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martedì 31 gennaio 2017

La La Land (2016)

At last!! At last anche io ho avuto l'onore di vedere il film di cui si parla fin dalla sua presentazione al Festival di Venezia, quel La La Land diretto e sceneggiato da Damien Chazelle che ha fatto incetta di Golden Globe e farà sicuramente incetta di Oscar (ha 14 nomination, ovvero Miglior Film, Miglior Regia, Miglior Attore Protagonista, Miglior Attrice Protagonista, Miglior Sceneggiatura, Miglior Fotografia, Miglior Montaggio, Miglior Scenografia, Migliori Costumi, Miglior Colonna Sonora Originale, City of Stars e Audition come Miglior Canzone Originale, Miglior Sonoro e Miglior Montaggio Sonoro). Avrà folgorato anche me come il 99, 9% di chi lo ha visto?


Trama: nella città di Los Angeles si intrecciano i destini di due persone. Mia vuole fare l'attrice mentre Sebastian, amante del jazz "puro", sogna di riscattare un locale storico e riportarlo ad essere il tempio dell'amata musica. Presto tra i due nasce una storia d'amore ma i rispettivi sogni si mettono in mezzo...



Per darvi un'idea dei tempi in cui viviamo, dove ogni cosa, anche la più insignificante, viene pompata da internet e dai social e ogni dissidenza viene punita con insulti assortiti, vi basti sapere che ho affrontato la visione di La La Land con un'ansia che neppure al mio primo esame universitario. Il film di Chazelle è piaciuto a chiunque, persino a chi non mette piede al cinema neppure per sbaglio, i miei blogger preferiti si sono spellati le mani ad applaudirlo, gente che lo ha visto settordici volte ha promesso di passare l'esistenza guardandolo in loop continuo, qualcuno addirittura lo considera opera ultima dopo la quale non esisterà altro Cinema, le camerette sono tornate a riempirsi di poster con i volti di Emma Stone e Ryan Gosling come non accadeva dai tempi di Cioè. Per non sbagliare, ho inghiottito mezza boccetta di Tavor e ho portato al cinema con me ben TRE musicisti, così da farmi dare delle giornalate sul muso nel caso avessi palesato ignoranza (ché qui si parla di jazz, mica pizza e fichi) o se non avessi cominciato a canticchiare le canzoni subito appena uscita dalla sala, esibendomi negli stessi passi dei due protagonisti. Poter concludere la visione di La La Land dicendo "Ho visto proprio un bel film!" è stato dunque motivo di enorme sollievo, così come lo è il fatto che stamattina mi sia svegliata cantando ben DUE delle canzoni della colonna sonora, City of Stars e Another Day of Sun. Ed effettivamente La La Land è proprio bello! Innanzitutto ha due scene talmente ben fatte da mozzare il fiato, quella iniziale che è un esempio magistrale di come si dovrebbe realizzare un piano sequenza e quella finale, altro esempio di come andrebbe girato il momento topico di qualsiasi musical, in più c'è Emma Stone che offre un'interpretazione a tratti toccante, non tanto quando svolazza nel trionfo di abitini anni '60 che sono il vanto del film, bensì quando si mette nuda e cruda davanti all'occhio critico di due direttori del casting, strappandosi il cuore dal petto. Tutto in La La Land è curatissimo, dal già citato guardaroba alle scenografie, dalle abbondanti citazioni dei più bei musical mai girati (e di film quali Gioventù bruciata e Casablanca) alla fotografia coloratissima, dall'abilità con cui Ryan Gosling fa volare le dita sui tasti del pianoforte alla naturalezza con la quale la musica si insinua nella realtà e viceversa, conferendo al film un'ampia varietà di atmosfere e stili e trasformando la "banale" Los Angeles in una vera città di stelle, una LA LA Land da favola dove chiunque ha il diritto e il dovere di essere bello, famoso e sognatore. Almeno, finché i desideri e l'amore non si scontrano con la dura realtà dei sacrifici che servono per mantenere viva la fiamma dei desideri, una volta che questa è stata attizzata, e Dio benedica sempre Chazelle per quel modo che ha di prendere a schiaffi lo spettatore e riportarlo coi piedi per terra, cosa che già avevo apprezzato in Whiplash. Ma siamo comunque in un musical e ogni giorno il sole sorge, e basta un solo sguardo per sapere che va bene così, tutto a posto, "avremo sempre Parigi" o, meglio, l'idea nostalgica della Ville Lumière.


Solo che a me Parigi non è bastata, non dopo quello che ho letto in giro. Non siamo ai livelli di Depardieu che parla di una Parigi dove "pisciano cani ed esseri umani e la gente si bacia con la lingua" però non è possibile che guardando un film ultracelebrato io mi ritrovi a pensare, nell'ordine, a Nino D'Angelo, Albano & Romina, Richard Sagawa in The Happiness of the Katakuris, Once More With Feeling e Anne Hathaway ne I Miserabili, trovando superiori o comunque più esaltanti tutte queste cose (tranne Nino, Albano & Romina, non me ne vogliano. Quella era la supercazzola ma ne avrete capito il senso, spero) e pregando che arrivasse Baz Luhrmann a farmi piangere come un vitello davanti ad una storia d'Amore che santoDDio! me la ricordo ancora adesso dopo anni, altro che la spallata capace di portare via il braccio alla povera Mia e il momento Casa Vianello di un prefinale che non posso fare altro che definire dull. Davanti a La La Land mi sono sentita come un cattivissimo Fletcher (a proposito, stupendo il cameo di J.K. Simmons!) che incita Chazelle a fare di più, a fare meglio, a travolgermi con qualcosa che vada oltre i delicati tramonti violetti e l'eleganza di una scarpetta da tip tap tirata fuori alla bisogna, a darmi almeno una dozzina di melodie da fischiettare per gli anni a venire e magari non solo cinque o sei motivi reiterati e declinati in diverse varianti (ma che ne so io di musica, lo so, sto zitta, scusate), a darmi soprattutto un Attore da affiancare ad un'Attrice. Apro la parentesi Ryan Gosling, fangirl tappatevi gli occhi. Per Attore meritevole di tutti i premi del globo si intende un apprezzabilissimo professionista che impara a suonare sei/sette melodie al piano e a danzare per l'occasione oppure qualcuno che abbia almeno la gamma basica di espressioni facciali? No perché a me Gosling è piaciuto tantissimo in Drive e The Nice Guys ma quelli erano ruoli che demandavano la fissità facciale di un comò, in un film come La La Land e accanto ai grandi occhioni di Emma Stone 'sto marcantonio ci fa proprio la figura del baccalà, non cambia faccia neppure a prenderlo a sputi, ha un bel da fare il fotografo che ciccia fuori ad un certo punto che gli dice  "mordi il labbro inferiore, sii pensoso", forse era meglio chiamare Derek Zoolander che invece, poverino, ha fatto incetta di nomination ai Razzie Awards?


