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martedì 1 aprile 2025

The Monkey (2025)

Pur avendo una scimmia sulle spalle epica (d'altronde...), ho purtroppo dovuto aspettare fino a mercoledì scorso per vedere The Monkey, diretto e sceneggiato dal regista Osgood Perkins partendo dal racconto La scimmia di Stephen King.


Trama: Hal e il gemello Bill trovano, tra i ricordi del padre, una scimmia a molla. Il giocattolo, purtroppo, ha una caratteristica terrificante: dopo aver girato la chiavetta che lo mette in moto, qualcuno è condannato a far una morte orribile...


Ho sempre pensato che il modo migliore di approcciare le opere di Stephen King, se non si è Frank Darabont , Rob Reiner o Mike Flanagan, fosse di battersene le palle del rispetto verso il Venerabile e prendersi tutte le libertà del mondo. Ciò vale, ovviamente, solo quando i soggetti finiscono nelle mani di registi e sceneggiatori con una fortissima personalità, altrimenti i risultati sono oscenità come L'acchiappasogni. Stanley Kubrick, con Shining, ha fatto un capolavoro, Osgood Perkins ha tirato fuori la supercazzola più divertente, folle e centrata dell'anno, partendo da un racconto breve di Stephen King che, come tutte le sue opere più riuscite, trasforma un oggetto normalissimo, quasi ridicolo, in un orrore da gelare il sangue. La scimmia è uno dei racconti Kinghiani che preferisco, nonché uno di quelli che mi fa più paura ancora oggi, ma sono io stessa consapevole che l'idea di una scimmia che batte i cimbali e causa la morte delle persone rischia di trasformarsi in una cretinata noiosissima, trasposta in film. Praticamente ne verrebbe fuori la versione scema di un Annabelle qualsiasi, con la scimmietta che, di tanto in tanto, ciccia fuori dal buio, a spaccarti le coronarie, uno jump scare dopo l'altro. Perkins, per fortuna, non è così banale e ha cestinato il serissimo soggetto proposto dalla casa produttrice, ben deciso a farne una commedia horror proprio per esorcizzare la consapevolezza che la morte è una delle cose più naturali, casuali e, sì, folli che esistano. Il regista, d'altronde, lo sa bene. Il padre, Anthony Perkins, è morto a 60 anni di polmonite causata dal virus dell'AIDS, la madre è morta l'11 settembre, era una dei passeggeri del volo 11 dell'American Airlines. Direi che Perkins la sua dose di morti "strane" le ha avute, e dopo anni passati a domandarsi il perché di una simile sfortuna, ha scelto di adottare una morale ben più filosofica, la stessa di cui si fa portavoce la serafica mamma Lois del film: quest'ultima balla coi figli dopo i funerali, Perkins ne ride prima, durante e dopo. Se pensate che le arzigogolate trame mortuarie di Final Destination fossero trattate con piglio ironico, dopo aver guardato The Monkey le paragonerete a Bergman e lo stesso racconto breve di King vi sembrerà Leopardiano.


The Monkey
riprende solo l'ossatura del racconto omonimo e l'idea di fondo, assieme ai nomi di alcuni protagonisti (mentre quelli di altri personaggi sono mutuati da alcune opere del Re, a mo' di omaggio). Il piccolo Hal trova una scimmia giocattolo tra i souvenir lasciati dal padre, un pilota d'aerei "buono a nulla" che da tempo ha abbandonato la famiglia e, come nel racconto, la scimmia è dotata del tremendo potere di causare una morte misteriosa ogni volta che la sua chiave viene girata, attivando il meccanismo musicale (un tamburo nel film, al posto dei cimbali, per motivi di copyright). Partendo da questo canovaccio di base, Perkins costruisce una trama fatta di crudeltà immotivate e traumi insanabili, popolata di personaggi che sarebbero stati perfetti all'interno di un episodio di Twin Peaks e che incarnano, anche quelli che compaiono solo pochissimi secondi, l'insensatezza del mondo in cui viviamo. A tutti quelli che non riconoscono Osgood Perkins all'interno di The Monkey, ricordo che, pur essendo molto meno estremi e caricaturali, già i personaggi di Longlegs mostravano caratteristiche "Lynchiane", e l'umorismo nero è sempre stata una cifra stilistica dell'Autore. Qui, Perkins si è ritrovato a calcare molto la mano, ma la trovo una scelta sensata. L'episodio de I Griffin in cui Stephen King propone all'editore una lampada assassina sottolinea ironicamente la passione del Re per i più sciocchi veicoli di morte, espressione della trivialità dell'esistenza e di quell'"oh cazzo!" che ci sorprende quando stiamo per arrivare al capolinea. Se esiste un Dio, e se permette che persone a caso muoiano nei modi più svilenti e stronzi, ha senso anche che una persona traumatizzata dal lutto possa elevare una scimmia giocattolo a divinità del caos, che il nostro destino sia manipolato da uno dei Cavalieri dell'Apocalisse, che un prete non abbia assolutamente idea di cosa dire di fronte all'assurdità di una vita stroncata, comportandosi da scemo. D'altronde, siamo circondati da scemi. A casa, al lavoro, per strada, nei negozi, online, in politica, nei centri di potere. La stupidità, in primis la nostra, è spesso causa di morti insensate, quindi tanto vale riderne, non abbiamo comunque la possibilità di farci nulla.


