A causa del meteo devastante che ha quasi distrutto mezza Liguria, lunedì non sono andata a vedere Halloween quindi ho ripiegato su Apostolo (Apostle), diretto e sceneggiato nel 2018 dal regista Gareth Evans.
Trama: Thomas, dipendente dalla droga e con l'animo spezzato, si reca su un'isola deserta popolata dai membri di una setta per liberare la sorella, tenuta prigioniera proprio da questi ultimi.
Con tutti gli improperi che ho letto rivolti ad Apostolo, mi aspettavo che uno degli ultimi originali Netflix fosse una schifezza cosmica. In realtà, anche in questo caso dipende da cosa uno pretende da un determinato Autore. Faccio mea culpa: non conosco Gareth Evans, non ho mai visto né i suoi The Raid né l'episodio di V/H/S 2 da lui diretto e sceneggiato ma immagino che i suoi fan si sarebbero aspettati un film adrenalinico e veloce, non qualcosa di riflessivo ed elegante come Apostolo, pellicola che si prende tutto il tempo di creare l'atmosfera necessaria per entrare nell'idea di un'isola vicino al Galles di inizio novecento, dove si riuniscono i membri di un culto, "perseguitati" dal Re e pronti a difendere la loro inespugnabile comunità con le unghie e con i denti. A pensarci bene, forse i fan di Evans condannano anche la "banalità" della storia portata su schermo. Su Netflix, non molti mesi fa, era già uscito Il rituale a raccontare di quanto sia pericoloso incappare in una comunità di invasati religiosi e Apostolo segue quasi pedissequamente il canovaccio tipico di questo genere di thriller/horror, con l'elemento di disturbo che, a poco a poco, arriva a svelare gli altarini di una comunità apparentemente perfetta, in bilico tra il paganesimo folle di The Wicker Man (anche qui servono sacrifici di varia natura per placare un dio che un tempo donava prosperità, ora solo carestia e orribili malformazioni) e la crudeltà di The Sacrament ma con una componente sovrannaturale e splatter più marcata, soprattutto da metà film in poi. E' indubbio che Apostolo parta lento, concentrato com'è sulle indagini del protagonista e su un minimo di costruzione dei personaggi e delle "situazioni" di potenziale pericolo, ma a un certo punto comincia a non dare un attimo di tregua allo spettatore, indulgendo anche in immagini da far rivoltare lo stomaco e in torture abbastanza efferate e crudeli, vista anche la natura delle vittime. Dove a mio avviso sbaglia Apostolo, neanche a dirlo, è nell'incertezza tra lo spiegone della natura del dio che governa l'isola e il desiderio di mantenere il mistero, che si conclude in un "e quindi?" da parte dello spettatore, che si ritrova forse un po' schifato da alcune scene anticipanti la rivelazione ma in definitiva soprattutto perplesso.
E' un dettaglio trascurabile questo soprattutto perché il film è gradevole non solo per come fila liscia la storia (anche se forse sarebbe servita un po' di introspezione in più, maggiormente incisiva e in un tempo più breve) ma anche per la presenza di bravi attori e per alcune sequenze interessanti e abbastanza ricercate, in bilico tra horror tout court e suggestione "new age", ove vengono mescolati sangue e poesia con un taglio decisamente cinematografico, fatto di dettagli claustrofobici e riprese ad ampio respiro di panorami mozzafiato o interni angusti. Sapete già della mia passione per Dan Stevens, non solo perché è un bel figliolo ma perché come interpreta lui il pazzo sofferente nessuno mai (Legion docet), e qui il personaggio di Thomas richiede tutta la nevrotica follia che è in grado di infondere l'attore inglese, oltre a quell'ambiguità di fondo che lo pone sempre in bilico tra buono e cattivo. Altrettanto valido il resto del cast, nel quale spiccano la sempre bellissima Lucy Boynton e un intenso Michael Sheen, anche lui chiamato ad interpretare un personaggio all'apparenza tagliato con l'accetta ma via via sempre più tormentato e profondo, mentre le due creature sovrannaturali sono interessanti e riescono a non scadere nel trash più becero nonostante ci sia il forte rischio almeno in un paio di occasioni (soprattutto per quel che riguarda il personaggio inquietante della vecchia). Sarà perché mi sono approcciata ad Apostolo senza troppe aspettative ma al momento è uno degli originali Netflix che più mi ha soddisfatta e vi consiglierei di dargli un'occhiata in occasione di Halloween. A proposito del quale, vi faccio ovviamente tanti auguri per una delle mie festività preferite!!!
Di Dan Stevens (Thomas Richardson), Lucy Boynton (Andrea) e Michael Sheen (Profeta Malcom) ho parlato ai rispettivi link.
Gareth Evans è il regista e sceneggiatore della pellicola. Inglese, ha diretto film come The Raid - Redenzione, V/H/S 2 e The Raid 2. Anche produttore, stuntman e attore, ha 38 anni e due film in uscita.
Se Apostolo vi fosse piaciuto recuperate The Wicker Man. ENJOY!
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mercoledì 31 ottobre 2018
martedì 30 ottobre 2018
Chi c'è in fondo a quella scala... (1988)
Ormai ho perso il conto di quanti miei post cominciano con "Ho recuperato questo film dopo averne letto sul blog di Lucia" ma tant'è: anche la visione di Chi c'è in fondo a quella scala... (Pin), diretto e co-sceneggiato nel 1988 dal regista Sandor Stern, è nata dalla lettura di un articolo su Il giorno degli zombi! Qui e la ci sono inevitabili SPOILER, occhio!
Trama: i figli del Dr. Linden sono cresciuti nell'assoluto rispetto dell'autorità paterna, in un ambiente pulito al limite dell'asettico, con una particolarità, ovvero la presenza del manichino anatomico Pin. Pin di solito parla solo in presenza del Dr. Linden ma un giorno il manichino comincia a conversare anche con i ragazzi...
Chi c'è in fondo a quella scala? Spoiler: Nessuno. Giuro. Al massimo, "chi c'è in cima a quella scala", ché a un certo punto Pin viene nascosto in soffitta, per il resto direi che il manichino è sempre più o meno ben visibile in una sala vicino al caminetto oppure in altri luoghi ma mai in fondo a "quella" scala, men che meno in cantina. D'altronde, due anni prima era arrivato in Italia Chi è sepolto in quella casa?, quindi magari i distributori volevano cavalcare l'onda del successo; peccato che Pin (e chiamiamolo col titolo originale, più breve) non è un horror tout court, anche se è pervaso da suggestioni tipiche del genere, quanto piuttosto un raffinato thriller psicologico che a tratti potrebbe ricordare Psyco ma che, in realtà, fin dall'inizio va in una direzione ben precisa e affatto derivativa. Al di là di quei pochi orpelli legati al necessario spettacolo, Pin racconta infatti di una malattia mentale nata da un disagio infantile che affonda nella freddezza dei genitori, nella conseguente mancanza di amici, più in generale in una solitudine abissale; il protagonista, Leon, arriva a crearsi una realtà in cui Pin, il manichino anatomico che il padre tiene in studio e che fa parlare grazie al suo ventriloquismo per divertire i piccoli pazienti (ma che bella idea!! *sarcasm mode: ON*), sia vero e sia il suo unico amico assieme alla sorella, la bella Ursula. Quest'ultima, dai modi più spigliati di Leon e pronta ad abbandonare l'austero clima familiare alla prima occasione, è l'unica che tratta il fratello come un essere umano e ciò scatena nel ragazzo un insano desiderio di possesso con sfumature incestuose fortunatamente mai esplicitate, un sentimento di chiusura totale che lo porta a provare tristezza e frustrazione ogni volta che la fanciulla si avvicina a qualcun altro, che sia per amicizia o per amore. E' un triangolo angosciante quello che si viene a creare, poiché Leon non ha alcuna intenzione di perdere il suo migliore amico (inquietante mix di caratteri, assai simile in alcuni momenti al freddo ed autoritario Dr. Linden ma anche specchio della personalità distorta di Leon) e lo impone alla sorella che ne è giustamente terrorizzata, pur sopportandone la presenza per amore di un fratello la cui sanità mentale è palesemente appesa a un filo. Impossibile da odiare, anche per il pubblico, Leon suscita pietà tanto quanto Pin incute timore e questa è la caratteristica migliore e più importante del film.
Quanto a Pin, ossessione del protagonista al punto da dare il titolo al film, è una presenza non solo inquietante ma anche ambigua. All'inizio, infatti, quando i due protagonisti sono piccoli, è palese che sia il Dr. Linden a prestare la propria voce a Pin, il quale parla "solo in presenza di papà" (non che ciò lo renda meno spaventoso, tutt'altro); in seguito, tuttavia, non vi è più la certezza che il manichino non sia, in effetti, una creatura dotata di voce e coscienza proprie, soprattutto quando le persone cominciano a morire sotto il suo sguardo fisso e vacuo. L'incidente dello stesso Dr. Linden è scritto e diretto in maniera egregia poiché il destino del dottore è ambivalente, così come il ruolo di Pin, che potrebbe essere "semplice" fonte di terrore e conseguente disattenzione, oppure machiavellico e malvagio fautore materiale della morte dell'uomo: il suo riflesso incombente nello specchietto retrovisore, i suoi movimenti causati dallo spostamento della macchina, la cinepresa che ad un certo punto inquadra solo il veicolo senza mostrarci ciò che accade all'interno di esso, sono tutte piccole accortezze che rendono Pin più pauroso di una bambola palesemente semovente, come potrebbe essere Chucky. Andando avanti diciamo che il mistero comincia a dipanarsi e la situazione a chiarirsi, lasciando spazio alla malattia mentale di Leon e alla sua condizione miserevole, concretizzata nella sua decisione di ritirarsi a vita privata per fare "il poeta" e nelle piccole, inutili ripicche verso i genitori morti ma ancora ben presenti nella sua mente e nel suo cuore. In particolare, il finale di Pin (benché anticipato dalla primissima sequenza del film) non è affatto catartico come quello di un qualsiasi slasher oppure inquietante come quello di Psyco, bensì malinconico e fautore di un senso di ineluttabile sconfitta interamente espresso da una persona che si è arresa e ha rinunciato a vivere, schiacciata a poco a poco da un mondo che non si è mai curato dei suoi problemi e ha finito per abbandonarla a se stessa, con le inevitabili conseguenze del caso. Insomma, Chi c'è in fondo a quella scala, nonostante il titolo italiano demente, è una bestia strana da non prendere sottogamba, una piccola perlina anni '80 che è un peccato sia stata esclusa dalla programmazione dell'amata Notte Horror e condannata quindi a un oblio prematuro. Se potete, recuperatelo, lo trovate su Youtube sia in italiano che in lingua originale!
Di Terry O'Quinn, che interpreta il Dr. Linden, ho già parlato QUI mentre Jonathan Banks, la voce originale di Pin, lo trovate QUA.
Sandor Stern è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Canadese, ha diretto film come Amityville Horror - La fuga del Diavolo e Uno sconosciuto accanto a me. Anche produttore, ha 82 anni.
