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martedì 28 febbraio 2017

The Great Wall (2016)

Per questioni logistiche sabato sera sono andata a vedere The Great Wall, diretto nel 2016 dal regista Zhang Yimou, invece di Trainspotting 2. Non temete, non ho intenzione di abbandonare Renton e soci...


Trama: Nell'anno mille, due mercenari alla ricerca della "polvere nera" arrivano fino alla Grande Muraglia cinese, dove un'armata cerca di contrastare l'attacco di mostri ancestrali proteggendo così la capitale del regno.


Non so effettivamente se riuscirò a raggiungere i due paragrafi standard di post ma proviamoci. Non è che The Great Wall non mi sia piaciuto però posso definirlo al massimo carino e, in verità, più ci penso più gli trovo dei difetti, anche perché sulla pellicola c'è veramente poco da dire. Innanzitutto, a livello di trama, ci troviamo davanti ad una leggenda, un racconto di mostri e combattenti, di mercenari che cercano di recuperare un senso dell'onore ormai perduto così come la fiducia nel prossimo e di altri mercenari che invece, giustamente, vogliono solo i soldi. C'è una condanna all'avidità umana, esemplificata dal desiderio di possedere la fantomatica "polvere nera" cinese, veicolo di morte e distruzione che l'uomo farebbe meglio a non conoscere neppure, quindi, in parallelo, corre anche un messaggio pacifista che all'interno di un blockbuster sta sempre bene. I personaggi sono tagliati con l'accetta ma non potrebbe essere altrimenti visto che la storia è stata scritta, tra gli altri, da quel Max Brooks che già ci aveva "regalato" lo script di World War Z, quindi se vi sembrerà di avere un senso di déja vu guardando The Great Wall sappiate che è normale; là c'erano gli zombi, qui i mostruosi Tao Tei, esseri alieni evocati dalla già citata avidità umana che si manifestano ogni sessant'anni, a contrastarli c'è un bel muro alto (come quello che proteggeva Gerusalemme in World Ward Z) e un manipolo di eroi modellati in base alle regole auree del genere sentai, almeno per quel che riguarda la gamma di colori, sui quali poi tornerò. In tutto questo, gli sceneggiatori sono anche riusciti ad infilare lo scontro culturale tra occidente e oriente, esemplificato nella figura di William, mercenario che nel giro di mezz'ora passa dall'essere ladro senza scrupoli ad eroe grazie al bel faccino di una badassissima comandante cinese che vola leggiadra come una gru affondando lance appuntite nelle gobbe dei Tao Tei. Insomma, come blockbuster avventuroso ci sta, così come la visione disimpegnata... il problema è che alla regia non c'è proprio l'ultimo degli strepponi.


Fa un po' strano che dietro la macchina da presa di questa co-produzione cinoamericana ci sia lo stesso regista di Lanterne rosse, Hero e La foresta dei pugnali volanti. Prendiamo come esempio Hero, che è il film di Yimou che ho rivisto più di recente. Da ogni fotogramma di quel meraviglioso omaggio allo wuxia trasparivano eleganza, ricercatezza, cura maniacale del dettaglio ed infinito amore per l'aspetto artigianale della settima arte; i colori erano utilizzati secondo un criterio narrativo, ed erano ancor più meravigliosi in quanto venivano ripresi non solo dai costumi ma dalle scenografie artificiali e dai paesaggi naturali. In The Great Wall, nonostante ci siano un paio di sequenze effettivamente mozzafiato ed elegantissime, come la miriade di palloni luminosi che salutano la dipartita del generale innalzandosi dalla Muraglia e l'attacco kamikaze delle gru azzurre, pare che Zhang Yimou si sia adagiato sugli allori del già diretto (la carrellata delle frecce che si abbattono sui mostri, per esempio) e che si sia fatto comprare dalla "comodità" della fredda CGI, per non parlare del kitschissimo tripudio di colori che sono le sequenze girate all'interno della pagoda con le vetrate, talmente psichedeliche da far male agli occhi. Mai, ovviamente, quanto le patacche colorate indossate dai protagonisti, una roba che probabilmente potrà giusto fare la gioia dei cosplayer a cui piacciono le sfide e che sì, consente al regista di piazzare un paio di immagini ad effetto con migliaia di comparse divise per tinta ma, in definitiva, risulta incredibilmente fasulla e... si può dire cinese o sfocio nel politically incorrect? Insomma, The Great Wall nel complesso non mi è dispiaciuto quanto avrei temuto ma è davvero poca roba, sicuramente non rimarrà impresso nella mia memoria e anzi, temo che probabilmente quando mi faranno il nome di Yimou non ricorderò nemmeno che l'abbia girato lui. E neppure che tra gli interpreti ci sia Willem Dafoe, in effetti.

Quando non sai come uscire dai guai chiama al volo i Power Rangers!
Del regista Zhang Yimou ho già parlato QUI. Matt Damon (William) e Willem Dafoe (Ballard) li trovate invece ai rispettivi link.

Andy Lau interpreta lo stratega Wang. Nato a Hong Kong, ha partecipato a film come Infernal Affairs, Infernal Affairs III e La foresta dei pugnali volanti. Anche produttore e regista, ha 56 anni e tre film in uscita.


Pedro Pascal interpreta Tovar. Cileno, ha partecipato a film come Bloodsucking Bastards e a serie quali Undressed, Buffy l'ammazzavampiri, NYPD, Charlie's Angels, CSI - Scena del crimine, Nikita, Il trono di spade e Narcos. Anche, ha 42 anni e un film in uscita, Kingsman: The Golden Circle.


L'attrice Tian Jing, che interpreta il comandante Lin Mae, tornerà sui grandi schermi con Kong: Skull Island e Pacific Rim: Uprising. Nelle prime fasi del progetto, Bryan Cranston avrebbe dovuto interpretare Ballard mentre Edward Zwick (tra coloro che hanno realizzato la sceneggiatura) avrebbe dovuto dirigere la pellicola con Henry Cavill nel ruolo di protagonista. Se The Great Wall vi fosse piaciuto recuperate il già citato World War Z e Pacific Rim. ENJOY!

lunedì 27 febbraio 2017

Oscar 2017

Buon lunedì a tutti! Per una volta la Notte degli Oscar ha portato un po' di gioia, almeno alla sottoscritta, per quanto prevedibile. Il destino mi ha persino fatta svegliare assetata alle 4 di notte e sono riuscita a vedere quasi in diretta la vittoria di Viola Davis, accompagnata da un lunghissimo e commovente discorso durante il quale Bryan Cranston ha dormito come se non ci fosse un domani (giuro). E a proposito di vecchi catananni, vogliamo parlare di Warren Beatty? Il poveraccio ha cannato proprio l'annuncio del premio più importante, attirandosi gli strali del 90% dei cinefili che erano già pronti a salutare La La Land come miglior film dell'anno e invece... ENJOY!!! Edit: vengo a sapere solo ora della morte di Bill Paxton. Grandissimo attore, conto di riguardare presto Frailty e di parlarne come omaggio postumo. So long, Bill...


