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venerdì 30 ottobre 2020

The Mortuary Collection (2019)

Cercavate l'horror perfetto per Halloween? Ve l'ho trovato, tranquilli! Non indugiamo oltre che andiamo a parlare di The Mortuary Collection, diretto e sceneggiato nel 2019 dal regista Ryan Spindell.

Trama: Montgomery Dark, professione becchino, vive all'interno di una sinistra magione, in perfetta solitudine, finché un giorno arriva la giovane Sam in cerca di lavoro. Nel corso del colloquio, Dark avrà modo di raccontare alla ragazza alcune macabre storie...

The Mortuary Collection è un altro di quei film che mi aveva fatto drizzare le orecchie vedendolo spuntare qui e là all'interno del sito Letterboxd, dopodiché una foto di Clancy Brown postata da Lucia su Facebook mi ha convinta a mettere da parte qualsiasi altra pellicola per dedicarmi alla visione di questa e adesso sono d'accordo al 100% con la bella recensione de Ilgiornodeglizombi: The Mortuary Collection è destinato a diventare un piccolo, bellissimo classico del genere che più amiamo ed è assolutamente perfetto per la sera di Halloween. La struttura di The Mortuary Collection è quella di un horror a episodi, un portmanteau, come quelli della Amicus (che vi consiglierei di recuperare se non sapete di cosa sto parlando), con i quali condivide la presenza di un narratore (possibilmente un po' inquietante) e di storie di ordinaria punizione per colpe più o meno gravi; come dice Montgomery Dark, istrionico becchino confinato in una magione ottocentesca, ogni morte è una storia, nessuna cattiva azione rimane impunita e, soprattutto, nessuno può sfuggire al destino. A fare da ironico contrappunto a Mr. Dark è la giovane e bionda Sam, arrivata in casa del becchino dopo aver letto il cartello "cercasi aiuto" affisso in giardino. La voce smaliziata e anche un po' impertinente di Sam sottolinea pregi e difetti di ogni storia raccontata, finché arriva il momento, per la ragazza, di raccontare a sua volta della sua esperienza con la morte, in una chiusura del cerchio assolutamente perfetta e zeppa di humour nero. Dei vari episodi che compongono The Mortuary Collection dirò davvero poco, perché dovete gustarveli in lieta ignoranza come ho fatto io: si parte con un brevissimo amuse-bouche, perfetto per introdurre l'atmosfera della pellicola, e si continua con storie che toccano la commedia horror, il dramma malinconico e lo slasher anni '70/'80 fino a raggiungere l'apice delle vendette sovrannaturali, il tutto confezionato con un'invidiabile continuità di stile.

E' difficile credere che Ryan Spindell sia al suo primo lungometraggio, vista la perizia con cui riesce a giostrarsi non solo in fase di sceneggiatura ma anche e soprattutto per quanto riguarda la regia. The Mortuary Collection, prodotto da Shudder (che immagino non disponga degli stessi fondi di Netflix e Amazon), dà dei punti agli horror distribuiti dalle due principali piattaforme di streaming perché a tratti ricorda l'allegria macabra e iconoclasta di un Barry Sonnenfeld impegnato ne La famiglia Addams ma la conoscenza dei cliché dell'horror è la stessa di Michael Dougherty e la sua messa in scena è curata e raffinatissima, in grado di conferire ad ogni singola storia un equilibrio miracoloso tra ironia e orrore, capace di renderle universali e "atemporali" nonostante l'incredibile cura legata alla rappresentazione di diverse epoche e di diversi generi horror. Gli attori, poi, sono un altro punto forte del film. Clancy Brown è semplicemente meraviglioso anche sepolto sotto tonnellate di makeup ma la mia preferita in assoluto è Caitlin Custer, bravissima come contraltare del narratore e assolutamente strepitosa come babysitter agguerrita, protagonista del segmento più concitato e "metanarrativo" del film, dove il montaggio e la recitazione danno veramente il bianco; un plauso anche al povero Barak Hardley, impegnato in un personaggio miserevole e terribilmente tenero all'interno del racconto più malinconico del mucchio. Era da parecchio tempo che non mi capitava di esaltarmi così tanto per un horror e durante la visione di The Mortuary Collection mi sono divertita da morire, oltre ad essere rimasta a bocca aperta in più di un'occasione, tanto che a fine visione ho pensato "questo! questo voglio rivederlo ancora, ancora e ancora". Nell'attesa di poterlo fare e di stringere un bel bluray tra le mani, vi invito a cercare questo gioiellino e a passare una serena festa di Halloween, con tutte le precauzioni del caso.

Di Clancy Brown, che interpreta Montgomery Dark, ho già parlato QUI.

Ryan Spindell è il regista e sceneggiatore della pellicola, al suo primo lungometraggio. Americano, anche produttore e animatore, ha 41 anni.

Caitlin Custer, che interpreta Sam, ha partecipato anche al corto di Ryan Spindell intitolato The Babysitter Murders. Detto ciò, se The Mortuary Collection vi fosse piaciuto recuperate l'immancabile Trick'r Treat... e buon Halloween! ENJOY!

mercoledì 28 ottobre 2020

Kadaver (2020)

Una delle ultime aggiunte al catalogo horror Netflix è Kadaver, diretto e sceneggiato dal regista Jarand Herdal.

Trama: in un futuro post-apocalittico, le persone muoiono di fame e di stenti. In città però arriva l'invito di alcuni teatranti, che offrono spettacolo e cibo all'interno di un misterioso albergo...

