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mercoledì 2 luglio 2025

Elio (2025)

Benché poco pubblicizzato, la settimana scorsa sono andata a vedere Elio, diretto e co-sceneggiato dai registi Adrian Molina, Domee Shi Madeline Sharafian.


Trama: Elio Solis è un bimbo che, dopo la morte dei genitori, è stato affidato alla zia. Sentendosi solo in un mondo che gli va troppo stretto, Elio sogna di venire rapito dagli alieni, e un giorno questi rispondono al suo appello...


Sapete che non mi perdo un film della Pixar, nemmeno quando orde di bonobi urlanti su internet gioiscono del suo insuccesso senza neppure averlo visto. Elio, che ha avuto la sventura di uscire subito dopo il fortunato live action di Lilo e Stitch e poco prima dell'imminente Fantastici 4, è stato trattato dalla Disney come un lavoretto en passant, da pubblicizzare poco (strano non l 'abbiano inserito subito nel catalogo Disney +!), e ha ovviamente risentito di queste miopi scelte di marketing. Probabilmente, ha anche sofferto i ritardi dovuti al lungo sciopero SAG/AFTRA del 2023, che ha permesso allo studio di rimaneggiare completamente un'opera che avrebbe dovuto essere realizzata essenzialmente dal regista e sceneggiatore Adrian Molina, partendo da sue esperienze autobiografiche, e che poi è stata rivista in un'ottica più "universale" e affidata a Domee Shi a Madeline Sharafian quando Molina è stato chiamato a co-dirigere il seguito del suo fortunatissimo lungometraggio Coco. Insomma, Elio è un film nato disgraziato in partenza, eppure basterebbe dargli una chance per capire che è un'opera dolcissima e fantasiosa, benché non al livello dei capolavori Pixar. Elio racconta, appunto, la storia di Elio Solis, un bambino rimasto orfano che vorrebbe venire rapito dagli alieni e portato su altri mondi. Il perché, è comprensibile. Ad Elio non è rimasto nulla sulla Terra; non ha genitori, non ha amici, la zia gli vuole bene ma non sa come gestirlo e, per crescerlo, ha rinunciato alla sua carriera di astronauta, il che fa sentire il ragazzino ancora più solo e in colpa. Il desiderio di Elio è così forte e doloroso che gli impedisce di accettare o apprezzare ciò che lo circonda, e il protagonista non si rende conto di essere lui stesso a rendersi la vita ancora più insopportabile e difficile di quanto non sarebbe normalmente. Nonostante tutto, un giorno i sogni di Elio diventano realtà: gli alieni lo scambiano per il leader della Terra e lo rapiscono per portarlo su un mondo da sogno, dove tutti gli sono amici e lo reputano importante. Ovviamente, non è tutto oro quello che luccica. Elio capirà presto che solitudine ed incomprensioni sono all'ordine del giorno anche nello spazio e che è solo aprendosi realmente agli altri, con tutti i nostri pregi e difetti, dando fiducia a chi ci vuole bene, che la nostra vita può migliorare pian piano, anche se non è proprio quella che sognavamo. Il messaggio di Elio è chiaro, così come sua la natura di racconto di formazione. A quello di Elio si affianca, infatti, anche il percorso dell'adorabile Glordon, bioccoletto ciccioso che non riesce a comunicare con l'iracondo padre e che vorrebbe sottrarsi a un futuro da tiranno e guerriero che non gli si confà; anche in questo caso, si sottolinea l'importanza della fiducia e del dialogo, che ci porta a considerare nemico chi, in realtà, è goffo ed insicuro quanto noi. In soldoni, spesso l'etichetta di "diverso", di "strano", in accezione negativa, siamo noi stessi ad appiccicarcela addosso, e gli altri si comportano di conseguenza, rendendo ancora più difficile staccarla.


Mettendo un attimo da parte i messaggi profondi, Elio funziona per la verosimiglianza con cui viene ritratto il protagonista, un bambino zeppo di fantasia e iperattivo, la cui "stupidità" ricorda molti dei giochi e dei voli pindarici che facevamo da bambini. La fervida fantasia del protagonista viene rispecchiata dalla varietà incredibile degli alieni che popolano il Comuniverso; la cifra stilistica di Elio è un mix di elementi naturali (presi da creature marine, insetti o invertebrati), design pop al limite del "giocattoloso" e aspetti onirici, quasi psichedelici, che si traducono in un caleidoscopio di colori ammorbidito da una fotografia che definirei quasi "acquatica". La qualità prevalentemente variopinta e dinamica di Elio cozza in maniera assai efficace con l'ambientazione fatta di rossi e neri che definisce tutto ciò che è legato a Grigon e ai suoi scagnozzi, e con sequenze ambientate sulla Terra che farebbero la felicità di ogni appassionato di cinema di fantascienza. Come già accadeva in Toy Story 4, infatti, i realizzatori di Elio si dimostrano fini conoscitori delle dinamiche inquietanti tipiche del genere, specialmente quando contaminato con l'horror, e inseriscono efficacissimi rimandi a La cosa, L'invasione degli ultracorpi, persino Terminator e Venerdì 13 (e chissà quanti altri film che non ho colto) e, onestamente, se non avessi saputo di stare guardando un cartone Pixar, a un certo punto me la sarei fatta abbastanza sotto. Piccole strizzate d'occhio agli adulti, che non snaturano un film pensato essenzialmente per bambini, che tratta con garbo ma senza fare troppi sconti temi difficili come la morte, il bullismo, la natura distaccata di alcuni genitori. Tra le melodie di Rob Simonsen, il musetto triste di Elio, l'espressivissimo Glordon (gli mancano gli occhi, ma vi sfido a non provare pena quando scoppia a piangere disperato) e lo sguardo finale che Olga riserva al nipote, ammetto di essermi sciolta in lacrime e, anche se l'intento del film era diametralmente opposto, ho sperato, per un istante, che qualcuno lassù arrivasse a prendermi per farmi vivere un'avventura galattica, proprio io che non sopporto la fantascienza. Però che bello, per una volta, sognare di visitare mondi lontani, così zeppi di colori e di allucinanti, utilissime tecnologie!


Dei co-registi e co-sceneggiatori Adrian MolinaDomee Shi ho parlato ai rispettivi link. Zoe Saldaña (voce originale di Olga Solís) la trovate invece QUA.