E invece #sticazzi a La La Land!!! Non me ne vogliate ma sapete quanto il film di Chazelle non mi abbia entusiasmato. Nonostante la gaffe di Beatty il premio per il Miglior Film è andato a Moonlight e non posso che esserne felice visto che mi ha conquistata. Oddio, sarei stata felicissima, anche di più, se avessero vinto Arrival o Manchester by the Sea ma non si può avere tutto dalla vita. Moonlight porta a casa anche l'Oscar per il Miglior Attore Non Protagonista, di cui parlerò più avanti, e il premio per la Miglior Sceneggiatura Non Originale, altra vittoria in cui avrei visto meglio Arrival sinceramente. Che iattura visto che il film di Villeneuve ha portato a casa solo un Oscar tecnico per il Miglior Montaggio Sonoro!


Nessuna sorpresa invece dal punto di vista di Regia e Miglior Attrice Protagonista. Damien Chazelle ed Emma Stone si crogiolano nel successo di La La Land e se il premio per la Regia è a mio avviso meritato (dall'alto della mia ignoranza) mi spiace un po' per Natalie Portman, una stupenda Jackie. Complimenti però ad Emma Stone e anche a Moonl... ehm... La La Land che, sempre senza tante sorprese, conquista altri quattro premi: Miglior Fotografia (niente Oscar a Silence, nemmeno uno di consolazione... vecchiacci bastardi!), Miglior Colonna Sonora Originale (Ma va?), City of Stars come Miglior Canzone Originale (Ma dai? Non me l'aspettavo!) e Miglior Scenografia (Non ci posso credere!!).


FORTUNATAMENTE niente Oscar per Ryan Gosling, la statuetta per Miglior Attore Protagonista va a Casey Affleck, favoloso in Manchester by the Sea, che conquista anche il premio come Miglior Sceneggiatura Originale. Complimenti, premi dovutissimi!

Occristo, quindi sa anche sorridere!! Anche se pare più un ghigno... 
L'Oscar come Miglior Attore Non Protagonista è fonte di MAH. Mahershala Ali non mi ha detto granché in Moonlight, avrei preferito Jeff Bridges o Lucas Hedges ma a quanto pare Moonlight era un film troppo benvoluto per ignorare un premio così importante. Vabbuò.


Solo gioia invece per la vittoria di Viola Davis come Miglior Attrice Non Protagonista, premio meritatissimo, furbo (nel senso che avrebbero voluto candidarla come protagonista ma non avrebbe avuto chance quindi ben venga questa candidatura "meno importante") e sentito. Per la cronaca, Barriere ha vinto solo questo Oscar.


Diamo un'occhiata anche agli altri premi, perlomeno a quelli di cui posso parlare con un minimo di cognizione di causa. Scontata la vittoria di Zootropolis come Miglior Film d'Animazione, sebbene il mio cuore vada interamente a Kubo e la spada magica; va in casa Disney/Pixar anche il premio per il Miglior Corto Animato, che finisce al delizioso Piper. Il bellisimo La battaglia di Hacksaw Ridge porta purtroppo a casa solo due premi tecnici, uno per il Miglior Montaggio e uno per il Miglior Missaggio Sonoro, talmente ben fatto che me n'ero accorta persino io! Gli Effetti Speciali vanno a Il libro della giungla (se ne può parlare, a mio avviso gli altri candidati erano nettamente superiori) e rimanendo in ambito "cinema di consumo" trionfano Animali fantastici e dove trovarli per i Migliori Costumi (niente a Jackie? Vabbé, dai... vergogna!) e Suicide Squad per il Miglior Make Up (...) mentre The Salesman vince l'Oscar per il Miglior Film Straniero con un'ottima stilettata all'odiatissimo Donald Trump. E con questo chiudo, lasciandovi ai ben migliori e più dettagliati resoconti che popoleranno la rete nel corso di questa giornata. ENJOY e fate i bravi con Warren Beatty!!!





domenica 26 febbraio 2017

Jackie (2016)

L'ultimo film di cui vi parlerò prima che vengano assegnati gli Oscar (per chi fosse interessato, i post sugli altri arriveranno a ridosso delle rispettive uscite italiane) è Jackie, diretto nel 2016 dal regista Pablo Larraín e in concorso con tre nomination (Natalie Portman Migliore Attrice Protagonista, Migliori Costumi e Miglior Colonna Sonora Originale).


Trama: dopo la morte del presidente Kennedy, la moglie Jackie si ritrova a dover tenere in piedi la propria famiglia e ad onorare la memoria del marito senza crollare nel tentativo...


Di base, ritengo quello americano come uno dei popoli più stupidi sulla faccia del pianeta, giudizio che, se possibile, si è intensificato ancora di più dopo l'elezione di quella sorta di imbarazzante Gabibbo malvagio che risponde al nome di Donald Trump. Nonostante questo o forse, chissà, proprio per questo, la storia americana esercita su di me un fascino stranissimo, soprattutto per quel che riguarda il periodo turbolento precedente e successivo alla morte di John Fitzgerald Kennedy. Morto giovanissimo, all'età di 46 anni, questo giovane e sfortunato presidente è diventato nel tempo un mito, il simbolo di un'era, la versione buona del "quando c'era lui" e persino Stephen King (che lo definisce nel ciclo de La Torre Nera "l'ultimo Pistolero del mondo occidentale") è arrivato a chiedersi, nel romanzo 22.11.63, cosa sarebbe successo se JFK non fosse morto. Non ci è dato sapere cosa ne sarebbe stato dell'America e del mondo sotto la sua guida ma quel che è certo è che tra coloro che hanno contribuito a costruire il mito Kennedy c'è sicuramente la moglie Jackie, figura diventata nel tempo altrettanto "mitica" e protagonista del biopic di Pablo Larraín il quale, concentrandosi principalmente sull'intervista concessa dalla ex first lady al giornalista Theodore H. White una settimana dopo la morte del presidente, fa poca luce sulla vita privata di Jacqueline Lee Bouvier in quanto donna. Il punto di vista adottato nel film è infatti piuttosto quello di una neo-vedova, di una Ginevra che ha perso il suo Re Artù e cerca in tutti i modi di consegnarne il ricordo ai posteri tentando, allo stesso tempo, di non soccombere al dolore e proteggere sé stessa e i figli ancora piccoli non solo da eventuali attentati ma anche dall'indigenza e dagli sciacalli mediatici. Intelligente, piena di amore per le arti e la storia, Jackie è nata per essere più un membro di qualche famiglia reale europea piuttosto che la first lady americana; nonostante l'amore del popolo americano, la consacrazione ad icona della moda e l'impegno profuso nel trasformare la Casa Bianca in un museo dedicato alla storia americana, alla morte di Kennedy la donna è diventata per legge una semplice civile che da quel momento in poi avrebbe avuto poco tempo per portare via baracca e burattini dall'edificio presidenziale, lasciando così il posto al neo presidente Johnson e alla moglie.