La volontà di calcare la mano sul grottesco si traduce in morti tremendamente splatter ed effetti speciali volutamente caricaturali, ma non per questo meno validi. Perkins avrà anche realizzato The Monkey con piglio ironico, sicuramente divertendosi come un matto, ma ciò non significa che il film non sia curato dall'inizio alla fine in ogni sua inquadratura, a partire dai titoli di testa vintage; le geometrie e le simmetrie tanto care al regista non mancano, un paio di sequenze oniriche sono assai notevoli e l'uso dei colori e delle luci meriterebbe una seconda e persino una terza visione. Considerato che anche la colonna sonora è molto ironica e particolare (la cosa che vorrei davvero sapere da Perkins è perché abbia usato QUESTA spettacolare, vintaggissima canzone in apertura, colonna sonora di un film indiano chiamato The Great Gambler che, a quanto posso capire, non ha davvero nulla a che fare con l'argomento trattato in The Monkey. So già che amerei la risposta!), l'unico aspetto del film che fa davvero paura, almeno a me, è il sembiante orribile della scimmia, dotata di due espressioni entrambe terrificanti ed occhietti che sembrano volerti scrutare nell'animo prima di ucciderti senza pietà. Invece, il solo difetto che imputo a The Monkey è lo spreco di Elijah Wood, il cui personaggio sopra le righe promette faville ma risulta solo una parentesi weird tra una morte e l'altra. Certo, Ted è l'ennesimo bullo pieno di sé che il povero Hal incrocia sul suo cammino, e senza la sua "minaccia paterna" il rapporto tra il protagonista e il figlio non potrebbe evolversi, ma mentirei se dicessi che non mi sarei aspettata qualcosa in più. Pazienza, è davvero un dettaglio trascurabile all'interno di un film che mi ha divertita oltre misura, e fatta uscire dal cinema piena di gioia nonostante l'argomento trattato. Per me, che sono terrorizzata dalla morte, soprattutto dei miei cari, e che talvolta mi trovo vittima di attacchi di panico al pensiero di non esistere più da un momento all'altro, poterne ridere ed esorcizzarla per un'oretta e mezza è un enorme regalo. Speriamo che The Monkey mi trasmetta a lungo un po' della sua leggerezza fatalista!


Del regista e sceneggiatore Osgood Perkins, che interpreta anche zio Chip, ho già parlato QUI mentre Elijah Wood, che interpreta Ted, lo trovate QUA.

Theo James interpreta Hal e Bill. Inglese, ha partecipato a film come la trilogia di Divergent e serie quali Downton Abbey; come doppiatore, ha lavorato in X-Men '97. Anche produttore, ha 41 anni e un film in uscita. 


Tatiana Maslany
, che interpreta Lois è la She-Hulk titolare del MCU. Se The Monkey vi fosse piaciuto recuperate Tucker and Dale vs Evil e la saga di Final Destination. ENJOY!

martedì 27 agosto 2024

Longlegs (2024)

Perdonatemi, ma non ce l'ho fatta. E' assolutamente VERGOGNOSO che, in Italia, uno dei film più importanti dell'anno esca con quattro mesi di ritardo rispetto al resto del mondo. Quindi, nell'attesa di riguardarlo come si deve in sala, mi sono permessa di recuperare altrove Longlegs, diretto e sceneggiato dal regista Osgood Perkins, e di parlarne SENZA SPOILER.