Non tutti gli originali Netflix possono essere El Hoyo. Ci provano, per carità, ma ci sono limiti a tutto, e il norvegese Kadaver ne è un esempio. Anche qui, il problema è il cibo, o meglio la mancanza di esso; in un futuro post-atomico (che visto in tempi di Covid sembra tanto dopodomani) la famiglia di Leo, un tempo attrice affermata, è costretta a vagare in cerca di approvvigionamenti come tutto il resto della popolazione, col terrore della morte incombente, finché non arriva un imbonitore ad invitare tutti all'interno di un ex albergo, promettendo un pasto caldo e uno spettacolo indimenticabile. Ora, va bene la disperazione, ma in un mondo dove tutti muoiono di fame e le violenze sono all'ordine del giorno, come puoi pensare che uno con la faccia da vecchio rattuso possa prendere i tuoi soldi e invitarti davvero a una "cena con delitto", senza pensare che il delitto ti picchierà nella schiena? E infatti Leo e famiglia, dopo un banchetto a base di carne, si ritrovano a vagare all'interno dell'albergo col viso coperto da maschere dorate, seguendo gli attori per le varie stanze dopo essere stati avvertiti di "non preoccuparsi, tutto quello che succede è per esigenze di spettacolo!"... peccato che, a poco a poco, tutti gli spettatori cominciano a scomparire misteriosamente, in primis la figlioletta di Leo e Jacob, coppia vincitrice del premio "genitore dell'anno" visto il modo in cui perdono sistematicamente la piccola Alice, sia dentro che fuori dall'albergo. Dal momento in cui la bambina scompare, scatta nelle menti limitate dei due fantagenitori un vago e tardivo istinto di sopravvivenza, che li porta a correre per l'albergo in cerca di spiegazioni, tra ospiti che in realtà sono attori, attori che in realtà sono ospiti, bruti senza volto e senza voce, passaggi segreti e quant'altro, il tutto ovviamente senza che il minimo brivido colga lo spettatore.

Sì, Kadaver non è un horror a base di jump scare ed emozioni forti, è un film sociale il cui metaforone viene urlato a tutta voce da un emulo di Lars Von Trier ai bei tempi del suo "vi chiedo di essere pronti ad accettare il bene con il male", che si domanda cos'è che differenzi gli esseri umani dagli animali e anche cosa sarebbe pronta a fare la gente per sopravvivere. La risposta a queste domande assai importanti è viziata tuttavia dalla demenza dei collaboratori di cui costui si circonda, che di base SPOILER accettano di trucidare gente per rubare loro orologi e vestiti ma poi si indignano quando scoprono che tutta l'ottima carne che possono gustare ogni giorno viene proprio dagli spettatori. Davvero, ma cosa credevate, o sommi genii del male? FINE SPOILER E la risposta è anche viziata dal desiderio del giovane Jaran Herdal di creare un film visivamente accattivante, all'interno del quale tutto ciò che sta fuori dall'albergo è cupo e brutto mentre le sale dell'hotel sono scaldate da luci rossastre e arancioni, desiderio che si spinge fino a far venire le allucinazioni a Leo, la quale a un certo punto comincia a vedere abitini rossi che svolazzano da tutte le parti, nemmeno stessimo guardando In Fabric (quello sì stiloso ma genuinamente inquietante); purtroppo, con tutto l'ottimo materiale sia visivo che narrativo di partenza, Herdal non riesce a sfruttare l'ambiente claustrofobico di un albergo zeppo di passaggi segreti per creare un minimo di interesse o agitazione nello spettatore, anzi, Kadaver a tratti sembra il bignami dei cliché dell'horror fighètto, un collage di idee senz'anima che sprofonda nella noia e nel già visto, neppure buono per farsi due risate. 

Jarand Herdal è il regista e sceneggiatore della pellicola. Anche produttore e attore, ha già diretto un altro film, Everywhen.



martedì 27 ottobre 2020

Charlie Says (2018)

Qualche sera fa, a dire il vero ormai parecchie, mi è capitato di vedere in TV Charlie Says, diretto nel 2018 dalla regista Mary Harron e tratto dai libri The Family di Ed Sanders e The Long Prison Journey of Leslie Van Houten di Karlene Faith.


Trama: dopo i delitti commessi, tre ragazze della Manson Family vengono condannate all'ergastolo e una professoressa universitaria cerca di aprir loro gli occhi di fronte all'enormità delle loro colpe...


Charles Manson è questa figura inquietante che tutti prima o poi hanno sentito nominare nel corso della vita, il fantomatico capo carismatico della cosiddetta "Famiglia" dalla quale sono usciti gli assassini di molte persone, tra le quali Sharon Tate, all'epoca incinta di Roman Polanski. Nell'ignoranza, il rischio è quello di legare Manson al satanismo (in realtà lui veniva visto come la reincarnazione di Gesù E del Diavolo dai suoi seguaci), complici anche le terrificanti foto dal carcere in cui il nostro compare con occhi da folle e croce/svastica incisa sulla fronte, in realtà la figura di costui era molto più complessa di così e, allo stesso tempo, terribilmente semplice, come si evince da questo Charlie Says, che si avvale del punto di vista di tre membri della famiglia, Susan Atkins, Patricia Krenwinkel e soprattutto Leslie Van Houten. Il titolo è già tutto un programma perché, all'interno del film, si sottolinea come le tre fossero totalmente plagiate dal carisma di Manson, incapaci di rapportarsi col mondo reale o di avere un pensiero proprio poiché imbevute non solo di forti dosi di acidi ma anche delle teorie di "Charlie", un ex detenuto la cui sanità mentale è andata sempre più sfaldandosi; attraverso lo sguardo di Leslie, ribattezzata Lulu, lo spettatore testimonia la parabola discendente di una famiglia che all'inizio era tutta pace e amore, colma di ottimismo per le possibili rivoluzioni del '69, e poi a seguito della frustrazione di Manson (il quale voleva diventare un musicista ma è stato rifiutato dai produttori) ha cominciato a preoccuparsi di apocalisse, guerre tra bianchi e neri, ingiustizie da parte dei "porci" che avrebbero dovuto morire, innescando una folle spirale di violenza. Non che la vita nella comune fosse tutta rose e fiori neppure prima, visto che uno dei fondamenti delle idee di Manson era che le donne fossero comunque sottomesse agli uomini e visto che era lui, millantando una libertà inesistente legata all'annullamento dell'individualità, a decidere chi avrebbe mangiato, cosa, e chi avrebbe fatto l'amore con chi, ma sempre meglio che mandare la gente ad uccidere persone indifese.