David Hewlett interpreta Leon. Inglese, ha partecipato a film come Cube - Il cubo, Splice, L'alba del pianeta delle scimmie, La forma dell'acqua e serie quali Venerdì 13, Il mio amico Ultraman, Poliziotto a 4 zampe e E.R. Medici in prima linea. Anche sceneggiatore e regista, ha 50 anni e un film in uscita.
Cynthia Preston interpreta Ursula. Canadese, ha partecipato a film come The Brain, Un agente segreto al liceo, Lo sguardo di Satana - Carrie e serie quali I viaggiatori delle tenebre, Venerdì 13, Il mio amico Ultraman, Poliziotto a 4 zampe, Oltre i limiti, X-Files, Relic Hunter, CSI - Scena del crimine, Perfetti... ma non troppo, Due uomini e mezzo, Numb3rs, Bones e Hannibal; come doppiatrice ha lavorato nelle serie Le avventure di Super Mario, Un regno incantato per Zelda e Un videogioco per Kevin. Anche produttrice, ha 50 anni.
Se Pin vi fosse piaciuto recuperate Psyco e magari anche Dead Silence. ENJOY!
Trama: i figli del Dr. Linden sono cresciuti nell'assoluto rispetto dell'autorità paterna, in un ambiente pulito al limite dell'asettico, con una particolarità, ovvero la presenza del manichino anatomico Pin. Pin di solito parla solo in presenza del Dr. Linden ma un giorno il manichino comincia a conversare anche con i ragazzi...
Chi c'è in fondo a quella scala? Spoiler: Nessuno. Giuro. Al massimo, "chi c'è in cima a quella scala", ché a un certo punto Pin viene nascosto in soffitta, per il resto direi che il manichino è sempre più o meno ben visibile in una sala vicino al caminetto oppure in altri luoghi ma mai in fondo a "quella" scala, men che meno in cantina. D'altronde, due anni prima era arrivato in Italia Chi è sepolto in quella casa?, quindi magari i distributori volevano cavalcare l'onda del successo; peccato che Pin (e chiamiamolo col titolo originale, più breve) non è un horror tout court, anche se è pervaso da suggestioni tipiche del genere, quanto piuttosto un raffinato thriller psicologico che a tratti potrebbe ricordare Psyco ma che, in realtà, fin dall'inizio va in una direzione ben precisa e affatto derivativa. Al di là di quei pochi orpelli legati al necessario spettacolo, Pin racconta infatti di una malattia mentale nata da un disagio infantile che affonda nella freddezza dei genitori, nella conseguente mancanza di amici, più in generale in una solitudine abissale; il protagonista, Leon, arriva a crearsi una realtà in cui Pin, il manichino anatomico che il padre tiene in studio e che fa parlare grazie al suo ventriloquismo per divertire i piccoli pazienti (ma che bella idea!! *sarcasm mode: ON*), sia vero e sia il suo unico amico assieme alla sorella, la bella Ursula. Quest'ultima, dai modi più spigliati di Leon e pronta ad abbandonare l'austero clima familiare alla prima occasione, è l'unica che tratta il fratello come un essere umano e ciò scatena nel ragazzo un insano desiderio di possesso con sfumature incestuose fortunatamente mai esplicitate, un sentimento di chiusura totale che lo porta a provare tristezza e frustrazione ogni volta che la fanciulla si avvicina a qualcun altro, che sia per amicizia o per amore. E' un triangolo angosciante quello che si viene a creare, poiché Leon non ha alcuna intenzione di perdere il suo migliore amico (inquietante mix di caratteri, assai simile in alcuni momenti al freddo ed autoritario Dr. Linden ma anche specchio della personalità distorta di Leon) e lo impone alla sorella che ne è giustamente terrorizzata, pur sopportandone la presenza per amore di un fratello la cui sanità mentale è palesemente appesa a un filo. Impossibile da odiare, anche per il pubblico, Leon suscita pietà tanto quanto Pin incute timore e questa è la caratteristica migliore e più importante del film.
Quanto a Pin, ossessione del protagonista al punto da dare il titolo al film, è una presenza non solo inquietante ma anche ambigua. All'inizio, infatti, quando i due protagonisti sono piccoli, è palese che sia il Dr. Linden a prestare la propria voce a Pin, il quale parla "solo in presenza di papà" (non che ciò lo renda meno spaventoso, tutt'altro); in seguito, tuttavia, non vi è più la certezza che il manichino non sia, in effetti, una creatura dotata di voce e coscienza proprie, soprattutto quando le persone cominciano a morire sotto il suo sguardo fisso e vacuo. L'incidente dello stesso Dr. Linden è scritto e diretto in maniera egregia poiché il destino del dottore è ambivalente, così come il ruolo di Pin, che potrebbe essere "semplice" fonte di terrore e conseguente disattenzione, oppure machiavellico e malvagio fautore materiale della morte dell'uomo: il suo riflesso incombente nello specchietto retrovisore, i suoi movimenti causati dallo spostamento della macchina, la cinepresa che ad un certo punto inquadra solo il veicolo senza mostrarci ciò che accade all'interno di esso, sono tutte piccole accortezze che rendono Pin più pauroso di una bambola palesemente semovente, come potrebbe essere Chucky. Andando avanti diciamo che il mistero comincia a dipanarsi e la situazione a chiarirsi, lasciando spazio alla malattia mentale di Leon e alla sua condizione miserevole, concretizzata nella sua decisione di ritirarsi a vita privata per fare "il poeta" e nelle piccole, inutili ripicche verso i genitori morti ma ancora ben presenti nella sua mente e nel suo cuore. In particolare, il finale di Pin (benché anticipato dalla primissima sequenza del film) non è affatto catartico come quello di un qualsiasi slasher oppure inquietante come quello di Psyco, bensì malinconico e fautore di un senso di ineluttabile sconfitta interamente espresso da una persona che si è arresa e ha rinunciato a vivere, schiacciata a poco a poco da un mondo che non si è mai curato dei suoi problemi e ha finito per abbandonarla a se stessa, con le inevitabili conseguenze del caso. Insomma, Chi c'è in fondo a quella scala, nonostante il titolo italiano demente, è una bestia strana da non prendere sottogamba, una piccola perlina anni '80 che è un peccato sia stata esclusa dalla programmazione dell'amata Notte Horror e condannata quindi a un oblio prematuro. Se potete, recuperatelo, lo trovate su Youtube sia in italiano che in lingua originale!
Di Terry O'Quinn, che interpreta il Dr. Linden, ho già parlato QUI mentre Jonathan Banks, la voce originale di Pin, lo trovate QUA.
Sandor Stern è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Canadese, ha diretto film come Amityville Horror - La fuga del Diavolo e Uno sconosciuto accanto a me. Anche produttore, ha 82 anni.
David Hewlett interpreta Leon. Inglese, ha partecipato a film come Cube - Il cubo, Splice, L'alba del pianeta delle scimmie, La forma dell'acqua e serie quali Venerdì 13, Il mio amico Ultraman, Poliziotto a 4 zampe e E.R. Medici in prima linea. Anche sceneggiatore e regista, ha 50 anni e un film in uscita.
Cynthia Preston interpreta Ursula. Canadese, ha partecipato a film come The Brain, Un agente segreto al liceo, Lo sguardo di Satana - Carrie e serie quali I viaggiatori delle tenebre, Venerdì 13, Il mio amico Ultraman, Poliziotto a 4 zampe, Oltre i limiti, X-Files, Relic Hunter, CSI - Scena del crimine, Perfetti... ma non troppo, Due uomini e mezzo, Numb3rs, Bones e Hannibal; come doppiatrice ha lavorato nelle serie Le avventure di Super Mario, Un regno incantato per Zelda e Un videogioco per Kevin. Anche produttrice, ha 50 anni.
Se Pin vi fosse piaciuto recuperate Psyco e magari anche Dead Silence. ENJOY!
domenica 28 ottobre 2018
7 sconosciuti a El Royale (2018)
Giovedì sera col Bolluomo volevamo andare a vedere Soldado ma, sorpresa!, a Savona è stato relegato in tempo zero all'impossibile spettacolo delle 15.30, quindi abbiamo ripiegato su 7 sconosciuti a El Royale (Bad Times at El Royale), diretto e sceneggiato dal regista Drew Goddard.
Trama: all'Hotel El Royale, ubicato per metà nel Nevada e per metà in California, si intrecciano i destini di un prete, una cantante, un rappresentante di aspirapolveri e una hippy, tutti con un segreto...
Una perfetta definizione di 7 sconosciuti a El Royale sarebbe quella di pout-pourri. Se con lo splendido Quella casa nel bosco il regista e sceneggiatore Drew Goddard decostruiva i cliché dell'horror e giocava con lo spettatore creando qualcosa di nuovo e originale rimanendo comunque su un binario ben preciso, qui la parola d'ordine pare essere "sovrabbondanza, accumulo compulsivo", non solo di personaggi ma soprattutto di tematiche e stili. Far rientrare 7 sconosciuti a El Royale in un singolo genere cinematografico è infatti assai arduo, ma non solo; sinceramente è anche difficile trovare un "senso" a quello che viene mostrato, data l'insipidità di alcuni dei personaggi. Senza fare troppi spoiler, Goddard parte da una delle immagini ed idee più intriganti di Quella casa nel bosco (un indizio? C'entrano gli specchi) e su di essa ricama per ottenere la storia di un Hotel con un segreto per poi intrecciare le vicende di vari personaggi legate talvolta al filone della crime story, altre al cinema di guerra, altre alla spy story, altre addirittura al thriller con venature horror, senza troppa soluzione di continuità. L'incredibile lunghezza del film, che sfiora le due ore e mezza, è data dall'intrico di flashback che gettano luce sul passato dei protagonisti e dalla riproposta di almeno mezza dozzina di sequenze da altrettanti punti di vista differenti, così che lo spettatore abbia un quadro completo e abbastanza tarantiniano dell'intera timeline della pellicola, ma nonostante questo Goddard lascia in sospeso un paio di punti chiave e non sfrutta interamente la potenzialità di un setting così particolare. 7 sconosciuti a El Royale può infatti "vantare" un paio di McGuffin assimilabili alla valigetta di Pulp Fiction ma anche abbondanza di dettagli inutili, in primis la natura ibrida della territorialità dell'hotel: a che pro sottolineare, fin dall'inizio, la divisione precisa dell'Hotel El Royale tra Nevada e California se questa ubicazione non influenza minimamente le vicende narrate? Per dire, sarebbe stato interessante, vista l'abbondanza di criminali presenti nel film, ricamare un po' sulle diverse leggi dei due stati, costringendo i personaggi a saltare da una parte all'altra per ottenere delle impunità, invece la cosa viene lasciata cadere quasi subito e se il film fosse stato ambientato all'Overlook Hotel, per dire, non sarebbe cambiato di una virgola il risultato finale.