Trama: Lee, agente dell'FBI, viene coinvolta nel caso di Longlegs, misterioso assassino che da 30 anni stermina intere famiglie senza lasciare traccia salvo alcune lettere indecifrabili...


Cominciamo a togliere di mezzo la fastidiosa domanda generata dall'intenso battage pubblicitario americano: Longlegs è il film più spaventoso degli ultimi tempi? La risposta sincera è no, ma c'è da elaborare. L'ultimo lavoro di Osgood Perkins, per buona parte della sua durata, non lega la sua narrazione al genere horror, ma svia l'attenzione dello spettatore mirando, apparentemente, al modello di thriller pesantemente contaminati dal nostro genere preferito, come Se7en e Il silenzio degli innocenti. Questi due film balzano subito alla mente guardando Longlegs, non solo perché la protagonista è poco più che una recluta con alcune caratteristiche che la rendono "particolare", ma per una generale aura di plumbea pesantezza e pericolo imminente che sembrano volerla schiacciare fin dalle primissime scene. A dire il vero, a me il film ha però ricordato, piuttosto, alcuni degli episodi di X-Files più riusciti (non a caso, siamo negli anni '90 del sorridente Clinton), e, soprattutto, le prime due stagioni di Twin Peaks. L'elemento lynchiano di Longlegs, se mi passate il termine, risiede nella weirdness (talvolta, ingannevolmente esilarante) di tutti i personaggi presenti nel film, ognuno dei quali, persino quelli che dovrebbero garantire legge, ordine o tranquillità famigliare, hanno una caratteristica che stona all'interno di un contesto verosimile, e offrono di conseguenza il fianco alla possibilità di qualcosa che esista qualcosa di "sbagliato", di perturbante. Longlegs svariona pesantemente e gradevolmente sul finale, ma fino a quel momento cammina su un filo assai equilibrato di incertezza, nel centro perfetto del dualismo di una trama che segue un'investigazione tutto sommato lineare, e una regia che fa di tutto per confermare che di normale, in Longlegs, non c'è proprio nulla. Più volte, nel film, viene consigliato di osservare a lungo, di guardare, ma è difficile farlo quando il nostro punto di vista è condizionato da una regia fatta di grandangoli e prospettive sghembe che schiacciano le immagini rendendole claustrofobiche, spesso centrate su una Maika Monroe ripresa a distanza, come se qualcosa la osservasse, non visto. E quel qualcosa c'è, eccome. Perkins lo schiaffa a tradimento negli angoli nascosti, come un elemento dissonante, un male ineluttabile che agisce di nascosto ma neppure troppo, perché masticare e sputare gli inutili esseri umani è fin troppo facile. Per questo è importantissimo, in Longlegs, sapere dove guardare, in quanto, come nei migliori thriller, tutto è lì fin dall'inizio, e l'arte sta nel rendere spettatori e protagonisti dei burattini da sviare a piacimento, magari focalizzando la loro attenzione su Nicolas Cage.