Madeline Sharafian è la co-regista e co-sceneggiatrice del film. Americana, è al suo primo lungometraggio. Anche animatrice, storyboarder e produttrice, ha 32 anni. 


Se Elio vi fosse piaciuto, recuperate Red, Over the Moon - Il fantastico mondo di Lunaria, Lilo & Stitch e Luca. ENJOY!

martedì 1 luglio 2025

M3GAN 2.0 (2025)

Per vari motivi, sono riuscita ad andare già venerdì a vedere M3GAN 2.0, diretto e co-sceneggiato dal regista Gerard Johnstone.


Trama: Gemma e Cady vivono una vita abbastanza serena, e cercano di limitare i danni causati dall'AI qualche anno prima. L'arrivo di un nuovo robot omicida le costringe però a ricorrere all'aiuto di M3gan...


Tre anni fa, M3GAN era stato una hit inaspettata, un divertente mix tra horror e fantascienza avente per protagonista un robot dalla personalità fortissima, capace di accattivarsi le simpatie del pubblico. Subito dopo l'uscita era già stato confermato un seguito e, finalmente, M3GAN 2.0 è arrivato. Il sequel si spoglia subito di ogni elemento horror, per diventare un thriller-action altamente tecnologico fin dalle prime scene. Se, infatti, nel primo film si parlava di fabbriche di giocattoli pronte a fare il passo più lungo della gamba nel tentativo di avere successo commerciale, anche a costo di monetizzare sulle tragedie dei piccoli acquirenti, qui i protagonisti sono entità governative, segreti militari, minacce alla sicurezza nazionale mondiale, e il nume tutelare dell'operazione è nientemeno che Steven Seagal. Nel corso del film ci sono due punti di riflessione fondamentali. Il primo è, ovviamente, un discorso sull'Intelligenza Artificiale e sui pericoli che essa comporta; Gemma, scottata dall'esperienza con M3gan, è impegnata anche socialmente per evitare che l'IA venga sviluppata e utilizzata ulteriormente ma, pur predicando bene, razzola molto male, affidando all'IA segreti e speranze di ricchezza. Il film presenta, assai realisticamente (salvo, ovviamente, quando si parla di impianti neurali e robot, per carità), un mondo completamente governato dalla tecnologia, dove basterebbe uno schiocco di dita per renderci impotenti e rimandarci all'età della pietra. M3GAN 2.0, però, non demonizza le nuove tecnologie; piuttosto, sottolinea l'importanza di un elemento umano consapevole e razionale pronto a gestirle per il bene comune (un'idea anche troppo ingenua ma, come direbbe mio padre, "sun propriu cini"). Da qui, parallelamente, si sviluppa il secondo punto di riflessione, che si traduce nell'ironico coming of age di una creatura che deve imparare a controllare le proprie emozioni e realizzare gli obiettivi imposti dalla sua programmazione nel modo più umano possibile. Un percorso di crescita che, anche questa volta, toccherà Gemma in primis, che da zia "svogliata" si è trasformata in mamma apprensiva, abbracciando l'estremo opposto senza smettere di fare danni, e la povera Cady, traumatizzata non tanto dal tentato omicidio da parte di M3gan, quanto piuttosto dal tradimento ai danni di un'"amica" considerata meno che umana. Insomma, c'è tanta carne al fuoco, e la sceneggiatura scritta a quattro mani da Gerard Johnstone e Akela Cooper non sempre riesce a tenere il filo del discorso, perdendosi in tanti piccoli dettagli apparentemente importanti che vengono lasciati cadere nel corso del film, col risultato di due ore non proprio scorrevolissime, anche per colpa di personaggi logorroici. 


Se si prende però M3GAN 2.0 come un film d'azione zeppo di omaggi alle storiche pellicole anni '80-'90, personaggi tagliati con l'accetta compresi (il robot Amelia è la tipica, fredda bellezza "sovietica" tutta sesso e omicidi, ottimo contraltare all'emancipata, "femminista" M3gan), allora c'è la seria possibilità di divertirsi. Tra surreali montaggi di geni all'opera, scantinati pieni di gadget tecnologici, corpo a corpo PG-13 ma in qualche modo ben fatti, balletti al neon e quelle canzoni cringe che già accompagnavano il primo capitolo, M3GAN 2.0 non si prende mai eccessivamente sul serio e punta più sull'ironia rispetto al suo predecessore, una scelta stilistica che tocca in primis la stessa M3gan. Come dichiarato durante uno dei dialoghi, la sua versione precedente era una bambina senza grande controllo delle proprie emozioni, un robottino pedante ed inquietante che diventava più caustico solo sul finale; la versione 2.0 punta invece molto su un'attitudine sassy, su confronti adulti ed infuocati con Gemma e sulla natura di "bitch" già palesata durante i trailer. Non ci mette molto la combo Amie Donald e Jenna Davis (la prima presta il corpo a M3gan, la seconda la voce) ad eclissare il resto del cast femminile e buona parte di quello maschile, anche se si vede che gli attori si sono divertiti a tornare nei ruoli che hanno donato loro buona parte della fama attuale. Gli unici che spiccano nel mucchio, oltre alla già citata Ivanna Sakhno nei panni di Amelia, soprattutto in virtù della sua particolare bellezza, sono Brian Jordan Alvarez, il cui ruolo di nerd goffo e un po' profittatore è stato molto gonfiato rispetto al primo capitolo, e un Jemaine Clement al quale bastano 10 minuti di screentime per bucare lo schermo con un disgustoso mix di Elon Musk, Jeff Bezos e Quagmire (ma, d'altronde, Clement ha una tale presenza scenica che potrebbe anche stare lì zitto. Sarebbe fantastico ugualmente). L'unico problema di M3GAN 2.0 è la sua natura ibrida. Come Balto, "non è horror, non è action, non è sci-fi, sa soltanto quello che non è", ma in tempi bui di spettatori che vogliono essere rassicurati e vedere sempre la stessa minestra riscaldata, non c'è spazio per le incertezze di film che nascono come matte supercazzole. Io mi sono divertita parecchio, ed è quanto mi basta per essere contenta di averlo guardato, ma se già non vi aveva convinto l'horror blando di M3GAN, consiglio di aspettare un'uscita in streaming, o rischiate di uscire dalla sala inviperiti. 


Del regista e co-sceneggiatore Gerard Johnstone ho già parlato QUI. Allison Williams (Gemma), Jemaine Clement (Alton Appleton) e Violet McGraw (Cady) li trovate invece ai rispettivi link.


