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venerdì 24 gennaio 2020

Richard Jewell (2019)

Non si può ignorare un film diretto da Clint Eastwood quando esce al cinema, soprattutto se, come questo Richard Jewell, è anche candidato all'Oscar per la migliore attrice non protagonista.


Trama: Richard Jewell, agente di sicurezza, trova una bomba durante una manifestazione al Centennial Park di Atlanta in occasione delle Olimpiadi ed evita così un conteggio delle vittime ancora più grave. L'FBI, tuttavia, lo accusa di essere l'attentatore...


Tutto il mondo è paese, e il paese, consentitemi di dirlo con volgarità, sta andando a puttane, lo ha sempre fatto. E' una cosa che il cinema ci sta mettendo sotto il naso da tanti anni, aprendoci gli occhi su come le istituzioni non sono poi così adamantine come dovrebbero essere e su come i media troppo spregiudicati facciano l'esatto contrario di quello che dovrebbe fare il buon giornalismo, ovvero informare, limitandosi al becero sensazionalismo quando va bene (sto pensando agli exploit del nostro adorato Capitone verde, che adesso s'è messo a molestare anche la gente al citofono) e a mettere in croce le persone quando va male. A Richard Jewell, guardia di sicurezza con qualche problemino a livello fisico e mentale ma convinto al 100% del funzionamento delle istituzioni, della polizia e del governo, è andata malissimo nel 1996, anno in cui ha scoperto che a farsi i fatti propri avrebbe potuto campare cent'anni, e pazienza se a rimetterci la vita sarebbero state 300 persone invece di un centinaio. Richard Jewell, ligio al dovere ed incredibilmente entusiasta, quell'anno ha scoperto una bomba al Centennial Park di Atlanta e ha giustamente dato l'allarme (cosa che ha ridotto sensibilmente il numero di vittime, che purtroppo ci sono state), per poi venire accusato dall'FBI e dai giornali americani di essere l'attentatore e vedersi così rovinata una vita già non facilissima. Il vecchio Clint, qui "solo" in veste di regista, non critica assolutamente la legittimità di un dubbio, ché Richard Jewell non è l'uomo più gradevole del mondo e nemmeno il più rassicurante: un po' megalomane, ligio al dovere e alla giustizia al punto da essere stato condannato per abuso di autorità, fanatico delle armi, ciccione, single, ancora in casa con mamma, dotato di atteggiamenti ambigui e già sotto consiglio di una bella valutazione psichiatrica, non è così scandaloso che l'FBI abbia potuto tracciare un profilo negativo a suo discapito. Quello che è scandaloso, invece, è che i media ci si siano buttati a pesce, cancellando con un colpo di spugna tutta la privacy e la dignità di quest'uomo e di sua madre, trasformandolo in tempo zero da "eroe" (altra bella esagerazione) a "mostro" da sbattere in prima pagina.


Non sono la più grande estimatrice di Clint Eastwood e non mi ritengo un'esperta né della sua poetica, né della sua cinematografia, diciamo che prendo ogni suo film come fosse un'opera a sé stante, per questo non mi addentro in confronti con altri film; tuttavia, la frustrazione provata guardando Richard Jewell è assai simile a quella che ho provato con Mystic River, un senso di rabbia impotente e di voglia di piangere causati da una sensazione di claustrofobia ed incredulità crescenti. Mi sono messa nei panni non tanto di Richard Jewell (come ho detto, empatizzare con il protagonista non è facilissimo, ci si ritrova spesso a guardarlo perplessi e sconsolati come la "voce della ragione" Sam Rockwell, con le mani che prudono dalla voglia di prenderlo a schiaffi) quanto della povera Bobi, la mamma magistralmente interpretata da Kathy Bates. Che cosa significa dover sopportare tutta quella pressione mediatica, venire additata come mamma di un mostro e non poter nemmeno andare in bagno senza timore di essere ascoltati dall'FBI, il tutto mantenendo intatta la fiducia verso un figlio che tutti vorrebbero vedere morto? Onestamente, non riesco nemmeno a pensarci. In questo periodo, lo ammetto, sono psicologicamente fragile ma il pianto di Kathy Bates mi ha spezzato il cuore e mi sono vergognata, perché con tutta probabilità se all'epoca avessi avuto interesse nella vicenda mi sarei schierata a favore di un'opinione pubblica impietosa, perché è troppo facile giudicare male chi è debole e disadattato come Richard Jewell. E' troppo facile assecondare il carisma di una giornalista spregiudicata, abbassare le orecchie davanti alla strafottenza degli agenti dell'FBI, farsi intortare, anche in senso buono, dalla parlantina di un avvocato che per fortuna ha saputo guardare oltre e che è quanto di più americano si poteva inserire all'interno di una sceneggiatura (dai, lo si perdona); è facile ma anche terribile perché, alla fine, anche se vorremmo essere dei granitici Bruce Willis, siamo tutti un po' Paul Walter Hauser e quello che è successo a Richard Jewell potrebbe succedere anche a noi. E chi sarà lì per raccontarlo con questo rigore senza sbavature, riuscendo ad emozionare senza suonare retorico, quando Clint Eastwood non ci sarà più?