Questo setting particolare, così come l'ambientazione fine anni '60, influenza ovviamente la regia, la scenografia, la colonna sonora e il montaggio di 7 sconosciuti a El Royale, dove Drew Goddard ambisce palesemente a mostrare più le sue doti di regista che di sceneggiatore. Dopo un'introduzione di stampo teatrale con uno scioccante finale "a sorpresa", infatti, la pellicola diventa il trionfo dello schermo diviso simmetricamente da una linea rossa, delle stanze virate ognuna in un colore diverso, dell'inquadratura accattivante, dei cartelli che introducono capitoli, della ricchezza della scenografia, delle luci morbide che contrastano coi colori sgargianti, dei primi piani addolorati, dei flashback, dei lustrini e dei juke-box. In particolare, spesso e volentieri il montaggio, sonoro e non, segue la "scuola" Baby Driver e si adegua alle canzoni presenti nella splendida colonna sonora, cuore pulsante dell'intera pellicola grazie all'interpretazione di Cynthia Erivo, attrice e cantante inglese assai famosa nei teatri di Broadway e Londra, alla quale vengono riservate vere e proprie esibizioni canore, talvolta funzionali ai fini della trama (soprattutto in "duetto" con Jeff Bridges), talvolta no, al punto purtroppo da risultare pesanti. Cynthia Erivo, nome quasi sicuramente poco conosciuto a chi ama il cinema, è paradossalmente la punta di diamante di un cast che, sulla carta, sarebbe risultato dannatamente intrigante invece concorre al sapor di diludendo che lascia in bocca 7 sconosciuti a El Royale. Jeff Bridges, infatti, è svogliato rispetto ai suoi standard nonostante abbia gioco facile contro gli inespressivi Dakota Johnson e Chris Hemsworth; in particolare, quest'ultimo mostra tutti i suoi limiti di attore buono giusto per interpretare Thor ed essere figo, ma la colpa forse non è nemmeno sua vista l'imbarazzante caratterizzazione di un personaggio a metà tra Charles Manson e il Fabius di Fabio De Luigi, ingiustificabile da ogni punto di vista. Meglio i giovani Lewis Pullman, sorprendente sul finale, e l'inquietante Kaylee Spaeny, ragazzina da prendere a ceffoni pesanti dall'inizio alla fine del film, anche se tra tutti, il personaggio meglio caratterizzato rimane sempre quello di Chynthia Erivo. Questo è uno dei motivi per cui 7 sconosciuti a El Royale mi ha delusa, nonostante le enormi aspettative, perché è un bell'involucro che avvolge il nulla cosmico e sinceramente da Goddard, conoscendo le sue sceneggiature solitamente intelligenti e soprattutto dopo Quella casa nel bosco, mi aspettavo molto di più.
Del regista e sceneggiatore Drew Goddard ho già parlato QUI. Jeff Bridges (Padre Daniel Flynn/Dock O'Kelly), Dakota Johnson (Emily Summerspring), Jon Hamm (Laramie Seymour Sullivan / Dwight Broadbeck) e Chris Hemsworth (Billy Lee) li trovate invece ai rispettivi link.
Lewis Pullman, che interpreta Miles Miller, ha partecipato a The Strangers: Prey at Night mentre nel cast spunta anche il giovane regista Xavier Dolan nei panni di Buddy Sunday. Russell Crowe avrebbe dovuto partecipare al film ma alla fine è stato sostituito da Jon Hamm. Detto questo, se 7 sconosciuti a El Royale vi fosse piaciuto, recuperate Four Rooms e Paura e delirio a Las Vegas. ENJOY!
Trama: all'Hotel El Royale, ubicato per metà nel Nevada e per metà in California, si intrecciano i destini di un prete, una cantante, un rappresentante di aspirapolveri e una hippy, tutti con un segreto...
Una perfetta definizione di 7 sconosciuti a El Royale sarebbe quella di pout-pourri. Se con lo splendido Quella casa nel bosco il regista e sceneggiatore Drew Goddard decostruiva i cliché dell'horror e giocava con lo spettatore creando qualcosa di nuovo e originale rimanendo comunque su un binario ben preciso, qui la parola d'ordine pare essere "sovrabbondanza, accumulo compulsivo", non solo di personaggi ma soprattutto di tematiche e stili. Far rientrare 7 sconosciuti a El Royale in un singolo genere cinematografico è infatti assai arduo, ma non solo; sinceramente è anche difficile trovare un "senso" a quello che viene mostrato, data l'insipidità di alcuni dei personaggi. Senza fare troppi spoiler, Goddard parte da una delle immagini ed idee più intriganti di Quella casa nel bosco (un indizio? C'entrano gli specchi) e su di essa ricama per ottenere la storia di un Hotel con un segreto per poi intrecciare le vicende di vari personaggi legate talvolta al filone della crime story, altre al cinema di guerra, altre alla spy story, altre addirittura al thriller con venature horror, senza troppa soluzione di continuità. L'incredibile lunghezza del film, che sfiora le due ore e mezza, è data dall'intrico di flashback che gettano luce sul passato dei protagonisti e dalla riproposta di almeno mezza dozzina di sequenze da altrettanti punti di vista differenti, così che lo spettatore abbia un quadro completo e abbastanza tarantiniano dell'intera timeline della pellicola, ma nonostante questo Goddard lascia in sospeso un paio di punti chiave e non sfrutta interamente la potenzialità di un setting così particolare. 7 sconosciuti a El Royale può infatti "vantare" un paio di McGuffin assimilabili alla valigetta di Pulp Fiction ma anche abbondanza di dettagli inutili, in primis la natura ibrida della territorialità dell'hotel: a che pro sottolineare, fin dall'inizio, la divisione precisa dell'Hotel El Royale tra Nevada e California se questa ubicazione non influenza minimamente le vicende narrate? Per dire, sarebbe stato interessante, vista l'abbondanza di criminali presenti nel film, ricamare un po' sulle diverse leggi dei due stati, costringendo i personaggi a saltare da una parte all'altra per ottenere delle impunità, invece la cosa viene lasciata cadere quasi subito e se il film fosse stato ambientato all'Overlook Hotel, per dire, non sarebbe cambiato di una virgola il risultato finale.
Questo setting particolare, così come l'ambientazione fine anni '60, influenza ovviamente la regia, la scenografia, la colonna sonora e il montaggio di 7 sconosciuti a El Royale, dove Drew Goddard ambisce palesemente a mostrare più le sue doti di regista che di sceneggiatore. Dopo un'introduzione di stampo teatrale con uno scioccante finale "a sorpresa", infatti, la pellicola diventa il trionfo dello schermo diviso simmetricamente da una linea rossa, delle stanze virate ognuna in un colore diverso, dell'inquadratura accattivante, dei cartelli che introducono capitoli, della ricchezza della scenografia, delle luci morbide che contrastano coi colori sgargianti, dei primi piani addolorati, dei flashback, dei lustrini e dei juke-box. In particolare, spesso e volentieri il montaggio, sonoro e non, segue la "scuola" Baby Driver e si adegua alle canzoni presenti nella splendida colonna sonora, cuore pulsante dell'intera pellicola grazie all'interpretazione di Cynthia Erivo, attrice e cantante inglese assai famosa nei teatri di Broadway e Londra, alla quale vengono riservate vere e proprie esibizioni canore, talvolta funzionali ai fini della trama (soprattutto in "duetto" con Jeff Bridges), talvolta no, al punto purtroppo da risultare pesanti. Cynthia Erivo, nome quasi sicuramente poco conosciuto a chi ama il cinema, è paradossalmente la punta di diamante di un cast che, sulla carta, sarebbe risultato dannatamente intrigante invece concorre al sapor di diludendo che lascia in bocca 7 sconosciuti a El Royale. Jeff Bridges, infatti, è svogliato rispetto ai suoi standard nonostante abbia gioco facile contro gli inespressivi Dakota Johnson e Chris Hemsworth; in particolare, quest'ultimo mostra tutti i suoi limiti di attore buono giusto per interpretare Thor ed essere figo, ma la colpa forse non è nemmeno sua vista l'imbarazzante caratterizzazione di un personaggio a metà tra Charles Manson e il Fabius di Fabio De Luigi, ingiustificabile da ogni punto di vista. Meglio i giovani Lewis Pullman, sorprendente sul finale, e l'inquietante Kaylee Spaeny, ragazzina da prendere a ceffoni pesanti dall'inizio alla fine del film, anche se tra tutti, il personaggio meglio caratterizzato rimane sempre quello di Chynthia Erivo. Questo è uno dei motivi per cui 7 sconosciuti a El Royale mi ha delusa, nonostante le enormi aspettative, perché è un bell'involucro che avvolge il nulla cosmico e sinceramente da Goddard, conoscendo le sue sceneggiature solitamente intelligenti e soprattutto dopo Quella casa nel bosco, mi aspettavo molto di più.
Del regista e sceneggiatore Drew Goddard ho già parlato QUI. Jeff Bridges (Padre Daniel Flynn/Dock O'Kelly), Dakota Johnson (Emily Summerspring), Jon Hamm (Laramie Seymour Sullivan / Dwight Broadbeck) e Chris Hemsworth (Billy Lee) li trovate invece ai rispettivi link.
Lewis Pullman, che interpreta Miles Miller, ha partecipato a The Strangers: Prey at Night mentre nel cast spunta anche il giovane regista Xavier Dolan nei panni di Buddy Sunday. Russell Crowe avrebbe dovuto partecipare al film ma alla fine è stato sostituito da Jon Hamm. Detto questo, se 7 sconosciuti a El Royale vi fosse piaciuto, recuperate Four Rooms e Paura e delirio a Las Vegas. ENJOY!
venerdì 26 ottobre 2018
Puppet Master: The Littlest Reich (2018)
E così, dopo averne letto bene un po' ovunque, ho recuperato anche Puppet Master: The Littlest Reich, diretto dai registi Sonny Laguna e Tommy Wiklund.
Trama: ad una convention dedicata ad Andre Toulon, psicopatico nazista creatore di orridi pupazzi assassini, si riuniscono una cinquantina di persone decise a partecipare ad un'asta che vede come oggetto proprio le creature di Toulon. Quando i malvagi burattini si animeranno sarà un massacro...
Se da piccola vedere La bambola assassina o Puppet Master mi causava le stesse reazioni di terrore inconsulto, col tempo ho imparato a fare differenze tra bambole e marionette, perlomeno sullo schermo, ché se mi mettete davanti una marionetta scappo comunque a gambe levate. Questo per dire che le creature assassine di Puppet Master (saga tra l'altro arrivata al millesimo episodio, di cui ho visto solo il primo capitolo e questo reboot) non mi fanno la stessa paura di Chucky o Annabelle perché sono troppo piccole, stilizzate e talvolta anche caruccette, quindi non mi hanno mai particolarmente attirata e ammetto di avere guardato Puppet Master: The Littlest Reich solo per la presenza di un nome alla sceneggiatura, quello di S. Craig Zahler, il regista e sceneggiatore di bombette come Bone Tomahawk e Brawl on Cell Block 99. Da lui mi aspettavo una cattiveria incredibile e una buona scrittura e questo ho ricevuto, in effetti. Puppet Master: The Littlest Reich è il trionfo dei personaggi simpatici che muoiono male senza un perché, talvolta anche in modi inaspettati che esulano dalla mano delle marionette di Toulon, e della bieca ignoranza nazi, che non si ferma davanti a nulla pur di martoriare il "diverso", sia esso gay, nero, ebreo, o quello che volete. Con due pennellate di "colore", Zahler ci fa entrare subito in sintonia col protagonista, la sua fidanzata e il suo migliore amico, personaggi forse archetipici ma abbastanza umani perché arrivi ad importarci qualcosa di loro, e li riunisce assieme ad altri personaggi secondari caratterizzati nel giro di un fotogramma o due che diventano automaticamente più di "vittima numero X"... e in tempo zero li fa massacrare dal "piccolo Reich" di Toulon senza peraltro troppa ironia, metafora nemmeno troppo velata di una società in cui succedono "brutte cose alle persone che non se lo meritano perché sì". Benché vi siano dei momenti di nera ironia, la verità è che si ride pochissimo in questo nuovo Puppet Master e il film è pervaso da un'atmosfera di ineluttabile pessimismo cosmico dall'inizio alla fine, da quello stesso nichilismo che sopraffà lo spettatore nelle altre opere di Zahler e che impedisce di relegare il film nel novero delle ca**te di serie Z a prescindere dai suoi mille difetti.