Se M3GAN 2.0 vi fosse piaciuto, consiglio il recupero di M3GAN, che vi converrebbe guardare prima, o rischiate di non capire nulla del sequel. ENJOY!

venerdì 27 giugno 2025

2025 Horror Challenge: Il signore del male (1987)

La challenge horror questa settimana chiedeva di guardare un film su un supporto fisico, e io ho colto l'occasione per usare il Blu Ray de Il signore del male (Prince of Darkness), diretto e sceneggiato nel 1987 dal regista John Carpenter.


Trama: un prete chiede l'auto di uno studioso di fisica e dei suoi studenti per capire e contenere un inquietante liquido rinvenuto nei sotterranei di una chiesa, probabilmente un'emanazione fisica di Satana stesso...


Il signore del male
è uno di quei film che devo avere visto almeno due o tre volte nel corso della vita, e ogni volta ho provato sensazioni diverse alla fine della visione. Ammetto di non averlo sempre apprezzato, anche per colpa di un adattamento italiano non particolarmente valido, ma in qualche modo mi ha sempre affascinata e, sicuramente, inquietata come pochi altri film. Anche la scorsa sera, sola in casa e con un caldo che rischiavo di liquefarmi, ho avuto difficoltà a fare il giro delle luci e delle persiane dopo la visione, e il mio sguardo ha accuratamente evitato gli specchi, almeno per una buona mezz'ora. Potere de Il signore del male, e della qualità onirica ed imperfetta della sua sceneggiatura, dotata di quelle stesse caratteristiche che ho nominato proprio poco tempo fa, all'interno del post su Rabid Grannies. Ora, non sto cercando di paragonare i due film, i quali non giocano nemmeno nello stesso campionato, ma anche Il signore del male è zeppo di quei "buchi" logici, di quella cattiveria ineluttabile, di quegli eventi gratuiti che mi mettono sempre angoscia, a prescindere dalla qualità della pellicola, e che spesso si trovano nelle oscure produzioni italiane anni '70-'80 o, salendo parecchi gradini più su, nella trilogia della morte di Fulci. Ecco, nonostante le inquadrature e le melodie de Il signore del male siano tipicamente carpenteriane, il film ha comunque un che di fulciano che mi si insinua sotto pelle e me la fa accapponare, anche se il richiamo più immediato è ovviamente Lovecraft, al quale Carpenter (sceneggiatore accreditato con lo pseudonimo Martin Quatermass) si è ispirato per realizzare il secondo capitolo della sua ideale trilogia dell'Apocalisse. Ma di cosa parla, in definitiva, Il signore del male? Questa volta, il titolo italiano è stato piuttosto azzeccato, perché al centro della trama c'è l'avvento di un Male fisico, di una sostanza misteriosa e senziente che desidera incarnarsi per riportare sulla terra il regno di suo padre, l'Anti-Dio. Un Principe delle Tenebre in forma liquida, di un verde malato, che la Chiesa ha nascosto per secoli affidando il segreto ad una confraternita; quando l'ultimo membro della stessa muore, un prete si ritrova la patata bollente tra le mani e decide di farsi aiutare non già dai suoi pari ma da un gruppo di scienziati, così da provare anche agli scettici la natura di un male che comincia già ad estendere la sua influenza a livello subatomico, e sulle creature più deboli mentalmente e fisicamente. 


Il connubio scienza e religione è molto interessante, e Carpenter mostra di avere più in simpatia la prima, nonostante possa fare ben poco contro l'orrore che compare nel film. Infatti, la Chiesa non ne esce benissimo, tra confraternite che preferiscono mantenere segreti invece di correre ai ripari, e un prete pavido che, sul finale, fa il gallo sulla monnezza dopo aver lasciato che altri si sacrificassero per la causa. A prescindere da dove vadano le simpatie di Carpenter, Il signore del male è comunque molto pessimista, come del resto anche La cosa e Il seme della follia; davanti a esseri che arrivano dallo spazio o da altre dimensioni, la cui caratteristica principale è quella di sfruttare i sensi umani per confonderli e trascinarli nell'abisso, alterando la loro percezione della realtà e persino la loro mente, uomini e donne possono fare ben poco, giusto forse mettere una pezza temporanea per poter almeno provare a vivere tranquilli. Anche così, c'è comunque la consapevolezza che il male esiste, cammina accanto a noi, invisibile agli occhi, e ci osserva aspettando di compiere la sua mossa. L'orrore cosmico de Il signore del male, per quanto ineluttabile ed affascinante, non ha però la complessità matura di un film come Il seme della follia, e "si limita" a tenere in assedio un manipolo di persone, come accadeva già ne La cosa. L'azione della pellicola si svolge interamente all'interno degli ambienti asettici e molto anni '80 (leggi: marroni) di una chiesa, il che concorre a rendere il luogo un labirinto dove può nascondersi qualunque cosa; a peggiorare il tutto, si aggiungono una cripta illuminata solo da candele e dal verde insano del cilindro contenente Satana, e un ambiente esterno che ricorda quasi un fossato, circondato da scale, alte pareti o cancelli dalle punte acuminate, che rende ancora più difficile la fuga ai poveri scienziati protagonisti.


Pochi mezzi dunque, per il buon Carpenter, ma molto ingegno e tantissima espressività. Il make-up di Satana è genuinamente terrificante, un paio di effetti speciali sono disgustosi, e il modo in cui il liquido verde sfida ogni legge della fisica è reso ancora oggi in maniera eccellente, così come la pericolosità dello specchio nel climax del film e nell'agghiacciante finale. A livello tecnico, una delle cose che, ancora oggi, mi terrorizzano sono i messaggi dal futuro (peraltro dei semplici video ripresi mentre venivano riprodotti su uno schermo), probabilmente per la loro incompiutezza reiterata e perché spezzano il ritmo del film aggiungendo ulteriori stranezze ad un film che ne è già pieno, ma il vero "signore del male" è Alice Cooper. L'ho visto in tanti altri horror, non mi ha mai detto nulla, né come uomo né come attore, ma ne Il signore del male mi fa venire voglia di spegnere la TV dal primo momento in cui compare e nascondermi sotto le coperte, perché ha proprio l'espressione vuota di chi potrebbe farti qualunque cosa senza battere ciglio ed è un perfetto araldo della follia demoniaco/possessiva che segue la sua comparsa. E' raro che venga fatto il nome de Il signore del male quando si parla di Carpenter, ed è un peccato, perché è un gioiellino che meriterebbe di essere riscoperto, nonché uno dei pochi horror capaci di farmi davvero paura e di privarmi del sonno per qualche ora. Se non lo avete mai guardato, è il momento migliore per recuperarlo; se lo conoscete, spero di avervi fatto venire voglia di rispolverarlo!