Del regista Clint Eastwood ho già parlato QUI. Paul Walter Hauser (Richard Jewell), Sam Rockwell (Watson Bryant), Olivia Wilde (Kathy Scruggs), Jon Hamm (Tom Shaw) e Kathy Bates (Bobi Jewell) li trovate invece ai rispettivi link.


Jonah Hill avrebbe dovuto interpretare Richard Jewell ma alla fine è rimasto solo come produttore del film e lo stesso vale per Leonardo Di Caprio, a cui si pensava per il ruolo dell'avvocato. Se Richard Jewell vi fosse piaciuto recuperate il già citato Mystic River. ENJOY!


domenica 28 ottobre 2018

7 sconosciuti a El Royale (2018)

Giovedì sera col Bolluomo volevamo andare a vedere Soldado ma, sorpresa!, a Savona è stato relegato in tempo zero all'impossibile spettacolo delle 15.30, quindi abbiamo ripiegato su 7 sconosciuti a El Royale (Bad Times at El Royale), diretto e sceneggiato dal regista Drew Goddard.


Trama: all'Hotel El Royale, ubicato per metà nel Nevada e per metà in California, si intrecciano i destini di un prete, una cantante, un rappresentante di aspirapolveri e una hippy, tutti con un segreto...


Una perfetta definizione di 7 sconosciuti a El Royale sarebbe quella di pout-pourri. Se con lo splendido Quella casa nel bosco il regista e sceneggiatore Drew Goddard decostruiva i cliché dell'horror e giocava con lo spettatore creando qualcosa di nuovo e originale rimanendo comunque su un binario ben preciso, qui la parola d'ordine pare essere "sovrabbondanza, accumulo compulsivo", non solo di personaggi ma soprattutto di tematiche e stili. Far rientrare 7 sconosciuti a El Royale in un singolo genere cinematografico è infatti assai arduo, ma non solo; sinceramente è anche difficile trovare un "senso" a quello che viene mostrato, data l'insipidità di alcuni dei personaggi. Senza fare troppi spoiler, Goddard parte da una delle immagini ed idee più intriganti di Quella casa nel bosco (un indizio? C'entrano gli specchi) e su di essa ricama per ottenere la storia di un Hotel con un segreto per poi intrecciare le vicende di vari personaggi legate talvolta al filone della crime story, altre al cinema di guerra, altre alla spy story, altre addirittura al thriller con venature horror, senza troppa soluzione di continuità. L'incredibile lunghezza del film, che sfiora le due ore e mezza, è data dall'intrico di flashback che gettano luce sul passato dei protagonisti e dalla riproposta di almeno mezza dozzina di sequenze da altrettanti punti di vista differenti, così che lo spettatore abbia un quadro completo e abbastanza tarantiniano dell'intera timeline della pellicola, ma nonostante questo Goddard lascia in sospeso un paio di punti chiave e non sfrutta interamente la potenzialità di un setting così particolare. 7 sconosciuti a El Royale può infatti "vantare" un paio di McGuffin assimilabili alla valigetta di Pulp Fiction ma anche abbondanza di dettagli inutili, in primis la natura ibrida della territorialità dell'hotel: a che pro sottolineare, fin dall'inizio, la divisione precisa dell'Hotel El Royale tra Nevada e California se questa ubicazione non influenza minimamente le vicende narrate? Per dire, sarebbe stato interessante, vista l'abbondanza di criminali presenti nel film, ricamare un po' sulle diverse leggi dei due stati, costringendo i personaggi a saltare da una parte all'altra per ottenere delle impunità, invece la cosa viene lasciata cadere quasi subito e se il film fosse stato ambientato all'Overlook Hotel, per dire, non sarebbe cambiato di una virgola il risultato finale.


Questo setting particolare, così come l'ambientazione fine anni '60, influenza ovviamente la regia, la scenografia, la colonna sonora e il montaggio di 7 sconosciuti a El Royale, dove Drew Goddard ambisce palesemente a mostrare più le sue doti di regista che di sceneggiatore. Dopo un'introduzione di stampo teatrale con uno scioccante finale "a sorpresa", infatti, la pellicola diventa il trionfo dello schermo diviso simmetricamente da una linea rossa, delle stanze virate ognuna in un colore diverso, dell'inquadratura accattivante, dei cartelli che introducono capitoli, della ricchezza della scenografia, delle luci morbide che contrastano coi colori sgargianti, dei primi piani addolorati, dei flashback, dei lustrini e dei juke-box. In particolare, spesso e volentieri il montaggio, sonoro e non, segue la "scuola" Baby Driver e si adegua alle canzoni presenti nella splendida colonna sonora, cuore pulsante dell'intera pellicola grazie all'interpretazione di Cynthia Erivo, attrice e cantante inglese assai famosa nei teatri di Broadway e Londra, alla quale vengono riservate vere e proprie esibizioni canore, talvolta funzionali ai fini della trama (soprattutto in "duetto" con Jeff Bridges), talvolta no, al punto purtroppo da risultare pesanti. Cynthia Erivo, nome quasi sicuramente poco conosciuto a chi ama il cinema, è paradossalmente la punta di diamante di un cast che, sulla carta, sarebbe risultato dannatamente intrigante invece concorre al sapor di diludendo che lascia in bocca 7 sconosciuti a El Royale. Jeff Bridges, infatti, è svogliato rispetto ai suoi standard nonostante abbia gioco facile contro gli inespressivi Dakota Johnson e Chris Hemsworth; in particolare, quest'ultimo mostra tutti i suoi limiti di attore buono giusto per interpretare Thor ed essere figo, ma la colpa forse non è nemmeno sua vista l'imbarazzante caratterizzazione di un personaggio a metà tra Charles Manson e il Fabius di Fabio De Luigi, ingiustificabile da ogni punto di vista. Meglio i giovani Lewis Pullman, sorprendente sul finale, e l'inquietante Kaylee Spaeny, ragazzina da prendere a ceffoni pesanti dall'inizio alla fine del film, anche se tra tutti, il personaggio meglio caratterizzato rimane sempre quello di Chynthia Erivo. Questo è uno dei motivi per cui 7 sconosciuti a El Royale mi ha delusa, nonostante le enormi aspettative, perché è un bell'involucro che avvolge il nulla cosmico e sinceramente da Goddard, conoscendo le sue sceneggiature solitamente intelligenti e soprattutto dopo Quella casa nel bosco, mi aspettavo molto di più.