Dopo questo intero paragrafo di vilipendio non vorrei che pensaste che La La Land non mi sia piaciuto. Ribadisco: mi è piaciuto, molto, per tutti i motivi di cui sopra. Volendo seguire la "scaletta da Oscar" do voto 10 a regia, fotografia, montaggio, scenografie, costumi, musiche, persino ad Emma Stone (per non sembrare troppo critica non faccio nomi ma in un mese ho comunque già visto almeno due attrici nettamente superiori). Però. Però mi ha trasportata in un mondo da sogno come dovrebbe fare ogni musical che si rispetti, facendomi uscire dalla sala con la voglia di cantare, ballare e fare l'attrice o la musicista? Assolutamente no, a quello piuttosto quest'anno ci ha pensato Sing. Sing, santo Dio, il cartone animato con i maiali ballerini. Però. Però ho desiderato ardentemente di limonare con Gosling o di essere Emma Stone, di poter vivere una storia d'amore come la loro? Neanche per sogno, ve lo giuro, troppo costruita a tavolino come relazione, anche per un musical, e troppo prevedibili i risvolti della stessa, con in più una punta di fastidioso maschilismo (solo io ho notato che, alla fine, Mia passa per la stronza di turno quando Sebastian, poverello, si sputtana assieme a John Legend solo per fare piacere a lei e alla fine le prepara pure la strada per diventare attrice?): i tentacoli di Arrival e i santini di Scorsese mi hanno toccata molto più nel profondo. Con tutti questi però, La La Land è comunque un film da andare a vedere e lo consiglio spassionatamente a tutti, persino a chi non ama il musical, perché come spettacolo cinematografico è davvero grandioso e se solo il sentimento che lo muove fosse stato altrettanto grandioso probabilmente a quest'ora avrei bruciato i santini di Tarantino per far posto a quelli di Chazelle, solo non stavolta. Not quite my tempo, Damien.


Del regista e sceneggiatore Damien Chazelle ho già parlato QUI. Ryan Gosling (Sebastian), Emma Stone (Mia), J. K. Simmons (Bill) e Finn Wittrock (Greg) li trovate invece ai rispettivi link.

Tom Everett Scott interpreta David. Americano, ha partecipato a film come Music Graffiti, Un lupo mannaro americano a Parigi e a serie come E.R. Medici in prima linea, Will & Grace, Z Nation, Criminal Minds e Scream: The TV Series. Anche regista, sceneggiatore e produttore, ha 47 anni e tre film in uscita.


Emma Watson ha rinunciato al ruolo di Mia in quanto impegnata nelle riprese de La bella e la bestia, mentre Ryan Gosling (che ha sostituito Miles Teller, al quale era stato proposto di interpretare Sebastian) ha rinunciato al ruolo della Bestia proprio per partecipare a La La Land; John Legend, che canterà proprio il tema portante del nuovo film Disney, compare invece in La La Land nel ruolo di Keith, per il quale ha dovuto imparare a suonare la chitarra. Al film partecipa anche Olivia Hamilton, la moglie di Chazelle, che interpreta l'attrice che chiede di essere rimborsata per la brioche col glutine. Detto questo, se La La Land vi fosse piaciuto recuperate Cantando sotto la pioggia, Moulin Rouge!, The Artist e Whiplash ai quali aggiungerei altri film che però non ho visto, come Les parapluies de Cherbourg. Guy and Madeleine on a Park Bench, Spettacolo di varietà e Josephine. ENJOY!

domenica 29 gennaio 2017

Elle (2016)

La marcia di avvicinamento all'Oscar, fomentata anche dalla vittoria di Isabelle Huppert ai Golden Globes, mi ha portata a recuperare Elle, diretto nel 2016 da Paul Verhoeven e tratto dal romanzo "Oh..." del francese Philippe Djian.


Trama: Michèle, ricca donna in carriera, viene violentata da uno sconosciuto in casa, in pieno giorno. Nonostante le costanti minacce dell'uomo, Michèle continua comunque a vivere come se nulla fosse successo, pur cercando di scoprire l'identità del violentatore...



Non sarà facile per me parlare di Elle, l'ultimo film di Verhoeven, tante sono le reazioni contrastanti che mi ha suscitato. Probabilmente è la prima volta che un film mi ha presa così tanto nella prima parte, come spettatrice e come persona, per poi deludermi amaramente nella seconda, arrivando ad accostarsi a quel cinema psicologico morbosetto che più che toccare le mie corde le pizzica infastidendole. Semplificando una pellicola che di semplice non ha proprio nulla, a partire dal delicatissimo argomento trattato, oserei dire che Elle è ambiguo quanto la sua protagonista, una splendida e magnetica Isabelle Huppert, talmente affascinante che vien da chiedersi questi 64 anni anni che si porta appresso dove li abbia nascosti. Elle, come da titolo (il romanzo si intitola "Oh..." e chissà quale accezione viene data a questa esclamazione...), è la storia di una donna, una donna dotata di una fortissima personalità, per inciso. Il film si apre con una sequenza agghiacciante, che sbatte in faccia allo spettatore tutta la brutalità di uno stupro compiuto in pieno giorno e per di più in casa della vittima. Uno si aspetterebbe che Michèle, questo il nome della protagonista, chiamerebbe la polizia o perlomeno si disperasse, invece la prima cosa che fa la donna è rialzarsi e riassettare, per poi  farsi un bagno ed ordinare una cena cinese a domicilio per lei e il figlio, al quale non racconta nulla. I motivi di questa reazione anomala lo spettatore li scoprirà col prosieguo del film, che non sto ovviamente a raccontare, ma più interessante di ciò che sta dietro a questa scelta è arrivare a conoscere Michèle e coloro che le stanno accanto, esempi di varia umanità uniti in un dedalo di relazioni grottesche ma in qualche modo affascinanti. Intriga, di Elle, il modo distaccato in cui Michèle affronta non solo la sua tragedia ma anche il legame con l'ex-marito (uno scrittore fallito), il figlio (forse più fallito del padre, fidanzato con un'"artista" incinta di un figlio non suo), la madre (una vecchia dipendente dalle operazioni di chirurgia plastica e dotata di amante più giovane della figlia), il padre (la vergogna della famiglia), i vicini di casa (un anonimo bancario che diventa l'interesse sessuale di Michèle e la sua moglie bigotta) e tutto il nugolo di amici e colleghi che popolano le sue giornate, passate all'interno di un'azienda che produce videogame. Di fatto, non c'è un solo momento del film in cui la protagonista non interagisca con qualcuno, fosse anche il gatto, e l'intera realtà che la circonda viene quindi filtrata dal suo sguardo imperturbabile, lo sguardo di chi ha già provato sulla pelle un orrore indicibile e quindi non può più venire scalfita o stupita da nulla, neppure dai contenuti ributtanti del videogame che è impegnata a sviluppare.