Larraín racconta dunque questo momento assai delicato nella la vita della ex first lady mettendo sotto i riflettori il dolore per la morte di un marito "ingombrante" ma comunque molto amato (le immagini che mostrano Jackie subito dopo il tristemente famoso attentato a Dallas sono molto crude e fanno riflettere sull'incredibile forza d'animo di una donna che è stata letteralmente investita dalla materia cerebrale e dal sangue del suo compagno di vita), la rabbia, l'impotenza e la confusione di chi non ha più un appoggio spirituale e materiale e di chi non può prevedere un futuro che si prospetta terribilmente buio ed incerto, contestualizzando il tutto attraverso il racconto di un America e di un mondo costretti a cambiare nella maniera più drastica. Oltre a tutto ciò, viene sottolineata anche l'importanza mediatica di Jackie Kennedy non solo nella creazione del mito di Camelot (nome con cui gli americani sono arrivati nel tempo a definire la presidenza Kennedy) ma anche nel rendere in qualche modo più vicina al popolo un'istituzione come la Casa Bianca, mostrata per la prima volta in TV dalla stessa Jackie come fulcro della storia e della cultura americane, quindi un patrimonio nazionale e non solo dimora presidenziale. Inutile dire che l'intero film poggia sulla straordinaria interpretazione di una Natalie Portman che è riuscita a riportare in vita la sfortunata Jackie, impadronendosi di quell'accento mezzo americano, mezzo british e assolutamente posh che la caratterizzava, soprattutto nelle occasioni pubbliche (e che, intelligentemente, si riduce fino a scomparire quando viene mostrata la Jackie più intima ed emotivamente scossa), ma non solo; la fisicità, gli sguardi e i vezzi dell'attrice sono emozionanti sia quando la Portman è da sola, sia quando interagisce con gli altri (la sequenza in cui Jackie vaga per le stanze ubriaca e in lacrime, cambiando un vestito dopo l'altro, è magistrale ma vengono resi alla perfezione anche il rapporto con i figli e Bobby, con Johnson e persino col prete interpretato da John Hurt, Dio lo abbia in gloria sempre) e attorno a lei scenografi, costumisti e soprattutto il direttore della fotografia Stéphane Fontaine, responsabile della bellezza degli innumerevoli primi piani dell'attrice, hanno creato un perfetto scorcio di vita della first lady più amata dagli americani, tra dolorosa realtà e sognanti fantasie da musical.


Di Natalie Portman (Jackie Kennedy), Peter Sarsgaard (Bobby Kennedy), Greta Gerwig (Nancy Tuckerman), Billy Crudup (Il giornalista), John Hurt (Il prete), Richard E. Grant (Bill Walton), Beth Grant (Lady Bird Johnson) e John Carrol Lynch (Lyndon B Johnson) ho già parlato ai rispettivi link.

Pablo Larraín è il regista della pellicola. Cileno, ha diretto film come Tony Manero, No - I giorni dell'arcobaleno, Il club e Neruda. Anche produttore e sceneggiatore, ha 41 anni.


Inizialmente il film avrebbe dovuto girarlo Darren Aronofsky, con Rachel Weisz in qualità di protagonista, ma quando entrambi si sono ritirati dal progetto Aronofsky è rimasto solo come produttore. Diversamente dal solito, se Jackie vi fosse piaciuto non vi consiglio di recuperare altri film a tema, bensì il musical Camelot e il film TV A Tour of the White House, entrambi citati nella pellicola di Larraín. ENJOY!

venerdì 24 febbraio 2017

Barriere (2016)

Questa è proprio la settimana dei film da Oscar visto che è uscito anche Barriere (Fences), diretto nel 2016 dal regista e attore Denzel Washington, tratto dall'omonima opera teatrale di August Wilson e candidato a quattro statuette (Miglior Film, Denzel Washington Miglior Attore Protagonista, Viola Davis Miglior Attrice Non Protagonista, Miglior Sceneggiatura Non Originale).


Trama: Nell'America degli anni '50 un uomo di colore cerca di mantenere la sua famiglia, tentando di mettere una pezza ai dissidi familiari che lui stesso ha contribuito a creare...


Non avendo visto nessun trailer prima di accingermi a guardare Barriere, credevo mi sarei trovata davanti una pellicola sulla segregazione razziale. Le "barriere" del titolo, invece, sono quelle messe in piedi dal protagonista Troy Maxson, sia reali (il fence, lo steccato voluto dalla moglie Rose) che metaforiche, cosa che fa rientrare Barriere sotto la definizione di "dramma familiare" legato vagamente al periodo storico e al colore della pelle del personaggio principale; probabilmente, se al posto di un uomo di colore ci fosse stato, per dire, un immigrato italiano o irlandese, la pellicola avrebbe funzionato comunque visto che sì, Troy imputa i suoi fallimenti in ambito sportivo al colore della propria pelle ma, come sottolineato dalla moglie Rose, in realtà il motivo è da ricercarsi principalmente nella sua età anagrafica. La trama di Barriere si incentra quindi sulla figura di questo padre di famiglia fondamentalmente frustrato, convinto che soddisfare i bisogni primari di moglie e figli (avere un tetto sulla testa e cibo con cui sfamarsi) lo renda automaticamente una persona esemplare nonostante, umanamente parlando, sia un individuo abbastanza riprovevole ed egoista; per tutto il film, infatti, Troy cerca di impartire lezioni di vita ad amici, figli e moglie, puntando di fatto (magari inconsciamente) a mantenere comunque uno status quo all'interno del quale nessuno può essergli superiore o tanto meno può aspirare ad un qualche tipo di libertà. Il personaggio dipinto in Barriere non è un violento nel senso stretto del termine, eppure la sua personalità strabordante, le ferme e cieche convinzioni, il ricatto morale per cui essendo lui la persona che porta soldi in casa gli altri dovrebbero obbedirgli per una questione di gratitudine e rispetto e, non ultima, l'insofferenza verso una vita fatta solo di lavoro e sacrifici, lo portano ad essere una figura in qualche modo terrificante agli occhi dei figli ed estranea alla famiglia che lui stesso ha creato, separato dai vari membri da barriere invalicabili poste proprio da lui. Barriere è quindi interamente giocato sui sentimenti contrastanti suscitati da un personaggio come Troy, né buono né cattivo, o comunque padre e marito esemplare da un punto di vista meramente "pratico", una figura "larger than life" (Troy racconta spesso di avere fatto a pugni con la Morte e di averla sconfitta) che è difficile amare ma che, forse, è ancora più difficile odiare.