Del regista e sceneggiatore Drew Goddard ho già parlato QUI. Jeff Bridges (Padre Daniel Flynn/Dock O'Kelly), Dakota Johnson (Emily Summerspring), Jon Hamm (Laramie Seymour Sullivan / Dwight Broadbeck) e Chris Hemsworth (Billy Lee) li trovate invece ai rispettivi link.


Lewis Pullman, che interpreta Miles Miller, ha partecipato a The Strangers: Prey at Night mentre nel cast spunta anche il giovane regista Xavier Dolan nei panni di Buddy Sunday. Russell Crowe avrebbe dovuto partecipare al film ma alla fine è stato sostituito da Jon Hamm. Detto questo, se 7 sconosciuti a El Royale vi fosse piaciuto, recuperate Four Rooms e Paura e delirio a Las Vegas. ENJOY!


mercoledì 13 settembre 2017

Baby Driver - Il genio della fuga (2017)

L'ultimo film scritto e diretto da Edgar Wright è uscito persino a Savona! Potevo quindi perdermi Baby Driver - Il genio della fuga (Baby Driver)? Assolutamente no!


Trama: a seguito di un incidente stradale accorsogli da bambino, Baby è affetto da acufene, cosa che lo costringe ad andare in giro con la musica perennemente sparata nelle orecchie. Questa sua particolarità lo rende anche un autista provetto, nonché il migliore alleato di un ladro professionista, Doc, che lo utilizza sempre per i suoi colpi.


Baby Driver è un film che Edgar Wright si rigirava nella mente fin dagli anni '90 e che è riuscito brevemente a fare capolino in un video diretto proprio dal regista, Blue Song dei Mint Royale, uscito nel 2004 e avente tra gli attori protagonisti anche ciccio Nick Frost (il video si può vedere brevemente in una sequenza di Baby Driver); il progetto era talmente caro a Wright da spingerlo a fare persino il gesto dell'ombrello alla Marvel e al loro Ant-Man, con buona pace di noi spettatori amanti dello stile del regista britannico e di film realizzati col cuore più che col portafoglio. E' un bene che esistano ancora Autori con la A maiuscola anche in ambito "commerciale" perché Baby Driver, nonostante la natura di film un po' supercazzola tutto stunt automobilistici (favolosi) e malviventi spacconi (o forse proprio in virtù di questo), è un'opera che titilla tutti i sensi dello spettatore, almeno quelli utilizzati per la recezione di una pellicola, e dalla quale traspaiono interamente la bravura, la perizia e l'impegno di chi l'ha realizzata. La trama di Baby Driver, a dirla tutta, non brilla di originalità: la storia di un animo fondamentalmente candido costretto suo malgrado a compiere brutte azioni, vuoi per necessità economiche vuoi perché ricattato da chi è davvero malvagio (forse), che arriva a compiere determinate scelte per amore, è stata raccontata mille e una volta, eppure come al solito il tocco leggero di Edgar Wright riesce a non rendere banale né il racconto in generale né la caratterizzazione dei vari personaggi. Baby, con tutti i suoi tic quasi autistici e quell'atteggiamento tra il buffo e l'esasperante col quale letteralmente fugge dalla realtà che lo circonda, è un protagonista assai carino, col quale lo spettatore può facilmente empatizzare, ma ogni personaggio viene reso vivo ed indimenticabile anche quando gli vengono concessi poco più di alcuni minuti sullo schermo, si vedano il duro interpretato da Jon Bernthal ("Se non mi rivedrete vorrà dire che sarò morto"), il nipotino di Kevin Spacey, la commessa dell'ufficio postale e persino la vecchina derubata della macchina. E poi c'è quel protagonista unico ed indispensabile che è la musica, punto fermo di una pellicola che rischiava di essere il tipico "videoclip" stilosetto ma freddo e invece proprio grazie ad essa trova una sua personalità tutta particolare, un calore difficile da trovare al giorno d'oggi.