Il punto di vista distaccato di Michèle trasforma quindi la prima parte della pellicola in una sorta di dramma/commedia dell'assurdo, lo specchio di un'umanità che non è neppure vuota, bensì bipolare: non c'è nessuno veramente buono o cattivo nel film, chiunque, protagonista compresa, abbraccia luce ed oscurità con una noncuranza e una purezza tali da essere sconcertanti (per esempio, Michèle va a letto col marito della sua migliore amica ma non lo fa con l'intento di farle del male. E' capitato per otto mesi, punto, ma l'amore di Michèle per Anna in tutto quel periodo non viene mai messo in discussione). Questo, unito alla curiosità di capire chi sia tra tutti questi personaggi l'aggressore di Michèle, avvince lo spettatore come l'edera e giuro che io sarei rimasta per ore ad ascoltare i dialoghi tra i personaggi e a spiare le dinamiche di questo assurdo spaccato di società francese. Il problema è che, ad un certo punto, l'identità del violentatore viene scoperta e da lì in poi ho avvertito la netta trasformazione del distacco "divertito" dell'inizio in una raffazzonata superficialità, in un banale desiderio di scioccare lo spettatore con della psicoanalisi d'accatto e degli scoppi di violenza assolutamente non catartici, né per i personaggi né per chi si trova davanti allo schermo. Se all'inizio le reazioni di Michèle sono assurde ma in qualche modo condivisibili, dopo la svolta centrale esse diventano gratuite, al punto che anche una sequenza forte come quella del confronto col padre perde quasi di valore, considerato quello che avviene subito dopo; certo, un po' di curiosità rimane, il desiderio di capire perché Michèle agisca in un certo modo, resta però anche l'attesa di qualcosa di più "profondo" rispetto al cliché del trauma passato e della società che crea mostri, attesa che si perde in un nulla di fatto e in un'alzata di spalle che sa tanto di incompiuto. Dalle recensioni del romanzo mi è parso di capire che i realizzatori di Elle abbiano sorvolato su alcuni dettagli importanti, utilizzandone altri come mere note di colore, al punto che mi chiedo se l'intento di Verhoeven non fosse quello di tornare semplicemente a scioccare l'audience, cosa che gli ha fatto un po' perdere le redini del progetto. Peccato, perché la Huppert è magnifica e il resto del cast gode di rimando dell'aura di questa splendida attrice brillando come raramente mi è parso di vedere in un film francofono (la sequenza della scena di Natale a mio avviso è strepitosa, un compendio di pura cattiveria) però in definitiva Elle mi ha fatto lo stesso effetto di un piatto che si inizia a mangiare con la foga dell'entusiasmo per poi ritrovarsi a faticare per finirlo. E non è detto che non ci siano difficoltà anche a digerirlo, eh.


Del regista Paul Verhoeven ho già parlato QUI mentre Christian Berkel, che interpreta Robert, lo trovate QUA.

Isabelle Huppert interpreta Michèle Leblanc. Francese, la ricordo per film come I cancelli del cielo, La pianista, 8 donne e un mistero e Amour. Anche produttrice, ha 64 anni e sette film in uscita.


Inizialmente, la produzione di Elle avrebbe dovuto svolgersi in America ma nessuna delle attrici interpellate, tra le quali Nicole Kidman, Sharon Stone e Julianne Moore, ha voluto affrontare un personaggio come quello di Michèle e l'intera operazione è stata quindi trasferita in Francia; lì, è stata la Huppert a leggere il copione, ad accettare la parte e a proporre Verhoeven come regista. Detto questo, se Elle vi fosse piaciuto provate a recuperare La pelle che abito. ENJOY!

venerdì 27 gennaio 2017

Arrival (2016)

Comincia la corsa all'Oscar, conseguentemente anche il recupero di film da qui alla fatidica data. Cercherò di essere più rapida e puntuale che posso ma la situazione distributiva italiana non darà una mano, già lo so. Qualcosa di buono comunque lo ha fatto visto che Arrival, diretto nel 2016 da Denis Villeneuve e candidato a otto premi Oscar (Miglior Film, Miglior Regia, Miglior Sceneggiatura Non Originale, Miglior Fotografia, Miglior Montaggio, Miglior Scenografia, Miglior Sonoro, Miglior Montaggio Sonoro), è già arrivato in Italia ed è bellissimo. Segue post senza spoiler.


Trama: quando dei misteriosi "bozzoli" spaziali compaiono in dodici diverse località terrestri, la linguista Louise Banks viene chiamata per capire il linguaggio degli alieni e tentare di comprendere quale sia il loro scopo sulla Terra.