Il brutto di vivere in un mondo ormai governato da social spoilerosi, è che Nic lo avrete già visto, nel suo trucco che lo rende quasi irriconoscibile, quando sarebbe stato meglio non sapere nulla di lui (e qui torniamo sulla questione dei quattro mesi di gap tra noi e il resto del mondo. Ribadisco, vergogna). Ma non importa, da un certo punto di vista, perché Cage, impegnato in una delle sue migliori performance, non è l'elemento fondamentale di Longlegs. Lui è l'uomo nero, certo, ma apre le porte a domande ben più insidiose, non solo legate all'"altro" da noi, ma proprio a ciò che in noi si nasconde, quello che non possiamo o non vogliamo vedere, quello che mettiamo da parte per qualcosa di più grande, vittime di un amore che diventa terreno fertile per l'orrore più profondo. Cage è la punta dell'iceberg, ma ciò che chiede Longlegs è di scavare, schiantarci come il Titanic contro un film che mette i brividi fin dalla prima inquadratura, che ti fa accendere le luci in casa, perché non sia mai che, al buio, ci sia qualcosa a fissarti. Poi, se volete, vi dico anche che Perkins è un mago della simmetria e delle simbologie nascoste, che riesce a trasformare il formato dei filmini casalinghi in qualcosa di ancora più terrificante di ciò che veniva mostrato in Sinister, che sul finale confeziona alcune delle sequenze e delle singole immagini più belle e agghiaccianti che vedrete quest'anno, e che Longlegs ha una colonna sonora di tutto rispetto e una fotografia da urlo, ma vi lascio il piacere di scoprire tutte queste cose da soli. Per quanto mi riguarda, Longlegs non è il film più terrificante degli ultimi decenni, ché ormai mi risulta difficile spaventarmi davvero, ma mi ha lasciato sicuramente la sensazione come di qualcuno che sia sempre lì a toccarti sulle spalle, pronto a farti "cucù" (e non in modo simpatico come Russell Crowe), oltre alla voglia di rivederlo ancora e ancora. La possibilità che diventi un grande classico e un cult è più che tangibile e io forse ho trovato l'horror dell'anno.


Del regista e sceneggiatore Osgood Perkins ho già parlato QUI. Maika Monroe (Agente Lee Harker), Nicolas Cage (Longlegs), Alicia Witt (Ruth Harker) e Kiernan Shipka (Carrie Anne Camera) li trovate invece ai rispettivi link.


Se Longlegs vi fosse piaciuto, recuperate Il silenzio degli innocenti, Zodiac e Se7en. ENJOY!

venerdì 19 agosto 2022

Nope (2022)

Finalmente i cinema hanno riaperto anche dalle mie parti e, ovviamente, non potevo esimermi dal correre a vedere uno dei film che aspettavo con più impazienza, ovvero Nope, scritto e diretto dal regista Jordan Peele. NO SPOILER, tranquilli.


Trama: dopo la morte del padre, O.J. e la sorella Emerald cercano di salvare la loro attività di addestratori di cavalli dalla bancarotta, proprio quando qualcosa di orribile comincia ad accadere all'interno della loro proprietà...


Mi levo subito il dente, così la facciamo finita. Credo di essere una delle poche persone ad avere avuto qualche problemino con Nope e ammetto di non averlo apprezzato tanto quanto i lavori precedenti del regista. Il motivo è essenzialmente legato a una questione di pancia: l'argomento di Nope, per quanto sia tra le cose che più mi terrorizzano cinematograficamente parlando, è anche uno di quelli che mi infastidisce maggiormente e che mi dà sempre una sensazione di "cheap", di cretinata buttata lì. Di conseguenza, sono rimasta molto meno coinvolta da Nope rispetto a Noi o Get Out, ma ciò non significa assolutamente che l'ultima pellicola di Peele sia un brutto film, anzi, probabilmente è quella più stratificata ed ambiziosa e, di sicuro, non è una cretinata. Senza scendere troppo nello specifico, Nope getta uno sguardo piuttosto feroce su un'altra delle nostre piaghe sociali, la necessità (più che la brama) di essere famosi e speciali per contare davvero qualcosa, quel "picture or it didn't happen" che, più in piccolo, governa anche la nostra quotidianità, tra Facebook, Instagram, Youtube, ecc. Nope però non è una critica ai social, nulla di così banale, ma proprio alla pressione sociale che ormai ha cambiato definitivamente il nostro modo di approcciarci alle cose, trasformando tutto in "spettacolo" usa e getta; alla sincera passione si affianca troppo spesso il desiderio non solo di ricavare del denaro ma, soprattutto, di spiccare, di essere speciali ed unici, anche a scapito della ragionevolezza e del piacere di dedicarsi a qualcosa. I protagonisti di Nope, è vero, sono alla canna del gas e la loro attività (retaggio comunque di un tempo passato in cui i risultati si ottenevano con calma e ci si fidava dei professionisti, senza pensare di saperne più di loro) rischia di mandarli in bancarotta, ma quando l'orrore si abbatte sulle loro vite né O.J., che parrebbe più ragionevole, né l'inaffidabile Emerald pensano di lasciare i loro terreni, e non tanto per una questione di orgoglio o nostalgia, quanto proprio per il triste miraggio del denaro e della fama. Lo stesso vale per Jupe, ex bambino prodigio, protagonista di una side story che, lì per lì, parrebbe non entrarci nulla con la trama principale ma che, invece, nasconde proprio la chiave per interpretare l'intera pellicola. 