Baby è la musica, e la musica è Baby. Il ragazzo vive di Ipod, campiona i dialoghi di chi lo circonda per creare una nuova melodia, cammina a ritmo di ciò che in quel momento passa nelle sue cuffie, parla riportando brani di canzoni o film a seconda dell'occasione ed è talmente innamorato di questa forma d'arte da riuscire a trasmettere la sua passione persino al nonno adottivo, sordomuto. La realtà della vita criminale non lo tange, almeno fino a un certo punto, perché tutto ciò che gli capita viene filtrato dalle cuffiette dell'Ipod e finché il fanciullo è libero di fare quel che più gli piace e c'è da guidare e rubare senza fare male a nessuno, tutto bene; lo stesso vale per la storia d'amore con Debora e per il suo destino finale, al punto che sembra quasi che la realtà stessa si plasmi a seconda di ciò che ascolta Baby, tra graffiti che riportano interi testi di canzoni e arcobaleni che spuntano all'improvviso come in un brano di Dolly Parton, a ricordarci che la felicità arriva solo dopo l'inevitabile pioggia e il temporale chissà quanti anni potrà durare. E la musica scandisce non solo il ritmo della vita di Baby ma anche quello della struttura stessa del film, con Edgar Wright che si permette di ri-citare se stesso e una delle scene più famose di Shaun of the Dead seguendo Ansel Elgort con un elegante piano sequenza mentre il protagonista va a prendere il caffé, per poi cominciare a giocare col montaggio e i suoni degli spari o delle portiere sbattute, che seguono letteralmente il ritmo della colonna sonora. E quando quest'ultima non c'è, ecco che lo spettatore si ritrova a dover sentire quel fastidioso ronzio che porta Baby a cercare riparo nella musica, cosa che crea ancora più empatia col personaggio. A completare il tutto c'è infine un cast d'eccezione, con due premi Oscar come Kevin Spacey e Jamie Foxx pronti a gigioneggiare senza ritegno, una Eiza Gonzáles particolarmente gnocca e un Jon Hamm che definirlo figo è poco visto lo sviluppo a cui va incontro il suo personaggio, ribaltando decisamente le aspettative del pubblico benché molte cose vengano prefigurate da tutti i piccoli dettagli che meriterebbero a Baby Driver una seconda visione e persino una terza. Ovviamente in lingua originale, ché l'adattamento italiano fa perdere non solo alcuni giochi di parole e le citazioni delle canzoni, ma a un certo punto mi ha portata anche a non capire una mazza di ciò che dice Doc e giuro che è la prima volta che mi accade al cinema!


Del regista e sceneggiatore Edgar Wright ho già parlato QUI. Jon Bernthal (Griff), Jon Hamm (Buddy), Lily James (Debora), Kevin Spacey (Doc) e Jamie Foxx (Pazzo) li trovate invece ai rispettivi link.

Ansel Elgort interpreta Baby. Americano, ha partecipato a film come Lo sguardo di Satana - Carrie, Divergent, Insurgent e The Divergent Series - Allegiant. Ha 23 anni e tre film in uscita.


Walter Hill non si vede ma è la voce originale dell'interprete in tribunale. Famosissimo regista, ha diretto film come Driver l'imprendibile (una delle fonti di ispirazione del film, ovviamente), I guerrieri della notte, 48 ore, Danko, Johnny il bello, Ancora 48 ore, Ancora vivo ed episodi di serie come I racconti della cripta. Anche produttore e sceneggiatore, ha 75 anni.


Eiza Gonzáles, che interpreta Darling, era la Santanico Pandemonium della serie Dal tramonto all'alba e dovrebbe tornare sul grande schermo con l'uscita di Alita: Battle Angel di Robert Rodriguez, a luglio dell'anno prossimo mentre la cantante Sky Ferreira, già vista in Twin Peaks, è la mamma di Baby e il bassista dei Red Hot Chili Peppers, Flea, intepreta Eddie; l'attore CJ Jones, che interpreta Joseph, è invece davvero sordo ed è molto attivo nel promuovere e realizzare spettacoli proprio per i portatori di questo handicap. Emma Stone era stata scelta per il ruolo di Debora ma ha rinunciato per partecipare a La La Land (ecco forse perché il look delle due è molto simile in una scena) mentre Michael Douglas era stato preso in considerazione per il ruolo di Doc ed è stato proprio Edgar Wright ad assegnargli quello di Hank Pym prima di abbandonare il set di Ant-Man. Detto questo, se Baby Driver vi fosse piaciuto recuperate Grindhouse - A prova  di morte, Driver, l'imprendibile, Mad Max: Fury Road, The Blues Brothers, Hudson Hawk - Il mago del furto e Una vita al massimo. ENJOY!

domenica 6 settembre 2015

Minions (2015)

Uscita dritta dritta dalla visione di Minions, diretto dai registi Kyle Balda e Pierre Coffin, ecco un paio di impressioni a caldo su questa pellicola che aspettavo tanto!


Trama: "orfani" di padrone, i minion Stuart, Bob e Kevin vanno in spedizione per conto dell'intera tribù e si imbattono in Scarlett Sterminator, una supercattivissima che vuole rubare nientemeno che la Corona d'Inghilterra...