Con Arrival ho toccato un non invidiabile record personale: al quinto minuto di pellicola piangevo già come una fontana, non scherzo. La colpa, se posso usare impropriamente questo termine, è dell'utilizzo della splendida melodia On the Nature of Daylight di Max Richter, già apprezzata in film quali Shutter Island e Disconnect durante sequenze particolarmente topiche ed emozionanti e ripescata da Villeneuve per impreziosire l'inizio e la fine di quel gioiello che è Arrival. Per me che di musica e fantascienza non capisco nulla, emozionarmi così tanto all'inizio di una pellicola di genere e proprio grazie alla colonna sonora (tra l'altro bellissima, non solo per questo pezzo) significa già predisporre il mio animo verso qualcosa di non meglio definito ma sicuramente bello ed importante, e significa aprire non tanto la mente ma soprattutto il cuore ad una storia che punta moltissimo sull'importanza della comunicazione; Villeneuve ha esordito utilizzando un linguaggio che ho potuto capire persino io e ciò mi ha permesso di affrontare "in pace" una pellicola di non facile lettura, che sicuramente offre il fianco a mille interpretazioni e tremila obiezioni. Il secondo elemento di Arrival in grado di fare breccia nel mio cuore è stato poi, neanche a dirlo, la natura della protagonista. Louise Banks ha una freccia fondamentale al suo arco, quella di essere una formidabile linguista, che non significa semplicemente "sapere tante lingue" bensì "sapere COME funzioni il linguaggio"e, soprattutto, "avere la ferma volontà di capire chi ci sta davanti" che è poi la molla che spinge i pazzi come la sottoscritta ad impegnarsi nell'ingrato studio delle lingue straniere (dico ingrato perché, tolte soddisfazioni puramente personali, la laurea in lingue a me è servita davvero poco nella vita. Altro che alieni... ma sorvoliamo). A differenza di mille altri film di genere dove i protagonisti affrontano la forma di vita aliena di turno con paroloni scientifici quando va bene oppure enormi fucili quando va male, Louise si impegna quindi a trovare un modo letteralmente universale per facilitare le comunicazioni e capire quale sia lo scopo di Abbott e Costello (così vengono ribattezzati gli alieni) sulla Terra ed è seguendo le ricerche e i tentativi della protagonista che Arrival si apre a ragionamenti ben più profondi, che trascendono la storia narrata e che sono legati al modo in cui i due alieni percepiscono il tempo e lo spazio, percezione che influenza moltissimo la struttura stessa della pellicola.


Aggiungere altro sulla trama sarebbe un delitto, anche se prima o poi mi piacerebbe scrivere un lungo post (come ho fatto per Silence) sui pensieri che mi hanno attraversato la mente alla fine di Arrival, ma siccome un elemento fondamentale del film è la possibilità di scegliere come interpretare i segni che ci vengono inviati dall'universo e, soprattutto, l'importanza di praticare il libero arbitrio anche di fronte all'ineluttabilità del destino, la stesura di un articolo "spiegone" andrebbe contro tutto ciò che racconta Villeneuve. Allora mi limiterò a dire di quanto Arrival mi sia piaciuto tantissimo anche dal punto di vista formale, con quell'aria uggiosa che permea tutta la pellicola, capace di accrescere ancora di più la presunta minaccia aliena, a tratti mitigata da immagini talmente delicate per quel che riguarda i colori e la composizione che scomodare Malick non sarebbe così sbagliato. Ho adorato il design semplice dei baccelli sospesi nell'aria, il trip prospettico che è l'ingresso dei protagonisti all'interno della nave aliena, l'eleganza dei segni grafici creati ad hoc per simulare la scrittura di Abbott e Costello, la perfezione di un montaggio e di una regia che non lasciano assolutamente nulla al caso. Soprattutto, ho amato lo sguardo di Amy Adams, quello sguardo che già mi aveva catturata con Animali notturni e che qui assume ancora ulteriori valenze, lasciando trasparire la forza e la determinazione nascoste all'interno di una donna apparentemente fragile, costretta a scontrarsi non solo contro un mondo maschilista e guerrafondaio ma anche con un dono alieno talmente soverchiante da chiedersi "che diavolo avrei fatto io al suo posto?". Come si diceva su Facebook, Arrival è un film importantissimo, forse uno dei più importanti dell'anno e non solo per quel che riguarda il campo della fantascienza, ma proprio perché è una pellicola che supera i generi e può riuscire nel miracolo di far riflettere lo spettatore sulla propria natura per settimane. Io, intanto che rifletto, per non sbagliare raggiungerò l'apice dello spleen ascoltando in loop continuo On the Nature of Daylight e continuando a versare lacrime finché non arriveranno gli alieni a darmi consolazione con un abbraccio tentacolato.


Del regista Denis Villeneuve ho già parlato QUI. Amy Adams (Louise Banks), Jeremy Renner (Ian Donnelly), Forest Whitaker (Colonnello Weber) e Michael Stuhlbarg (Agente Halpern) li trovate invece ai rispettivi link.


La piccola Hannah viene interpretata, nelle fasi della sua vita, da tre attrici diverse, una delle quali è la piccola Abigail Pniowsky, che interpretava Lily Painter nella prima stagione dell'inquietantissimo Channel Zero e che ritroveremo nella seconda, imminente stagione. A proposito di Hannah, il destino della giovane è diverso nel racconto di Ted Chiang, all'interno del quale SPOILER la ragazza muore a 25 anni per un incidente in montagna invece che a causa di una malattia (ciò nonostante Louise decide comunque di non intervenire per cambiare il corso degli eventi). Inoltre, inizialmente la trama del film prevedeva che i doni degli alieni fossero parti di tecnologia ben specificate e diverse per ogni zona del pianeta ma, a quanto pare, per evitare somiglianze con Interstellar il finale della pellicola è stato cambiato; OVVIAMENTE, se Arrival vi fosse piaciuto non vi consiglierò di recuperare quella camurrìa di Interstellar però potete provare con Frequency - Il futuro è in ascolto, Contact, Incontri ravvicinati del terzo tipo, E.T. - L'extraterrestre e persino L'esercito delle 12 scimmie. ENJOY!

giovedì 26 gennaio 2017

(Gio) WE, Bolla! del 26/1/2017

Lo diciamo tutti insieme? Diciamolo! Oggi esce La La Land e comincia ufficialmente il periodo di avvicinamento alla Notte degli Oscar, che si terranno a Los Angeles il 26 febbraio. Ma non ci sarà mica solo il film di Chazelle al cinema questa settimana, vero? ENJOY!

La La Land
Reazione a caldo: Alé!
Bolla, rifletti!: Oh, finalmente è arrivato anche per i comuni plebei che non vanno né ai festival né alle anteprime ubicate in luoghi irraggiungibili. Come ho scritto su Facebook, spero non sia una bagatella tipo The Artist o perderò definitivamente la fiducia nel mondo dei cVitici.

Split
Reazione a caldo: Shyamalalaland!
Bolla, rifletti!: Con The Visit lo Shyamalano si era ripreso un po', evitando il "momento stronzata". Chissà se con McAvoy diviso in millemila personalità riuscirà nuovamente nell'impresa? Lo spero, visto che la settimana prossima andrò a vedere anche questo film.

Proprio lui?
Reazione a caldo: Lui chi?
Bolla, rifletti!: Oddio, LUI, quel faccetta da caSSo di James Franco, che vorrei ancora capire dove lo vedete figo, donne! Dai, un film basato sul solito canovaccio alla "Ti presento i miei" è troppo poco per sprecare un cast del genere, andiamo!

Al cinema d'élite non si respira invece aria di Oscar, mi spiace...