Le sequenze ambientate all'interno del ranch della Famiglia, durante le quali i riflettori sono puntati innanzitutto su Manson, si alternano a momenti in cui le tre detenute vengono portate a rendersi conto delle proprie colpe attraverso le letture e i confronti con Karlene Faith, insegnante universitaria e attivista, che arrivano a rimettere in discussione l'infallibilità e l'onniscienza dell'amato Charlie; l'aspetto "giudiziario" della vicenda, così come le immagini che ritraggono Manson dopo l'arresto, sono stati completamente banditi e viene dedicato poco spazio anche agli omicidi "Tate-LaBianca", che pesano come una spada di Damocle sulle protagoniste ma vengono relegati sul finale, come aspetto leggermente gore di un film per il resto privo di sangue o violenza che non sia quella psicologica o verbale. Il risultato è una pellicola sicuramente affascinante ed interessante, ma anche, almeno per me, più superficiale di quanto avrei voluto. Il target principale dovrebbe essere la Van Houten ma in realtà Charlie Says è principalmente concentrato sulla figura di Manson, interpretato da un Matt Smith difficile da riconoscere, mentre Leslie/Lulu e le sue compagne vengono ritratte come donnine decerebrate fin dalla loro prima apparizione, con giusto qualche sprazzo di dubbio che parrebbe smuoverle di tanto in tanto, e non c'è un reale approfondimento di ciò che si nasconda dietro la loro scelta di entrare a far parte della Famiglia, salvo un vago disagio: di fatto, l'unico mezzo che consente allo spettatore di empatizzare con le tre donne è proprio la presenza di Karlene Faith, l'unica che cerca di vederle come esseri umani invece che come folli assassine, tuttavia mi è parso che l'intera operazione fosse un po' troppo fredda e poco coinvolgente. Resta il fatto che Charlie Says è un film interessante, dal quale magari partire per documentarsi su una vicenda buia ed orribile della storia americana che, ancora oggi, non smette di terrorizzare e sconvolgere chi ne viene a conoscenza.


Della regista Mary Harron ho già parlato QUI. Hannah Murray (Leslie "Lulu" Van Houten), Matt Smith (Charles Manson), Suki Waterhouse (Mary Brunner) e Annabeth Gish (Virginia Carlson) li trovate invece ai rispettivi link.

Merritt Wever interpreta Karlene Faith. Americana, ha partecipato a film come Signs, Birdman, Storia di un matrimonio e a serie quali The Walking Dead. Ha 40 anni.


Chace Crawford, che interpreta Tex, è Abisso in The Boys. ENJOY!

domenica 25 ottobre 2020

Il processo ai Chicago 7 (2020)

Succede che il Bolluomo, vedendomi sull'orlo della depressione per un paio di festival mancati, ha deciso di acquistare proiettore, cavalletto e telone per trasformare il nostro piccolo ingresso in una sorta di cinema. Così ho deciso di inaugurare il tutto con un film che potesse piacergli e di provare con Il processo ai Chicago 7 (The Trial of the Chicago 7), diretto e sceneggiato dal regista Aaron Sorkin.

Trama: sette attivisti, ai quali si aggiunge temporaneamente un membro delle Pantere Nere, vengono accusati di avere scatenato una rivolta durante la convention democratica del 1968 a Chicago. Il processo si rivela un'operazione più politica che giudiziaria, tra giudici palesemente di parte e soprusi inauditi...

Ormai vi sarete stancati di leggerlo, ma adoro la storia Americana, soprattutto quella degli anni '60 e '70, e non mi annoio mai di guardare film ambientati in quegli anni, ancor meglio se scoperchiano baratri fatti di pagine buie e vergogna sociale, ché va bene la terra della libertà ma anche un po' sticazzi, ormai lo sappiamo bene. Buio e vergogna sono due termini perfetti per riassumere la vicenda dei cosiddetti Chicago 7 (otto, se vogliamo contare anche Bobby Seale, aggiunto come indispensabile "quota di colore" per rendere gli altri imputati ancora più minacciosi), attivisti legati a diverse frange liberali che nel 1968, il giorno della Convention Democratica di Chicago, si sono ritrovati ad essere protagonisti di scontri con la polizia, per una serie di orribili circostanze che, come spesso accade, trasformano manifestazioni pacifiche in deliri violenti dove a farla da padrone sono i manganelli. All'alba dell'avvento di Nixon, evidentemente servivano dei capri espiatori per dei disordini che l'amministrazione Johnson aveva deciso di non perseguire, giusto per dimostrare il pugno di ferro del presidente e dei suoi collaboratori, e cosa c'è di meglio che un branco di liberali, hippie, neri, condannati per dare il contentino agli elettori repubblicani? Che poi il processo sia stato davvero una farsa, come ben mostrato nel film, con un giudice palesemente di parte e pronto a negare agli imputati i diritti più elementari (il trattamento riservato a Bobby Seale nella pellicola è una passeggiata a confronto di ciò che è successo nella realtà), poco importava all'epoca ed oggi, a vedere queste cose riportate sullo schermo, ci si sente male pensando che quarant'anni non sono bastati perché simili oscenità politiche, sociali e giuridiche sparissero dalla faccia del pianeta. 


Il processo ai Chicago 7 è dunque un legal drama nel senso più classico del termine, fatto di testimonianze, interrogatori, giurie e giudici, ma con tutto il materiale scottante a disposizione Aaron Sorkin lo trasforma da pellicola statica e soporifera a collage assai dinamico alternando il presente del processo (ovviamente, per esigenze di spettacolo, reso più accattivante sia nelle scelte narrative che nei dialoghi e persino nei costumi) a una serie di flashback in cui si cerca di ricostruire cosa sia effettivamente accaduto durante le rivolte, per arrivare a dei fast forward in cui tutto ciò che avviene nel corso del film viene raccontato attraverso la voce del più "spettacolare" dei protagonisti, l'animale da palcoscenico che risponde al nome di Abbie Hoffman. Quest'ultimo è interpretato meravigliosamente da un Sacha Baron Cohen che ruba spesso e volentieri la scena a quello che fin dall'inizio è connotato come il vero protagonista, anche in virtù della sua natura razionale, ovvero il Tom Hayden di Eddie Redmayne, e che conferisce al film la sua iniziale, ingannevole natura di dramma "comico", un po' alla Adam McKay; in realtà, sia Abbie Hoffman che Il processo ai Chicago 7 (che, per inciso, ha un cast di altissimo livello) sviano lo spettatore presentandosi inizialmente come allegri cazzoni, per poi mostrare, andando avanti, una natura ben più tragica e profonda di quanto si possa immaginare, al punto che arrivare alla fine del film senza aver avuto voglia di prendere una macchina del tempo per andare a sfasciare la testa a buona parte dei membri e dei testimoni dell'accusa è praticamente impossibile. Il processo ai Chicago 7 è un'opera che avrebbe meritato ben più di un passaggio su Netflix (che stavolta ha fatto il colpaccio) e avrebbe dovuto godere di sale cinematografiche piene, non solo di una breve comparsa in qualche città italiana fortunata. Indice dei tempi brutti che corrono, e chissà se torneremo mai a godere di simili film sugli schermi che gli competono. Per ora, accontentiamoci di Netflix