Cosa sarebbero Cattivissimo Me e il suo sequel senza i Minions? Ammettiamolo, è dal 2010 che stavamo tutti aspettando un film che vedesse i buffi esserini gialli protagonisti assoluti. Quest'anno il nostro desiderio si è avverato e Minions si è confermato, almeno per quel che mi riguarda, un esperimento riuscitissimo, simpatico, garbato e (soprattutto!) della giusta durata: un'ora e mezza di avventure del dinamico trio Stuart, Bob e Kevin è la perfetta via di mezzo tra un cortometraggio poco soddisfacente e un'ininterrotta, lunghissima sequenza di gag che dopo un po' diventerebbe pesante come un macigno. La storia, introdotta da un serissimo Alberto Angela che ci mostra le origini degli ometti gialli (nonché le tristi dipartite dei padroni nel corso delle ere ma non spiega come fanno i Minions a riprodursi, papà Piero non apprezzerebbe tanta superficialità!), si focalizza solo su tre Minions i cui caratteri uniti creano delle dinamiche parecchio esilaranti e, parallelamente alla loro odissea tra Orlando e Londra, riesce anche a seguire con poche, spassose e caotiche sequenze, le vicende del resto della tribù. A fare le spese dello zelo adorante di Stuart, Bob e Kevin sono la cattivissima Scarlett Sterminator e il marito Herb, malvagia osannatissima la prima ed innamoratissimo emulo di Austin Powers il secondo, che come "prova" per assumere i Minions pretendono la corona d'Inghilterra; il film verte interamente sul tentativo dei tre Minions di recuperare il preziosissimo oggetto e sulle impreviste conseguenze del loro gesto scellerato, offrendo al pubblico una simpatica parodia dei film "di spionaggio" e, soprattutto, tutta quella serie di stupidissimi stereotipi britannici che fanno sempre tanto ridere, per di più ambientati all'epoca della Swinging London. Ovviamente non vi racconto nello specifico cosa succederà nel film ma preparatevi a sciogliervi davanti alla dolcezza di Bob, a strapparvi i capelli di fronte alla badassitudine di Stuart e ad entusiasmarvi davanti alla determinazione di Kevin; se non ci fossero loro il film sarebbe ben poca cosa anche perché purtroppo Scarlett Sterminator è tanto cattiva quanto loffia, non certo una nemesi adatta a un branco di scalmanati e carismatici esserini gialli.


Passando all'aspetto tecnico, Minions è coloratissimo, perfettamente animato e soprattutto prevede una serie di numeri musicali che sono quasi più belli e divertenti dell'intero film, sui quali spiccano l'ipnotica danza "bollywoodiana" delle guardie all'interno della Torre di Londra e il numero d'avanspettacolo fatto per festeggiare ed intrattenere il gelido "Capo" delle grotte ghiacciate. Ma la cosa che ho trovato assolutamente spettacolare di Minions, che mi ha lasciata a bocca aperta per tutta la sua durata, alla faccia di tutti gli sforzi dei validissimi animatori, sapete qual è stata? Sentirli parlare, ovvio!! E' vero che i Minions parlavano già nei due Cattivissimo Me ma stavolta il loro meraviglioso patois fa da "colonna sonora" all'intero film, non solo in qualche sequenza, ed è affascinante cercare di dare un senso a quell'inglese italianizzato, mezzo francese, un po' spagnolo, condito da un pizzico di tedesco e zeppo di parole prese da altri idiomi e messe apparentemente a caso che è il loro linguaggio. Con un po' d'attenzione si può capire tutto quello che dicono e dare anche delle rozze regole grammaticali al minionese (tranne forse durante il discorso di Bob. Quello effettivamente mi ha lasciata perplessa...) e non avete idea di quanto mi piacerebbe imparare a parlarlo come fa Pierre Coffin, di cui per fortuna hanno mantenuto la voce originale. Sì perché se vogliamo proprio trovare un neo a questo piacevolissimo cartone animato, è proprio il doppiaggio italiano. La Litizzetto come Scarlett Sterminator, col suo "pinoli" usato per rivolgersi ai Minions, è fastidiosa come al solito, la parola "guappo" in bocca al mollo Fabio Fazio, doppiatore di Herb, non si può sentire (e chissà cosa dice il personaggio in originale...) e anche Riccardo Rossi è inascoltabile quando doppia Walter Nelson (in America avevano Michael Keaton. No, per dire). Peccato, perché senza questo dettaglio Minions sarebbe perfetto. Non un cartone particolarmente memorabile ma sicuramente un prequel degno degli originali! Ah, e non alzatevi durante i titoli di coda, mi raccomando!


Del co-regista e voce dei Minions Pierre Coffin ho già parlato QUI mentre Sandra Bullock (voce originale di Scarlett Sterminator), Jon Hamm (Herb Sterminator), Michael Keaton (Walter Nelson), Allison Janney (Madge Nelson), Geoffrey Rush (il narratore) e Steve Carell (Gru) li trovate ai rispettivi link.

Kyle Balda è il co-regista della pellicola. Americano, ha co-diretto anche Lorax - Il guardiano della foresta e ha lavorato come animatore e doppiatore.