Per come Barriere è sceneggiato e strutturato, lo spettatore arriva a trovarsi davanti un'opera di connotazione fortemente teatrale, all'interno della quale i monologhi di Troy (un mix di reprimende, racconti strabilianti ed insegnamenti di vita) la fanno da padrone. C'è poca "azione", sacrificata a favore di moltissimi confronti tra i personaggi legati a situazioni esterne appena accennate oppure accadute off-screen e il teatro di questi confronti è quasi sempre il cortile circondato dallo steccato, quasi la casa di Troy fosse un microcosmo a sé stante dove il tempo stenta a mostrare i suoi segni nonostante il film copra un periodo lungo decenni. Il risultato è una pellicola molto attoriale, dove Denzel Washington gigioneggia come non mai, imponendo la sua presenza intensissima sul resto del cast come fa Troy con la sua famiglia ma raggiungendo, almeno per me, il risultato opposto a quello voluto: francamente, dopo dieci minuti di monologo Washingtoniano mi sarei volentieri alzata per andare ad urlargli in faccia "E bastaaa, lascia un po' di spazio anche agli altri!!". Anche perché, sinceramente, gli ho preferito Viola Davis, perfetta e commovente nei panni della donna che per amore ha rinunciato a sé stessa per poi sentirsi rinfacciare dal marito la solita solfa del "sì ti amo ma con l'altra dimentico famiglia, lavoro e posso essere me stesso". Anche se di figure come queste è piena la storia del Cinema, la Davis si rende comunque protagonista di un confronto doloroso e per nulla banale, probabilmente la sequenza più bella del film, e riesce ad infondere nel personaggio di Rose migliaia di piccole sfumature capaci di renderla ben più di una donna "asservita" ad un marito troppo carismatico. Se apprezzate dunque questo tipo di pellicola dialogata, dove i riflettori sono puntati più sul cast che sulla regia, la fotografia o il montaggio (a mio modesto parere non particolarmente degni di nota) Barriere è l'ideale; personalmente, l'ho trovato molto ben fatto ma mancante di quel qualcosa capace di entusiasmarmi, forse perché ho trovato molto difficile empatizzare col personaggio principale e, sul finale, anche lievemente trito e pacchiano (mi spiace Denzel ma la luce divina dal cielo non si può vedere, nemmeno Mel Gibson ne La battaglia di Hacksaw Ridge ha osato tanto).


Del regista Denzel Washington, che interpreta anche Troy Maxson, ho già parlato QUI. Viola Davis (Rose Maxson) e Mykelti Williamson (Gabriel) li trovate invece ai rispettivi link.


Saniyya Sidney, che interpreta Raynell, era la piccola Flora di American Horror Story Roanoke e ha partecipato anche a Il diritto di contare. L'opera teatrale da cui è stato tratto Fences ha esordito a Broadway nel 1987 ed il suo "revival" è stato messo in cartellone nel 2010, proprio con Denzel Washington e Viola Davis nei panni di Troy e Rose; già nel 1987 si prevedeva di trarne un film con Eddie Murphy nel ruolo del figlio Cory ma siccome l'attore aveva già dieci anni più del personaggio, tra un ritardo di produzione e l'altro non se n'è fatto nulla. Detto questo, se Barriere vi fosse piaciuto recuperate, quando usciranno in Italia, Il diritto di contare e Loving. ENJOY!

giovedì 23 febbraio 2017

(Gio) WE, Bolla! del 23/2/2017

Buon giovedì a tutti!! TEMO che il sito del multisala mi buggeri. Capisco la non uscita di Barriere (neppure al cinema d'élite, scandalo!) ma che snobbino anche l'ennesima commediola italiana, nella fattispecie Beata ignoranza, mi da da dire. Ho paura che dovrò vedere tutto ciò che mi interessa in fretta e furia prima che "rinsaviscano" e lo tolgano...  o prima che arrivi Logan! ENJOY!

The Great Wall
Reazione a caldo: Mah.
Bolla, rifletti!: Mi mette un sacco di dubbi questo film. Probabilmente a costumi, grandeur ed effetti speciali starà messo benissimo, per di più alla regia c'è Zhang Yimou, però temo anche la tamarreide gratuita. Ma tanto è l'unico film che il mio ragazzo mi accompagnerà a vedere, quindi devo approfittarne!

Jackie
Reazione a caldo: Meraviglia.
Bolla, rifletti!: Ne parlerò nei prossimi giorni ma vi consiglio di non perderlo, soprattutto se avrete la fortuna di vederlo proiettato in lingua originale. Natalie Portman offre un ritratto toccante e realistico della first lady più amata/odiata dagli americani, in più colonna sonora, costumi e scenografie sono splendidi.

T2 - Trainspotting
Reazione a caldo: Lacrime. Tantissime.
Bolla, rifletti!: Avranno scelto la vita? Qualcuno sì e qualcuno no, immagino, ma tant'è: a Renton e soci non posso dire di no, nemmeno dopo 20 anni e dopo la vecchiaia arrivata inesorabile ad inghiottire me e loro. Spero solo che ne varrà la pena!

Al cinema d'élite arrivano i belgi!

Un re allo sbando
Reazione a caldo: Hmmm!
Bolla, rifletti!: Pensavo fosse una supercazzola invece dalla trama sembra quel genere di film assurdo e carino che piace tanto a me. Il re del Belgio che si imbarca in un viaggio per salvare il suo regno assieme ad un documentarista inglese? Venduto!

mercoledì 22 febbraio 2017

Noi e la Giulia (2015)

Non lo avevo visto al cinema ma, data la simpatia che ho sviluppato nel tempo per almeno un paio di interpreti, al primo passaggio televisivo ho guardato Noi e la Giulia, diretto e sceneggiato da Edoardo Leo partendo dal libro Giulia 1300 e altri miracoli di Fabio Bartolomei.


Trama: tre falliti si uniscono quasi per caso nell'acquisto di un casale abbandonato e praticamente in rovina, con l'intento di trasformarlo in agriturismo. I lavori, già difficili di per sé, si complicano con l'arrivo di Sergio, al quale uno di loro deve dei soldi, e soprattutto con l'ingerenza della camorra, pronta a chiedere il pizzo a tre disperati che non hanno più il becco di un quattrino...