Del regista e sceneggiatore John Carpenter ho già parlato QUI. Donald Pleasence (Prete), Peter Jason (Dr. Paul Leahy) e Alice Cooper (il barbone pazzo) li trovate invece ai rispettivi link.

Victor Wong interpreta il Prof. Howard Birack. Americano, lo ricordo per film come L'anno del dragone, Grosso guaio a Chinatown, Shanghai Surprise, Il bambino d'oro, L'ultimo imperatore e Tremors. E' morto nel 2001.


Jameson Parker
, che interpreta Brian March, era uno dei due Simon del telefilm Simon & Simon; Dennis Dun, che interpreta Walter, era il co-protagonista di un altro film di John Carpenter, Grosso guaio a Chinatown. Se Il signore del male vi fosse piaciuto, recuperate gli altri due film della Trilogia dell'Apocalisse, ovvero La cosa e Il seme della follia. ENJOY!

mercoledì 25 giugno 2025

Ballerina (2025)

Con un po' di ritardo, ho recuperato anche Ballerina, diretto dal regista Len Wiseman.


Trama: da bambina, Eve ha visto suo padre morire per mano dei membri di una misteriosa banda di assassini. Affidata alla Ruska Roma, Eve impara l'arte dell'omicidio e, una volta che il suo cammino torna ad incrociare quello della tribù, si dedica ad una sanguinosa vendetta...


E' da quando lo hanno annunciato, due anni fa, che friggo per vedere Ballerina, perché lo sapete quanto amo i rip-off di Nikita, fatti di assassine dal triste passato e dall'ancor più triste presente. Con tutti i suoi difetti, ho imparato anche ad amare la saga John Wick e, se mettete insieme queste due premesse, capirete perché non vedevo l'ora di andare al cinema a godermi il film di Len Wiseman. Ballerina è tutto quello che mi sarei aspettata, niente di più e niente di meno. Una storia parallela, perfettamente inserita all'interno dell'universo di John Wick, dove spetta a un'altra protagonista interagire con l'interessante mitologia del personaggio, a partire dai vari hotel Continental sparsi per il mondo, e i vari clan di assassini smossi da taglie stratosferiche, come la Ruska Roma introdotta nel primo film della saga. Detta protagonista è un'altra "coperta di Linus", un personaggio fondamentalmente scritto col bignami dell'assassina cinematografica dal 1990 a oggi, la quale soffre la morte di una persona cara da bambina e viene cresciuta come un mostro da gente assai simile a quella che l'ha resa orfana e, a seconda di quale direzione intraprenderà la sceneggiatura, crescerà assetata di libertà o di vendetta, spesso tutte e due le cose. La ballerina Eve non fa eccezione e, come le colleghe che l'hanno preceduta, viene infusa di quella punta di umanità che la rende comunque un personaggio positivo pur nella sua ambiguità morale; nella fattispecie, Eve è una Kikimora, ovvero un'assassina che funge anche da protettrice di coloro che le vengono affidati, il che significa che uccide a fin di bene (anche perché le vengono affidate donne o bambine innocenti, non mostri e predatori sessuali come, che so, nel recente Mujina di Inio Asano). Dopo una serie di missioni svolte più o meno con successo, Eve sbarella (pur con l'obiettivo secondario di impedire che una bambina subisca il suo stesso destino) quando le si presenta l'occasione di uccidere chi l'ha resa orfana, il che consente a Ballerina di cambiare leggermente il solito pattern di scontri "a scomparto" tipici della saga principale e di introdurre un'intero paese alpino interamente abitato da famiglie di assassini, con tutta l'azione che ne consegue.


In virtù di ciò, la seconda parte del film è più varia e un po' più originale rispetto alla prima, anche perché a Eve, in quanto donna, è stato impartito l'importante insegnamento di utilizzare le armi più improprie che potesse trovare onde superare lo svantaggio fisico in un corpo a corpo, e la protagonista aderisce in toto a questo sano principio, facendo ingoiare granate ai suoi avversari o mandandoli a fuoco con un lanciafiamme che avrebbe fatto invidia a De Luca. Come sempre, non siete obbligati ad esaltarvi davanti a queste cose, ci mancherebbe. Se John Wick e seguiti vi hanno fatto schifo, odierete anche Ballerina, talmente conformato, in primis a livello estetico, alla saga principale, da avere una fotografia basata interamente su una palette di blu, rossi e viola, una colonna sonora totalmente spersonalizzata e coreografie di lotta realizzate sul modello inaugurato da Chad Stahelski ormai dieci anni fa. Anzi, le malelingue dicono che proprio Stahelski, insoddisfatto del lavoro di Len Wiseman, abbia rigirato da capo parecchie scene del film, per proteggere il successo della sua creatura più remunerativa. Tanti rimaneggiamenti sono stati fatti anche alla sceneggiatura, e immagino i salti mortali che sono stati fatti per infilarci dentro John Wick (se è vero che Ballerina si svolge tra Parabellum e John Wick 4, nel momento in cui il protagonista è stato prima scomunicato dalla Tavola, poi esiliato anche dalla Ruska Roma, non si capisce perché la direttrice vada a rompergli le palle per risolvere il problema con Eve e perché lui accetti), ma basta fare finta di nulla, tapparsi il naso e divertirsi con quel misto di action popolare, personaggi sopra le righe e momenti pomposamente filosofici che hanno fatto la fortuna della saga. Anche perché Ana de Armas è davvero brava e convinta nei panni di Eve, oltre che bellissima, e il ritorno di personaggi storici non smette di scaldarmi il cuore. Posso dunque ritenermi soddisfatta di questo Ballerina, il cui finale aperto mi lascia sperare per una continuazione anche dello spin-off, ché di comfort movies c'è sempre bisogno. 