Steve Coogan (vero nome Stephen John Coogan) è la voce originale del guardiano della Torre. Inglese, incarnazione del personaggio comico Alan Partridge, ha partecipato a film come Il giro del mondo in 80 giorni, Marie Antoinette, Una notte al museo, Hot Fuzz, Tropic Thunder, Una notte al museo 2 - La fuga, Notte al museo: Il segreto del faraone e a serie come Little Britain; come doppiatore aveva già lavorato in Cattivissimo me 2. Anche produttore, sceneggiatore e compositore, ha 50 anni e due film in uscita.


Minions segue Cattivissimo me e Cattivissimo me 2 e nel 2017 sarà raggiunto da Cattivissimo me 3; nell'attesa, se Minions vi fosse piaciuto recuperateli tutti e aggiungete Home - A casa, Big Hero 6, Monsters & Co. e Monsters University. ENJOY!

martedì 17 giugno 2014

The Congress (2013)

L'unico film in uscita questa settimana che mi ispirasse vagamente era The Congress, diretto nel 2013 dal regista Ari Folman e tratto dal libro Il congresso futurologico di Stanislaw Lem.


Trama: all'attrice Robin Wright, ritenuta ormai troppo vecchia per continuare a recitare, viene offerta l'opzione di farsi "scansionare" e lasciare che sia il suo doppio virtuale, eternamente giovane, a partecipare ai film scelti dalla Miramount. Presto, tuttavia, anche questa nuova tecnologia diventa obsoleta..


Non avendo mai letto un libro di Stanislaw Lem, sempre a causa di una mancanza di interesse verso la fantascienza, non avevo proprio idea di cosa aspettarmi quando ho cominciato a guardare The Congress... e, detto proprio sinceramente, non ho idea neppure ora di cosa ho effettivamente guardato. La prima parte della pellicola di Ari Folman è una malinconica ed intelligente riflessione sul mestiere dell'attore e sulla fredda logica dell'industria cinematografica. Robin Wright, che nel film interpreta se stessa, viene ripetutamente e dolorosamente accusata di aver fatto le scelte sbagliate, di aver preferito rimanere accanto al figlio affetto da una sindrome che lo condannerà a diventare cieco e sordo, di non essere più la Principessa Bottondoro de La storia fantastica o la Jenny di Forrest Gump: in poche parole, le si contesta il fatto stesso di essere umana ed imperfetta. A contestarglielo sono l'ormai attempato agente Al che, a un certo punto, confessa anche di aver manipolato a proprio vantaggio la sua fragilità e le sue imperfezioni e, ovviamente, il direttore dell'ambigua azienda Miramount, il quale non si fa scrupoli a ricordarle come un attore sia fondamentalmente un burattino da manipolare e sfruttare per poi buttarlo via quando è troppo vecchio per essere ancora apprezzato dal pubblico. Sicuramente, i ragionamenti di questi due personaggi sono perlomeno discutibili quando non addirittura abietti ma fermiamoci un attimo ad osservare quel mondo cinematografico che tanto adoriamo. Obiettivamente, quanti attori un tempo assolutamente infallibili, capaci e meravigliosi (vedi, per esempio, un Robert De Niro qualsiasi o anche un Johnny Depp), sono diventati col tempo le caricature di sé stessi, imbarazzanti persino per i propri fan? Asservirsi ai voleri delle Major o, peggio, essere incapaci di capire quali film possano essere adatti alla propria età e al proprio fisico che, inevitabilmente, declina, è il destino peggiore per ogni attore che si rispetti; piuttosto che vivere nell'ansia di fare la scelta sbagliata, forse è meglio accettare un'offerta di libertà e scegliere di essere un semplice "civile", rimanendo nei cuori degli spettatori per ruoli memorabili. Purtroppo, in The Congress questa libertà va pagata a caro prezzo, vendendo l'anima a chi si preoccupa solo del profitto e il corpo allo spettatore bue che vuole sempre i soliti personaggi, sempre le solite franchise, la possibilità di vivere in eterno, attraverso i propri idoli, un sogno privo di imperfezioni. E qui, il ragionamento di Folman si fa più complesso.


