo disperato della me del passato, costretta a guardare quella poracciata immonda di Dragonball Evolution, di cui le sequenze clou di Shang-Chi sono un palese omaggio; oggettivamente parlando, avrei invece tranquillamente evitato la presenza di un povero attore premiato con l'Oscar nel lontano 1982 e che qui viene inserito di straforo e forzatamente giusto per fargli fare la figura del minchione di Snainton alle prese con bioccoli pelosetti e carucci, probabilmente buoni per il merchandising ma fastidiosi come una scheggia di bambù sotto l'unghia. Tolti questi due trascurabili difetti, il resto è tutto roba molto buona.


Quello che mi è piaciuto di più di Shang-Chi è l'abbondanza di scene action ben coreografate e dirette, quella sull'autobus in primis, debitrici di uno stile che ricorda molto gli stunt dei film con Jackie Chan, e il secondo "debito" di stile verso un cinema di Hong Kong rimasticato per un pubblico occidentale che ho molto apprezzato è quello, innegabile, nei confronti del wu xia e film come Hero, La foresta dei pugnali volanti e La tigre e il dragone; questi sono i momenti in cui mi sono sinceramente emozionata, forse perché trattasi di cinema un po' più "fisico" e legato ai movimenti e all'espressività degli attori più che al barbaro dispendio di coloratissima CGI, e devo dire che questo mix di atmosfere e stili si innesta perfettamente nella generale atmosfera da cinecomic che ovviamente permea Shang-Chi, arricchendolo. Rimanendo in campo attoriale, molto apprezzabile il lavoro di Simu Liu nei panni dell'eroe titolare, con quella faccetta da orsotto asiatico che lo rende comunque credibile sia nei momenti più introspettivi che in quelli più spacconi (e che fisico nasconde il fanciullo!), mentre Awkwafina è carinissima come comic relief mai troppo sfacciato o fuori contesto e la semi-esordiente Meng'er Zhang, tolta la orrida capigliatura che le hanno appioppato, spacca culi come poche altre eroine. Certo, a surclassare questo trio all'erta e pieno di brio ci pensa un raffinatissimo ed elegante Tony Leung, che merita la palma di UNICO attore in grado di rendere sfaccettato ed indimenticabile un villain del MCU e si conferma, assieme alle succitate scene action, il motivo principale per cui chiunque sia anche solo vagamente appassionato dei cinecomic dovrebbe provare a dare una chance a questo Shang-Chi. Onestamente, salvo per una guest star affine a livello di nazionalità ho capito poco del perché o percome il film dovrebbe connettersi al resto dell'universo Marvel ma vi consiglio di non perdere le due scene post-credit, se non altro per godere del ritorno di un paio di personaggi molto amati e anche di un karaoke assai esilarante. Con gli appassionati del genere ci si risente a Novembre con Eternals!


Di Tony Leung (Xu Wenwu), Awkwafina (Katy), Michelle Yeoh (Ying Nan), Benedict Wong (Wong), Ben Kingsley (Trevor Slattery) e Tim Roth (Abominio) ho già parlato ai rispettivi link. 

Destin Daniel Cretton è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Hawaiiano, ha diretto film come Short Term 12, Il castello di vetro e Il diritto di opporsi. Anche produttore, ha 43 anni. 


Donnie Yen era tra i vari prescelti per il ruolo di Xu Wenwu mentre in lizza per quello di Shang-Chi c'era Steven Yeun. Michelle Yeoh è al suo secondo ruolo all'interno del MCU visto che aveva già interpretato Aleta Ogord in Guardiani della galassia vol. 2. Se Shang-Chi e la leggenda dei Dieci Anelli vi fosse piaciuto ma non avete voglia di recuperare tutti i film del MCU cercate almeno di guardare Iron Man, Iron Man 2, Iron Man 3, Marvel One-Shots: All Hail the King, L'incredibile Hulk, Doctor Strange e Captain Marvel, tutti disponibili su Disney +. ENJOY!

venerdì 3 settembre 2021

Candyman (2021)

Era uno dei film che aspettavo di più quest'anno e devo ammettere che Candyman, diretto e co-sceneggiato dalla regista Nia DaCosta, non mi ha delusa per nulla.


Trama: un pittore in crisi creativa si ritrova coinvolto in atroci delitti perpetrati dalla misteriosa figura di Candyman, la cui maledizione si propaga tramite gli specchi.