Ultimamente ho cominciato a dare fiducia al cinema italiano, grazie a giovani autori ed attori che non mi procurano istantaneo fastidio appena li vedo aprire bocca e che sono riusciti, in qualche modo, a ridare lustro anche a "vecchi" caratteristi che rischiavano di finire sepolti nelle ignominiose fiction televisive che infestano i palinsesti di ogni rete. I nomi che ultimamente mi portano a drizzare le antenne, accanto a quello dell'adorato Pierfrancesco Favino, sono quelli di Edoardo Leo e Stefano Fresi, apprezzatissimi nell'esilarante Smetto quando voglio e, almeno per me, rappresentanti di quella commedia italiana che non si limita a raccontare storie banali di mariuoli, coppiette in crisi o cornuti e mazziati, o peggio ancora basate su temporanei fenomeni comici, bensì ripropone in chiave grottesca i problemi della società italiana di oggi attraverso sceneggiature frizzanti e genuinamente divertenti. Questa descrizione calza perfettamente a Noi e la Giulia, storia della rivincita di tre (anzi quattro) "falliti" che, stanchi di essere presi a calci dal mondo e lasciarsi vivere prigionieri di ciò che la società definisce "importante", scelgono di fare un colpo di testa ed investire tempo e denaro in qualcosa che sperano possa realizzarli davvero, ognuno per i propri motivi: Fausto, voce narrante della pellicola, viene spinto dal padre che, in punto di morte, gli rinfaccia di non aver fatto mai nulla di bello nella vita, Claudio deve riprendersi da un matrimonio andato a monte e da un fallimento, Diego è semplicemente un cialtrone amante della bella vita che deve scappare dai suoi creditori. Uno di questi, per inciso, è il comunista di ferro Sergio il quale, introdotto inizialmente come uno dei villain della pellicola, è il personaggio che più evolve nel corso della storia, diventando parte fondamentale per la creazione dell'agriturismo e motore caotico dell'intera vicenda. Non è facile, infatti, cambiare vita e riaggiustare ciò che appare irrimediabilmente rotto, soprattutto perché in alcune zone d'Italia bisogna fare i conti con pizzo e camorra, rappresentazione di tutti gli impedimenti burocratici, legislativi, criminali e anche personali che impediscono alla generazione dei neo trentenni/quarantenni di spiccare il volo verso un roseo futuro e quando qualcuno cerca di alzare la testa, come fa Sergio spinto dall'orgoglio proletario e da un carattere poco amabile, sono cavoli amari.


L'approccio verso la realtà criminale con la quale devono fare i conti i protagonisti è quello grottesco che già mi aveva conquistata in La mafia uccide solo d'estate; i camorristi non sono persone da prendere sotto gamba e per tutta la durata della pellicola il pericolo che rappresentano è tangibile, tuttavia Edoardo Leo si premura anche di mostrare gli aspetti più ridicoli del mondo criminale, ricorrendo ad un caratterista esilarante come Carlo Buccirosso, malvivente che si lascia conquistare dalla "voglia di vincere" del quartetto di sfigati e arriva a pensare che, forse, aver preso un'altra strada nella vita non sarebbe stato poi così male. In Noi e la Giulia fanno molto dunque la bravura e la simpatia degli attori, due qualità che contribuiscono a non far scadere nella commedietta da quattro soldi una trama che, per quanto carina, presenta comunque qualche ingenuità di troppo (il personaggio di Anna Foglietta è salvato giusto dal carisma di lei e l'idea della gente che si beve la favoletta raccontata da Diego per giustificare la musica proveniente dalla Giulia sepolta è tanto tirata per i capelli) e a tratti provoca lo sbadiglio compulsivo (ma lì forse la colpa è di Mer*aset e della sua pubblicità). Argentero, Edoardo Leo, Fresi e, soprattutto, un Claudio Amendola che nei ruoli di violento mezzo criminale mi piace sempre tantissimo, formano un quartetto molto affiatato ed eterogeneo, capace di dare il via a scaramucce esilaranti per via del modo in cui cozzano le rispettive personalità ed effettivamente la parte migliore del film è quella più litigarella mentre il "secondo tempo" viene rallentato da momenti troppo belli per essere veri e anche troppo hipster/new age (scenografie e colonna sonora sono davvero carini ma i fricchettoni modaioli che ballano sulle note di Paradise mi hanno ridotta come Krysten Ritter). Ma queste, ovviamente, sono le critiche di chi nei confronti del cinema italiano arriccia sempre un po' il naso a prescindere e mi sento quindi di dire che Noi e la Giulia merita sicuramente la visione... anche se, e lo dico a beneficio di trentenni e quarantenni, nonostante il clima da commedia l'angoscia provocata dall'idea di aver gettato la propria esistenza è appena dietro l'angolo, pronta a colpire alla traditora con l'accento piemontese di Argentero. Beware!


Del regista e sceneggiatore Edoardo Leo, che interpreta anche Fausto, ho già parlato QUI. Claudio Amendola (Sergio), Stefano Fresi (Claudio) e Carlo Buccirosso (Vito) li trovate invece ai rispettivi link.

Luca Argentero interpreta Diego. Nato a Torino, ha partecipato a film come Lezioni di cioccolato, Solo un padre, Diverso da chi? e Poli opposti, inoltre ha partecipato a serie come Carabinieri. Anche produttore, ha 39 anni.


Anna Foglietta interpreta Elisa. Nata a Roma, ha partecipato a film come Nessuno mi può giudicare, Perfetti sconosciuti e a serie quali Distretto di polizia, Il commissario Rex e La mafia uccide solo d'estate. Ha 38 anni e film in uscita.


Se Noi e la Giulia vi fosse piaciuto recuperate assolutamente Smetto quando voglio. ENJOY!

martedì 21 febbraio 2017

20th Century Women (2016)

Arriva alla notte degli Oscar con una sola nomination (quella per la Miglior Sceneggiatura Originale) ma è bastato per spingermi a recuperare 20th Century Women, diretto e sceneggiato nel 2016 dal regista Mike Mills.


Trama: California, fine anni '70. Caroline, madre single ormai avanti con gli anni, cerca di capire come rapportarsi al figlio Jamie e, per "crescerlo" al meglio, chiede aiuto alle giovani Julie e Abbie.