Se la prima parte di The Congress, infatti, è malinconica, intelligente (a tratti geniale, si veda il film in bianco e nero che cita ampiamente Il dottor Stranamore e il look di Blade Runner) e lineare nella sua critica a un certo tipo di sistema, la seconda parte può venire tranquillamente racchiusa nella voce del verbo "sbulaccare". Folman sbulacca, abbandona la cinepresa e si immerge in un delirio psichedelico di disegni animati, una roba che al confronto Cartoonia e Mondo Furbo erano dei modelli di conformità. La tecnologia che, nel film, permetteva agli attori di vivere per sempre giovani grazie alla computer graphic si evolve infatti in una sostanza da inalare per diventare "altro", l'ambigua Miramount diventa la versione moderna del terzo Reich (non a caso il teatro dove si svolge il congresso all'interno dell'Abrahama è stato modellato su quella Grosse Halle che Hitler avrebbe voluto costruire) e tutta l'umanità "vive" persa in, letteralmente, film mentali individuali in grado di dare sì origine a un mondo di sogno, ma un mondo di sogno sterile, che non crea nulla e si limita a distruggere o, meglio, a lasciar morire, a consumare l'esistenza. La lenta fine dell'umanità si mescola alle paure e ai desideri di una Robin Wright che non vuole e non può inserirsi in questo mondo e, purtroppo, si perde in sequenze animate bellissime ma anche troppo dispersive, allucinate e quasi fini a sé stesse. Sono pochi i momenti di vera emozione e commozione che le immagini di The Congress riescono a suscitare nello spettatore, il tentativo di comprendere la pellicola di Folman viene reso difficile dal fatto che, troppo spesso, sembra di assistere alla visione individuale di un Autore che ha inalato egli stesso la sostanza prodotta dalla Miramount. La disperazione di Robin Wright è palpabile, tutto ciò che la circonda è incredibilmente affascinante e lo stacco tra sogno e cruda realtà è sconvolgente; eppure, mentre la prima parte del film riusciva a mantenere una coerenza e una certa linearità, la seconda è totalmente libera da vincoli, da struttura, da qualcosa che possa dare un senso a tutto ciò che viene mostrato.


Forse Folman ha ragione perché il senso non sempre deve esserci in un film, sono d'accordo. E forse sono io ad essere così crassamente ignorante da chiedermi, davanti a tutto questo popò di arte e questo balsamo per gli occhi, come facciano gli esseri umani mostrati in The Congress ad essere vestiti (per quanto scarmigliati), a mangiare o essere ancora vivi se la loro mente vede solo ciò che si trova nel sogno. Forse a volte bisogna solo lasciarsi andare e non pretendere di capire tutto o di emozionarsi per ogni cosa, accontentandosi di una sola piccola lacrima sul finale. Forse, semplicemente, The Congress merita più di una visione. Non lasciatevi quindi spaventare da quello che ho scritto dopo averlo visto una sola volta e dategli una chance perché, a dispetto del disagio (senso di inadeguatezza?) che ho provato, indubbiamente parliamo di uno dei film più innovativi e particolari degli ultimi tempi.


Di Robin Wright (Robin Wright), Harvey Keitel (Al), Jon Hamm (la voce originale di Dylan Truliner), Paul Giamatti (Dr. Barker), Kodi Smit-McPhee (Aaron) e Danny Huston (Jeff) ho parlato ai rispettivi link.

Ari Folman è il regista e sceneggiatore della pellicola. Israeliano, ha diretto altri tre lungometraggi, tra cui Valzer con Bashir. Anche sceneggiatore, produttore e attore, ha 51 anni.


Il regista aveva inizialmente pensato a Cameron Diaz o Cate Blanchett per il ruolo principale ma alla fine è rimasto talmente affascinato da Robin Wright da cambiare idea. Detto questo, se The Congress vi fosse piaciuto recuperate anche Sim0ne o Cloud Atlas. ENJOY!

martedì 12 aprile 2011

Sucker Punch (2011)

Ma mi sta bene, così imparo a fissarmi su un solo ed unico film. E come spesso accade, il frutto di questa fissazione è una cocente delusione. Di che parlo? Di Sucker Punch, l’ultimo film di Zack Snyder, uscito proprio qualche settimana fa.

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Trama: una ragazzina viene fatta internare in manicomio dal patrigno. Il suo destino è quello di ricevere una lobotomia entro cinque giorni, e per evitarla la ragazza progetta la fuga, vivendola nella mente come una quest epica…

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Per par condicio e anche un po’ per “dispitto”, come diceva Dante, davanti ad un film così complicato e roboante reagirò con una recensione assai breve e concisa, che potrebbe riassumersi con un “mah”. Dopo un inizio meraviglioso e gotico, il logo della Warner ricamato sulla rossa tenda di un teatro, che si alza rivelando un palcoscenico e ci introduce alla più classica e cupa delle favole (ragazzine orfane di madre, lasciate in balia di un patrigno crudele) scandita dalle splendide note di Sweet Dreams, comincia il peggior gioco per X – Box che abbia mai visto su schermo. Mi avessero almeno dato un joystick all’ingresso mi sarei divertita, e invece no: due ore seduta su una poltrona a vedere Snyder che giocava al posto mio e mi spaccava i timpani con esplosioni, urla, musica sparata a mille.