Riparare i viventi
Reazione a caldo: Meh.
Bolla, rifletti!: Storia angosciante di incidenti e trapianti. Sicuramente sarà un film bellissimo ma questo è uno dei miei soliti periodi ipocondriaci, non ce la potrei fare. Meglio un horror, giuro.

mercoledì 25 gennaio 2017

Hell or High Water (2016)

Siccome era tra i candidati agli ultimi Golden Globe, è candidato anche a quattro premi Oscar (non ne vincerà nemmeno uno ma le categorie sono Miglior Film, Jeff Bridges Miglior Attore non Protagonista, Miglior Sceneggiatura e Miglior Montaggio) e tutti ne hanno parlato molto bene, ho recuperato anch'io Hell or High Water, diretto nel 2016 dal regista David MacKenzie.


Trama: Toby e il fratello Tanner rapinano banche di piccoli paesi e presto attirano l'attenzione dell'anziano ranger Marcus Hamilton, prossimo alla pensione. Le rapine dei due nascondono però un motivo più profondo di quanto non appaia ad una prima occhiata...



Se devo essere brutalmente sincera, durante i primi dieci minuti di Hell or High Water ho avuto molta paura. Siccome non amo molto i western e ultimamente tendo ad addormentarmi persino al cinema davanti a Il GGG, dopo qualche minuto di uomini duri, sconfinate praterie, polverosi panorami e Nick Cave ho alzato gli occhi al cielo e mi sono preparata a chiuderli, con un senso di sconforto devastante perché, diamine, del film mi avevano parlato benissimo tutti. Fortunatamente, questo senso di imminente letargia è durato poco, forse perché Hell or High Water è popolato da personaggi interessanti nonostante la loro "anima" sia di fondo assai legata ai cliché tipici del genere e, soprattutto, perché i colpi portati a termine da Tanner e Toby non possono definirsi interamente "criminali", non senza tapparsi occhi e orecchie e fare finta di non vedere la triste società americana che li circonda. Quella di Hell of High Water è una storia di "frontiera" ma non ha il fascino dell'ignoto tipico dei combattimenti tra indiani e cowboy che ci esaltavano da bambini: è una frontiera triste, popolata da una squallida middle class di donne sfiorite e piene di problemi economici, bovari ignoranti come delle capre di Biella e armati fino ai denti, di banche che fanno i loro porci comodi aspettando solo che i pochi proprietari terrieri rimasti vengano strangolati dai debiti per poter mettere le mani sulle ricchezze celate nel sottosuolo, di vecchi malinconici arrivati ormai quasi alla fine del sentiero. Davanti ad un panorama così desolante viene spontaneo fare il tifo per Toby e Tanner, fratelli che apparentemente non potrebbero essere più diversi e distanti tra loro ma che in realtà sono più legati di quanto i loro litigi non diano a credere, soprattutto dal momento in cui il piano di Toby viene definito chiaramente anche a beneficio dello spettatore; l'idea di derubare chi, di fatto, deruba, per poi ripagarlo letteralmente con la stessa moneta ha sempre il suo fascino, sin dai tempi di Robin Hood. Allo stesso modo, però, è vero anche che Tanner è una grandissima testa di cazzo e ciò ci impedisce di parteggiare interamente per i fratellini, lasciando così spazio anche ad un sentimento di crescente stima per il Marcus Hamilton di Jeff Bridges, che non a caso era uno dei candidati al Golden Globe.


Quello di Marcus non è un carattere facilmente apprezzabile, beninteso. Il personaggio interpretato da Jeff Bridges è ignorante quanto i bovari di cui parlavo sopra e razzista nel modo antipatico di chi non si lascia scappare neppure un'occasione di dileggiare i suoi sottoposti (come il povero Alberto, mezzo pellerossa e mezzo messicano, figurarsi!), eppure sotto la scorza dura creata da quel tipo di società americana retrograda si scorgono un animo onesto, un cervello fino, una lealtà e una malinconia tali che rimane difficile, ad un certo punto, non sperare che sia Marcus a trionfare, mettendo le manette ai polsi di Toby e Tanner. Ecco, forse è proprio questo che ho apprezzato di Hell or High Water, la possibilità di parteggiare per entrambi i lati della barricata e di empatizzare con tutti gli aspetti che formano il gioco di guardie e ladri messo in piedi da David MacKenzie, senza essere costretti a vedere tutto bianco o nero. Poi, ovviamente, a sostegno di una bella sceneggiatura ci sono degli ottimi attori. Come dicevo, Jeff Bridges mi è piaciuto tantissimo e il personaggio dell'anziano ranger sembra essergli stato dipinto addosso, ma anche Ben Foster e Chris Pine sono molto bravi (anche se lì per lì il secondo mi è sembrato uno degli Hemsworth, sono un po' miope, sorry), nonostante il primo sia limitato dal solito cliché del criminale "pazzo" tutto parolacce e scatti d'ira. Ho apprezzato però soprattutto i personaggi secondari e i caratteristi utilizzati per interpretarli, indispensabili per rendere l'idea di una parte di America ancora piena di contraddizioni e in qualche modo "vecchia", dove pare che il tempo si sia fermato (quante banche non hanno neppure il sistema di video sorveglianza) nonostante cowboy e indiani abbiano imparato in qualche modo a convivere e si siano ritrovati persino, talvolta, a ruoli invertiti. Il mio consiglio spassionato è dunque quello di dare una chance a Hell or High Water anche se non vi appassiona il genere perché la pellicola di David MacKenzie è un bellissimo esempio di cinema "classico" come ultimamente non se ne vedono più, uno di quei film capaci di mettere d'accordo un po' tutti e di arricchire la serata, altro che fungere da sedativo!


Del regista David MacKenzie ho già parlato QUI. Ben Foster (Tanner Howard), Chris Pine (Toby Howard) e Jeff Bridges (Marcus Hamilton) li trovate invece ai rispettivi link.

Gil Birmingham interpreta Alberto Parker. Americano, ha partecipato a film come La casa di Helen, Twilight, New Moon, Eclipse, Breaking Dawn (prima e seconda parte), The Lone Ranger e a serie quali Buffy l'ammazzavampiri, Streghe, Veronica Mars e Nip/Tuck; come doppiatore, ha partecipato al film Rango. Ha 64 anni e tre film in uscita.