Difetti che ci sono, è evidente. Innanzitutto, per quanto si possa apprezzare lo sceneggiatore, il nuovo Puppet Master non è altro che una bieca scusa per mettere in scena macellate della peggior specie e tra un omicidio fantasioso e l'altro c'è ben poca sostanza; salvo la cornice, anche ben recitata, del fumettista impegnato a vendere il pupazzo del defunto fratello e l'introduzione col sempre divino Udo Kier, per non parlare dei titoli di testa a cartoni animati musicati da Fabio Frizzi, il resto del film sembra un'accozzaglia di scenette splatter attaccate con lo sputo, un insieme di micro-episodi efferatissimi che servono giusto a mostrare la bravura dei registi e dei responsabili degli effetti speciali quando si tratta di fare sul serio. Effettivamente, ammetto che da parecchio non vedevo una simile mancanza di remore all'interno di un horror: i pupazzi assassini non risparmiano nessuno, nemmeno bambini o donne incinte, e alcune sequenze (una in particolare, durante la quale l'idea di spegnere il televisore è stata forte come non l'avvertivo dai tempi delle mie prime esperienze con Joe D'Amato) sono talmente di cattivo gusto che c'è da dubitare che questo film vedrà mai una distribuzione cinematografica a meno di non venire pesantemente tagliato e quindi ridotto a un paio di scene. D'altronde, produce Fangoria, il che già di per sé potrebbe essere garanzia di sangue a secchiate, perfetto per gli appassionati del genere. Se a questo aggiungete un paio di guest star interessanti, benché ahimé poco utilizzate, capirete perché Puppet Master: The Littlest Reich è uno di quei pochi reboot che meritano di essere stati realizzati e un film da guardare se siete appassionati della saga o anche solo del sano, ignorante splatter fine a se stesso.
Di Udo Kier (Andre Toulon) e Barbara Crampton (Carol Doreski) ho già parlato ai rispettivi link.
Sonny Laguna e Tommy Wiklund sono i registi della pellicola. Americano il primo, probabilmente svedese il secondo, hanno diretto film come Blood Runs Cold, Wither e We Are Monsters. Anche sceneggiatori, tecnici degli effetti speciali, produttori e attori, hanno entrambi un film in uscita.
Michael Paré interpreta il Detective Brown. Americano, ha partecipato a film come Villaggio dei dannati, Scomparsa, The Vatican Tapes, Bone Tomahawk e a serie quali Ralph supermaxi eroe, Cold Case e Dr. House. Anche produttore, ha 60 anni e ben dodici film in uscita.
Thomas Lennon, che interpreta Edgar, era il preside Novak dell'esilarante Santa Clarita Diet mentre l'umano che viene usato come marionetta dai pupazzi altri non è che l'alieno malvagio del film Arma non convenzionale, ovvero Matthias Hues. Puppet Master: The Littlest Reich è, come già scritto nel post, il reboot di una saga iniziata nel col film Puppet Master - Il burattinaio e continuata per anni con Puppet Master II, Puppet Master 3 - Giochi infernali, Dollman, Giocattoli infernali, Radio Alien, Giocattoli assassini, Il ritorno dei giocattoli assassini, Giocattoli assassini - Scontro finale, Curse of the Puppet Master, Retro Puppet Master, Puppet Master: The Legacy, Puppet Master vs Demonic Toys, Demonic Toys: Personal Demons, Puppet Master: Axis of Evil e Puppet Master X: Axis Rising; al momento, tra l'altro, c'è il reboot e anche un film "canonico" contemporaneo, ovvero l'ultimo Puppet Master: Axis Termination, del 2017. Direi che se i pupazzetti assassini vi interessano avete materiale da vendere! ENJOY!
Trama: ad una convention dedicata ad Andre Toulon, psicopatico nazista creatore di orridi pupazzi assassini, si riuniscono una cinquantina di persone decise a partecipare ad un'asta che vede come oggetto proprio le creature di Toulon. Quando i malvagi burattini si animeranno sarà un massacro...
Se da piccola vedere La bambola assassina o Puppet Master mi causava le stesse reazioni di terrore inconsulto, col tempo ho imparato a fare differenze tra bambole e marionette, perlomeno sullo schermo, ché se mi mettete davanti una marionetta scappo comunque a gambe levate. Questo per dire che le creature assassine di Puppet Master (saga tra l'altro arrivata al millesimo episodio, di cui ho visto solo il primo capitolo e questo reboot) non mi fanno la stessa paura di Chucky o Annabelle perché sono troppo piccole, stilizzate e talvolta anche caruccette, quindi non mi hanno mai particolarmente attirata e ammetto di avere guardato Puppet Master: The Littlest Reich solo per la presenza di un nome alla sceneggiatura, quello di S. Craig Zahler, il regista e sceneggiatore di bombette come Bone Tomahawk e Brawl on Cell Block 99. Da lui mi aspettavo una cattiveria incredibile e una buona scrittura e questo ho ricevuto, in effetti. Puppet Master: The Littlest Reich è il trionfo dei personaggi simpatici che muoiono male senza un perché, talvolta anche in modi inaspettati che esulano dalla mano delle marionette di Toulon, e della bieca ignoranza nazi, che non si ferma davanti a nulla pur di martoriare il "diverso", sia esso gay, nero, ebreo, o quello che volete. Con due pennellate di "colore", Zahler ci fa entrare subito in sintonia col protagonista, la sua fidanzata e il suo migliore amico, personaggi forse archetipici ma abbastanza umani perché arrivi ad importarci qualcosa di loro, e li riunisce assieme ad altri personaggi secondari caratterizzati nel giro di un fotogramma o due che diventano automaticamente più di "vittima numero X"... e in tempo zero li fa massacrare dal "piccolo Reich" di Toulon senza peraltro troppa ironia, metafora nemmeno troppo velata di una società in cui succedono "brutte cose alle persone che non se lo meritano perché sì". Benché vi siano dei momenti di nera ironia, la verità è che si ride pochissimo in questo nuovo Puppet Master e il film è pervaso da un'atmosfera di ineluttabile pessimismo cosmico dall'inizio alla fine, da quello stesso nichilismo che sopraffà lo spettatore nelle altre opere di Zahler e che impedisce di relegare il film nel novero delle ca**te di serie Z a prescindere dai suoi mille difetti.
Difetti che ci sono, è evidente. Innanzitutto, per quanto si possa apprezzare lo sceneggiatore, il nuovo Puppet Master non è altro che una bieca scusa per mettere in scena macellate della peggior specie e tra un omicidio fantasioso e l'altro c'è ben poca sostanza; salvo la cornice, anche ben recitata, del fumettista impegnato a vendere il pupazzo del defunto fratello e l'introduzione col sempre divino Udo Kier, per non parlare dei titoli di testa a cartoni animati musicati da Fabio Frizzi, il resto del film sembra un'accozzaglia di scenette splatter attaccate con lo sputo, un insieme di micro-episodi efferatissimi che servono giusto a mostrare la bravura dei registi e dei responsabili degli effetti speciali quando si tratta di fare sul serio. Effettivamente, ammetto che da parecchio non vedevo una simile mancanza di remore all'interno di un horror: i pupazzi assassini non risparmiano nessuno, nemmeno bambini o donne incinte, e alcune sequenze (una in particolare, durante la quale l'idea di spegnere il televisore è stata forte come non l'avvertivo dai tempi delle mie prime esperienze con Joe D'Amato) sono talmente di cattivo gusto che c'è da dubitare che questo film vedrà mai una distribuzione cinematografica a meno di non venire pesantemente tagliato e quindi ridotto a un paio di scene. D'altronde, produce Fangoria, il che già di per sé potrebbe essere garanzia di sangue a secchiate, perfetto per gli appassionati del genere. Se a questo aggiungete un paio di guest star interessanti, benché ahimé poco utilizzate, capirete perché Puppet Master: The Littlest Reich è uno di quei pochi reboot che meritano di essere stati realizzati e un film da guardare se siete appassionati della saga o anche solo del sano, ignorante splatter fine a se stesso.
Di Udo Kier (Andre Toulon) e Barbara Crampton (Carol Doreski) ho già parlato ai rispettivi link.
Sonny Laguna e Tommy Wiklund sono i registi della pellicola. Americano il primo, probabilmente svedese il secondo, hanno diretto film come Blood Runs Cold, Wither e We Are Monsters. Anche sceneggiatori, tecnici degli effetti speciali, produttori e attori, hanno entrambi un film in uscita.
Michael Paré interpreta il Detective Brown. Americano, ha partecipato a film come Villaggio dei dannati, Scomparsa, The Vatican Tapes, Bone Tomahawk e a serie quali Ralph supermaxi eroe, Cold Case e Dr. House. Anche produttore, ha 60 anni e ben dodici film in uscita.
Thomas Lennon, che interpreta Edgar, era il preside Novak dell'esilarante Santa Clarita Diet mentre l'umano che viene usato come marionetta dai pupazzi altri non è che l'alieno malvagio del film Arma non convenzionale, ovvero Matthias Hues. Puppet Master: The Littlest Reich è, come già scritto nel post, il reboot di una saga iniziata nel col film Puppet Master - Il burattinaio e continuata per anni con Puppet Master II, Puppet Master 3 - Giochi infernali, Dollman, Giocattoli infernali, Radio Alien, Giocattoli assassini, Il ritorno dei giocattoli assassini, Giocattoli assassini - Scontro finale, Curse of the Puppet Master, Retro Puppet Master, Puppet Master: The Legacy, Puppet Master vs Demonic Toys, Demonic Toys: Personal Demons, Puppet Master: Axis of Evil e Puppet Master X: Axis Rising; al momento, tra l'altro, c'è il reboot e anche un film "canonico" contemporaneo, ovvero l'ultimo Puppet Master: Axis Termination, del 2017. Direi che se i pupazzetti assassini vi interessano avete materiale da vendere! ENJOY!
giovedì 25 ottobre 2018
(Gio)WE, Bolla! del 15/10/2018
Buon giovedì a tutti! In questa settimana pre-halloween escono almeno due film imperdibili, di cui uno a tema! ENJOY!