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Sì perché in pratica, nonostante i realizzatori di Sucker Punch vogliano vendere allo spettatore una sorta di Black Swan per tamarri, coglionandoli con l’idea di un’opera onirica, psicologica, mentale, pregna di grandi valori (la morale finale, banalissima, è: credici, ce la puoi fare!! Sempre!!!!!! Sì, tu. Proprio TU che stai guardando il film!), in realtà quello che viene offerto dopo l’ingresso della protagonista in un meraviglioso ed inquietante manicomio che viene presto dimenticato è un’accozzaglia di tette e culi (peraltro acerbi, mi domando quale adolescente, anche il più sfigato ed erotomane, possa eccitarsi davanti a qualcosa di simile…) inguainati in vestitini retrò ed infilati in un bordello immaginato dalla protagonista per sfuggire alla triste realtà che la circonda. Poi, siccome la vita di una casa di tolleranza può essere altrettanto triste, ecco che la ragazzetta comincia ad immaginarsi tre/quattro scenari che spaziano dall’antico Giappone alla seconda guerra mondiale cum zombie, al medioevo stile Signore degli Anelli, al treno futuristico con Saturno sullo sfondo. E qui mi immagino già l’ignaro lettore che dice: “EEEEH??” che poi, più o meno, è la reazione che ho avuto io. Riassumendo, lo schema del film è sempre uguale: le ragazze del bordello devono recuperare un oggetto, la protagonista vive la ricerca nella sua mente, trasformandola in un’epica battaglia contro svariate forze del male, una volta ottenuto l’oggetto si ricomincia da capo. Questa cosa sorprende all’inizio, ma siccome ogni quest mentale delle ragazze è l’equivalente di uno sparatutto dalla grafica ineccepibile, il risultato complessivo è una fredda rottura di palle che prende spunto dalle ambientazioni più amate dai nerd.

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Per carità, l’impatto visivo è commovente da tanto e fatto bene Sucker Punch, sia per i costumi, che per le scenografie, che per gli effetti speciali e la colonna sonora è di una bellezza rara, ma queste due cose non bastano, non sono mai bastate e non basteranno mai per reggere da sole un film. Tra l’altro la pellicola inciampa spesso e volentieri nel trash involontario a causa della sciagurata trovata usata per scatenare le visioni di Babydoll. La ragazza, infatti, per consentire alle altre di attuare i loro piani balla così bene da ipnotizzare i nemici… peccato che noi spettatori vediamo solo l’inespressiva (e quanto mi fa male dirlo…) Emily Browning che dondola come un bacco di legno per trenta secondi, con lo sguardo perso nel vuoto e poi, dopo il momento “quest” eccola tornare ad aprire gli occhi, con gli astanti che applaudono incantati. E se non bastasse questo, ci si aggiunge anche lo pseudo-musical che accompagna i titoli di coda o battute (sempre pronunciate da una specie di guru che accompagna le ragazze durante i trip mentali) come “Se volete firmare un assegno a parole, assicuratevi prima di poterlo coprire col culo”. Considerato che Sucker Punch è il primo film di Snyder tratto da una storia originale direi… Male, molto molto MALE. Torna a lavorare per altri, vah.

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Del regista Zack Snyder ho già parlato qui, mentre un piccolo excursus della carriera di Emily Browning, che interpreta Babydoll, lo trovate qua. Aggiungo che forse, nel ruolo, sarebbe stata meglio la prima scelta Amanda Seyfried.

Abbie Cornish interpreta Sweet Pea (in italiano Sweety). Australiana, la ricordo per film come Un’ottima annata e Elizabeth: The Golden Age. Ha doppiato un episodio di Robot Chicken e il pubblico italiano la ritroverà anche nell’imminente Limitless. Ha 29 anni.  

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Jena Malone interpreta Rocket. Americana, tra i suoi film segnalo Contact e Donnie Darko, inoltre ha doppiato la versione inglese de Il castello errante di Howl. Anche produttrice, ha 27 anni e tre film in uscita.

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Vanessa Hudgens interpreta Blondie. Chiudo gli occhi innanzi alla filmografia della donzella, tra i protagonisti di una delle cose più Urende create da mente umana: High School Musical, al quale ha partecipato per tutti e tre gli episodi. Inoltre ha recitato in Zack & Cody al Grand Hotel e ha doppiato un episodio di Robot Chicken. Americana, ha 23 anni e un film in uscita.

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Jamie Chung interpreta Amber. Nonostante il sembiante orientale, è americana e la ricordo solo per un filmaccio come Dragonball Evolution, dove interpretava Chichi. Ha partecipato anche a serie come E.R. e Grey’s Anatomy. Ha 27 anni e due film in uscita.

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Carla Cugino interpreta la Dottoressa Gorski. Americana, la ricordo per film come Spy Kids (e seguiti), Sin City, l’orrendo Il mai nato e Watchmen, oltre che per aver partecipato alla serie Alf. Anche produttrice, ha tre film in uscita.

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Jon Hamm interpreta il Dottore che dovrà lobotomizzare Babydoll. Americano, virtualmente ha già “partecipato” al Bollalmanacco, visto che compare nei film Paura e delirio a Las Vegas, The A - Team e The Town e inoltre ha prestato la voce per il film Shrek – E vissero felici e contenti e un episodio de I Simpson. Per la tv ha girato le serie Una mamma per amica, Streghe, CSI: Miami, e Numb3rs. Anche produttore, ha 40 anni e due film in uscita.

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Scott Glenn interpreta il “saggio” che guida le fanciulle. Americano, ha partecipato a film come Apocalypse Now, Caccia a Ottobre Rosso, Il silenzio degli innocenti, Potere assoluto e The Shipping News – Ombre dal passato. Anche produttore, ha 70 anni.

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Se volete veramente vedere bionde mozzafiato che fanno il culo a strisce ai nemici e ricercano vera vendetta, evitate Sucker Punch e guardatevi Kill Bill volumi 1 e 2. Mi ringrazierete. Nel frattempo, vi lascio con il trailer originale del film... ENJOY!!

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