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martedì 8 aprile 2025

The Last Showgirl (2024)

Purtroppo a Savona hanno pensato bene di non fare uscire The Shrouds, quindi ho dovuto consolarmi con The Last Showgirl, diretto nel 2024 dalla regista Gia Coppola.


Trama: Shelly è una ballerina ultracinquantenne, impegnata da trent'anni nello show Le Razzle Dazzle, a Las Vegas. Quando arriva la notizia della chiusura improvvisa dello spettacolo, Shelly si ritrova a dover mettere in discussione la sua vita...


Come mi succede ormai da qualche anno, sono andata a vedere The Last Showgirl senza avere visto neppure un trailer, né sapere di cosa parlasse il film. Mi sono mossa "a sentimento", spinta da un cast di attrici che adoro, e curiosa di vedere come se la sarebbe cavata Pamela Anderson in quello che credo sia il suo primo film serio. Sono uscita dalla sala commossa, e con una gran voglia di riguardare Un sogno chiamato Florida, film con cui The Last Showgirl condivide il concetto di "morte del sogno americano" all'interno di uno dei luoghi simbolo della cultura popolare mondiale. Sean Baker raccontava lo squallore che circonda Disneyworld, in coloratissimi motel chiamati Magic Castle o simili, Gia Coppola racconta lo squallore nascosto dalle luci perenni di Las Vegas e, attraverso esso, parla dell'illusione di sentirsi parte di una magia eterna, immuni al tempo che passa, mentre il mondo attorno a noi cambia e diventa sempre meno tenero coi ruderi di una gloria ormai superata. Shelly ha 56 anni, per trenta ha lavorato in uno show (che noi non vedremo mai, per inciso) chiamato Le Razzle Dazzle, in cui bellissime ballerine in sontuosi costumi mostrano il corpo nudo o semi-nudo, impegnate in eleganti coreografie. Una sorta di Moulin Rouge a Las Vegas, quel tipo di spettacolo che attira sempre meno spettatori e turisti, tanto che, un giorno, arriva il fatidico annuncio: Le Razzle Dazzle chiuderà per sempre, e tanti saluti alle ballerine. Il mondo di Shelly crolla in un istante, quel mondo che la donna aveva bisogno di credere immutabile, soprattutto dopo aver sacrificato ad esso l'affetto della figlia, un possibile futuro a New York, una vita diversa. The Last Showgirl ha tantissime similarità non solo con Un sogno chiamato Florida, ma anche con il recente The Substance. Anche qui si parla di donne che non riescono a stare al passo coi tempi, che desiderano conservare l'illusione di essere bellissime e desiderabili, che vengono surclassate da ragazze più giovani e belle. A differenza di Elizabeth, però, Shelly non cova nel cuore acredine e disperazione, bensì l'ingenua speranza di poter continuare a rimanere sotto i riflettori per sempre, così com'è; se Elizabeth vede i suoi difetti al punto da scegliere di cambiare il proprio corpo, Shelly li ignora testardamente, chinando il capo ad ogni spostamento verso il fondo della fila di ballerine, pur di continuare a brillare, di rimanere in uno show sul cui manifesto c'è una lei di trent'anni prima, splendida e sorridente. 