Halloween
Uno di famiglia
Halloween
Reazione a caldo: Olééé!!!
Bolla, rifletti!: Posso perdermi il ritorno di Jamie Lee Curtis nel ruolo che l'ha resa iconica? Ma anche no! Ho ENORMI aspettative per questo film, spero non vengano deluse!
7 sconosciuti a El Royale
Reazione a caldo: Yahoooo!!
Bolla, rifletti!: Temevo non lo avrebbero MAI programmato, invece l'ultimo film di Drew Goddard è arrivato anche a Savona. Non so di cosa parla, non so come ne parlano ma mi è bastato vedere il trailer e il cast per innamorarmi!Uno di famiglia
Reazione a caldo: Oh!
Bolla, rifletti!: Questo sembra carino, anche solo per gli attori, peccato per la sua uscita in un periodo zeppo di altri film interessanti e anche un po' incasinato per la sottoscritta. Recupererò in futuro, anche solo per Sermonti.
Euforia
Reazione a caldo: Meh.
Bolla, rifletti!: Per contro, questa mi sa di commedia "intellettuale" tra le più evitabili, nonostante la mia recente "passione" per Mastandrea. Facciamo che la lasciamo dov'è, eh.
Al cinema d'élite continua la programmazione de Il verdetto, quindi ci si risente alla settimana prossima!
mercoledì 24 ottobre 2018
German Angst (2015)
Dopo Excision, ho guardato anche l'altro horror distribuito questo mese dalla Midnight Factory, il film a episodi German Angst, diretto e sceneggiato nel 2015 dai registi Jörg Buttgereit, Michael Kosakowski e Andreas Marschall.
La prima storia di German Angst è Final Girl, scritta e diretta dal regista Jörg Buttgereit, famoso per opere estreme come Nekromantik (che non ho ovviamente mai guardato. "Ovviamente" perché patisco questo genere di film a tema necrofilia). Molti dicono che questo sia l'episodio migliore del mucchio, io direi che forse è il meno peggio ma, a prescindere, non l'ho apprezzato granché, sinceramente. Protagonista di Final Girl è una ragazza amante dei porcellini d'india che vive in un appartamento squallido e sporco e nasconde in camera un uomo da torturare. Salvo un paio di scene splatter, l'atmosfera malata del film si crea proprio a livello di scenografia e montaggio, con questa ragazza immersa nella spazzatura sulla quale zampettano i porcellini d'india e i flashback che lasciano allo spettatore il compito di capire perché c'è un uomo legato in una stanza, cos'ha fatto di così grave per meritare le torture che gli verranno inflitte e, soprattutto, chi è costui: è il padre della fanciulla? Un vicino di casa? Un pedofilo? Non lo sapremo forse mai o, meglio, io non l'ho capito. Carino comunque il parallelo tra i momenti più splatter della vicenda e i racconti di vita del porcellino d'india Mucki, narrati con la voce della protagonista che, di per sé, è un po' cagna maledetta... ma non quanto gli attori del segmento successivo, Make a Wish.
Make a Wish è, in effetti, il segmento peggiore e non solo per la recitazione (I quattro skinhead sono imbarazzanti e l'unica donna mi faceva venire voglia di strapparmi le orecchie da tanto strillava a mo' di gallina sgozzata, inoltre costringere gli attori a parlare in inglese non è stata proprio una scelta saggia a mio avviso) ma anche per la storia in sé. L'idea di un amuleto capace di scambiare le persone all'interno di due corpi non è brutta e non lo è nemmeno il concetto di "vittima" che sceglie di diventare carnefice... ma il pippone filosofico sul "Chi sta meglio, io o lui? Lui che soffre perché perseguitato o io che sono odiato in quanto persecutore?" è di una pochezza incredibile e lascia con l'amaro in bocca. Non c'è catarsi alla fine di Make a Wish, non c'è un messaggio di fondo, a mio avviso necessario visto il tema trattato, e, oltretutto, le parentesi ambientate ai tempi della seconda guerra mondiale sono a livelli di recitazione e regia pari a quelli di un episodio qualsiasi di Tempesta d'amore. Giusto per rimanere sul teutonico.
L'ultimo episodio ha un nome particolare, Alraune, il quale indica una sorta di Mandragola o comunque una pianta dai poteri misteriosi... e non solo. Dal punto di vista dello splatter e della fantasia probabilmente questo è l'episodio migliore del mucchio anche se non è esente da difetti (in primis, anche qui, una recitazione penosa, non tanto del protagonista quanto dei comprimari; provare ad ascoltare Il cielo in una stanza cantata dalla Cagna Maledetta che gli fa da fidanzata per credere). Se parliamo di "German Angst", essa si percepisce alla perfezione sia in Final Girl sia in questo segmento, interamente basato sul desiderio di evadere, di perdersi in sordidi club sotterranei dove provare piaceri proibiti, mescolando eros e thanatos per non soccombere alle imposizioni di una vita "normale", con ovvie conseguenze per chi si ritrova ad osare troppo. Dei tre episodi, questo è sicuramente quello maggiormente horror nel senso più stretto del termine e anche quello dalla connotazione maggiormente onirica. Il protagonista si ritrova vittima di incubi ad occhi aperti aventi per oggetto mostri innominabili e donne sensualissime, finendo per soccombere all'altro da sé e alle allucinazioni nemmeno si trovasse all'interno di un corto girato da un Cronenberg alle prime armi; nessun inno alla nuova carne, per carità, ma avviso gli stomaci deboli che un paio di mutilazioni potrebbero essere difficili da digerire, per il resto probabilmente Alraune farà felici gli spettatori uomini vista l'abbondanza di belle fanciulle discinte. Noi donne dobbiamo accontentarci dell'emulo di Demetan seminudo, che non è un bel vedere.
Riassumendo, in tutta onestà non mi sento di consigliare German Angst, probabilmente uno dei peggiori film a episodi distribuiti dalla Midnight Factory. Final Girl ha enormi velleità artistiche ma mi ha colpita poco, Make a Wish è abbastanza inqualificabile sotto ogni punto di vista e Alraune mette più disgusto che inquietudine e non è così entusiasmante da giustificare la visione di tutto ciò che viene prima. Può essere che non abbia capito il senso dell'operazione o che, a pelle, la morbosità deprimente di questo trio di autori tedeschi mi abbia dato fastidio; se vi piace il genere, potreste anche dargli un'opportunità, ma decisamente non fa per me.
Jörg Buttgereit è il regista e sceneggiatore di Final Girl. Tedesco, ha diretto film come Nekromantik, Nekromantik 2, Der Todesking e Schramm. Anche attore, produttore e tecnico degli effetti speciali, ha 55 anni.
Michal Kosakowski è il regista e co-sceneggiatore di Make a Wish. Tedesco, ha diretto film come Zero Killed. Anche attore e produttore, ha 43 anni.
Andreas Marschall è il regista e sceneggiatore di Alraune. Tedesco, ha diretto film come Lacrime di Kali e Masks. Ha 57 anni.
L'edizione Midnight Factory del DVD comprende il libretto illustrativo curato dalla redazione di Nocturno e il making of del film. ENJOY!
La prima storia di German Angst è Final Girl, scritta e diretta dal regista Jörg Buttgereit, famoso per opere estreme come Nekromantik (che non ho ovviamente mai guardato. "Ovviamente" perché patisco questo genere di film a tema necrofilia). Molti dicono che questo sia l'episodio migliore del mucchio, io direi che forse è il meno peggio ma, a prescindere, non l'ho apprezzato granché, sinceramente. Protagonista di Final Girl è una ragazza amante dei porcellini d'india che vive in un appartamento squallido e sporco e nasconde in camera un uomo da torturare. Salvo un paio di scene splatter, l'atmosfera malata del film si crea proprio a livello di scenografia e montaggio, con questa ragazza immersa nella spazzatura sulla quale zampettano i porcellini d'india e i flashback che lasciano allo spettatore il compito di capire perché c'è un uomo legato in una stanza, cos'ha fatto di così grave per meritare le torture che gli verranno inflitte e, soprattutto, chi è costui: è il padre della fanciulla? Un vicino di casa? Un pedofilo? Non lo sapremo forse mai o, meglio, io non l'ho capito. Carino comunque il parallelo tra i momenti più splatter della vicenda e i racconti di vita del porcellino d'india Mucki, narrati con la voce della protagonista che, di per sé, è un po' cagna maledetta... ma non quanto gli attori del segmento successivo, Make a Wish.
Make a Wish è, in effetti, il segmento peggiore e non solo per la recitazione (I quattro skinhead sono imbarazzanti e l'unica donna mi faceva venire voglia di strapparmi le orecchie da tanto strillava a mo' di gallina sgozzata, inoltre costringere gli attori a parlare in inglese non è stata proprio una scelta saggia a mio avviso) ma anche per la storia in sé. L'idea di un amuleto capace di scambiare le persone all'interno di due corpi non è brutta e non lo è nemmeno il concetto di "vittima" che sceglie di diventare carnefice... ma il pippone filosofico sul "Chi sta meglio, io o lui? Lui che soffre perché perseguitato o io che sono odiato in quanto persecutore?" è di una pochezza incredibile e lascia con l'amaro in bocca. Non c'è catarsi alla fine di Make a Wish, non c'è un messaggio di fondo, a mio avviso necessario visto il tema trattato, e, oltretutto, le parentesi ambientate ai tempi della seconda guerra mondiale sono a livelli di recitazione e regia pari a quelli di un episodio qualsiasi di Tempesta d'amore. Giusto per rimanere sul teutonico.
L'ultimo episodio ha un nome particolare, Alraune, il quale indica una sorta di Mandragola o comunque una pianta dai poteri misteriosi... e non solo. Dal punto di vista dello splatter e della fantasia probabilmente questo è l'episodio migliore del mucchio anche se non è esente da difetti (in primis, anche qui, una recitazione penosa, non tanto del protagonista quanto dei comprimari; provare ad ascoltare Il cielo in una stanza cantata dalla Cagna Maledetta che gli fa da fidanzata per credere). Se parliamo di "German Angst", essa si percepisce alla perfezione sia in Final Girl sia in questo segmento, interamente basato sul desiderio di evadere, di perdersi in sordidi club sotterranei dove provare piaceri proibiti, mescolando eros e thanatos per non soccombere alle imposizioni di una vita "normale", con ovvie conseguenze per chi si ritrova ad osare troppo. Dei tre episodi, questo è sicuramente quello maggiormente horror nel senso più stretto del termine e anche quello dalla connotazione maggiormente onirica. Il protagonista si ritrova vittima di incubi ad occhi aperti aventi per oggetto mostri innominabili e donne sensualissime, finendo per soccombere all'altro da sé e alle allucinazioni nemmeno si trovasse all'interno di un corto girato da un Cronenberg alle prime armi; nessun inno alla nuova carne, per carità, ma avviso gli stomaci deboli che un paio di mutilazioni potrebbero essere difficili da digerire, per il resto probabilmente Alraune farà felici gli spettatori uomini vista l'abbondanza di belle fanciulle discinte. Noi donne dobbiamo accontentarci dell'emulo di Demetan seminudo, che non è un bel vedere.