 


Di Ana de Armas (Eve), Keanu Reeves (John Wick), Ian McShane (Winston), Anjelica Huston (La direttrice), Gabriel Byrne (Il cancelliere), Catalina Sandino Moreno (Lena), Lance Reddick (Charon) e Anne Parillaud (Consierge di Praga) ho parlato ai rispettivi link.

Len Wiseman è il regista della pellicola. Americano, ha diretto film come Underworld, Underworld: Evolution, Die Hard - Vivere o morire, Total Recall - Atto di forza ed episodi di serie quali Lucifer, Sleepy Hollow e The Gifted. Anche produttore, sceneggiatore e scenografo, ha 52 anni. 


Norman Reedus
interpreta Daniel Pine. Diventato famosissimo come Daryl di The Walking Dead, al punto che gli è stato dedicato persino lo spin-off Daryl Dixon, lo ricordo per film come Mimic, 8mm - Delitto a luci rosse, Blade II, American Gangster e altre serie quali Streghe e Masters of Horror (ha partecipato a quel capolavoro di Cigarette Burns, scusate se è poco); come doppiatore, ha lavorato in American Dad!, Robot Chicken e Helluva Boss. Anche produttore, regista e sceneggiatore, ha 56 anni. 


L'azione del film si svolge tra John Wick 3 - Parabellum e John Wick 4 ma, in generale, per capirci qualcosa vi consiglierei di recuperare anche John Wick e John Wick 2, aggiungendo per completezza la gradevole serie The Continental, che trovate su Prime Video. Inoltre, se Ballerina vi fosse piaciuto, consiglio di guardare Nikita, Atomica bionda e L'assassina - The Villainess. ENJOY!



martedì 24 giugno 2025

28 anni dopo (2025)

Per paura che questa settimana il multisala fosse già chiuso per ferie, mercoledì scorso sono andata a vedere 28 anni dopo (28 Years Later), diretto dal regista Danny Boyle.


Trama: 28 anni dopo la pandemia di rabbia che ha distrutto l'Inghilterra, in un isola della Scozia si è ricreata una prospera comunità separata dalla terraferma. Il dodicenne Spike esce per la prima volta assieme a suo padre e apre gli occhi su ciò che si trova fuori dall'isola e dentro di lui...


Quasi vent'anni dopo il secondo capitolo e 23 anni dopo aver creato la saga, Danny Boyle e Alex Garland tornano, rispettivamente, alla regia e alla sceneggiatura per raccontarci cos'è successo al mondo dopo la pandemia di rabbia che ha distrutto l'Inghilterra. Nulla, a quanto pare. Dopo la scena finale di 28 settimane dopo, che vedeva gli infetti correre davanti alla Torre Eiffel, scopriamo infatti che il mondo è andato avanti, isolando gli inglesi sopravvissuti all'interno dei confini nazionali e lasciandoli a riscoprire la "gioia" di difendere le proprie terre con arco e frecce, costruendo fortificazioni, inventando nuove leggende e riti di passaggio, tornando insomma a uno stile di vita più semplice e quasi "tribale". Anche gli infetti, in qualche modo, si sono evoluti, e alcuni di loro somigliano più a uomini di Neanderthal che a mostri (mentre altri sembrano usciti dal Gyo di Junji Ito e fanno schifo a più livelli), ma non è cambiata la loro pericolosità. In questo mondo "di mezzo", dove la natura è tornata a farla da padrone e l'umanità fatica a fare quel salto che separa il sopravvivere dal vivere, il dodicenne Spike si fa protagonista di un coming of age a tinte horror. Spike vive all'interno di una comunità chiusa, fatta di riti di passaggio e regole ferree, assieme al padre e alla madre malata. Il padre, Jamie, è un modello di mascolinità, di forza, un eroe con tutte le risposte a cui Spike guarda con ammirazione sconfinata; la madre, Isla, è vittima di una misteriosa malattia che le sta portando via forza e raziocinio. Dopo la prima sortita all'esterno, Spike scopre l'orrore che si cela sulla terraferma e arriva a conoscere l'imperfezione di un padre tristemente umano; la consapevolezza della fallacia di Jamie si trasforma in un disprezzo che spinge Spike a prendere la madre per portarla da un dottore isolato sulla terraferma, temuto da tutti perché "pazzo". Quindi, Spike intraprende una vera e propria quest per cercare un individuo "magico", o comunque dotato di capacità uniche e, nel cammino, troverà nemici da sconfiggere, pericoli mortali, improbabili alleati; soprattutto, scoprirà il significato di resilienza e cosa rende una persona davvero umana.


In 28 giorni dopo e, soprattutto, 28 settimane dopo, era l'elemento horror-zombie a farla da padrone, e il terrore di una morte violenta. 28 anni dopo rimette tutto in prospettiva, sottolineando una cosa ovvia: la morte c'è sempre stata, anche prima della pandemia di rabbia che l'ha trasformata in un orrore da dimenticare e che ha diviso l'umanità in anonimi mostri malati e persone sane. Il film sottolinea come la morte sia una parte fondamentale della vita, al punto che una delle massime espressioni d'amore è l'accettazione di una dipartita dignitosa; così come ogni esistenza è unica, è giusto che anche la morte venga percepita in questo modo, o il rischio è quello di diventare insensibili di fronte a qualsiasi dolore che non sia il nostro, soprattutto quando le vittime di pandemie e guerre si fondono in un unicum fatto di anonima carne, anonimo sangue. Il rischio, come sempre, è quello di trasformarci a nostra volta in mostri, anche se non corriamo in giro sbraitando in preda a crisi di rabbia. In una delle sequenze più poetiche del film (affidata, per inciso, ad uno degli attori più bravi del mondo) si cita la frase memento mori, alla quale si aggiunge il meno utilizzato memento amare, perché è più facile avere paura e scappare dall'inevitabile, piuttosto che trarre forza dal ricordo di momenti preziosi, per crearne di ulteriori ai quali aggrapparci. Il coming of age di Spike si trasforma così in un bisogno di libertà, nel rifiuto di una costrizione spaziale che priva di individualità le persone e fa di loro tanti piccoli ingranaggi di una struttura anonima e quasi militarizzata, che è poi il leitmotiv dei mille spezzoni di filmati d'epoca che introducono la vita all'interno dell'isola. Il che mi porta, dopo tutti questi pipponi "filosofici", a parlare un po' della regia di 28 anni dopo.