20th Century Women è l'omaggio di un uomo alle donne che l'hanno cresciuto, il tentativo di capire il grande mistero del sesso femminile nel ventesimo secolo. Un mistero impossibile da risolvere, nonostante convivenze sotto lo stesso tetto e manuali di femminismo duro e puro, soprattutto in un periodo di cambiamenti, libertà ed incertezze come la fine degli anni '70 in cui soprattutto le donne cercavano ancora di capire quale fosse il loro posto nel mondo e come sfruttare al meglio tutte le possibilità che nonne e bisnonne non avevano avuto. Alla base di 20th Century Women c'è proprio questo desiderio "maschile" di comprendere l'altro sesso e anche la lotta quotidiana di un gruppo di donne toste alle prese con i loro problemi di identità, autoaffermazione e, ovviamente, amore, che sia quello per la famiglia, per il partner o per se stesse. Protagonista del film è l'adolescente Jamie (un alter ego dello stesso regista), che si ritrova in quel periodo della vita in cui ogni esperienza è motivo di frustrazione e gioia allo stesso tempo e che vorrebbe capire perché la madre, donna intelligente ed indipendente, viva una vita "ai margini" della scena sociale, amando essere circondata da amici ma, di fatto, non legandosi mai a nessuno e palesando sempre una strana tristezza; allo stesso tempo, Caroline vorrebbe capire un figlio che sente sempre più distante nonostante la leghi a lui un rapporto più d'amicizia che filiale ed è qui che entrano in scena Julie e Abbie, le altre due donne presenti nella vita di Jamie, alle quali Caroline chiede di "educare" questo figlio reso ormai estraneo dal gap generazionale che li separa. Julie è un cliché vivente, la tipica ragazzina problematica che passa da un letto all'altro per "protesta" nonché una "figa di legno" che non la darà mai al protagonista perché altrimenti "diventerebbe come tutti gli altri uomini", Abbie invece è una sorta di sorella maggiore, una ragazza indipendente e assai consapevole del suo essere donna, fiaccata ma non vinta da un cancro all'utero che potrebbe impedirle di avere figli in futuro. Queste tre donne a loro modo forti e peculiari saranno le guide che accompagneranno Jamie dall'adolescenza alla maturità, segnandone profondamente il carattere tra momenti allegri ed esaltanti e altri più malinconici e frustranti, imprevedibili come la vita stessa, e verranno a loro volta forgiate dall'esperienza maturando come persone.


La struttura di 20th Century Women è peculiare quanto i protagonisti che lo popolano. Nonostante il punto di vista attraverso cui viene raccontata la storia sia principalmente quello di Jamie e di Caroline, più volte le sequenze vengono introdotte da una narrazione in prima persona anche degli altri personaggi, che non si limitano a raccontare in tempo reale ma spesso anticipano anche ciò che accadrà loro in futuro. Queste introduzioni dei protagonisti si mescolano anche a citazioni di libri, poesie e saggi, portate all'attenzione dello spettatore da scritte in sovraimpressione che ne riportano l'autore e l'opera dalla quale sono tratte e l'intero film viene contestualizzato nel tempo da stralci di discorsi televisivi, film e brani musicali che influenzano direttamente la vicenda e anche il comportamento dei personaggi. Davanti ad una scrittura così complessa, allo stesso tempo drammatica e divertente, ricca di spunti per lo spettatore, non è difficile capire perché Mike Mills abbia ricevuto una nomination all'Oscar e la vivacità dei dialoghi contribuisce a rendere ancora più godibili le performance di un terzetto di attrici di tutto rispetto. Annette Bening, Elle Fanning e Greta Gerwig (adoratissima fin dai tempi di Damsels in Distress e soprattutto mai banale!) sono la linfa vitale del film, ognuna dotata di un suo personalissimo stile che riverbera automaticamente nell'interpretazione degli altri attori, magari meno incisivi (come Billy Cudrup, uomo incapace di prescindere dalle donne ma impossibilitato ad aver con loro un legame duraturo) ma altrettanto bravi e capaci di offrire ognuno una piccola, importante sfumatura all'interno dell'affresco generazionale creato da Mike Mills. Nel bailamme di filmoni in odore di Oscar 20th Century Women rischia di passare praticamente inosservato e, effettivamente, in Italia non esiste ancora una data d'uscita ma se riuscirete a recuperarlo in futuro dateci un'occhiata perché è davvero ben fatto e piacevole da guardare.


Di Annette Bening (Dorothea), Elle Fanning (Julie), Greta Gerwig (Abbie) e Billy Crudup (William) ho già parlato ai rispettivi link.

Mike Mills è il regista e sceneggiatore della pellicola. Americano, ha diretto film come Thumbsucker - Il succhiapollice e Beginners. Anche produttore e attore, ha 51 anni.


Lucas Jade Zumann, che interpreta Jamie, era il terribile Milo di Sinister 2. Detto questo, se 20th Century Women vi fosse piaciuto recuperate Sing Street e magari anche Il diritto di contare. ENJOY!


domenica 19 febbraio 2017

Manchester by the Sea (2016)

Per me era un po' l'incognita della notte degli Oscar ma questa settimana è uscito anche in Italia Manchester by the Sea, scritto e diretto nel 2016 dal regista Kenneth Lonergan e candidato a sei statuette (Miglior Film, Casey Affleck Migliore Attore Protagonista, Lucas Hedges Migliore Attore Non Protagonista, Michelle Williams Migliore Attrice Non Protagonista, Miglior Regia e Miglior Sceneggiatura Originale) quindi non ho potuto fare a meno di dargli un'occhiata.


Trama: Lee Chandler, tuttofare a Boston, è costretto a tornare nel suo paese natale dopo la morte del fratello per prendersi cura del nipote adolescente...


Ci sono due scene che mi hanno colpita tantissimo durante la visione di Manchester by the Sea. La prima è quella ripresa anche nei poster, in cui Lee e l'ex moglie Randi si confrontano tirando fuori tutto il dolore covato negli anni, una sequenza capace di spezzare il cuore ad un sasso per quanto è intensa, la seconda invece è quella in cui il giovane Patrick viene colpito da un attacco di panico e lo zio non può fare altro che guardarlo in silenzio, offrendogli semplicemente la sua presenza come mezzo di sostegno, sequenza probabilmente meno "topica" ma altrettanto importante. Manchester by the Sea andrebbe visto anche solo per queste due scene ma l'ultimo film di Kenneth Lonergan è bellissimo in generale, entra sotto pelle e tratta un argomento difficile come l'elaborazione del lutto in maniera non banale e, soprattutto, senza calcare la mano sul patetismo; anzi, oserei dire che Manchester by the Sea, a tratti, è persino molto divertente e ha la malinconica leggerezza (o la leggera malinconia?) tipica dei lavori meglio riusciti di Lasse Hallström. La pellicola si concentra su due personaggi in particolare, Lee e suo nipote Patrick. Fin dall'inizio vediamo che tra i due c'è un rapporto speciale, risalente all'infanzia di Patrick, cementato da gite in barca e battute di pesca, eppure ad un certo punto Lee ha abbandonato fratello, nipote, cittadina sul mare e si è ritirato a Boston, dove ha cominciato a condurre una vita squallida e solitaria. Un episodio devastante ha letteralmente svuotato Lee, privandolo di qualsiasi impulso vitale e della capacità (persino della volontà) di rapportarsi agli altri o di rifarsi una vita e quando, dopo la morte del fratello, scopre di aver ricevuto in eredità la custodia del nipote, è come se il mondo gli crollasse addosso una seconda volta. Patrick è invece l'opposto dello zio: nonostante un'infanzia non facile, il bimbetto di un tempo è diventato un bel ragazzo, sicuro di sé, pieno di amici, di interessi e con un futuro probabilmente assai brillante davanti, che cerca di superare la morte dell'amato padre conducendo una vita quanto più normale possibile. Come la maggior parte dei film "a tema", Manchester by the Sea è interamente giocato sullo scontro tra questi due caratteri diversi ma non si snoda nella maniera in cui si aspetterebbe lo spettatore; la catarsi, per Lee, è minima e il suo dolore talmente immenso che non basta la forte personalità di un nipote, per quanto amato, a sciogliere il blocco di ghiaccio che l'uomo porta nel petto, non quando sotto il ghiaccio non c'è più nulla.