Del regista e sceneggiatore Aaron Sorkin ho già parlato QUI. Eddie Redmayne (Tom Hayden), Sacha Baron Cohen (Abbie Hoffman), Jeremy Strong (Jerry Rubin), John Carroll Lynch (David Dellinger), Mark Rylance (William Kunstler), Joseph Gordon-Levitt (Richard Schultz), Ben Shenkman (Leonard Weinglass), Frank Langella (Giudice Julius Hoffman), Michael Keaton (Ramsey Clark) e Caitlin FitzGerald (Agente Daphne O'Connor) li trovate invece ai rispettivi link.

J.C. Mackenzie interpreta Thomas Foran. Canadese, ha partecipato a film come The Aviator, The Departed - Il bene e il male, The Wolf of Wall Street, Molly's Game, The Irishman, The Hunt e a serie quali Alfred Hitchcock Presenta, L'ispettore Tibbs, Dark Angel, Detective Monk, CSI - Scena del crimine, 24, Desperate Housewives, Ghost Whisperer, Medium, CSI: Miami, Dexter e Hemlock Grove. Anche sceneggiatore, ha 50 anni. 

Il progetto del film esisteva già decenni fa: Steven Spielberg avrebbe dovuto dirigerlo e avrebbe dovuto incontrare Heath Ledger per parlare del ruolo di Tom Hayden ma l'attore è morto il giorno prima dell'incontro. Spielberg avrebbe inoltre voluto Will Smith per il ruolo di Bobby Seale. Parlando di tempi più recenti, Seth Rogen è stato rimpiazzato da Jeremy Strong. Se Il processo ai Chicago 7 vi fosse piaciuto recuperate Codice d'onore (lo trovate su Chili e altri servizi in streaming a noleggio), Philadelphia (su Amazon Prime Video) e La parola ai giurati (su ITunes). ENJOY!

venerdì 23 ottobre 2020

Evil Eye (2020)

Finisce con Evil Eye, diretto dai registi Elan e Rajeev Dassani, la mia esperienza con il progetto Welcome to the Blumhouse, almeno per il momento... e per fortuna, aggiungerei.

Trama: Pallavi ha origini indiane ma vive in America e vuole vivere la sua esistenza in piena libertà. La madre Usha, rimasta in India e perseguitata da un doloroso passato, ha paura che la figlia possa finire vittima di una maledizione e tenta in tutti i modi di farla sposare per evitarlo, con esiti controproducenti...

Arrivata all'ultimo Welcome to the Blumhouse posso dirlo: ma cosa è venuto in mente a Jason Blum? Se la collaborazione con Amazon doveva essere un modo per invogliare gli spettatori a guardare i film prodotti dallo studio, diciamo che, salvo il bellissimo Nocturne e il gradevole Black Box (che pure è dimenticabilissimo), non hanno fatto un gran bell'affare. Anche perché io avrei creduto di toccare il fondo con The Lie ma, poverino, al confronto di Evil Eye parliamo di un capolavoro della suspance, la cui unica pecca è la stupidità dei protagonisti; non mi aspettavo, invece, che avremmo finito il quartetto con la telenovela indiana, il drama matrimoniale in salsa Tandoori, la maledizione dell'orchite fulminante. Mi dispiace, davvero. Odio definire un film noioso, perché credo che sia una definizione troppo soggetta alla percezione del singolo spettatore e rischia di tenere distanti altri da potenziali capolavori, ma non ho un aggettivo migliore per Evil Eye, all'interno del quale l'elemento thriller viene diluito in un mare di interminabili telefonate che veicolano l'incomprensione (generazionale e culturale) tra una madre iperprotettiva e una figlia che vuò fa' l'americana ma è nata in India. In pratica lo spettatore dovrebbe farsi venire l'ansia perché Pallavi detta Pallu non trova il fidanzato e, quando lo trova, a mammà viene in mente che 'sto fidanzato troppo perfetto per essere vero somiglia tanto a un suo ex che, anni addietro, le aveva usato violenza dopo averla stalkerata, e siccome la donna è fissata con oroscopi, maledizioni, talismani ecc. fate un po' due più due e immaginate come potrà proseguire la trama del film, che si ricorda di essere un thriller sovrannaturale tipo a 15 minuti dalla fine.