Su Facebook e Instagram ho definito il film come "una bellissima puntata di The Walking Dead in acido". Lo confermo, perché la regia di Danny Boyle e il montaggio di Jon Harris (coadiuvati da una splendida e martellante colonna sonora, il cui unico difetto è l'assenza della storica In the House – In a Heartbeat di John Murphy) creano un'opera isterica, tra gli spezzoni di filmati di cui sopra, flash di visioni orrorifiche, ralenti che portano a rapidissimi fermi immagine ogni volta che un infetto viene ucciso da una freccia, sogni ad occhi aperti e una consecutio temporum che viene spesso mescolata e spezzata. La narrazione è più lo stream of consciousness di un ragazzino che cerca di assimilare tutta una serie di stimoli nuovi e confusi, ma è anche un'eco della malattia di Isla, del delirio che è diventata l'Inghilterra in 28 anni di mutazioni continue, e c'è una bella differenza tra le immagini desolanti del primo film, intervallate da rapidissimi scoppi di sconvolgente violenza, e questo pastiche di invenzioni visive. L'unica cosa che accomuna, visivamente, le due pellicole, è l'utilizzo di un device digitale per le riprese (in 28 giorni dopo era una videocamera della Canon, qui abbiamo un IPhone di ultima generazione), che conferisce alle immagini una grana particolare, e colori ancora più vividi; per il resto, 28 anni dopo presenta molta varietà anche nei setting e non esita a lasciarsi alle spalle la verosimiglianza del primo capitolo per abbracciare momenti di pura locura concretizzati nel personaggio di Ralph Fiennes e nel trashissimo finale aperto (con tutto il rispetto per Jack O'Connell il quale, dopo questo film e Sinners, sta diventando uno dei miei attori preferiti, mi è sembrato di assistere a un mix tra i Teletubbies, una puntata dei Power Rangers e uno sketch di Benny Hill con la parrucca da giovane scapestrato biondo). A proposito di Ralph Fiennes, il cast è perfetto, proprio a cominciare dal suo Dr. Kelson, che evolve da matto del paese a personaggio migliore del mucchio nel giro di pochissime, splendide sequenze; il giovane Alfie Williams, praticamente esordiente, ha un musetto adorabile ed è un protagonista credibile, capace di infondere al suo personaggio tutte le sfumature necessarie a connotarne la crescita, e mi sono piaciuti molto anche Aaron Taylor-Johnson, sempre figo, e Jodie Comer. Non lo credevo possibile, visto che la saga iniziata nel 2002 non rientra nel mio elenco di film cult, ma alla fine di 28 anni dopo mi sono ritrovata ad aspettare con trepidazione il sequel già annunciato e previsto per l'anno prossimo, 28 Years Later: The Bone Temple, diretto da Nia DaCosta. Speriamo non faccia la fine di Horizon e che questa nuova trilogia arrivi fino alla fine!


Del regista Danny Boyle ho già parlato QUI. Aaron Taylor-Johnson (Jamie), Jodie Comer (Isla), Ralph Fiennes (Dr. Kelson) e Jack O'Connell (Sir Jimmy Crystal) li trovate invece ai rispettivi link.


Nell'attesa che esca 28 Years Later: The Bone Temple, se 28 anni dopo vi fosse piaciuto recuperate 28 giorni dopo e 28 settimane dopo. ENJOY!

venerdì 20 giugno 2025

2025 Horror Challenge: Valerie and Her Week of Wonders (1970)

Il tema della challenge, questa settimana, era un film degli anni '70. Ho scelto quindi Valerie and Her Week of Wonders (Valerie a týden divů), diretto e co-sceneggiato nel 1970 dal regista Jaromil Jires a partire dal romanzo omonimo di Vítězslav Nezval.


Trama: Valerie, che vive con la religiosissima nonna, viene minacciata dal "Conestabile", un uomo mascherato che punta ad ottenere i suoi orecchini di perle. In soccorso di Valerie arriva il giovane Orlik...


Leggete pure l'abbozzo di trama di Valerie and Her Week of Wonders, ma poi dimenticatela. E' arduo, infatti, spiegare di cosa parli il film di Jaromil Jires, il quale ha già avuto enormi difficoltà a portare su schermo la fiaba gotica e surreale di Vítězslav Nezval, ma posso provarci, almeno un po'. Valerie and Her Week of Wonders è un coming of age gotico e sottilmente erotico, che racconta le prime pulsioni adolescenziali, i primi passi verso la maturità sessuale, della tredicenne Valerie. Lo fa attraverso immagini fortemente oniriche, zeppe di simbologie legate alla natura (fiori, animali, uccelli e insetti la fanno da padrone), ai colori e alla religione, ed è talmente raffinato nella sua rappresentazione di un erotismo dolce, innocente e libero, che il titolo italiano Fantasie erotiche di una tredicenne è un vergognoso, fasullo richiamo per rattusi. I "poveri" pervertiti italiani dell'epoca, probabilmente, a guardare il film si saranno fatti due palle cubiche, oltre a non averci capito nulla; la tredicenne Valerie, infatti, mostra ben poco delle sue grazie, e sembra più una sorta di Alice nel Paese delle Meraviglie con un piede nella fanciullezza e uno nell'età adulta. La "settimana delle meraviglie" della ragazza, il cui inizio coincide con la sua prima mestruazione, consiste in un continuo tira e molla tra l'amore puro incarnato dal giovane Orlik, la libertà portata da una compagnia teatrale ambulante, e tutta una serie di cupe minacce alla sua castità e alla sua vita, che provengono da chi la vorrebbe sottomessa, in un modo o nell'altro. C'è il terrificante "Conestabile", un vampiro mutaforma che ambirebbe ad ottenere gli orecchini di Valerie, simbolo di salute e giovinezza (oltre che del "bocciolo" ancora intatto della ragazza); c'è il leppegosissimo prete missionario che tenta di violentare Valerie; c'è la nonna, che alla nipote invidia bellezza e giovinezza e per questo la consegna al "Conestabile" senza pensarci due volte. Valerie, nella sua inesperienza, è sia disgustata che attirata da tutta questa oscurità che la circonda, e affronta ogni situazione col coraggio incosciente di chi ha l'adolescenza dalla sua. Purtroppo, così non è per le altre donne del paese. Per ogni candida fanciulla che vive in comunione con la natura o per ogni ragazza che si abbandona al sesso senza vergogna, c'è almeno una giovane che va in sposa contro la sua volontà, privata di ogni slancio vitale, una signora matura abbandonata perché ormai vecchia e brutta, una donna costretta a vergognarsi di provare piacere. 