Riassumendo, in tutta onestà non mi sento di consigliare German Angst, probabilmente uno dei peggiori film a episodi distribuiti dalla Midnight Factory. Final Girl ha enormi velleità artistiche ma mi ha colpita poco, Make a Wish è abbastanza inqualificabile sotto ogni punto di vista e Alraune mette più disgusto che inquietudine e non è così entusiasmante da giustificare la visione di tutto ciò che viene prima. Può essere che non abbia capito il senso dell'operazione o che, a pelle, la morbosità deprimente di questo trio di autori tedeschi mi abbia dato fastidio; se vi piace il genere, potreste anche dargli un'opportunità, ma decisamente non fa per me.
Jörg Buttgereit è il regista e sceneggiatore di Final Girl. Tedesco, ha diretto film come Nekromantik, Nekromantik 2, Der Todesking e Schramm. Anche attore, produttore e tecnico degli effetti speciali, ha 55 anni.
Michal Kosakowski è il regista e co-sceneggiatore di Make a Wish. Tedesco, ha diretto film come Zero Killed. Anche attore e produttore, ha 43 anni.
Andreas Marschall è il regista e sceneggiatore di Alraune. Tedesco, ha diretto film come Lacrime di Kali e Masks. Ha 57 anni.
L'edizione Midnight Factory del DVD comprende il libretto illustrativo curato dalla redazione di Nocturno e il making of del film. ENJOY!
martedì 23 ottobre 2018
Excision (2012)
Ad ottobre la Midnight Factory ha distribuito due horror, uno German Angst, di cui parlerò nei prossimi giorni, e l'altro Excision, diretto e sceneggiato nel 2012 dal regista Richard Bates Jr.
Trama: Pauline è un'adolescente bruttina e fuori di testa con due soli pensieri nella testa: perdere la verginità e diventare un abile chirurgo.
Avevo conosciuto un paio d'anni fa Richard Bates Jr. grazie al bellissimo Trash Fire, un film che partiva come una caustica commedia sentimentale per concludersi come un angosciante horror dal finale devastante e che, in virtù di ciò, era risultato come uno dei più interessanti della stagione. Excision assomiglia parecchio a Trash Fire, sia per la struttura che per un paio di temi portanti quali l'oppressione della religione e la difficoltà insita nei rapporti familiari, forse è giusto un po' più grezzo e "manierista", nel senso che il regista adora indulgere nei sogni ad occhi aperti di Pauline, fatti di frattaglie, sangue, gente squartata e glamour a fiumi, in pratica gli unici momenti davvero splatter di quella che, in fin dei conti, prima del colpo di coda finale è una commedia adolescenziale nerissima ma parecchio divertente. E' il personaggio di Pauline in primis, al di là dei suoi sogni angoscianti, ad esserlo, perché la ragazza può essere tranquillamente assimilabile ad una Daria un po' più "lurida" ma dotata della stessa lingua tagliente. Pauline sa cosa diventerà nell'immediato futuro, alla faccia di una madre castrante, di un padre castrato e di una sorellina che, forse perché effettivamente più dolce, forse perché malata, è la pupilla di casa: un chirurgo abilissimo, senza se e senza ma. Per diventarlo, Pauline deve necessariamente liberarsi di tutte le cose inutili che la circondano, mettendo al bando ogni sorta di emotività per raggiungere la freddezza necessaria. Ecco il perché dei suoi tragicomici dialoghi con un Dio che viene riconosciuto come entità superiore ma trattato alla stregua di un uomo d'affari, ecco la necessità di perdere la verginità nemmeno fosse un ingombro, ecco il perché del rifiuto di una femminilità inutile quanto le amicizie, se non per fornire consulti non richiesti ed imbarazzanti che la isolano ancora più dai suoi coetanei. In tutto questo, ovviamente, ci si mettono i genitori. La madre di Pauline è l'esatto opposto della figlia, estremamente legata alle convenzioni e alla religione, pronta a sacrificare la dignità della sua "bambina" pur di integrarla nella società mentre il padre, con l'unico atto coraggioso della sua vita, ha relegato ulteriormente Pauline nel novero degli outsider.
Insomma, leggendo immagino vi sarete fatti l'idea di una commedia adolescenziale, quasi demenziale, ma la verità è che Richard Bates Jr. introduce, qui e là, elementi dolorosi ed inquietanti che non si limitano ai coloratissimi e patinati flash splatter dove AnnaLynne McCord si libera finalmente del make up che la imbruttisce per diventare una sensuale e perversa dea della chirurgia; l'alone della morte, della malattia e del rifiuto incombe costantemente sulla famiglia di Pauline, tra dialoghi di una violenza inaudita (quello in cui la madre di Pauline dichiara, disperata, di non amarla mentre la ragazza ascolta di nascosto e piange in camera sua è struggente a dir poco) e piccoli eventi che stridono con la "normalità" piccolo borghese che viene messa in scena dal regista. Pauline è sicuramente l'elemento più inquietante all'interno del film, col suo aspetto ripugnante e le sue abitudini malsane, ma col senno di poi pare quasi che la ragazza incarni una tumescenza latente, in procinto di esplodere ed inondare col suo marciume (o mondare, ripulendo?) la sua intera famiglia e la solita accozzaglia di teenager arrapati e stupidi, senza arte né parte, adolescenti peraltro dei quali fa pare la stessa Pauline, creatura "mediocre" nonostante la sua diversità. La protagonista non è né un genio né un chirurgo prodigio e la sua testardaggine è condivisibile ma non giustificabile, tanto che spesso Pauline mette solo una gran tristezza. Annalynne McCord si annulla completamente in questo personaggio scomodo, provando un gusto palese ad imbruttirsi pur senza rinunciare a una sorta di sensualità perversa che si evince dagli sguardi predatori che Pauline lancia a ciò che la circonda; per contro, i sogni di cui è protagonista sono il trionfo del trash, del cattivo gusto illuminato da una luce asettica, dove dominano i colori dell'azzurro, del bianco e del rosso, quadri in movimento affascinanti e disgustosi al tempo stesso... che è poi la sensazione che provoca l'intero film, ottimo acquisto "indie" della Midnight Factory. Ho un solo appunto negativo da fare su una pellicola che mi è piaciuta tantissimo: ma quanto diamine sono sprecati McDowell, Ray Wise e John Waters?
Del regista e sceneggiatore Richard Bates Jr. ho già parlato QUI. Roger Bart (Bob), Malcom McDowell (Mr. Cooper) e Ray Wise (Preside Campbell) li trovate invece ai rispettivi link.
AnnaLynne McCord, che interpreta Pauline, era già comparsa in un altro film di Richard Bates Jr, il pregevole Trash Fire, inoltre è stata la ninfetta infoiata Eden Lord di Nip/Tuck; nei panni del prete c'è invece il regista John Waters, famoso per Pink Flamingos e La signora ammazzatutti. Il film nasce da un corto dello stesso regista (che purtroppo non è compreso all'interno del DVD targato Midnight Factory, comprensivo giusto del libretto curato dalla redazione di Nocturno), con lo stesso titolo, quindi se Excision vi fosse piaciuto recuperatelo e aggiungete Trash Fire e Raw. ENJOY!
Trama: Pauline è un'adolescente bruttina e fuori di testa con due soli pensieri nella testa: perdere la verginità e diventare un abile chirurgo.
Avevo conosciuto un paio d'anni fa Richard Bates Jr. grazie al bellissimo Trash Fire, un film che partiva come una caustica commedia sentimentale per concludersi come un angosciante horror dal finale devastante e che, in virtù di ciò, era risultato come uno dei più interessanti della stagione. Excision assomiglia parecchio a Trash Fire, sia per la struttura che per un paio di temi portanti quali l'oppressione della religione e la difficoltà insita nei rapporti familiari, forse è giusto un po' più grezzo e "manierista", nel senso che il regista adora indulgere nei sogni ad occhi aperti di Pauline, fatti di frattaglie, sangue, gente squartata e glamour a fiumi, in pratica gli unici momenti davvero splatter di quella che, in fin dei conti, prima del colpo di coda finale è una commedia adolescenziale nerissima ma parecchio divertente. E' il personaggio di Pauline in primis, al di là dei suoi sogni angoscianti, ad esserlo, perché la ragazza può essere tranquillamente assimilabile ad una Daria un po' più "lurida" ma dotata della stessa lingua tagliente. Pauline sa cosa diventerà nell'immediato futuro, alla faccia di una madre castrante, di un padre castrato e di una sorellina che, forse perché effettivamente più dolce, forse perché malata, è la pupilla di casa: un chirurgo abilissimo, senza se e senza ma. Per diventarlo, Pauline deve necessariamente liberarsi di tutte le cose inutili che la circondano, mettendo al bando ogni sorta di emotività per raggiungere la freddezza necessaria. Ecco il perché dei suoi tragicomici dialoghi con un Dio che viene riconosciuto come entità superiore ma trattato alla stregua di un uomo d'affari, ecco la necessità di perdere la verginità nemmeno fosse un ingombro, ecco il perché del rifiuto di una femminilità inutile quanto le amicizie, se non per fornire consulti non richiesti ed imbarazzanti che la isolano ancora più dai suoi coetanei. In tutto questo, ovviamente, ci si mettono i genitori. La madre di Pauline è l'esatto opposto della figlia, estremamente legata alle convenzioni e alla religione, pronta a sacrificare la dignità della sua "bambina" pur di integrarla nella società mentre il padre, con l'unico atto coraggioso della sua vita, ha relegato ulteriormente Pauline nel novero degli outsider.
Insomma, leggendo immagino vi sarete fatti l'idea di una commedia adolescenziale, quasi demenziale, ma la verità è che Richard Bates Jr. introduce, qui e là, elementi dolorosi ed inquietanti che non si limitano ai coloratissimi e patinati flash splatter dove AnnaLynne McCord si libera finalmente del make up che la imbruttisce per diventare una sensuale e perversa dea della chirurgia; l'alone della morte, della malattia e del rifiuto incombe costantemente sulla famiglia di Pauline, tra dialoghi di una violenza inaudita (quello in cui la madre di Pauline dichiara, disperata, di non amarla mentre la ragazza ascolta di nascosto e piange in camera sua è struggente a dir poco) e piccoli eventi che stridono con la "normalità" piccolo borghese che viene messa in scena dal regista. Pauline è sicuramente l'elemento più inquietante all'interno del film, col suo aspetto ripugnante e le sue abitudini malsane, ma col senno di poi pare quasi che la ragazza incarni una tumescenza latente, in procinto di esplodere ed inondare col suo marciume (o mondare, ripulendo?) la sua intera famiglia e la solita accozzaglia di teenager arrapati e stupidi, senza arte né parte, adolescenti peraltro dei quali fa pare la stessa Pauline, creatura "mediocre" nonostante la sua diversità. La protagonista non è né un genio né un chirurgo prodigio e la sua testardaggine è condivisibile ma non giustificabile, tanto che spesso Pauline mette solo una gran tristezza. Annalynne McCord si annulla completamente in questo personaggio scomodo, provando un gusto palese ad imbruttirsi pur senza rinunciare a una sorta di sensualità perversa che si evince dagli sguardi predatori che Pauline lancia a ciò che la circonda; per contro, i sogni di cui è protagonista sono il trionfo del trash, del cattivo gusto illuminato da una luce asettica, dove dominano i colori dell'azzurro, del bianco e del rosso, quadri in movimento affascinanti e disgustosi al tempo stesso... che è poi la sensazione che provoca l'intero film, ottimo acquisto "indie" della Midnight Factory. Ho un solo appunto negativo da fare su una pellicola che mi è piaciuta tantissimo: ma quanto diamine sono sprecati McDowell, Ray Wise e John Waters?