Alla decima telefonata tra Pallu e madre, io e il Bolluomo avevamo tanta voglia di morire, davvero, e mi dispiace perché Sarita Choudhury, che interpreta mamma Usha, è un'attrice molto brava e interessante, impegnata nel ruolo potenzialmente assai intrigante della custode delle tradizioni che è costretta a prendere atto non solo di nuove tecnologie ma anche di nuovi modi di pensare, mentre tutti attorno a lei sembrano essere felici per Pallu e per la sua nuova vita in America. Purtroppo per la Choudhury, è proprio la trama ad essere pesante e priva di equilibrio, incredibilmente ripetitiva nel riproporre continuamente gli stessi flash del passato di Usha mentre la situazione stenta ad evolversi o a distanziarsi da un pattern che prevede 1) proposte "indecenti" di Sandeep a Pallu (che spaziano dal rivedersi all'andare a vivere insieme), 2) dubbi di Pallu sviscerati al telefono con amiche o mamma 3) mamma che dà di matto e spinge così Pallu ad accettare le proposte di cui sopra, anche solo per amore di contestazione filiale 4) mamma che dall'India smania ricordando il suo triste passato mentre il marito medita il suicidio non sapendo più come placarla. Aggiungo che una trama così ripetitiva non giova neppure al tentativo di riflettere sulla natura dell'indipendenza o dei legami tra genitori e figli, riflessioni che ovviamente si perdono in questo mare di fuffa inconsistente. Quindi, in conclusione, Evil Eye non è buono né come vetrina per la Blumhouse ma neppure per avvicinarvi per vie traverse alla sterminata filmografia indiana: molto meglio un Jallikattu, che trovate sempre su Amazon Prime Video

Elan Dassani e Rajeev Dassani sono i registi della pellicola. Gemelli nati in America, Elan è al suo primo lungometraggio mentre Rajeev ha diretto The Nevsky Prospect e Watercolor Postcards. Anche produttori e sceneggiatori, hanno 41 anni.


Sarita Choudhury interpreta Usha. Inglese, ha partecipato a film come La casa degli spiriti, Delitto perfetto, Lady in the Water, Hunger Games: Il canto della rivolta - Parte I, Hunger Games: Il canto della rivolta - Parte II e a serie quali Jessica Jones. Ha 54 anni e tre film in uscita. 




giovedì 22 ottobre 2020

(Gio)WE, Bolla del 21/10/2020

Buon giovedì a tutti! Purtroppo è un'altra settimana fiacchissima per i cinema, senza contare tutte le misure stringenti che si fanno più serrate di pari passo con l'aumento dei contagi. Mi chiedo, a parte la pignoleria, cosa mi spinga ancora a curare questa rubrica (e il blog in generale, ma almeno le recensioni fungono da diario per la mia memoria labile) quando visite e commenti al Bollalmanacco sono al minimo storico ma vabbé, finché ci sarà anche solo un briciolo di svago in questo, continuerò. ENJOY!

Sul più bello
Reazione a caldo: Ommamma.
Bolla, rifletti!: Ci siamo convertiti anche noi italiani alle storie d'ammore strappalacrime vissute da ragazzine malate? Non era già abbastanza Vanzina?

La vita straordinaria di David Copperfield
Reazione a caldo: Aaaah!!
Bolla, rifletti!: Questo, non fosse che andrebbe visto in lingua originale, correrei a vederlo, anche perché non solo mi ispirano cast e regista, ma soprattutto Dickens occupa sempre un posto nel mio cuore. 

I predatori
Reazione a caldo: Hm...
Bolla, rifletti!: Onestamente mi ispira anche questo, ché dal figlio di Castellitto e della Mazzantini non può uscire qualcosa di sciocco e banale, anche se temo un po' la volontà di essere il primo della classe. 

Il cinema d'élite continua a darsi da fare...

Non conosci Papicha
Reazione a caldo: Ma mi piacerebbe!
Bolla, rifletti!: Adoro i film che vedono eroi ribelli andare contro una triste realtà storica davvero esistita e questo è il caso di Non conosci Papicha, che usa l'amore per la moda per combattere il fondamentalismo. Da segnare!

Una classe per i ribelli
Reazione a caldo: Altro film interessante!
Bolla, rifletti!: Che mi sta succedendo? Perché questo interesse per le commedie franzose? Avrò il Covid? A parte tutto, in questi tempi di politically correct a tutti i costi, è interessante vedere portata all'estremo una situazione in cui il desiderio di rimanere coerenti con le proprie idee offre il fianco a un mare di contraddizioni.

mercoledì 21 ottobre 2020

1BR (2019)

Lo avevo adocchiato su Letterboxd, poi ne ha parlato Lucia e ho deciso che non potevo stare senza vedere 1BR, diretto e sceneggiato nel 2019 dal regista David Marmor.

Trama: Sarah è una ragazza con problemi familiari che decide di trasferirsi a Los Angeles per sfondare come costumista. In cerca di un appartamento economico, ne trova uno all'interno di un elegante condominio dove tutti sono gentili e disponibili, e allora inizia il suo incubo...

1BR rientra nel novero degli horror che ultimamente preferisco guardare, quelli scevri dall'elemento sovrannaturale e più legati all'ambito del thriller psicologico, possibilmente radicati nei disagi della società attuale e aventi per protagoniste giovani attrici carismatiche. Nel corso di questo annus horribilis ne sono usciti tanti e questo, in particolare, fa leva su un senso di precarietà assai diffuso e un desiderio di "comunità" molto facile da stravolgere. Faccio un esempio recentissimo: chi ricorda, ancora, la polemica sui "runner portatori di Covid"? Mentre eravamo tutti compresi nel nostro bel "ne usciremo migliori di prima", nello stesso momento osservavamo dalla finestra i proprietari di cani e i runner, maledicendoli per l'egoismo col quale queste brutte persone spargevano il Covid senza pensare agli altri, trasformandoci in tanti piccoli watchmen, nostalgici verso quei tempi in cui tutti si davano una mano, ci si conosceva e si poteva persino lasciare le porte aperte. Il concetto di 1BR è un po' questo, senza addentrarci troppo in spoiler, e vede una ragazza dalla situazione familiare assai difficile, colma di incertezze per il futuro (lavorativo, ma non solo), finire preda di una falsa sicurezza imposta dagli abitanti di un condominio all'apparenza idilliaco, dove tutti sono per l'appunto amici, collaborativi ed estremamente gentili, attenti ad ogni singolo comportamento passabile di diventare problematico o di disturbo. Durante un open day in cui i potenziali inquilini vanno a visitare un appartamento vuoto, Sarah viene identificata come individualista solitaria ed egoista ma possibile membro della comunità e viene dunque "scelta" dagli abitanti del condominio, dopodiché sottoposta a un processo di condizionamento violento ed angosciante (astenersi amanti degli animali, io vi avviso) che mira a renderla un membro attivo e produttivo della comunità. 