Jupe è sopravvissuto a un'esperienza che avrebbe mandato al manicomio più di una persona e ne ha trasfigurato l'orrore in una sorta di benedizione, di autocelebrazione a base di memorabilia capaci di parlare agli istinti più bassi dei curiosi. "Tu sei il prescelto", si ripete Jupe, risparmiato da una furia omicida per puro caso, eppure ovviamente convinto che dietro alla sua fortuita salvezza si nasconda un qualche significato in virtù dell'egocentrismo che abbiamo tutti in misura più o meno minore, e da questa convinzione deriva quella di essere invincibile, speciale e necessario, con tutte le conseguenze che Jordan Peele mette in scena in una delle sequenze più angoscianti del film. Nel trailer, un personaggio si domanda "come si chiama un miracolo al contrario?". Ebbene, qui c'è da chiedersi come si chiama il contrario della speranza gioiosa di Spielberg, di quell'ingegno umano tutto americano e anche un po' sfacciato che consentiva ad adulti e ragazzini di vivere le avventure più meravigliose trovandosi davanti l'ignoto. Si chiamerà "Nope", come a dire "manco per il ca**o" o come a dire "No hope"? In qualunque modo la si voglia chiamare, di sicuro a Peele non manca la grandiosità spielberghiana di una regia che regala immagini splendide ed emblematiche, tra campi lunghi mozzafiato e comunque claustrofobici (perché qualunque cosa può nascondersi nel paesaggio brullo dove i cavalli fuggono spaventati), primi piani di occhi che non ardirebbero guardare ma devono farlo comunque, perché essere testimoni, anche di fronte all'orrore, significa essere speciali ed unici, e punti di vista che cambiano a seconda del personaggio, cosa che ci cala nei panni dei terrorizzati protagonisti, il tutto unito da un montaggio fluido e intelligente. Nope non è un film ottimista, nonostante ci insegni a fare un passo indietro e a rivestirci di umiltà ridimensionando il nostro posto nel mondo, ma è un film che sancisce la fine del sogno americano, dell'innocenza di un far west esistito solo al cinema, e che regala un lieto fine incerto ed amarissimo, racchiuso interamente nel sorriso forzato della brava Keke Palmer. A prescindere da tutto quello che mi ha potuta infastidire (e da tutto quello che ci viene insegnato nel film), a voi consiglio però di non distogliere lo sguardo da Nope e di godervi lo spettacolo messo in scena da Peele, rigorosamente al cinema. 


Del regista e sceneggiatore Jordan Peele ho già parlato QUI. Daniel Kaluuya (O.J. Haywood), Michael Wincott (Antlers Holst), Steven Yeun (Ricky "Jupe" Park), Keith David (Otis Haywood Senior) e Oz Perkins (Fynn Bachman) li trovate invece ai rispettivi link.

Keke Palmer interpreta Emerald Haywood. Americana, ha partecipato a film come Cleaner, e a serie quali Cold Case, E.R. Medici in prima linea, Grey's Anatomy, Scream Queens, Scream: La serie; come doppiatrice ha lavorato in The Cleveland Show, I Griffin, Robot Chicken, L'era glaciale 4 - Continenti alla deriva e L'era glaciale 5 - In rotta di collisione. Anche produttrice, sceneggiatrice e regista, ha 29 anni. 


Se Nope vi fosse piaciuto recuperate Incontri ravvicinati del terzo tipo e Signs. ENJOY!

domenica 19 aprile 2020

Gretel e Hansel (2020)

Gretel e Hansel (Gretel & Hansel), diretto dal regista Oz Perkins, era uno degli horror che più aspettavo quest'anno. Avrebbe dovuto uscire il 2 aprile in Italia ma, ovviamente, si è perso causa Covid e così mi sono fatta il regalo di compleanno, che cade oggi, e l'ho guardato comunque.


Trama: cacciati dalla madre, Gretel e Hansel si perdono nel bosco. Affamati, arrivano alle porte di una strana casa, all'interno della quale vive una vecchia misteriosa.