Shelly è un personaggio positivo, benché non perfetto, ed è per questo che The Last Showgirl non prende mai la china di un Viale del Tramonto. La sceneggiatura del film, infatti, è molto attenta ad affiancare alla protagonista delle figure che rappresentano diversi modi di affrontare la terribile realtà al centro della trama. C'è Annette, che pur essendosi riciclata come cameriera non è mai riuscita a "crescere" e vive di stravizi come una ventenne; c'è Eddie, che non ha mai avuto problemi di vecchiaia e bellezza, sia perché è un uomo, sia perché è sempre rimasto dietro le quinte, nel lavoro e nella vita (ed è talmente clueless che persino il suo tentativo abbozzato di mansplaining fa tenerezza); ci sono Jodie e Mary-Anne, che mai vorrebbero il male di Shelly, ma hanno tutta la vita davanti per risolvere i loro problemi ed imparare dagli errori della loro "mamma" adottiva; c'è Hannah, che è veramente figlia di Shelly e che ha cercato di crearsi un futuro disprezzando chi ha scelto un successo effimero invece di passare l'esistenza con lei. L'interazione di Shelly con ognuno di questi personaggi ci permette non solo di scoprirne il carattere a poco a poco, ma anche di osservarne l'evoluzione a seguito del trauma subito, con tutte le umanissime reazioni di disperazione, rabbia, speranza e malinconia. Mai avrei pensato di scriverlo sul blog, ma Pamela Anderson è favolosa. In un mondo di Courtney Cox e Nicole Kidman, lei, un tempo paladina del ritocco estetico, ha scelto di mostrarsi al naturale, col volto deturpato dalla vecchiaia. Tutta la dignità infusa in questa scelta, la Anderson la riversa nel personaggio di Shelly, una donna fragile ma ottimista, orgogliosa di ciò che è stata e di ciò che potrebbe ancora essere, se il mondo non fosse un luogo così spietato. Vedere la Anderson vagare per le strade deserte di una Las Vegas fuori fuoco, o mentre si carica ogni sera di lustrini e trucco pesantissimo stringe già il cuore, ma mai quanto il confronto con il caustico regista di Jason Schwartzman (una delle sequenze più belle del film) o mentre sorride sul commovente finale, accompagnata dalle note di Beautiful that Way di Miley Cyrus.


Come ho scritto sopra, gli altri attori sono il sostegno perfetto alla performance sensazionale di Pamela Anderson. Sono tutti davvero bravi, ma il mio cuore è andato ad un'altra Signora, che non si vergogna assolutamente di mostrare i segni del tempo e della natura matrigna, una Jamie Lee Curtis consapevole di ciò che è stata (una grandissima, tostissima gnocca) e di ciò che sarà ancora, grazie alla sua personalità carismatica. Non c'entra nulla con The Last Showgirl ma sto rileggendo One Piece e lei sarebbe stata una Kureha perfetta. Che gran perdita. Tornando al film, una particolarità che, a causa della miopia e di un po' di astigmatismo, mi ha reso un po' difficile seguire inizialmente le immagini, deriva dalla scelta di Gia Coppola di girarlo come fosse un documentario, ispirata più dalle fotografie che dai film. E' stato fatto dunque largo uso di camera a mano, per seguire da vicino le attrici nei loro movimenti, con una predominanza di primi e primissimi piani che, a causa di lenti particolari, rendono molto sfocato tutto ciò che circonda il soggetto principale, e ciò è stato causa di un po' di mal di mare, almeno finché non mi sono abituata. Inoltre, Gia Coppola e la direttrice della fotografia, Autumn Durald Arkapaw, hanno scelto di non girare in digitale, ma su pellicola. Il risultato è che le immagini di The Last Showgirl sono permeate di toni caldi e molto morbidi, e risultano un po' sgranate, come se i protagonisti vivessero in un mondo da sogno che lentamente si sta disfacendo, lasciando dietro di sé nugoli di lustrini scintillanti, il glitter leggero sulla pelle di Shelly e il blu più triste a cui possiate pensare. Ho scritto il solito sproloquio confuso, quindi tenete a mente solo questo: The Last Showgirl è un film splendido e dovete assolutamente vederlo. Ne uscirete un bel po' depressi, ma è un film che parla anche di speranza, grazie ad alcuni dialoghi molto interessanti, e sta allo spettatore coglierla e farne importantissimo tesoro.


Di Kiernan Shipka (Jodie), Dave Bautista (Eddie), Jamie Lee Curtis (Annette), Billie Lourd (Hannah) e Jason Schwartzman (il regista) ho già parlato ai rispettivi link.

Gia Coppola (vero nome Giancarla Coppola) è la regista del film. Nipote di Francis Ford Coppola, ha diretto film come Palo Alto e Mainstream. Anche attrice, sceneggiatrice e produttrice, ha 38 anni. 