Se Hell or High Water vi fosse piaciuto recuperate Non è un paese per vecchi. ENJOY!

martedì 24 gennaio 2017

Train to Busan (2016)

Tante volte mi chiedo a cosa serva amare il Cinema e l'horror se riesco a non guardare per mesi perle come Train to Busan (Busanhaeng), diretto e sceneggiato nel 2016 dal regista Yeon Sang-Ho, ritrovandomi così a stilare classifiche di fine anno incomplete. Disonore su di me e sulla mia mucca!!!


Trama: durante il viaggio verso la città di Busan, Seok-Woo e la figlioletta Soo-An si ritrovano in un treno zeppo di passeggeri diventati zombi famelici, mentre tutte le città della Corea cominciano a cadere sotto gli effetti della terribile epidemia...



La zombie mania è tornata in auge con la prima stagione di The Walking Dead, risalente ormai a sette anni fa, e da allora è stato un fiorire continuo di horror o parodie a tema, al punto che credevo nessun film dedicato ai morti viventi (lenti o veloci, umani o animali, dotati o meno di poteri) potesse più toccarmi nel profondo. Poi è arrivato Yeon Sang-Ho, dalla lontana Corea del sud, tirandomi un poderoso ceffone in faccia e ribadendomi che sì, zitta Bolla, c'è speranza anche per un genere stra-abusato come quello dello zombie movie, basta solo che i realizzatori ci mettano anima e cuore e non il semplice gusto per delle frattaglie ormai stantie oppure dialoghi interminabili da soap opera (sceMeggiatori, sto parlando con voi). Train to Busan ha la trama più vecchia e stra-abusata del mondo, soprattutto nell'ambito dei film catastrofici: un genitore e suo figlio devono raggiungere una città mentre attorno a loro il mondo si sgretola e terribili eventi mettono a repentaglio la loro stessa esistenza. Facendo uno scomodissimo paragone recente, la storia di Train to Busan è assai simile a quella di Cell, in cui un gruppo di sopravvissuti deve raggiungere il figlio del protagonista passando attraverso orde di persone fuori di testa e dalla volontà omicida, tuttavia Cell fa schifo mentre Train to Busan è uno degli horror recenti più belli mai visti e quindi cos'è che lo rende tale? Per esempio, oltre ad essere realizzato benissimo (e ne parlerò dopo), Train to Busan fa un enorme lavoro sui personaggi e sui legami che intercorrono tra loro, al punto che lo spettatore arriva a sentirsi coinvolto dalla loro storia, a preoccuparsi per la loro sopravvivenza, a chiedersi come fosse la loro vita prima della piaga, a piangere come un vitello davanti alle inevitabili tragedie che un film simile reca con sé. Soprattutto, ogni azione compiuta dai personaggi che popolano il film ha un senso, una motivazione che può essere o meno condivisibile ma che comunque ci racconta qualcosa di più della personalità di chi la sta compiendo, che sia il gesto disperato di un'anziana che tenta di "vendicare" l'ingiustizia subita dalla sorella oppure le azioni altruistiche di un grebano dal cuore d'oro; i protagonisti di Train to Busan non sono dei pezzi di carne da macello e ad evolvere e cambiare, nel corso della storia, non è solo il freddo ed egoista businessman Seok-Woo bensì tutti coloro che hanno la sventura di trovarsi ad affrontare gli zombi assieme a lui e alla tenerissima figlioletta Soo-An (una patatina davanti al cui sguardo accusatore credo si sentirebbe male persino il più convinto dei terroristi, figuriamoci un padre che nella prima parte del film non ci fa proprio una bellissima figura).


L'interesse che si arriva a provare per le sorti dei personaggi, ovviamente, aumenta il senso d'ansia avvertito durante la visione. Siccome non vogliamo che a Seok-Woo e compagnia succeda nulla, ogni apparizione dei dinoccolati e velocissimi zombi che infestano Train to Busan è un colpo alle coronarie, anche perché Yeon Sang-Ho ha un modo tutto suo di presentarli sulla scena. Lo zombi che fa paura può essere quello contorsionista appena morso, che si risolleva da terra usando movimenti "a scatto" capaci di agghiacciarmi per giorni, oppure può essere l'apocalittica marea umana che si avventa sui protagonisti senza pietà alcuna e probabilmente grazie all'ausilio di una CGI per nulla invasiva e, se posso permettermi, utilizzata mille volte meglio rispetto a ciò che spesso si vede nelle grandi produzioni USA (qualcuno ha detto World War Z?). Di fatto, Train to Busan ha il respiro epico dei grandi blockbuster ma ha anche il non trascurabile vantaggio di non essere l'accozzaglia di effetti speciali e tamarrate assortite che solitamente l'accezione occidentale del termine reca con sé: tutto nel film di Yeon Sang-Ho è realizzato benissimo e senza lasciare nulla al caso, dalla breve scena action in cui i personaggi sono costretti a lottare contro i singoli zombi (e lì la fa da mattatore Ma Dong-seok, vero esperto di arti marziali che tira pugni ai morti viventi con talmente tanto gusto che è una goduria da guardare) alle devastanti scene di morte e distruzione che coinvolgono stazioni e città, ma anche i momenti più "riflessivi" in cui ai protagonisti bastano pochi sguardi e qualche inquadratura azzeccata per comunicare più di mille parole. Se poi siete come me, ovvero persone imbecilli alle quali basta, che so, sentire cantare Aloha Oe in coreano da una bambina in lacrime per cominciare a piangere a vostra volta come vitelli, vi avviso già da ora che la visione di Train to Busan vi lascerà devastati neanche vi foste fatti una maratona di Edward mani di forbice e Papà ho trovato un amico, quindi astenersi non solo stomaci deboli (qualche scena gore c'è, nulla di troppo "Saviniano" ma c'è, tra l'altro il make-up degli zombi è particolarmente realistico) ma anche spettatori dalla lacrima facile.

Yeon Sang-Ho è il regista e sceneggiatore della pellicola. Originario della Corea del sud, ha diretto pellicole che non conosco, quali The King of Pigs, The Fake e Seoul Station, tutti a disegni animati. Anche produttore, ha 39 anni.


Il lungometraggio animato Seoul Station, diretto sempre da Yeon Sang-Ho, funge da prequel al film ed è ambientato un giorno prima di Train to Busan; conto di recuperarlo il prima possibile assieme a The Host e The Wailing, che non ho ancora visto ma mi paiono abbastanza simili. ENJOY!

lunedì 23 gennaio 2017

Nicolas Cage Day: Stress da vampiro (1988)


Con il solito gruppetto di bloggerZ siamo tornati a celebrare Nicolas Cage, un uomo un perché. Tranquilli, il mese prossimo arriva un bello speciale su Carrie Fisher ma siccome gennaio è un mese un po' impegnato per i cinefili, abbiamo scelto di snebbiare la mente con l'uomo dalla faccia di gomma e la parrucca di stoppa. Ho deciso quindi di sfidare i miei ricordi di decenni e ridare una chance a Stress da vampiro (Vampire's Kiss), diretto nel 1988 da Robert Bierman. You don't say?