Del regista e sceneggiatore Richard Bates Jr. ho già parlato QUI. Roger Bart (Bob), Malcom McDowell (Mr. Cooper) e Ray Wise (Preside Campbell) li trovate invece ai rispettivi link.
AnnaLynne McCord, che interpreta Pauline, era già comparsa in un altro film di Richard Bates Jr, il pregevole Trash Fire, inoltre è stata la ninfetta infoiata Eden Lord di Nip/Tuck; nei panni del prete c'è invece il regista John Waters, famoso per Pink Flamingos e La signora ammazzatutti. Il film nasce da un corto dello stesso regista (che purtroppo non è compreso all'interno del DVD targato Midnight Factory, comprensivo giusto del libretto curato dalla redazione di Nocturno), con lo stesso titolo, quindi se Excision vi fosse piaciuto recuperatelo e aggiungete Trash Fire e Raw. ENJOY!
domenica 21 ottobre 2018
Sicario (2015)
In occasione dell'uscita di Soldado, ho finalmente recuperato Sicario, diretto nel 2015 dal regista Denis Villeneuve.
Trama: un'agente dell'FBI viene coinvolta in un'operazione della CIA atta a smantellare un cartello messicano ma la questione, ovviamente, è ben più complicata di così.
Di Sicario avevano parlato tutti benissimo all'epoca. TUTTI. Non fatico a capire perché un film simile avesse messo d'accordo chiunque e ancora mi chiedo cosa ho aspettato a vederlo. Non tanto per la trama, bisogna dirlo. Sicario è uno di quei film a base di agenti e complotti che mi vedono persa dopo due secondi netti, tanto che prima di scrivere il post ho dovuto fare un po' di mente locale per vedere se avevo effettivamente capito quello che viene raccontato: in pratica, abbiamo agenti FBI coinvolti loro malgrado in un'operazione CIA dove chiunque ha un proprio scopo da perseguire tranne la povera, integerrima Kate, che invece vorrebbe solo capire in cosa si sia andata a infilare, mentre nell'ombra cospira un uomo ancor più insondabile degli altri. Ora, io sono sicuramente un po' tarda quando mi ritrovo davanti questo genere di pellicole, però mi è sembrato che la trama di Sicario non fosse poi così importante e che i personaggi, su carta (e sottolineo: su carta) avessero lo spessore di un'ostia, degli abbozzi di carattere, delle immagini di qualcosa di impossibile da approfondire in un paio d'ore di film... talvolta, dei cliché. E proprio perché a livello di scrittura, quello insomma verso il quale sono più portata, Sicario non spicca particolarmente, il post rischierebbe di essere anche troppo corto per i livelli standard, ed è un peccato perché il film di Villeneuve è splendido, ma purtroppo meriterebbe gente competente e in grado di approfondire argomenti come regia, fotografia, montaggio e colonna sonora per parlarne degnamente. Quindi vi rimanderei, molto pigramente, QUI e QUI, prima di riprendere la parola e sottolineare quelle cose che mi hanno particolarmente colpita.
LA cosa che mi ha colpita maggiormente, che mai dimenticherò finché campo, è Benicio del Toro. Ora, il personaggio di Del Toro dirà sì e no dieci parole in tutto il film ma compensa con un carisma ed un magnetismo enormi, derivanti essenzialmente da quel suo assurdo sguardo da gatto sornione pronto a far scattare gli artigli ed ucciderti solo perché hai pensato di guardarlo storto. Sia da solo, sia quando duetta in maniera strepitosa con Emily Blunt, soprattutto nell'angosciante sequenza finale dove la mia ansia faceva a pugni col desiderio folle di saltare addosso al buon Benicio, Del Toro mangia letteralmente la scena e riesce a spiccare anche all'interno di un cast praticamente perfetto. La già citata Emily Blunt, oltre ad essere bellissima anche nei panni di un personaggio dimesso, è emblema di forza e fragilità, riempie la sua Kate con un'umanità che la scrittura da sola non le avrebbe mai conferito e con essa riesce a rendere viva questa traumatizzata e complicata agente dell'FBI. I già bravissimi attori vengono valorizzati dalla regia di Villeneuve il quale non sbaglia un'inquadratura e, avvalendosi di un ottimo montaggio e una splendida fotografia (nominata all'Oscar assieme a colonna sonora ed effetti sonori), ottiene due risultati fondamentali: in primis, dona alla pellicola un ritmo particolare e serrato, che porta lo spettatore ad aspettarsi gli eventi peggiori per tutta la durata del film (anche grazie alla colonna sonora del mai abbastanza compianto Johann Johansson, incombente e minacciosa come quella di un horror), secondariamente immerge ognuno dei protagonisti in un'atmosfera fatta di luci eteree ed ombre cupissime, completando la già valida interpretazione degli attori, oppure ci restituisce delle scene di albe magnifiche ed impressionanti colori, un paesaggio da sogno (ma non da cartolina) dove la gente soffre, suda e muore dopo essere stata ingannata malamente. Insomma, una meraviglia di film al quale io non riesco a rendere giustizia quindi vi dico di guardarlo senza perdere tempo come ho fatto io, tanto più che lo trovate anche su Netflix!
Del regista Denis Villeneuve ho già parlato QUI. Emily Blunt (Kate Macer), Benicio Del Toro (Alejandro), Josh Brolin (Matt Graver), Victor Garber (Dave Jennings), Jon Bernthal (Ted) e Daniel Kaluuya (Reggie Wayne) li trovate invece ai rispettivi link.
Soldado, in uscita proprio in questi giorni, dovrebbe essere una sorta di sequel del film quindi, se Sicario vi fosse piaciuto, ne consiglierei il recupero sperando sia bello come la pellicola di Villeneuve. ENJOY!
Trama: un'agente dell'FBI viene coinvolta in un'operazione della CIA atta a smantellare un cartello messicano ma la questione, ovviamente, è ben più complicata di così.
Di Sicario avevano parlato tutti benissimo all'epoca. TUTTI. Non fatico a capire perché un film simile avesse messo d'accordo chiunque e ancora mi chiedo cosa ho aspettato a vederlo. Non tanto per la trama, bisogna dirlo. Sicario è uno di quei film a base di agenti e complotti che mi vedono persa dopo due secondi netti, tanto che prima di scrivere il post ho dovuto fare un po' di mente locale per vedere se avevo effettivamente capito quello che viene raccontato: in pratica, abbiamo agenti FBI coinvolti loro malgrado in un'operazione CIA dove chiunque ha un proprio scopo da perseguire tranne la povera, integerrima Kate, che invece vorrebbe solo capire in cosa si sia andata a infilare, mentre nell'ombra cospira un uomo ancor più insondabile degli altri. Ora, io sono sicuramente un po' tarda quando mi ritrovo davanti questo genere di pellicole, però mi è sembrato che la trama di Sicario non fosse poi così importante e che i personaggi, su carta (e sottolineo: su carta) avessero lo spessore di un'ostia, degli abbozzi di carattere, delle immagini di qualcosa di impossibile da approfondire in un paio d'ore di film... talvolta, dei cliché. E proprio perché a livello di scrittura, quello insomma verso il quale sono più portata, Sicario non spicca particolarmente, il post rischierebbe di essere anche troppo corto per i livelli standard, ed è un peccato perché il film di Villeneuve è splendido, ma purtroppo meriterebbe gente competente e in grado di approfondire argomenti come regia, fotografia, montaggio e colonna sonora per parlarne degnamente. Quindi vi rimanderei, molto pigramente, QUI e QUI, prima di riprendere la parola e sottolineare quelle cose che mi hanno particolarmente colpita.
LA cosa che mi ha colpita maggiormente, che mai dimenticherò finché campo, è Benicio del Toro. Ora, il personaggio di Del Toro dirà sì e no dieci parole in tutto il film ma compensa con un carisma ed un magnetismo enormi, derivanti essenzialmente da quel suo assurdo sguardo da gatto sornione pronto a far scattare gli artigli ed ucciderti solo perché hai pensato di guardarlo storto. Sia da solo, sia quando duetta in maniera strepitosa con Emily Blunt, soprattutto nell'angosciante sequenza finale dove la mia ansia faceva a pugni col desiderio folle di saltare addosso al buon Benicio, Del Toro mangia letteralmente la scena e riesce a spiccare anche all'interno di un cast praticamente perfetto. La già citata Emily Blunt, oltre ad essere bellissima anche nei panni di un personaggio dimesso, è emblema di forza e fragilità, riempie la sua Kate con un'umanità che la scrittura da sola non le avrebbe mai conferito e con essa riesce a rendere viva questa traumatizzata e complicata agente dell'FBI. I già bravissimi attori vengono valorizzati dalla regia di Villeneuve il quale non sbaglia un'inquadratura e, avvalendosi di un ottimo montaggio e una splendida fotografia (nominata all'Oscar assieme a colonna sonora ed effetti sonori), ottiene due risultati fondamentali: in primis, dona alla pellicola un ritmo particolare e serrato, che porta lo spettatore ad aspettarsi gli eventi peggiori per tutta la durata del film (anche grazie alla colonna sonora del mai abbastanza compianto Johann Johansson, incombente e minacciosa come quella di un horror), secondariamente immerge ognuno dei protagonisti in un'atmosfera fatta di luci eteree ed ombre cupissime, completando la già valida interpretazione degli attori, oppure ci restituisce delle scene di albe magnifiche ed impressionanti colori, un paesaggio da sogno (ma non da cartolina) dove la gente soffre, suda e muore dopo essere stata ingannata malamente. Insomma, una meraviglia di film al quale io non riesco a rendere giustizia quindi vi dico di guardarlo senza perdere tempo come ho fatto io, tanto più che lo trovate anche su Netflix!
Del regista Denis Villeneuve ho già parlato QUI. Emily Blunt (Kate Macer), Benicio Del Toro (Alejandro), Josh Brolin (Matt Graver), Victor Garber (Dave Jennings), Jon Bernthal (Ted) e Daniel Kaluuya (Reggie Wayne) li trovate invece ai rispettivi link.