Pamela Anderson
interpreta Shelly. Canadese, famosa per il ruolo di C.J. Parker in Baywatch, ha partecipato a film come Barb Wire, Scooby-Doo, Scary Movie 3, Superhero - Il più dotato fra i supereroi, Baywatch e ad altre serie quali La Tata, Quell'uragano di papà e V.I.P. Vallery Irons Protection; come doppiatrice ha lavorato in Futurama e Stripperella. Anche produttrice e regista, ha 58 anni e un film in uscita, il remake de La pallottola spuntata


Brenda Song
, che interpreta Mary-Anne, era la London Tipton delle serie Zack e Cody al Grand Hotel e Zack e Cody sul ponte di comando. Se The Last Showgirl vi fosse piaciuto, recuperate Un sogno chiamato Florida. ENJOY!

venerdì 4 aprile 2025

2025 Horror Challenge: Bit (2019)

La challenge horror  oggi chiedeva di guardare un Bubblegum Horror, ovvero un sottogenere di horror che si concentra più su una generale idea di bellezza, sia a livello di immagini che di palette visuale, e conferisce alla trama una nota di dolcezza tipicamente "girlie", una vivacità e spensieratezza che evocano, appunto, la frizzantezza delle gomme da masticare. L'utente di Letterboxd che ha creato la challenge ha lasciato un elenco di film tra i quali scegliere o prendere spunto, e io mi sono buttata su Bit, diretto e sceneggiato nel 2019 dal regista Brad Michael Elmore.


Trama: Laurel, ragazza transessuale, si trasferisce a Los Angeles dopo aver finito le superiori. Lì, incontra una cricca di vampire il cui obiettivo è liberare la società dagli uomini malvagi, che la trasformano in una di loro...


Se volete leggere una bella recensione di Bit dovete andare QUI, da Lucia, cosa che sicuramente avevo fatto io prima di inserire il film all'interno della mia Wishlist di Letterboxd. Lo dico perché, onestamente, mi ritengo troppo superficiale per riuscire a superare lo shock del momento scult che ha ridefinito completamente la visione di Bit, portandomi a trovargli tutti i difetti del mondo. A un certo punto, la capa-vampira Duke racconta a Laurel la sua triste esperienza con il Maestro vampiro Vlad, e io non ero pronta a trovarmi davanti un tamarro inguardabile con la blue steel e il fisico bolso di Marinelli in M - L'uomo del secolo, che compare muovendosi sinuoso sulle note di Rasputin dei Boney M. Ringrazio le divinità oscure di non aver avuto una tisana in mano o, probabilmente, sarei morta soffocata o con le narici sbollentate, perché ho soffiato così forte dal naso da aver spostato la ciccionissima gatta Macchia. Ma come cazzo si fa? Ma altro che "generale idea di bellezza, sia a livello di immagini che di palette"! Comunque, fosse solo il Maestro borzo, il problema di Bit. Il film di Brad Michael Elmore nasce con un'ottima, originalissima idea di fondo: quella di dare spazio ad una minoranza ben poco rappresentata al cinema, ovvero le persone trans. Laurel è una ragazza transessuale, interpretata da un'attrice transessuale e, come giustamente fa notare Lucia, è ben raro che la transessualità abbia connotazioni positive, anche e soprattutto nei film di genere. In Bit, invece, Laurel è una ragazza come tutte le altre, né buona né cattiva, una persona che cerca di rifarsi una vita dopo un percorso di transizione che, da alcuni dialoghi, si evince non facile. Nel verbo che ho usato, "evincere", risiede proprio uno dei moltissimi problemi di Bit, ovvero la reticenza con cui viene affrontata la presenza di una protagonista transessuale. Onestamente, non conoscevo l'attrice Nicole Maines e, dalle prime scene di Bit, non avrei mai detto si trattasse di una persona transessuale e ho paura che, se non avessi letto il post di Lucia, non avrei capito quale fosse il "trauma" di Laurel, perché non viene mai detto chiaramente, né dalla protagonista né da altri, che il personaggio è trans. Sì, quando Duke le fa tutta la tirata sugli uomini che non possono, categoricamente, venire trasformati in vampiri perché storicamente stronzi ed assetati di potere, Laurel le chiede "What about me?" e Duke le risponde "Never crossed my mind", o una cosa del genere, ma è tutto talmente lasciato in superficie che mi chiedo se lo spettatore medio, o mediamente ignorante come la sottoscritta, possa cogliere l'importanza di un simile dialogo o anche solo il significato letterale. 