Trama: Peter Loew è un editore che passa le serate nei club e ogni sera si porta a casa una donna diversa. Quando una delle sue amanti occasionali lo morde, rivelandosi un vampiro, Peter comincia a perdere il senno e a convincersi di stare diventando a sua volta una sorta di Nosferatu...




Mi era capitato di vedere Stress da vampiro decenni fa, quando ogni film "strano" che veniva passato in TV era per me fonte di gioia e motivo per azionare il registratore. Ricordo di aver finito la visione con un'espressione di WTF stampata sul viso, aggravata dal fatto che, all'epoca, Nicolas Cage mi piaceva davvero e non era ancora diventato un attore da perculare per le sue scarse scelte di copione o per le sue parrucche indecenti, né, tantomeno, il principe dei meme tratti appunto da questo film. QUESTO  meme è stato preso paro paro da uno dei momenti più genuinamente disturbanti e assurdi di Stress da vampiro, quello in cui Peter tortura psicologicamente la povera impiegata Alva, rea di non riuscire a trovare un importantissimo contratto, ma probabilmente il 90% di quelli che utilizzano il meme in questione su internet non immaginano che la pellicola di Robert Bierman contenga momenti di Cageanità MOLTO ma MOLTO più terrificanti di questo! Stress da vampiro è infatti lo one man show di un Nicolas Cage esageratissimo, senza freni inibitori né amor proprio, la discesa progressiva nella follia di un antenato di Patrick Bateman privo, ahilui, della raffinatezza del personaggio creato da Bret Easton Ellis ma comunque matto come un cavallo. Anzi, come un vampiro. Stavolta il titolo italiano rende benissimo la natura grottesca della pellicola: vero è che tutto nasce dal bacio di una procace vampira (o meglio, dal morso), tuttavia il protagonista del film ci viene mostrato nella prima scena sdraiato sul lettino di una psichiatra, già impegnato a raccontarle sogni inquietanti che mettono in allerta non solo lo spettatore ma perplimono la stessa dottoressa. Peter non è un uomo normale, lo si capisce da subito, la sua latente follia viene a malapena dissimulata da accenti raffinati o abiti costosi e la vampira Rachel (il cui arrivo è preceduto da un altro episodio, quello in cui un pipistrello entra nella stanza di Peter) non è altro che la miccia per scatenarla. Ma Rachel esiste o è solo frutto dell'immaginazione di Peter? Mi spiace dirvelo ma non lo saprete mai: probabilmente c'è una Rachel in carne e ossa ma non è detto che sia realmente una vampira, anche perché la sceneggiatura di Joseph Minion (lo stesso di Fuori orario) dice tutto e il contrario di tutto e l'unica cosa certa, ad un certo punto, è che Peter si convince di essere diventato un vampiro, con tutto ciò che ne consegue. You don't say?



Dal momento in cui Peter viene morso, Cage diventa praticamente la parodia di sé stesso e, diciamolo, mette male provare simpatia per qualcuno che, di punto in bianco, fa dell'umoralità il suo punto di forza. Anche Patrick Bateman era un uomo di merda ma il suo mondo era talmente grottesco e assurdo che il suo prenderlo sul serio provocava la risata e un perverso senso di pietà nei suoi confronti (pietà nel senso di "ma povero mentecatto!") e poi Christian Bale era figo, non dimentichiamolo. Cage invece fa ridere, e parecchio, nella prima parte del film, con quella fisicità che gli consente di sfoderare pose da rocker mentre cazzia senza pietà la segretaria sempre più disperata e terrorizzata, tuttavia quando il film sfocia nel patetico verrebbe voglia di prenderlo a ceffoni. Certo, vedere la "metamorfosi" di Peter in vampiro non ha prezzo, soprattutto per come se la crede Cage, che ha palesemente improvvisato buona parte delle reazioni del personaggio: fare finta di non vedere il proprio riflesso allo specchio, infilarsi a dormire sotto un divano utilizzato a mo' di bara, urlare disperato davanti ad un raggio di sole solo per poi dimenticarlo e rimanerci piantonato davanti come se niente fosse, soprattutto indossare canini di plastica sgranando gli occhi a mo ' di Nosferatu (il parallelo tra Peter e lo storico personaggio di Murnau è qualcosa di favoloso) prima di iniziare a deambulare per New York con un cavicchio puntuto (cit.) sotto braccio manco fosse una baguette sono cose che non tutti gli attori farebbero con lo stesso sprezzo del pubblico ludibrio e questo merita a Cage eterno riconoscimento da parte di tutti gli amanti del weird. Per il resto, Stress da vampiro è proprio poca roba: innanzitutto risente di una pesantissima atmosfera anni '80 che lo ha portato ad invecchiare malissimo, in più la sceneggiatura visionaria viene resa ammorbante da una regia piatta come poche che, combinata a pettinature e costumi improbabili, rende la visione del film ancora più sconcertante. Della serie, meno male che c'è Cage a gigioneggiare, altrimenti Stress da vampiro non potrebbe neppure godere del titolo di cult che si è guadagnato nel corso degli anni! "Se l'avesse girato David Lynch sarebbe stato meglio!!11!!111!"... You don't say?





Nicolas Cage, nonostante tutto, è praticamente ospite fisso del Bollalmanacco e qui trovate i link che vi porteranno a scoprire le mille sfaccettature di costui:

Snowden (2016)


Pay the Ghost (2015)


L'ultimo dei templari (2011)


Kick-Ass (2010)


L'apprendista stregone (2010)


Astro Boy (2009)


Ghost Rider (2007)


Il prescelto (2006)


Il ladro di orchidee (2002)


Al di là della vita (1999)


Con Air (1997)


Cuore selvaggio (1990)


Ed ecco i link dei blogger che hanno partecipato alla celebrazione:

Director's Cult
Non c'è paragone
Pietro Saba's World
In Central Perk 
White Russian
Una mela al gusto pesce
Cooking Movies

venerdì 20 gennaio 2017

The Monster (2016)

Prima che il 2016 finisse ero riuscita a vedere un altro degli horror che sono finiti nella classifica horror di fine anno di Lucia, ovvero The Monster, diretto e sceneggiato da Bryan Bertino, ma a causa della mia solita lentezza riesco a parlarne solo ora.