Ciò che è davvero angosciante in 1BR è la natura vagamente allettante di ciò che viene offerto a Sarah: un baluardo dalla solitudine, dall'incertezza, la possibilità di venire collocata in un ruolo attivo e produttivo all'interno di un gruppo di persone che "si farebbero in quattro per esaudire i tuoi desideri", qualcosa di ancora più comprensibile e desiderabile della fama e della ricchezza che veniva offerta al maledetto Guy di Rosemary's Baby. E' per questo che il personaggio di Sarah (magistralmente interpretato dalla giovane Nicole Brydon Bloom), da un certo punto in poi, si ammanta di un'ambiguità che fa paura più di ogni altra cosa, in quanto da colei che percepiamo come la final girl del film non ci aspetteremmo sorrisi accondiscendenti e atteggiamenti da Stepford wife ma vorremmo solamente che arrivasse a dare fuoco all'intero condominio con tutti i suoi abitanti. E' l'ambivalenza di Sarah, la sua fragilità e la speranza disperata, a rendere 1BR un piccolo gioiellino, quel mix di giusta ed indignata, anche terrorizzata, resistenza ai metodi dell'infernale comune e desiderio profondo di appartenere a qualcosa e qualcuno, di essere lodata ed apprezzata per le piccole cose che può offrire. Quando un confronto tra padre e figlia arriva a fare più male della visione di chiodi conficcati nei dorsi delle mani allora si capisce di avere a che fare con un film piccolo nei mezzi ma grande negli intenti e nella realizzazione, uno dei migliori visti quest'anno, qualcosa che sicuramente rimarrà impresso nella mia memoria sempre più labile.

David Marmor è il regista e sceneggiatore della pellicola, al suo primo lungometraggio. E' anche attore, produttore, tecnico degli effetti speciali e montatore. 

Giles Matthey interpreta Brian. Inglese, ha partecipato a film come Jobs, Le Mans '66 - La grande sfida e a serie quali True Blood e Once Upon a Time. Ha 33 anni.

Nel cast figura anche Naomi Grossman, la Pepper di American Horror Story, qui nei panni di Janice. Se 1BR vi fosse piaciuto recuperate Vivarium. ENJOY!

martedì 20 ottobre 2020

Il delitto perfetto (1954)

Un po' di tempo fa passavano in TV Il delitto perfetto (Dial M For Murder), diretto nel 1954 dal regista Alfred Hitchcock e tratto dal dramma omonimo di Frederick Knott, così ho deciso di riguardarlo.


Trama: accortosi del fatto che la moglie ha un amante, Tony decide di ucciderla anche per ottenerne il patrimonio ma le cose non vanno come pianificato...


Il delitto perfetto è uno dei film di Hitchcock che preferisco anche se viene comunemente definito come uno dei suoi lavori "minori". Effettivamente, il regista lo ha realizzato sotto pressione degli studios, asservendolo a un 3D che stava lentamente morendo (io non l'ho mai visto in 3D ma alcune inquadrature sono in effetti ben strane e si vede che Hitchcock ha spesso messo alcuni oggetti in primo piano proprio per farli protrudere verso gli spettatori), e come trama e sequenze è sicuramente meno d'impatto rispetto ai suoi capolavori girati in seguito, eppure io l'ho sempre trovato meraviglioso. Partiamo dalla trama. Hitchcock ha adattato un dramma di Frederick Knott (da qui l'impianto squisitamente teatrale della pellicola e l'utilizzo quasi esclusivo di un unico ambiente, il lussuoso appartamento dei coniugi Wendice), imperniato prima sulla progettazione e poi sull'esecuzione del delitto perfetto del titolo italiano, cosa che rende buona parte del film ricca di dialoghi e spiegazioni; diversamente dalle pellicole zeppe di "spiegoni", tuttavia, Il delitto perfetto non annoia neppure per un secondo, in quanto è letteralmente ipnotico stare a guardare prima Ray Milland tessere la propria tela verbale attorno al triste assassino interpretato da Anthony Dawson, e poi l'ispettore Hubbard mettere assieme i pezzi del puzzle trovando le falle di un piano apparentemente inattaccabile. Nella prima parte, dunque, si assiste al mefistofelico progetto messo in atto da Tony Wendice, quindi alla perpetrazione del delitto e a tutti i piccoli imprevisti che lo rendono un crescendo di tensione da manuale, fino ad arrivare alla sequenza in cui l'assassino tenta invano di uccidere Margot, vero e proprio spartiacque della pellicola, dopo la quale i giochi mentali si fanno sempre più difficili e il "fato" diventa ancor più protagonista, così come alcuni piccoli oggetti che vi consiglierei di non perdere di vista, magari a causa di una visione frettolosa.


Grazie alla regia di Hitchcock, al montaggio e ai giochi di luce, l'appartamento dei Wendice diventa un luogo allo stesso tempo claustrofobico e terrificante ma anche ricchissimo e vario, mai uguale, zeppo di dettagli non solo interessanti, ma anche fondamentali ai fini della trama; si può anzi dire che l'appartamento è il quinto protagonista del film, con quella lama di luce lungo la quale Margot si incammina verso il suo destino e le spesse tende che fungono da nascondiglio per l'omicida, un complemento d'arredo elegante e "sicuro" che si trasforma nel giro di un inquadratura in un abisso di orrore, e lo stesso vale per il telefono, ambivalente fonte di salvezza e morte. All'interno dell'appartamento, poi, vagano fior di attori. L'attenzione dello spettatore "casuale" rischia di venire catturata solo dalla bellezza surreale di Grace Kelly, principessa raffinata dal guardaroba commovente, i cui colori si fanno sempre più scuri a mano a mano che il suo destino diventa plumbeo, ma le vere chicche de Il delitto perfetto sono Ray Milland e John Williams. Ray Milland è mefistofelico ed inquietante, i suoi gesti e sguardi seppelliscono quelli di centinaia di villain cinematografici che hanno meno della metà del suo carisma (e pensare che parliamo di un ex tennista!) e i suoi modi di fare veicolano un meraviglioso humour nero, mentre John Williams è l'ispettore sagace e apparentemente "sottotono" che tutti vorremmo avere accanto nel caso ci ritrovassimo ingiustamente accusati di aver compiuto un omicidio. Il delitto perfetto è uno di quei film che non perdono di freschezza nemmeno dopo più di 60 anni ed è piaciuto tantissimo anche al Bolluomo, che non l'aveva mai visto, quindi è assolutamente da recuperare nel caso l'aveste snobbato fino ad oggi.