La morale di Manchester by the Sea, se di morale si può parlare o se il mero raccontare una storia debba per forza implicare che ne esista una, è che ognuno deve essere lasciato libero di affrontare i propri mostri interiori come meglio crede ma non necessariamente lasciato solo; il rapporto che si viene a creare tra Lee e Patrick implica un "vivi e lascia vivere" che non sottintende disinteresse, bensì l'impegno ad osservare e capire l'altro, trovando il modo migliore affinché la sua esistenza possa riprendere a scorrere nella maniera più tranquilla possibile (a scorrere o a rimanere in stasi, come i gabbiani che si lasciano trasportare dalle correnti aeree in un'altra, splendida ed importante sequenza). In Manchester by the Sea tutti quelli che elargiscono consigli, praticano il cosiddetto "small talk", hanno un estremo bisogno di confessarsi e sgravare le coscienze o cercano in qualche modo di prendere le redini dell'esistenza di coloro che ritengono più "deboli" vengono giustamente rimbalzati al mittente, in modo anche poco urbano, perché il microcosmo di una persona è delicato ed impenetrabile quanto quello della cittadina da cui il film prende il nome, quella Manchester by the Sea arroccata sul mare dove persino la primavera e l'estate odorano d'inverno. Casey Affleck, che qui offre una prova a dir poco grandiosa, E' Manchester by the Sea, con la sua aria "stundaia" e gli aculei che paiono voler trafiggere tutti quelli che osano avvicinarsi per riportarlo a fiorire, un uomo spento che vorrebbe soltanto sprofondare nel mare del suo terrificante incubo personale e per il quale sarà SEMPRE inverno, anche quando qualcuno proverà ad accendere una timida fiammella di speranza o a lasciarsi alle spalle il passato, sperando di poter ricominciare da capo. Per tutti questi motivi il finale di Manchester by the Sea non è felice e neppure consolatorio, è giusto che non lo sia, ma in esso risiede tutta la bellezza di un film capace di sorprendere, emozionare e coinvolgere lo spettatore attraverso la semplice, quasi sonnolenta quotidianità di una storia incredibilmente umana e, purtroppo, plausibile. Complimenti quindi a Kenneth Lonergan il quale, dopo sei anni di assenza dalle scene cinematografiche e un periodo esistenziale decisamente nero, è riuscito a riprendersi e a confezionare un simile gioiellino.


Del regista e sceneggiatore Kenneth Lonergan ho già parlato QUI. Casey Affleck (Lee Chandler), Kyle Chandler (Joe Chandler), Michelle Williams (Randi Chandler), Josh Hamilton (l'avvocato Wes) e Matthew Broderick (Jeffrey) li trovate invece ai rispettivi link.

Lucas Hedges interpreta Patrick. Americano, ha partecipato a film come Moonrise Kingdom - Una fuga d'amore (che vedeva protagonista proprio Kara Hayward, qui nel ruolo di Silvie McCann, una delle fidanzate di Patrick), The Zero Theorem e Grand Budapest Hotel. Ha 20 anni e due film in uscita.


Stephen Henderson, che interpreta Mr. Emery, ha partecipato ad un altro dei film protagonisti dell'imminente Notte degli Oscar, ovvero Barriere. Manchester by the Sea avrebbe dovuto essere diretto, interpretato e prodotto da Matt Damon ma le vicissitudini produttive dietro al film e vari ritardi hanno portato l'attore a ritirarsi dal progetto e a rimanere solo in qualità di produttore. Per concludere, se Manchester by the Sea vi fosse piaciuto recuperate Margaret. ENJOY!

venerdì 17 febbraio 2017

Moonlight (2016)

E' uscito ieri in tutta Italia il film Moonlight, diretto e co-sceneggiato nel 2016 dal regista Barry Jenkins (partendo dalla pièce teatrale In Moonlight Black Boys Look Blue di Tarell Alvin McCraney) e candidato a otto premi Oscar (Miglior Film, Mahershala Ali Miglior Attore Non Protagonista, Naomie Harris Migliore Attrice Non Protagonista, Miglior Regia, Miglior Fotografia, Miglior Montaggio, Miglior Colonna Sonora Originale e Miglior Sceneggiatura Non Originale).


Trama: Chiron è un bambino timido, vessato dai bulli ed oppresso da una madre dipendente dalle droghe. Crescendo, si scoprirà gay e sarà costretto a nascondere questa parte di sé per sopravvivere nelle zone malfamate di Miami...