Ditelo il suo nome, su. Mettetevi davanti allo specchio e, quando non sapete cosa fare, ripetete cinque volte Candyman. Non ci pensate neanche, vero? Sarebbe meglio fare finta di non sapere neppure chi sia Candyman, no? Eppure certe leggende, anche se sarebbe meglio dimenticarle, non possono scomparire così facilmente, nonostante tutti gli sforzi fatti per farle cadere nell'oblio, vuoi per la paura, vuoi per la vergogna, vuoi per una distorta interpretazione dei fatti. E se il Candyman degli anni '90 era un'affascinante figura desiderosa di perpetuare la sua leggenda per questioni squisitamente egoistiche, assurto a totem sanguinario e vendicativo di un'intera comunità di reietti timorosi di poter morire per mano sua, quello dell'annus domini 2021 nasce per dare una voce a questi reietti. O meglio, si rigenera ogni volta che una persona di colore viene ingiustamente uccisa e torturata, com'era accaduto verso la fine dell'800 al pittore Daniel Robitaille, reo di essersi innamorato di una bianca, e come, duecento anni dopo, è successo  a un povero cristo colpevole di essere il nero sbagliato nel luogo (infestato da poliziotti bianchi) sbagliato. E se quest'ultimo episodio in particolare vi ricorda qualcosa, capirete perché, nonostante la ricchezza, nonostante la fama, nonostante la libertà apparente e le case di lusso, fare parte di una minoranza è molto spesso, anche al giorno d'oggi, un'enorme e pericolosa fregatura e anche quando la vita scorre placida c'è sempre qualcosa da dimostrare a qualcuno, perché Dio non voglia che chi si ritiene normale o "superiore" perda occasione di sottolinearlo in ogni occasione. Il nuovo Candyman, bellissimo e patinato, è lo specchio (haha!) perfetto dei suoi protagonisti e realizzatori, a loro volta bellissimi e universalmente rispettati e riconosciuti (alla sceneggiatura c'è anche Jordan Peele, che avrebbe dovuto dirigere il film) ma resi inquieti da una rabbia e un disagio che fa parte del retaggio della loro gente e deriva da quei diritti faticosamente conquistati col sangue e che nel sangue possono scomparire, nel giro di un secondo.


Una rabbia e un disagio che deriva, e questo Candyman lo sottolinea alla perfezione, anche e soprattutto dall'essere stati per anni impossibilitati a raccontare la propria storia. Ci sono un paio di momenti surreali in Candyman, più del vedere un uomo con l'uncino uscire dagli specchi e fare scempio di colpevoli e innocenti, e sono quelli in cui ad Anthony viene insegnato (da bianchi) come dovrebbe esprimere il suo retaggio di giovane di colore, mentre un'altra persona insegna, a lui artista, come sfruttare al meglio la propria arte; è proprio la comunicazione, o l'uso distorto che si può fare di essa, l'appropriarsi di racconti e storie che appartengono ad altri, il cuore di questo Candyman, fin dallo splendido teatrino d'ombre che racconta una versione "riveduta e corretta" della pellicola di Bernard Rose per arrivare all'angosciante aut aut finale che viene "offerto" a Brianna, personaggio che, in realtà, viene privato già per tutto il film della possibilità di dare il significato che desidera all'avvenimento più traumatico della sua esistenza. Candyman è dunque un sequel che riprende i temi dell'originale riaggiornandoli alla luce di una consapevolezza odierna e di lotte che non possono più essere ignorate, elementi che da una parte arricchiscono incredibilmente il materiale di partenza mentre dall'altra, forse, lo rendono meno poetico, più distante dalla natura di favola nera che donava al film di  Bernard Rose quell'aura così particolare. Di sicuro, anche il Candyman di Nia DaCosta non difetta di momenti gore e schifosetti, di sequenze decisamente ben riuscite e di un ottimo utilizzo sia degli squallidi ambienti del ghetto sia dell'arte in tutte le sue forme, altri punti a favore che mi spingono a consigliarne la visione non solo a chi non ha mai visto Candyman ma anche a chi vive d'amore per l'originale e ha paura di trovarsi davanti una schifezza. Dategli una chance, non ve ne pentirete! 


Di Colman Domingo (William Burke), Virginia Madsen (la voce di Helen Lyle) e Tony Todd (Daniel Robitaille/Candyman) ho già parlato ai rispettivi link.

Nia DaCosta è la regista e co-sceneggiatrice della pellicola. Americana, ha diretto un altro film, Little Woods .Anche produttrice, ha 32 anni e un film in uscita, Captain Marvel 2.


Yahya Abdul-Mateen II
interpreta Anthony McCoy. Americano, ha partecipato a film come Baywatch, Aquaman, Noi e Il processo ai Chicago 7. Anche produttore, ha 35 anni e tre film in uscita tra cui Matrix 4 e Aquaman and the Lost Kingdom. 


Teyonah Parris
, che interpreta Brianna, era la Monica Rambeau della serie Wanda/Vision, personaggio che dovrebbe tornare nell'imminente Captain Marvel 2, diretto sempre da Nia DaCosta; Vanessa Williams è invece la stessa attrice che interpretava Anne-Marie McCoy in Candyman - Terrore allo specchio.  Niente di fatto invece per LaKeith Stanfield, che ha rifiutato il ruolo di Anthony per partecipare a  Judas and the Black Messiah. Candyman è un sequel diretto di Candyman - Terrore dietro lo specchio ed ignora i sequel L'inferno nello specchio (Candyman 2) Candyman - Il giorno della morte, che comunque potete sempre recuperare se vi interessa la figura di questo carismatico babau. ENJOY! 


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