In generale, comunque, a me è sembrato che l'intero discorso di "girl power" sia stato affrontato con molta superficialità. Lungi da me criticare un gruppo di vampire che fanno sommaria giustizia di stupratori, misogini, incel e gaslighters provetti (allo stesso tempo condannando a morte alcune donne "perché sì", destino che, per inciso, sarebbe toccato alla protagonista e che colpisce una povera crista rea di essere ubriaca e di passare per caso nei pressi delle vampire), ma la visione manichea secondo la quale tutti gli uomini, se dotati di un briciolo di potere, diventano delle merde, mentre le donne sono tutte eque, belle e buone non si può sentire. Anche perché, con un colpo cerchiobottista da primato, il finale sconfessa questa rivoluzionaria idea, offrendo allo spettatore la moraletta "non tutti gli uomini sono così cattivi, basta dare loro l'occasione. E comunque, anche le donne un po' stronze lo sono, eh". Non che pretendessi un ragionamento etico-sociale di alto livello da un film simile, però insomma. E non pretendevo neppure interpretazioni da Oscar o chissà quali virtuosismi di regia, ma più in basso di così c'è solo da scavare, per citare il bardo. La gang di vampire, protagonista compresa, sono quanto di più sciapo si possa immaginare, lo stereotipo del succhiasangue "stiloso" da teen romance (sui titoli di coda la protagonista ironizza su Twilight e la stessa scena iniziale percula tutte le storie d'amore tra umani e vampiri, ci vuole una bella faccia tosta!), e gli interpreti vanno dal livello "esordiente che perlomeno ci prova", come Nicole Maines, a "ma non ti vergogni??". In particolare, nella seconda categoria rientra non solo il bove vestito da vampiro di cui ho già ampiamente parlato sopra, ma persino James Paxton che, sul finale, omaggia il sexissimo, carismatico Severen interpretato da papà Bill, indossando occhiali da sole e t-shirt macchiata di sangue senza esserne degno. Del Brad Michael Elmore regista non mi sento di dire più di tanto; probabilmente, il film è costato quanto una dozzina di uova comprate attualmente in un supermercato americano, e il soldi saranno andati nei pochi, mediocri effetti speciali, condannando il resto ad atmosfere televisive debitrici degli anni '90 brutti. Altro che Bubblegum Horror, qui parliamo di occasione sprecata, ed è un vero peccato, viste le premesse.     


Di M.C Gainey, che interpreta Enoch, ho già parlato QUI

Brad Michael Elmore è il regista e sceneggiatore della pellicola. Anche produttore, ha diretto altri due film, The Wolfman's Hammer Boogeyman Pop. Ha un film in uscita.



mercoledì 2 aprile 2025

Mr. Morfina (2025)

Attirata prima da un martellante battage pubblicitario su Instagram e poi da un paio di trailer carinissimi, sabato sono andata a vedere Mr. Morfina (Novocaine), diretto dai registi Dan Berk e Robert Olsen.


Trama: Nathan Caine è un giovane vicedirettore di banca che soffre di insensibilità congenita al dolore con anidrosi. Innamorato di una sua dipendente, Nate sfrutta la propria condizione quando la ragazza viene presa in ostaggio dopo una rapina in banca...