Immagino conosciate tutti la favola di Hansel e Gretel. Due gemelli vengono cacciati via dai genitori estremamente poveri e abbandonati nel bosco, dove incontrano una strega che abita in una casa fatta di marzapane e dolci. I due bimbi rischiano di finire nel forno della strega ma riescono ad ucciderla e tornano dai genitori col suo tesoro, vivendo da quel momento felici per sempre. Ci sono parecchie versioni cinematografiche di questa favola, che si presta perfettamente per venire trasposta in chiave horror, ma è la prima volta che alle atmosfere inquietanti e sovrannaturali si unisce il racconto di formazione che sposta inevitabilmente il focus dalla coppia di gemelli alla sola Gretel, non più bambina ma nemmeno donna, costretta a trascinarsi appresso il fratellino più piccolo. Ho scritto racconto di formazione, ma Gretel e Hansel è più un coming of age dalle tinte fosche, con nessuna pretesa Disneyana di instradare la protagonista verso un cammino che possa recare un messaggio positivo al pubblico, salvo forse per una presa di coscienza come individuo e come donna invece che come oggetto sessuale, servetta, figlia o guardiana del fratellino; in particolare su quest'ultimo punto la sceneggiatura di Rob Hayes sottolinea la necessità di svicolarsi dai legami percepiti come zavorre per riuscire a trovare il proprio cammino, senza ovviamente svilire l'amore o il rispetto, lasciandoli "liberi" prima che possano mutare in odio e disprezzo. Gretel, lontana dall'essere oggetto dell'appetito della Strega, diventa così un animo affine, un'allieva con la quale condividere conoscenze, potere e indipendenza, alla faccia di tutti i cavalieri dall'armatura scintillante che potrebbero salvare la povera donzella in pericolo e che qui si limitano ad offrire buoni consigli, passabili di venir seguiti o meno.


La sceneggiatura di Gretel e Hansel lo rende un film impossibile da cogliere in toto solo con una prima visione, bisognerebbe infatti riguardarlo col senno di poi per comprendere molte cose, in primis la valenza delle parole della madre e della fiaba della "Bella bambina col cappuccio rosa", magari tenendo a mente le altre favole dei Grimm (Il ginepro viene citato in una filastrocca), e magari dopo aver riguardato The VVitch di Eggers, assai simile per le inquietanti atmosfere boschive e per il modo in cui il male si insinua nel cuore di una ragazza alla quale le convenzioni cominciano a stare molto strette. Quel che è certo è che le immagini girate da Oz Perkins sono splendide (l'"occhio divino" e le macchie di colore che spezzano l'oscurità all'interno della sala da pranzo della strega mi hanno particolarmente colpita), così come meravigliosa è la fotografia in cui sono immerse: premesso che la più terrificante sequenza allucinatoria all'interno di una selva rimane ancora quella de L'orso di Annaud, Perkins mette i brividi attraverso ombre dall'aspetto umanoide che sembrerebbero manichini irreali, geometrie oscure che danno vita a edifici inquietanti, incubi ad occhi aperti che allo stesso tempo affascinano per la cura con cui sono realizzati e disgustano per le loro implicazioni. In tutto questo, la bellezza particolare di Sophia Lillis e l'interpretazione misurata di Alice Krige contribuiscono ad arricchire ulteriormente un film già molto bello di suo, che ovviamente esige dallo spettatore un minimo di attenzione in più e concede poco sia in termini di jump scare che di "azione", preferendo concentrarsi sulla crescita interiore dell'affascinante protagonista. A mio avviso, Gretel e Hansel è un altro splendido horror di cui godere in quarantena, nell'attesa che possa venire riproposto al cinema come meriterebbe.


Di Alice Krige, che interpreta la strega, ho già parlato QUI.

Oz Perkins è il regista della pellicola. Americano, ha diretto film come February: L'innocenza del male e Sono la bella creatura che vive in quella casa ed è anche attore e sceneggiatore. Ha 46 anni.


Sophia Lillis interpreta Gretel. Americana, la ricordo per film come It e It - Capitolo 2, inoltre ha partecipato a serie quali Sharp Objects e I Am Not Okay With This. Ha 18 anni.


Se Gretel e Hansel vi fosse piaciuto recuperate The VVitch. ENJOY!

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