La trama di Valerie and Her Week of Wonders è più una raccolta di suggestioni che una storia vera e propria, soprattutto verso il finale, che vira ancor più verso l'onirico e il surreale, ed è un viaggio che ogni spettatore dovrebbe intraprendere lasciando che il film gli parli in base alle esperienze pregresse, alle conoscenze e all'umore. Spesso e volentieri, infatti, i pochi dialoghi riportano cose che vengono contraddette dopo poche sequenze e le atmosfere da feuilleton, contaminate da caratteristiche tipiche del romanzo gotico, si mescolano ad aspetti che richiamano i racconti popolari ed altre forme d'arte come la danza e l'arte. Per questo, il film di Jires è soprattutto una gioia per gli occhi. Realizzato con una fotografia "morbida", che lo rende anche visivamente un sogno ad occhi aperti, Valerie and Her Week of Wonders non ha una sola immagine che non sembri un quadro in movimento. Bisognerebbe guardare il film una volta e poi rivederlo andando avanti per fermi immagine, riempendosi il cuore di una bellezza, un gusto per la composizione dello spazio, per la disposizione dei colori, per le scenografie e i costumi, che hanno pochi eguali, almeno per quanto riguarda la mia esperienza cinematografica (pare, infatti, che In compagnia dei lupi di Neil Jordan sia un omaggio al film di Jires, ma l'ho visto da ragazzina e non ricordo nulla). Ogni sequenza, inoltre, ha fortissimi valori simbolici, che nascondono significati che vanno oltre il semplice proseguimento del racconto. Anche la colonna sonora del film, realizzata da Luboš Fišer, è incredibilmente originale. Rispettando le atmosfere della pellicola, la musica che l'accompagna si divide equamente tra melodie cupe, altre più solenni, quasi religiose, dolci nenie infantili e allegre fanfare popolari, il tutto mescolato senza soluzione di continuità, cosa che conferisce alla colonna sonora caratteristiche oniriche, che fluttuano tra l'inquietante e il meraviglioso. Di sicuro, per parlare di tutti gli elementi che compongono il film non basterebbe il mio breve post né la mia scarsa conoscenza del medium cinematografico, ma spero vi bastino queste mie poche, sconnesse parole entusiaste per convincervi a recuperare Valerie and Her Week of Wonders e a guardarlo, almeno una volta nella vita, perché è un'esperienza splendida, in grado di rinfocolare l'amore per il Cinema con la C maiuscola!

Jaromil Jires è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Nato nella ex Cecoslovacchia, ha diretto film come Lo scherzo, Il caso del coniglio e Eclissi parziale. E' morto nel 2001.



mercoledì 18 giugno 2025

The Woman in the Yard (2025)

In ritardo di qualche settimana, ho recuperato anche The Woman in the Yard, diretto dal regista Jaume Collet-Serra.


Trama: Ramona, piagata da difficoltà motorie causate dall'incidente d'auto in cui ha perso la vita suo marito, vive in una casa isolata assieme ai due figli. Un giorno, una misteriosa donna compare nel campo davanti all'edificio...


The Woman in The Yard
è l'ennesimo horror "medio" prodotto dalla Blumhouse, che ha trovato distribuzione cinematografica quando sarebbe stata un'aggiunta molto più dignitosa all'accozzaglia di spesso indegni film prodotti direttamente per Prime Video. Alla sua prima sceneggiatura per un lungometraggio, Sam Stefanak sceglie di giocare la carta dell'horror psicologico, andando ad indagare i recessi più oscuri dell'animo di Ramona, donna che, nonostante la presenza di due figli, non riesce a scrollarsi di dosso la depressione che l'ha inghiottita dopo la morte del marito in un incidente stradale. Ramona, da quell'incidente, ha riportato ferite gravi alla gamba, che le impediscono non solo di badare ai bambini, ma anche di muoversi agevolmente all'interno di una casa enorme e ancora da ristrutturare, zeppa di "barriere architettoniche"; detta casa, per inciso, è anche una fonte costante di debiti, e il film si apre con la probabile interruzione del servizio elettrico per qualche bolletta non pagata, e una famiglia ancora più isolata perché priva di cellulare. Ce n'è abbastanza per fare scoppiare una bomba, e la miccia si incarna in una misteriosa donna vestita di nero che, improvvisamente, compare in mezzo al campo davanti a casa di Ramona, dichiarando "Oggi è il giorno", prima di cominciare a terrorizzare seriamente Ramona e suoi figli. The Woman in the Yard parla di depressione, sensi di colpa e "forza", quest'ultima intesa non necessariamente in senso ottimista, come l'energia che spinge a guardare a un futuro più luminoso sopportando un presente orribile, quanto piuttosto come la freddezza di prendere lucidamente scelte scomode e all'apparenza egoiste, liberando gli altri (prima ancora di noi stessi) da situazioni senza sbocco. La presenza della donna in nero fa precipitare una situazione già gravemente compromessa, incrinando la fiducia di due bambini (il maschio è già adolescente, ma la femmina è piccola) verso una madre distante e rinchiusa nel suo dolore fisico e mentale, e aumentando l'allucinato senso di irrealtà di quest'ultima. L'idea, probabilmente, era quella di realizzare una sorta di Babadook che riaffermasse come i mostri, in realtà, siamo noi e tutto ciò che vomitiamo sugli altri a causa del dolore, della solitudine e dello stress quotidiani, ma Stefanak non è Jennifer Kent e rende difficile empatizzare con la protagonista. Ramona infatti, nonostante tutto quello che le è successo, non è rappresentata sotto una luce particolarmente positiva e viene connotata fin dall'inizio come narratrice inaffidabile, come primo agente degli eventuali traumi dei figli, come una donna che vive la famiglia come un impedimento alla sua espressione personale (Ramona è un'artista che non dipinge più) e lascia nell'incuria due bambini tutto sommato normali, che non si meritano le sfuriate della donna.