Mr. Morfina. Io non mi capacito. Come se morfina e novocaina fossero la stessa cosa. Tra l'altro, gli effetti della novocaina sono più vicini a ciò che prova il protagonista, in quanto anestetizza zone del corpo, mentre la morfina è un antidolorifico a lungo termine; per intenderci, la novocaina è ciò che il dentista usa quando deve togliere delle carie, e il risultato è quello di lasciare il paziente completamente insensibile a tutto, tatto, caldo e freddo. Novocaine riprende anche il cognome di Nathan, Caine per l'appunto, e mi chiedo quanto sarebbe stato difficile, in fase di adattamento, mantenere l'assonanza Caine/"caina", invece di ricorrere a un banale, sciocchissimo Mr. Morfina. Peccato per questi dettagli fastidiosi che, come al solito, rovinano la fruizione al pubblico italiano privo di sale che prevedono spettacoli in v.o., perché Mr. Morfina è un film simpatico e divertente, senza troppe pretese. L'assunto di partenza, come avete letto nella trama, è perfetto per un film action con annesso messaggio positivo. Nathan non riesce a sentire il dolore, e neppure il caldo o il freddo, e questo lo ha condannato da sempre ad una vita priva di rischi, solitaria, talmente controllata che il protagonista non mangia neppure cibi solidi, per paura di mordersi la lingua senza saperlo (assieme al titolo italiano, l'unica vera cretinata del film). Spinto dalla storia d'amore decennale di un cliente, Nathan decide di buttarsi e uscire con Sherry, dipendente della sua banca amichevole e spigliata; dopo una serata passata assieme e una notte di sesso, la ragazza viene però presa in ostaggio da rapinatori armati, che scappano dalla banca con lei e col malloppo. Nathan si lancia quindi all'inseguimento dei criminali, dapprima incerto e titubante, poi sempre più consapevole del tremendo vantaggio derivante dall'incapacità di provare dolore, che gli consente di incassare calci e pugni senza battere ciglio, ignorare gli effetti di incidenti ben più gravi, persino trasformare parti del corpo in un'arma impropria. Certo, Mr. Morfina richiede una dose abbondante di sospensione dell'incredulità, perché va bene non sentire dolore, ma i colpi alla testa che vengono sistematicamente inferti al protagonista metterebbero al tappeto anche un pugile provetto, figuriamoci un impiegato di banca mai uscito di casa, ma per chi è abituato a vedere John Wick cadere da un palazzo e rialzarsi in piedi, non dovrebbe essere un problema.


La natura "sfigata" (ma nemmeno poi tanto) del protagonista si ripercuote sulle coreografie di lotta che lo vedono impegnato, che i coordinatori hanno cercato di mantenere più naturali possibili, guidate da cazzimma e disperazione più che da "tecnica", o al limite dalle fantasie malate di un videogiocatore nerd provetto, quale in effetti è Nate. Questo mix di "normalità" e condizioni fisiche estreme, unite alla natura spregiudicata e violenta dei rapinatori, fanno sì che Mr. Morfina metta il suo protagonista nelle situazioni più dolorose e allucinanti possibile, con conseguente uso di trucco e make up prostetico a tratti disgustoso; col Bolluomo un paio di volte ci siamo girati dall'altra parte per non dover testimoniare all'ennesima tortura o colpo particolarmente doloroso inferto al povero Nathan, anche perché c'è ben poco che gli risparmiano Dan Berk e Robert Olsen, nei limiti ovviamente di un film rated R di genere non horror. Jack Quaid, ormai sulla cresta dell'onda quando si parla di ruoli da bravo ragazzo con quel guizzo oscuro che lo ficca nelle situazioni più improbabili, si carica in spalla il film senza troppi problemi, passando con disinvoltura da disadattato a fidanzatino della porta accanto dalla faccetta pulita, da goffo giustiziere per caso a supereroe ultraviolento, conservando sempre dei tempi comici invidiabili. Mr. Morfina è praticamente uno one man show, anche se i personaggi secondari hanno tutti delle caratteristiche particolari che, sulla carta, dovrebbero renderli tridimensionali o, perlomeno, interessanti. In realtà, Jacob Batalon fa sempre l'amicone un po' scemo che salva la situazione, Amber Midthunder è carina ma convince di più nei ruoli spaccaculi e qui risulta un po' sottoutilizzata, e Ray Nicholson, quando non usa il sorriso folle ereditato dal padre, è talmente anonimo che mi sono accorta della sua identità solo sui titoli di coda. Tutto sommato, dunque, Mr. Morfina è un film molto gradevole e divertente, ma lo ricorderò giusto in virtù della malattia del protagonista, indubbiamente abbastanza originale da sedimentarsi nella testa.


Dei registi Dan Berk e Robert Olsen ho già parlato QUI. Jack Quaid (Nate), Amber Midthunder (Sherry), Jacob Batalon (Roscoe) e Betty Gabriel (Mincy) li trovate invece ai rispettivi link.

Ray Nicholson interpreta Simon. Americano, figlio di Jack Nicholson, ha partecipato a film come Una donna promettente, Licorice Pizza e Smile 2. Anche produttore, ha 33 anni. 