Del regista Alfred Hitchcock ho già parlato QUI.

Ray Milland interpreta Tony Wendice. Inglese, lo ricordo per film come La casa sulla scogliera, Giorni perduti (che gli è valso l'Oscar), Sepolto vivo, L'uomo dagli occhi a raggi X, Frogs e Incredibile viaggio verso l'ignoto; inoltre ha partecipato a serie come Colombo, Fantasilandia, Love Boat e Charlie's Angels. Anche regista e produttore, è morto nel 1986, all'età di 79 anni.


Grace Kelly interpreta Margot Wendice. Americana, la ricordo per film come Mezzogiorno di fuoco, La ragazza di campagna (che le è valso l'Oscar), Mogambo, La finestra sul cortile e Caccia al ladro. Anche produttrice, è morta nel 1982, all'età di 52 anni.


Hitchcock avrebbe voluto Cary Grant nei panni di Tony ma la Warner pensava che sarebbe stato un errore offrirgli il ruolo del villain mentre Olivia De Havilland voleva troppi soldi per quello di Margot. Nel 1998 il film ha ottenuto una sorta di remake dal titolo Delitto perfetto, che vi consiglio di recuperare per amor di vintage (è su Netflix), anche se non lo ricordo granché bello. ENJOY!

domenica 18 ottobre 2020

Nocturne (2020)

Prosegue l'infornata di film presentati su Amazon Prime con Welcome to the Blumhouse. Oggi tocca a Nocturne, diretto e sceneggiato dalla regista Zu Quirke.


Trama: Juliet è una pianista che, nonostante la dedizione alla musica, vive nell'ombra della gemella Vivian. Dopo aver trovato un quaderno misterioso, la ragazza comincia a cambiare e a dare la scalata ad un successo insperato...

Finalmente. Detto proprio in tutta sincerità, fino ad ora Welcome to the Blumhouse si era rivelato una mezza sòla e ci è voluto questo Nocturne per riabilitare un po' l'intera baracca. Merito di una regista, ennesima conferma che le donne e l'horror possono tranquillamente andare a braccetto e dare degli schiaffi a chi pensa che il genere possano gestirlo solo gli uomini, merito di una sceneggiatrice che ha deciso di trattare la nota storia del patto col Diavolo in maniera un po' anticonvenzionale. L'ambiente è quello feroce e competitivo delle scuole di musica classica, la protagonista è una ragazza che all'arte del pianoforte ha dato tutta se stessa, senza successo: Juliet ha la tecnica, ha la costanza e lo spirito di sacrificio, eppure lo stesso non è riuscita a farsi ammettere alla Juillard come invece ha fatto la gemella Vivian, bella e carismatica. Tutto sembra riuscire senza sforzo a Vivian, che a differenza di Juliet ha anche un fidanzato e degli amici, e la frustrazione della sorella cresce finché, un giorno, Juliet non trova il quaderno di una compagna di classe morta suicida, zeppo di misteriosi disegni che rapiscono l'attenzione della ragazza. Da quel giorno, Juliet si trasforma, decide di "osare" e mettersi in competizione con Vivian, intraprendendo un percorso che somiglia molto a un rito e che, a poco a poco, le spalanca le porte del tanto bramato successo a un prezzo decisamente alto. La trama di Nocturne ci accompagna nei meandri di una mente tormentata e rosa dall'invidia e dalla frustrazione, evitando di dare giudizi definitivi sulle due ragazze protagoniste ma sottolineando comunque la principale debolezza di Juliet, ovvero l'ambizione limitata di una ragazza che aspira a diventare una copia della sorella, arrivando a calpestare l'affetto innegabile che Vivian prova per lei e a dimenticare ciò che dovrebbe contare davvero, l'amore per la musica, sacrificata a un desiderio (tardivo) di successo a tutti i costi. Juliet si profonde in performance sempre più incredibili ma lei non gode della musica che crea, perché ogni volta sviene o cade in trance, come se il pianoforte fosse solo un mero mezzo per arrivare a qualcos'altro, non il fine di tutti i suoi sforzi. Gli stessi successi ottenuti durano il tempo di un applauso, di un brevissimo rapporto sessuale, di una parola di elogio, dopodiché cadono nel dimenticatoio e vengono subito sostituiti dallo step successivo, fino ad arrivare ad un amaro coronamento costellato di dubbi e terrore. 


Partirei proprio dal finale di Nocturne, che pure non rivelerò, per parlare della sua messa in scena e dello stile dell'intera operazione. Il film è interamente filtrato dal punto di vista di Juliet e ogni inquadratura, dall'inizio alla fine, veicola la nostra attenzione solo su quello che è importante per lei oltre a darci un'idea di cosi si agiti nell'animo della ragazza, da qui un finale volutamente ambiguo oltre che incredibilmente triste e poetico. Va da sé che, se all'inizio la sensazione preponderante che si ha è quella di una solitudine mal sopportata unita al terrore di uscire dal guscio (tutto espresso anche attraverso gli abiti indossati da Sydney Sweeney, sempre più appariscenti e sexy), andando avanti aumentano le sequenze allucinate, fatte di ralenti, composizioni ardite e soprattutto filtrate da un giallo malaticcio ed ingannevole, lo stesso colore (giuro!) dell'orrido sole/bambino dei Teletubbies, l'illusoria "speranza" di venire condotta verso un sogno quando invece Juliet sprofonda sempre più in un incubo. Splendidi ed efficaci, in tal senso, sono anche i disegni del quaderno incriminato, degli A4 realizzati con uno stile medievale perfetto per il richiamo demoniaco dell'intera vicenda e spesso animati e "rovinati" da quello stesso colore oro/giallastro. A tutto ciò si aggiunge un intelligente utilizzo delle melodie classiche, un montaggio valido e ovviamente delle bravissime attrici: Sydney Sweeney regge da sola l'intero film e si carica sulle spalle un personaggio a cui è facilissimo voler bene all'inizio e che è impossibile da odiare, nonostante atteggiamenti sempre più irritanti, fino alla fine. Rispetto ai due "fratellini" visti finora, Nocturne è almeno una spanna sopra quindi vi consiglierei, se come me non avete tempo di guardare molti film o non sapete da che parte iniziare con Welcome to the Blumhouse, di recuperare innanzitutto il film della Quirke. Non ve ne pentirete!