Soldado, in uscita proprio in questi giorni, dovrebbe essere una sorta di sequel del film quindi, se Sicario vi fosse piaciuto, ne consiglierei il recupero sperando sia bello come la pellicola di Villeneuve. ENJOY!
venerdì 19 ottobre 2018
Laissez bronzer les cadavres (2017)
Tra i film presentati in anteprima al ToHorror Film Fest c'era Laissez Bronzer Les Cadavres, diretto e sceneggiato nel 2017 dai registi Hélène Cattet e Bruno Forzani e tratto dal romanzo omonimo di Jean Patrick Manchette e Jean-Pierre Bastid.
Trama: in cerca di un rifugio dopo una rapina, un gruppo di malviventi finisce nel luogo di villeggiatura di uno scrittore e della sua musa. Tra doppiogiochisti assortiti, arrivi inaspettati e poliziotti, la faccenda butterà malissimo...
Può un film essere visivamente stupendo ma totalmente insulso a livello di trama, al punto da non riuscire a coinvolgere ed interessare lo spettatore nemmeno per sbaglio? Hai voglia, Laissez Bronzer les Cadavres è un ottimo esempio di questo paradosso, tanto che la visione è risultata tra le più pesanti da me affrontate quest'anno. La cosa è assai strana perché a me, di base, le storie di rapine andate male ed assedi, popolate da criminali brutti, sporchi e cattivi piacciono tantissimo, eppure in questo caso non mi sono entusiasmata, forse perché i personaggi non vengono approfonditi nemmeno per sbaglio e sono poco più di figurine in movimento su uno sfondo bellissimo, tutte destinate a morire più o meno male. La morte incombe infatti su ognuno dei protagonisti come una figura misteriosa e affascinante, una sensuale donna senza volto che popola le visioni dalle quali è inframmezzato il film (o, almeno, questo è quello che mi è sembrato di capire, magari sbagliando), visioni di sesso violento, sangue, torture... e golden shower. Letteralmente. La percezione di come la Cattet e Forzani abbiano scelto di approfondire maggiormente l'aspetto estetico del film sacrificando appunto la disperazione e lo squallore dei criminali rappresentati o la loro amara, violenta ironia, mi ha subito reso inviso Laissez Bronzer les Cadavres, un'ora e mezza di "stallo" privo del ritmo e dell'angoscia di Free Fire, girato anch'esso in un ambiente chiuso e con pochissimi personaggi ma molto più esaltante e violento. Nel film di Ben Wheatley non c'era un attimo di tregua, le situazioni cambiavano di continuo e si arrivava a provare sulla propria pelle il terrore di beccarsi una pallottola in fronte, qui sembra di guardare delle statue realistiche che vanno in pezzi, tra un breve dialogo e l'altro, sensazione accentuata dal tripudio di arte e colori che è la cifra stilistica di regia, fotografia e montaggio di Laissez Bronzer Les Cadavres.
Già la scena iniziale racchiude in sé tutto ciò che sarà il film, con quella tela imbrattata di colori e buchi di pallottola, le riprese ravvicinatissime di occhi e labbra, i suoni enfatizzati. Ogni inquadratura di Laissez Bronzer les Cadavres è una tela, un'opera d'arte, una ricerca di soluzioni visive atte a stupire lo spettatore mettendogli davanti una serie infinita di quadri semoventi con la scusa di seguire un mero canovaccio che potrebbe anche non esserci. Più del gusto del sangue, benché le sequenze "ardite" non manchino, conta più il gusto della bellezza e del colore in ogni sua forma o la particolarità della messa in scena. Un esempio su tutti, la colonna sonora fatta sentire al contrario nel momento in cui il tempo torna indietro diventando un misto tra flashback e visioni, le formiche a simboleggiare i personaggi che brulicano disperati all'interno dei loro nascondigli, il passaggio da strisce di sangue a strisce di oro liquido senza soluzione di continuità, coi corpi (i cadaveri) che rimangono lì indolenti, a farsi toccare, dipingere, ferire e distruggere come se i registi avessero per le mani dei manichini o dei pezzi di argilla. Anche solo per la bellezza dei colori e delle location o per l'accostamento tra eros e thanatos, presente in altre opere dei due registi peraltro, non posso dire che Laissez Bronzer les Cadavres sia un film brutto ma purtroppo non è proprio il mio genere di pellicola. Per carità, a ripensarci anche The Neon Demon era al 90% estetica eppure qualcosa all'interno della trama mi aveva toccata e ipnotizzata, invece Laissez Bronzer les Cadavres non mi ha lasciato altro che il vuoto cosmico dentro. Che a qualcuno, per carità, potrà anche piacere ma, ribadisco, non è il mio genere.
Hélène Cattet e Bruno Forzani sono i registi e co-sceneggiatori della pellicola. Marito e moglie, entrambi francesi, hanno diretto film come Amer, Lacrime di sangue e l'episodio O is for Orgasm di The ABCs of Death. Anche produttori, hanno entrambi 42 anni.
Se Laissez Bronzer les Cadavres vi fosse piaciuto consiglierei di recuperare il più prosaico ma soddisfacente Free Fire. ENJOY!
Trama: in cerca di un rifugio dopo una rapina, un gruppo di malviventi finisce nel luogo di villeggiatura di uno scrittore e della sua musa. Tra doppiogiochisti assortiti, arrivi inaspettati e poliziotti, la faccenda butterà malissimo...
Può un film essere visivamente stupendo ma totalmente insulso a livello di trama, al punto da non riuscire a coinvolgere ed interessare lo spettatore nemmeno per sbaglio? Hai voglia, Laissez Bronzer les Cadavres è un ottimo esempio di questo paradosso, tanto che la visione è risultata tra le più pesanti da me affrontate quest'anno. La cosa è assai strana perché a me, di base, le storie di rapine andate male ed assedi, popolate da criminali brutti, sporchi e cattivi piacciono tantissimo, eppure in questo caso non mi sono entusiasmata, forse perché i personaggi non vengono approfonditi nemmeno per sbaglio e sono poco più di figurine in movimento su uno sfondo bellissimo, tutte destinate a morire più o meno male. La morte incombe infatti su ognuno dei protagonisti come una figura misteriosa e affascinante, una sensuale donna senza volto che popola le visioni dalle quali è inframmezzato il film (o, almeno, questo è quello che mi è sembrato di capire, magari sbagliando), visioni di sesso violento, sangue, torture... e golden shower. Letteralmente. La percezione di come la Cattet e Forzani abbiano scelto di approfondire maggiormente l'aspetto estetico del film sacrificando appunto la disperazione e lo squallore dei criminali rappresentati o la loro amara, violenta ironia, mi ha subito reso inviso Laissez Bronzer les Cadavres, un'ora e mezza di "stallo" privo del ritmo e dell'angoscia di Free Fire, girato anch'esso in un ambiente chiuso e con pochissimi personaggi ma molto più esaltante e violento. Nel film di Ben Wheatley non c'era un attimo di tregua, le situazioni cambiavano di continuo e si arrivava a provare sulla propria pelle il terrore di beccarsi una pallottola in fronte, qui sembra di guardare delle statue realistiche che vanno in pezzi, tra un breve dialogo e l'altro, sensazione accentuata dal tripudio di arte e colori che è la cifra stilistica di regia, fotografia e montaggio di Laissez Bronzer Les Cadavres.
Già la scena iniziale racchiude in sé tutto ciò che sarà il film, con quella tela imbrattata di colori e buchi di pallottola, le riprese ravvicinatissime di occhi e labbra, i suoni enfatizzati. Ogni inquadratura di Laissez Bronzer les Cadavres è una tela, un'opera d'arte, una ricerca di soluzioni visive atte a stupire lo spettatore mettendogli davanti una serie infinita di quadri semoventi con la scusa di seguire un mero canovaccio che potrebbe anche non esserci. Più del gusto del sangue, benché le sequenze "ardite" non manchino, conta più il gusto della bellezza e del colore in ogni sua forma o la particolarità della messa in scena. Un esempio su tutti, la colonna sonora fatta sentire al contrario nel momento in cui il tempo torna indietro diventando un misto tra flashback e visioni, le formiche a simboleggiare i personaggi che brulicano disperati all'interno dei loro nascondigli, il passaggio da strisce di sangue a strisce di oro liquido senza soluzione di continuità, coi corpi (i cadaveri) che rimangono lì indolenti, a farsi toccare, dipingere, ferire e distruggere come se i registi avessero per le mani dei manichini o dei pezzi di argilla. Anche solo per la bellezza dei colori e delle location o per l'accostamento tra eros e thanatos, presente in altre opere dei due registi peraltro, non posso dire che Laissez Bronzer les Cadavres sia un film brutto ma purtroppo non è proprio il mio genere di pellicola. Per carità, a ripensarci anche The Neon Demon era al 90% estetica eppure qualcosa all'interno della trama mi aveva toccata e ipnotizzata, invece Laissez Bronzer les Cadavres non mi ha lasciato altro che il vuoto cosmico dentro. Che a qualcuno, per carità, potrà anche piacere ma, ribadisco, non è il mio genere.
Hélène Cattet e Bruno Forzani sono i registi e co-sceneggiatori della pellicola. Marito e moglie, entrambi francesi, hanno diretto film come Amer, Lacrime di sangue e l'episodio O is for Orgasm di The ABCs of Death. Anche produttori, hanno entrambi 42 anni.
Se Laissez Bronzer les Cadavres vi fosse piaciuto consiglierei di recuperare il più prosaico ma soddisfacente Free Fire. ENJOY!
giovedì 18 ottobre 2018
(Gio)WE, Bolla! del 18/10/2018
Buon giovedì a tutti! Passata l'euforia da ToHorror Film Fest, vediamo cosa offre il multisala di Savona questa settimana... ENJOY!
Soldado
Piccoli brividi 2: I fantasmi di Halloween
Nessuno come noi
Pupazzi senza gloria
Cinema impegnato alla saletta d'élite!
Il verdetto
Soldado
Reazione a caldo: Benissimo!!
Bolla, rifletti!: Per l'occasione ho guardato Sicario in questi giorni e ne parlerò domenica. Temo il film di Sollima (che pure apprezzo come regista) non sarà nemmeno lontanamente paragonabile a quello di Villeneuve ma confido nella meraviglia di Benicio Del Toro.Piccoli brividi 2: I fantasmi di Halloween
Reazione a caldo: Meh.
Bolla, rifletti!: Piccoli Brividi era molto carino ma qui manca Jack Black quindi scema la voglia di guardarlo al cinema. Magari lo recupererò in futuro.Nessuno come noi
Reazione a caldo: Ma anche no.
Bolla, rifletti!: Credevo fosse un tristissimo young adult invece è una tristissima robetta sentimentale italiana. Il risultato, comunque, è sempre un grosso NO.Pupazzi senza gloria
Reazione a caldo: Sono davvero indecisa.
Bolla, rifletti!: So per certo che questo film è una cazzata immane e devo dire che il trailer mi ha dato anche un po' fastidio. Ma Maccio Capatonda attira sempre quindi chissà...Cinema impegnato alla saletta d'élite!
Il verdetto
Reazione a caldo: Sembra interessante!
Bolla, rifletti!: Attori della madonna per una vicenda che sicuramente porterà a più di una riflessione. Lo segno per il futuro visto che i soliti orari infingardi del cinema questa settimana sono proibitivi!