Se Mr. Morfina vi fosse piaciuto recuperate Guns Akimbo. ENJOY!


martedì 1 aprile 2025

The Monkey (2025)

Pur avendo una scimmia sulle spalle epica (d'altronde...), ho purtroppo dovuto aspettare fino a mercoledì scorso per vedere The Monkey, diretto e sceneggiato dal regista Osgood Perkins partendo dal racconto La scimmia di Stephen King.


Trama: Hal e il gemello Bill trovano, tra i ricordi del padre, una scimmia a molla. Il giocattolo, purtroppo, ha una caratteristica terrificante: dopo aver girato la chiavetta che lo mette in moto, qualcuno è condannato a far una morte orribile...


Ho sempre pensato che il modo migliore di approcciare le opere di Stephen King, se non si è Frank Darabont , Rob Reiner o Mike Flanagan, fosse di battersene le palle del rispetto verso il Venerabile e prendersi tutte le libertà del mondo. Ciò vale, ovviamente, solo quando i soggetti finiscono nelle mani di registi e sceneggiatori con una fortissima personalità, altrimenti i risultati sono oscenità come L'acchiappasogni. Stanley Kubrick, con Shining, ha fatto un capolavoro, Osgood Perkins ha tirato fuori la supercazzola più divertente, folle e centrata dell'anno, partendo da un racconto breve di Stephen King che, come tutte le sue opere più riuscite, trasforma un oggetto normalissimo, quasi ridicolo, in un orrore da gelare il sangue. La scimmia è uno dei racconti Kinghiani che preferisco, nonché uno di quelli che mi fa più paura ancora oggi, ma sono io stessa consapevole che l'idea di una scimmia che batte i cimbali e causa la morte delle persone rischia di trasformarsi in una cretinata noiosissima, trasposta in film. Praticamente ne verrebbe fuori la versione scema di un Annabelle qualsiasi, con la scimmietta che, di tanto in tanto, ciccia fuori dal buio, a spaccarti le coronarie, uno jump scare dopo l'altro. Perkins, per fortuna, non è così banale e ha cestinato il serissimo soggetto proposto dalla casa produttrice, ben deciso a farne una commedia horror proprio per esorcizzare la consapevolezza che la morte è una delle cose più naturali, casuali e, sì, folli che esistano. Il regista, d'altronde, lo sa bene. Il padre, Anthony Perkins, è morto a 60 anni di polmonite causata dal virus dell'AIDS, la madre è morta l'11 settembre, era una dei passeggeri del volo 11 dell'American Airlines. Direi che Perkins la sua dose di morti "strane" le ha avute, e dopo anni passati a domandarsi il perché di una simile sfortuna, ha scelto di adottare una morale ben più filosofica, la stessa di cui si fa portavoce la serafica mamma Lois del film: quest'ultima balla coi figli dopo i funerali, Perkins ne ride prima, durante e dopo. Se pensate che le arzigogolate trame mortuarie di Final Destination fossero trattate con piglio ironico, dopo aver guardato The Monkey le paragonerete a Bergman e lo stesso racconto breve di King vi sembrerà Leopardiano.