Trama: una madre e una figlia rimangono in panne dopo un incidente, solo per venire cacciate da un terrificante mostro nascosto nei boschi.



Il mio primo e unico impatto con Bryan Bertino era stato quel terrificante The Strangers che ancora oggi non ho il coraggio di riguardare per l'ansia che mi aveva messo addosso, cosa che gli aveva conseguentemente guadagnato il mio odio eterno. Anche per questo, onestamente, non sapevo neppure che avesse diretto Mockingbird - In diretta dall'inferno che, dalla trama, mi pare superficialmente simile all'opera prima del regista e sceneggiatore, mentre con The Monster questo losco figuro ha scelto di abbandonare l'insicurezza delle quattro mura per sbattere le due povere protagoniste in mezzo alla wilderness più nera, dove stanno nascosti quei mostri che, di regola, non dovrebbero neppure esistere. L'ambiente "aperto" non ha reso meno angoscianti i suoi film, questo è certo, ma perlomeno stavolta non ho odiato Bertino, anzi, gli ho persino voluto bene. The Monster racconta infatti di una piccola famiglia allo sfascio, all'interno della quale la piccola Lizzy è costretta a sopportare la presenza di una giovane madre ubriacona, sboccata e fancazzista che passa le giornate a sbevazzare e dormire, quando non è impegnata a piagnucolare per l'ennesimo fidanzato redneck che la tratta male. Il punto di vista iniziale, quello da cui veniamo condizionati, è quello di Lizzy. Non possiamo fare altro che provare pietà per questa ragazzina costretta a crescere in modo squilibrato (la vediamo curare, letteralmente, la madre come fosse lei l’adulta delle due, eppure non molla per un istante il cagnolino di pezza per il quale Lizzy è obiettivamente troppo grande, quasi fosse la sua coperta di Linus) e a un certo punto arriviamo ad odiare Kathy, giovane madre nervosa che è l'incarnazione stessa dell'autodistruzione, tanto che una parte di me quasi sperava che il mostro del titolo fosse un'estensione cronenberghiana della rabbia della bambina, pronta a reclamare tremenda vendetta. E invece The Monster si è rivelato molto più sfaccettato e crudele di così, perché nella realtà i sentimenti non sono mai netti e definiti. C'è la vergogna profonda di Kathy, accompagnata da un odio per sé stessa altrettanto profondo, un sentimento terribile che la spinge a gettare la spugna e a lasciare che la bambina la detesti, così da offrirle la chance di una vita migliore col padre, probabilmente risposato e benestante; c'è l'innocente amore di una bambina per la madre, ché un conto è pregare che la genitrice muoia e arrivare quasi a tagliarle la gola in un impeto di disperazione, un conto è vederla dilaniata dalle zanne di un mostro proprio nel momento in cui il suo amore materno si mette a brillare come una fiamma nel buio, mandando al diavolo ogni istinto di autoconservazione.


C'è ovviamente un mostro, anzi, IL mostro, per l'appunto. Che non ha un'origine o un perché, in quanto a noi non deve fregare nulla di come sia arrivato nei boschi di una parte di America non meglio definita. Gli incubi più terribili hanno mai un motivo? Solitamente no, soprattutto quando ci arrivano addosso inaspettati e crudeli e sconvolgono la nostra esistenza con accanimento e ferocia. La creatura di The Monster è terrificante nel vero senso della parola, un essere alieno zannuto ed artigliato che assicura almeno un paio di jump scare ma non l'ho trovato un elemento così importante della pellicola. A farmi riflettere ed apprezzare l'operazione di Bertino è piuttosto il modo in cui il regista e sceneggiatore sfrutta il mostro per sviscerare ancora di più la personalità delle protagoniste e il loro complicato rapporto, costringendole in una situazione senza via d’uscita e sotto la minaccia di un pericolo mortale, innescando in qualche modo un cambiamento in entrambe e, soprattutto, portando lo spettatore ad affezionarsi terribilmente alle due. Semplificando, si potrebbe dire che The Monster è la versione riveduta e (s)corretta di Cujo ma non è la stessa cosa: lì si trattava di una “cattiva moglie” di cui tuttavia non veniva mai messo in dubbio il ruolo di madre e di un bimbetto talmente piccino che l’empatia scattava in automatico, nel film di Bertino la natura positiva di madre e figlia non è così scontata. Ecco perché, per far funzionare un film simile, diventa indispensabile la bravura delle due attrici protagoniste, ancor più della validità dell’effetto speciale (per quanto apprezzabile ed artigianale, grazie a Dio). Zoe Kazan, giusto per rimanere in tema, è mostruosa, oltre che di una bellezza esagerata. Sarà anche un cliché ma ammetto di avere avuto il magone per un po’ durante i flashback che la vedono impegnata a rifiutare, inutilmente, la bottiglia, per poi ritrovarsi addormentata in bagno, abbracciata dalla figlioletta (qui fa tanto anche l’eleganza di Bertino, che consacra ai posteri una delle inquadrature più belle del 2016) e anche nelle scene più “action” la Kazan tira fuori una grinta tale da far venire voglia di vederla un po’ più spesso sul grande schermo. Altrettanto brava la giovane Ella Ballentine, capace di gestire al meglio il ruolo di ragazzina precocemente segnata dalla vita ma con un preoccupante lato infantile, sfaccettature psicologiche che, in mano ad attori meno capaci, rischierebbero di sconfinare nell’esageratamente patetico (per dire, è uno spasso vedere le due attrici urlarsi in faccia nella sequenza del garage ma fidatevi che il fuck you sussurrato dalla Ballentine alla fine spezza il cuore). Non è quindi un caso che The Monster sia finito in tante classifiche di fine anno stilate dagli appassionati di horror perché l’ultimo film di Bertino è davvero più di un semplice film di genere ed è sicuramente una splendida, sanguinosetta favola nera con la quale iniziare al meglio il 2017.  



Del regista e sceneggiatore Bryan Bertino ho già parlato QUI  e nello stesso link trovate anche Scott Speedman, che interpreta Roy.

Zoe Kazan interpreta Kathy. Americana, ha partecipato a film come Revolutionary Road, Ruby Sparks e a serie quali Medium. Anche sceneggiatrice e produttrice, ha 34 anni e due film in uscita.


Pur non avendo ancora visto Under the Shadow credo potrebbe essere un buon titolo da recuperare in caso The Monster vi fosse piaciuto. ENJOY!