Di Madison Iseman, che interpreta Vivian, ho già parlato QUI mentre Julie Benz, che interpreta Cassie, la trovate QUA.

Zu Quirke è la regista e sceneggiatrice della pellicola. Inglese, è al suo primo lungometraggio. Lavora anche come produttrice.

Sydney Sweeney interpreta Juliet. Americana, ha partecipato a film come The Ward, C'era una volta a... Hollywood e a serie quali Heroes, Criminal Minds, Grey's Anatomy, The Handmaid's Tale e Sharp Objects. Ha 23 anni e un film in uscita. 


Se Nocturne vi fosse piaciuto recuperate Starry Eyes (lo trovate su Chili e altri servizi di streaming a pagamento) e The Perfection (su Netflix). ENJOY!

venerdì 16 ottobre 2020

Books of Blood (2020)

In questo brutto anno pandemico i servizi streaming offrono l'imbarazzo della scelta per il mese di Hallowen e uno dei film che più mi interessava recuperare era Books of Blood, diretto e co-sceneggiato dal regista Brannon Braga a partire dai Libri di sangue di Clive Barker.


Trama: due malviventi vanno in cerca del prezioso Libro di sangue che contiene al suo interno la storia di Jenna, ragazza afflitta da misofonia, e di Simon, medium in grado di parlare coi morti...

C'è stato un periodo, qualche anno fa, in cui mi ero messa in testa di recuperare i sei volumi dei Libri di sangue di Clive Barker. Purtroppo, per un italiano medio l'impresa è praticamente impossibile: la casa editrice Castelvecchi aveva ripubblicato nel 2011 i primi due volumi, aggiungendo i sottotitoli "Le stelle della morte" e "La sfida dell'inferno", poi si era fermata lì e per completare l'opera bisognerebbe setacciare Ebay o i mercatini dell'usato cercando, spesso a prezzi improponibili, le vecchie edizioni Sonzogno, intitolate Sudario, Creature (ma questo si trova anche come Libro di sangue), Visions e Monsters. Qualcosa ho trovato, qualcosa no, ma tutto questo giro attorno al mondo è per dire che, pur non conoscendolo quanto vorrei, il buon Barker mi affascina e mi piacerebbe un giorno avere la collezione completa dei bramati libri. Nel frattempo, mi sono guardata Books of Blood, che in realtà dai libri in questione trae giusto una delle storie (l'omonima cornice dell'opera cartacea, che qui diventa invece un episodio a sé stante, sostituita da una versione di Jerusalem Street) mentre, si dice, la seconda sia farina del sacco degli sceneggiatori, pur contenendo miriadi di riferimenti Barkeriani che nella mia Crassa ignoranza non ho potuto cogliere. E, a proposito di Crassa ignoranza, forse è proprio lei che mi ha impedito di schifare Books of Blood come sta succedendo a molti critici d'oltreoceano, non proprio teneri nei confronti del film TV prodotto e distribuito da Hulu, che invece mi ha fatto passare un'ora e mezza di disgustato divertimento. Innanzitutto, mi è piaciuto molto come le storie siano tutte intersecate tra loro benché temporalmente sfalsate, cosa che richiede un minimo di attenzione da parte dello spettatore; inoltre, oltre ad aver apprezzato la resa di due storie che già conoscevo,  sono rimasta piacevolmente stupita dall'episodio originale, quello dedicato alla giovane Jenna, che assieme ad un campionario di orrido abbastanza notevole mette in scena un disagio esistenziale e un odio per la vita da primato, portando su schermo un personaggio non facile, sfaccettato e in grado di suscitare sia pietà che odio, cosa già abbastanza rara in un horror, figuriamoci in qualcosa realizzato per la TV.


Anche a livello di regia, il film non mi è dispiaciuto affatto. Sono rimasta particolarmente colpita dall'utilizzo degli edifici e dei panorami cittadini, soprattutto per quanto riguarda l'episodio dedicato a Jenna, all'interno del quale spicca una villa a due piani (peraltro sul mare, accanto a una bella scogliera a strapiombo) con la superficie interamente ricoperta di vetrate attraverso le quali spiare ciò che accade ai suoi tre abitanti e, ovviamente, la casa dove viene ospitata la protagonista, il teatro perfetto di momenti da incubo permeati da un crescente senso di paranoia ed incertezza. A proposito delle quali, Britt Robertson è davvero notevole nella sua interpretazione della nevrotica e terrorizzata Jenna e brilla su un cast che, salvo l'elegante e sensuale Anna Friel, la quale sembra uscita dritta da un Hellraiser anni '80, non regala gioie particolari né interpretazioni degne di venire ricordate. Anche gli effetti speciali mi sono parsi dignitosi anche se forse da un film intitolato Books of Blood, visto anche il concetto che sta alla base, mi sarei aspettata un bel po' di gore in più. Oserei dire "sarà per la prossima", visto che Books of Blood nasceva come una serie, ma siccome è stato trasformato in film a episodi e ha ricevuto un'accoglienza abbastanza tiepida, temo proprio che l'operazione non continuerà con altri film. Ciò detto, ultimamente Barker ha parlato della prossima uscita di un nuovo romanzo, quindi forse almeno una gioia ci sarà!

Di Britt Robertson, che interpreta Jenna, ho già parlato QUI.

Brannon Braga è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Americano, è al suo primo lungometraggio. Anche produttore e attore, ha 55 anni.

Il racconto di Clive Barker era già stato trasformato in un altro film del 2009 intitolato Book of Blood, che non ho mai guardato ma che forse recupererò per curiosità. ENJOY!