Avevo cominciato a guardare Moonlight con un senso di stanchezza soverchiante. Chi era andato all'anteprima non ne aveva detto benissimo, dopo una settimana di film "pesi" il mio cervello aveva un po' bisogno di svago e sinceramente l'idea di guardare l'ennesima pellicola avente per protagonisti personaggi musoni e problematici mi sorrideva davvero poco. Per tutti questi motivi, ho patito davvero tanto l'inizio di Moonlight, al punto che mi sono chiesta con un po' di nervosismo dove volesse andare a parare Barry Jenkins con la trita storia di un bimbo privo di figure genitoriali (la madre sarebbe meglio non ci fosse visto che le uniche interazioni che ha col figlio sono distorte dai fumi del crack) che, ironia della sorte, trova in uno spacciatore quel padre che gli è sempre mancato. Tra un silenzio cupo del piccolo Chiron, la parlata del ghetto messa in bocca a Mahersala Ali, che come attore non mi ha mai fatta impazzire, e in generale un senso di "già visto", ero quasi pronta ad infilare Moonlight nei diludendo dell'anno. Invece, a poco a poco, questo "blues cinematografico" ha penetrato la mia corazza indurita dalle troppe visioni pre-Oscar. Il blu è un colore caldo, si diceva in un film. In realtà, qui il blu è il colore della tristezza, delle lacrime silenziose che minacciano di riempire una persona fino a farla scomparire, qualcosa che si può vedere solo alla luce della luna, quando la notte accoglie quei segreti che non possono essere rivelati di giorno. Chiron è un individuo “blue”, nell’accezione più malinconica del termine, una creatura tormentata ed incapace di integrarsi nell’ambiente in cui è nato, reso diverso da “qualcosa” di cui né lui né gli altri sono pienamente consapevoli ma che comunque, innegabilmente, c’è. E’ dura la vita per le persone di colore, così viene detto ad un certo punto nel film, ma questa volta non si parla di schiavitù o diritti civili negati, bensì di una durezza insita in un certo tipo di ambiente sociale all'interno del quale gli uomini (i maschi) devono essere forti, sicuri di sé, eterosessuali e possibilmente con la fedina penale sporca; che queste scelte di vita derivino necessariamente da un ambiente sociale malsano poco importa, perché esse sono le uniche possibili, e non importa neppure quanto una persona sia buona "dentro", perché quella bontà d'animo non può venire mostrata in pubblico. In Moonlight queste problematiche vengono contestualizzate all'interno di un ambiente ben preciso ma la storia che racconta è universale e consente di provare un'empatia fortissima verso il protagonista, giovane ragazzo di colore costretto a rinnegare la propria identità, farla a pezzi e ricostruirla per evitare di soccombere e venire ferito non solo fisicamente ma anche nel cuore.


Diviso in tre capitoli, ognuno introdotto dal nome con cui viene definito il protagonista in una determinata fase della vita (Little da bambino, Chiron nell'adolescenza e Black nella maturità), Moonlight è un film fatto di pochi dialoghi di incredibile profondità e di moltissimi silenzi, intervallati qua e là dalle espressioni tipiche di una realtà malfamata e talmente realistica da sembrare quasi una caricatura di sé stessa. Tra una botta di "nigga", un bling e un gesto da rapper, il dramma umano di Chiron si consuma nelle notti solitarie, negli intensi primi piani che Barry Jenkins regala ai tre attori che interpretano il protagonista nei vari capitoli (tutti bravissimi, per inciso) e nei pochi confronti con le figure chiave della sua vita, ovvero lo spacciatore Juan, la sua fidanzata Teresa, l'amico Kevin e la madre tossicodipendente, tutte necessarie per capire il percorso compiuto da Chiron dall'infanzia ad una presupposta maturità. Temi come la tossicodipendenza, l'omosessualità e la libertà individuale vengono trattati con una delicatezza incredibile e, soprattutto, mai in modo banale; non mi ritengo un'esperta di cinema "gay" (Dio che brutta definizione...) ma raramente mi è capitato di vedere trasposto sullo schermo un sentimento complesso che non si esaurisse nella mera espressione fisica dell'amore, bensì si esprimesse nel tempo con un mix di amicizia virile, tenerezza, complicità, attrazione, rimpianto e tanta malinconia, il tutto nel lasso di un tempo brevissimo. Forse solo Carol era riuscito ad esprimere tutte queste cose ma il film di Haynes, per quanto bellissimo, era molto patinato, qui Barry Jenkins riesce invece ad esprimere le molteplici anime di un ambiente difficile come il "ghetto" di Miami, trasmettendo allo spettatore la natura triviale di quella società in modo crudo e raffinato allo stesso tempo. Mi spiace, vorrei esprimermi meglio ma non è facile, perché Moonlight ha un fascino particolare e impossibile per me da spiegare a parole, interamente legato alla regia, al montaggio e alla colonna sonora, un mix di melodie che incarnano perfettamente le contraddizioni della vita del protagonista. Alla fine di Moonlight mi sono rimaste due immagini splendide, quella di una bravissima Naomie Harris che sfoga tutto l'odio e la vergogna in un urlo silenzioso rivolto al figlio e quella finale, virata in blu, che mi ha ricordato tantissimo la sequenza conclusiva de I 400 colpi. Insomma, ora capisco perché Moonlight è stato così apprezzato oltreoceano e vi consiglio di guardarlo: magari non vi colpirà subito ma vi rimarrà nel tempo.


Di Mahershala Ali, che interpreta Juan, ho già parlato QUI mentre Naomie Harris, che interpreta Paula, la trovate QUA.

Barry Jenkins è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Americano, ha diretto film come Medicine for Melancholy. Anche produttore e attore, ha 38 anni e un film in uscita.


Janelle Monáe, che interpreta Teresa, ha partecipato anche a Il diritto di contare nel ruolo di Mary Jackson mentre André Holland, che interpreta Kevin da adulto, era Matt in American Horror Story Roanoke. Se Moonlight vi fosse piaciuto recuperate Angels in America e I 400 colpi. ENJOY!

giovedì 16 febbraio 2017

(Gio) WE, Bolla! del 16/2/2017

Buon giovedì a tutti! Questa è la penultima settimana di superlavoro prima dei fatidici Oscar quindi la distribuzione cala un paio di enormi assi assieme ad altre pellicole più o meno interessanti... ENJOY!

Resident Evil: The Final Chapter
Reazione a caldo: Ci credete? Io no.
Bolla, rifletti!: Approfittando del fatto che la Jovovich è sempre una gran gnocca, la saga nata nel lontano 2002 è ormai arrivata al sesto capitolo. Considerato che io sono rimasta a inizio millennio e poi ho abbandonato il progetto, do la mia benedizione ai fan ma stavolta salto!

Mamma o papà?
Reazione a caldo: ... i nonni?
Bolla, rifletti!: A dire il vero questo potrebbe essere l'unico film italiano recente (Smetto quando voglio: Masterclass a parte) che ho voglia di vedere considerato che ADORO Albanese e Cortellesi. Ci fosse un mercoledì a 2 euro anche stavolta...

Manchester by the Sea
Reazione a caldo: Dai che così completo la collezione!
Bolla, rifletti!: Tra tutti i film plurinominati questo è l'unico che ancora mi manca. Lì per lì mi ispirava poco ma col senno di poi potrebbe essere uno di quei bei drammoni familiar-personali da tenere nel cuore!

Per tenere Cinquanta sfumature di nero il multisala si è lasciato ovviamente scappare uno dei film più nominati della stagione che, perlomeno, è finito al cinema d'élite...

Moonlight
Reazione a caldo: Splendido!
Bolla, rifletti!: Ne parlerò domani ma nel frattempo vi consiglierei di non farvelo scappare, soprattutto se, come succederà a Savona, verrà programmato solo per pochissimi giorni.