The Monkey
riprende solo l'ossatura del racconto omonimo e l'idea di fondo, assieme ai nomi di alcuni protagonisti (mentre quelli di altri personaggi sono mutuati da alcune opere del Re, a mo' di omaggio). Il piccolo Hal trova una scimmia giocattolo tra i souvenir lasciati dal padre, un pilota d'aerei "buono a nulla" che da tempo ha abbandonato la famiglia e, come nel racconto, la scimmia è dotata del tremendo potere di causare una morte misteriosa ogni volta che la sua chiave viene girata, attivando il meccanismo musicale (un tamburo nel film, al posto dei cimbali, per motivi di copyright). Partendo da questo canovaccio di base, Perkins costruisce una trama fatta di crudeltà immotivate e traumi insanabili, popolata di personaggi che sarebbero stati perfetti all'interno di un episodio di Twin Peaks e che incarnano, anche quelli che compaiono solo pochissimi secondi, l'insensatezza del mondo in cui viviamo. A tutti quelli che non riconoscono Osgood Perkins all'interno di The Monkey, ricordo che, pur essendo molto meno estremi e caricaturali, già i personaggi di Longlegs mostravano caratteristiche "Lynchiane", e l'umorismo nero è sempre stata una cifra stilistica dell'Autore. Qui, Perkins si è ritrovato a calcare molto la mano, ma la trovo una scelta sensata. L'episodio de I Griffin in cui Stephen King propone all'editore una lampada assassina sottolinea ironicamente la passione del Re per i più sciocchi veicoli di morte, espressione della trivialità dell'esistenza e di quell'"oh cazzo!" che ci sorprende quando stiamo per arrivare al capolinea. Se esiste un Dio, e se permette che persone a caso muoiano nei modi più svilenti e stronzi, ha senso anche che una persona traumatizzata dal lutto possa elevare una scimmia giocattolo a divinità del caos, che il nostro destino sia manipolato da uno dei Cavalieri dell'Apocalisse, che un prete non abbia assolutamente idea di cosa dire di fronte all'assurdità di una vita stroncata, comportandosi da scemo. D'altronde, siamo circondati da scemi. A casa, al lavoro, per strada, nei negozi, online, in politica, nei centri di potere. La stupidità, in primis la nostra, è spesso causa di morti insensate, quindi tanto vale riderne, non abbiamo comunque la possibilità di farci nulla.


La volontà di calcare la mano sul grottesco si traduce in morti tremendamente splatter ed effetti speciali volutamente caricaturali, ma non per questo meno validi. Perkins avrà anche realizzato The Monkey con piglio ironico, sicuramente divertendosi come un matto, ma ciò non significa che il film non sia curato dall'inizio alla fine in ogni sua inquadratura, a partire dai titoli di testa vintage; le geometrie e le simmetrie tanto care al regista non mancano, un paio di sequenze oniriche sono assai notevoli e l'uso dei colori e delle luci meriterebbe una seconda e persino una terza visione. Considerato che anche la colonna sonora è molto ironica e particolare (la cosa che vorrei davvero sapere da Perkins è perché abbia usato QUESTA spettacolare, vintaggissima canzone in apertura, colonna sonora di un film indiano chiamato The Great Gambler che, a quanto posso capire, non ha davvero nulla a che fare con l'argomento trattato in The Monkey. So già che amerei la risposta!), l'unico aspetto del film che fa davvero paura, almeno a me, è il sembiante orribile della scimmia, dotata di due espressioni entrambe terrificanti ed occhietti che sembrano volerti scrutare nell'animo prima di ucciderti senza pietà. Invece, il solo difetto che imputo a The Monkey è lo spreco di Elijah Wood, il cui personaggio sopra le righe promette faville ma risulta solo una parentesi weird tra una morte e l'altra. Certo, Ted è l'ennesimo bullo pieno di sé che il povero Hal incrocia sul suo cammino, e senza la sua "minaccia paterna" il rapporto tra il protagonista e il figlio non potrebbe evolversi, ma mentirei se dicessi che non mi sarei aspettata qualcosa in più. Pazienza, è davvero un dettaglio trascurabile all'interno di un film che mi ha divertita oltre misura, e fatta uscire dal cinema piena di gioia nonostante l'argomento trattato. Per me, che sono terrorizzata dalla morte, soprattutto dei miei cari, e che talvolta mi trovo vittima di attacchi di panico al pensiero di non esistere più da un momento all'altro, poterne ridere ed esorcizzarla per un'oretta e mezza è un enorme regalo. Speriamo che The Monkey mi trasmetta a lungo un po' della sua leggerezza fatalista!


Del regista e sceneggiatore Osgood Perkins, che interpreta anche zio Chip, ho già parlato QUI mentre Elijah Wood, che interpreta Ted, lo trovate QUA.

Theo James interpreta Hal e Bill. Inglese, ha partecipato a film come la trilogia di Divergent e serie quali Downton Abbey; come doppiatore, ha lavorato in X-Men '97. Anche produttore, ha 41 anni e un film in uscita. 


Tatiana Maslany
, che interpreta Lois è la She-Hulk titolare del MCU. Se The Monkey vi fosse piaciuto recuperate Tucker and Dale vs Evil e la saga di Final Destination. ENJOY!