A fronte di queste considerazioni, ho trovato il finale ambiguo un po' paraculo e, sicuramente, di scarso impatto rispetto a quello di altri film dall'argomento simile. Anche l'idea dello specchio e di un mondo oltre ad esso, benché evocativa, è sfruttata maluccio, e arrivati alla fine di The Woman in the Yard sembra molto meno importante rispetto a ciò che lasciavano intendere i molti indizi seminati nel corso della pellicola. Non che lo spunto iniziale di una donna nel cortile, portatrice di presagi nefasti, sia sfruttato in maniera originale; alla fine la signora velata è uno spauracchio come tanti altri, e inquieta più quando rimane immobile a fissare Ramona e i figli, rispetto a quando passa effettivamente all'azione. Il vero punto debole di The Woman in the Yard è dunque questa sceneggiatura ambiziosa che si ferma un po' in superficie, perché poi regia e attori non sono malaccio. Jaume Collet-Serra, come al solito, fa il suo; non è un regista particolarmente innovativo ma ha il senso del ritmo e il polso della messinscena, e riesce a sfruttare bene il setting della casa fatiscente e l'handicap fisico della protagonista, inoltre gestisce bene il frequente passaggio tra allucinazione e realtà, senza confondere lo spettatore in modo negativo. Danielle Deadwyler, dal canto suo, si impegna più che può a far sì che il pubblico si affezioni alla sua Ramona nonostante la scrittura la voglia imperfetta e poco accattivante, e lascia trapelare dai gesti e dagli sguardi tutta la stanchezza e la tristezza di una donna molto umana, costretta ad affrontare una vita che, forse, non voleva, e che si è evoluta nel peggiore dei modi. Purtroppo, nonostante gli sforzi dell'attrice e nonostante il potenziale del concetto che vorrebbe veicolare, The Woman in the Yard non decolla. E' un film che non fa paura, anche perché la donna del titolo è troppo affascinante per instillare una simile sensazione, non inquieta e non porta lo spettatore a mettersi in discussione. Avrei preferito sedermi in mezzo a un yard a leggere un libro, sinceramente. 


Del regista Jaume Collet-Serra ho già parlato QUI



martedì 17 giugno 2025

Bolla Loves Bruno: The Jackal (1997)

Rirendiamo un po' le fila del discorso anche con la rubrica Bolla Loves Bruno, dopo ben quattro mesi. Oggi tocca a The Jackal, diretto nel 1997 dal regista Michael Caton-Jones.


Trama: dopo la morte del fratello per mano di agenti dell'FBI e di un maggiore russo, un potente boss della mala decide di ingaggiare il misterioso killer The Jackal per vendicarsi. L'FBI chiede così l'aiuto di Declan Mulqueen, ex membro dell'IRA recluso in un carcere americano, nonché l'unica persona al mondo a conoscere il volto dello "sciacallo"...


Dopo l'insuccesso commerciale di Ancora vivo, Bruno ha azzeccato uno dei ruoli migliori della sua carriera grazie al Korben Dallas de Il quinto elemento e si è dato a qualche doppiaggio, prima di comparire in un episodio di Innamorati pazzi nei panni di se stesso. The Jackal arriva nel 1997 sotto i peggiori auspici, perché è il remake del Il giorno dello sciacallo, ed è talmente distante dalla trama fantapolitica imbastita dallo scrittore Frederick Forsyth che quest'ultimo chiede e ottiene di non venire mai citato nei credits. The Jackal, dunque, si dichiara "ispirato", non tratto, dal film Il giorno dello sciacallo (perché nemmeno i realizzatori di quella pellicola erano felici di essere stati tirati in ballo!) e sposta l'azione dalla Francia post seconda guerra mondiale a un'America post guerra fredda in cui FBI ed esercito russo collaborano in apparente serenità. Durante un'operazione congiunta tra le due agenzie, ci rimette la pelle il fratello di un boss della mala russo, il quale si vendica commissionando all'inafferrabile killer The Jackal l'omicidio del capo dell'FBI. Una volta capito che la minaccia è reale, l'FBI e l'esercito russo tirano fuori dal carcere Declan Mulqueen, ex membro dell'IRA che, per motivi legati al suo violento passato, conosce sia il volto che il modus operandi di The Jackal e, soprattutto, ha un conto in sospeso con lui. The Jackal è il tipico "thriller" a base di spie e assassini, che porta lo spettatore a fare il giro del mondo mettendo in campo un killer internazionale che preferisce confondere le acque fino all'estremo, piuttosto che andare da punto A a punto B. La sensazione di stare seduti sulle montagne russe deriva non solo dal continuo cambio di setting ma, soprattutto, dal fatto che Bruce Willis, nei panni di The Jackal, utilizza almeno una ventina di travestimenti diversi, a seconda delle persone con le quali deve interagire e di ciò che è meglio per il compimento della sua missione. La sovrabbondanza di versioni di Bruce Willis, per inciso, era uno dei motivi per cui avevo guardato The Jackal almeno tre volte, all'epoca, approfittando di una videocassetta acquistata assieme a Panorama.


Riguardando The Jackal oggi, ci si rende conto che quei travestimenti sono un po' cheesy e si affidano anche troppo alla natura idiota delle persone che interagiscono con l'assassino (un esempio su tutti: quando, poco prima del finale, The Jackal si traveste da poliziotto durante un evento di massima sicurezza e si permette di farsi i cazzi propri seduto su una panchina, come uno spettatore qualsiasi, e nessuno passa a dirgli di alzare il culo e tornare a lavorare!). Da un punto di vista strettamente attoriale, invece, è una soddisfazione vedere Bruce Willis mantenere un'aura di freddezza glaciale anche sotto i travestimenti più innocui e "compagnoni", così che The Jackal spicchi sempre per carisma rispetto a chi lo circonda, anche quando indossa una camicia di flanella. Lo stesso non si può dire, purtroppo, per Richard Gere, impegnato nell'ennesimo ruolo di piacione dal triste passato. Se, talvolta, il film risulta noioso, è proprio perché il personaggio di Mulqueen non ha la ruvidezza di un terrorista dell'IRA che è stato rinchiuso in un carcere di massima sicurezza per decenni ma sembra, piuttosto, un poliziotto mancato, buonino come Lupo de Lupis. Aggiungo, inoltre, che il doppiaggio italiano (all'epoca ancora meritevole di essere annoverato tra i migliori del mondo) ha messo una pezza all'atroce accento OIRISH in cui si profonde Richard Gere, più fasullo dei travestimenti di Willis. Fa invece sorridere, sempre parlando di attori, vedere un giovanissimo Jack Black nel ruolo di nerd irritante, un J.K. Simmons non ancora famoso usato come un qualsiasi, anonimo attore da infilare nel ruolo di agente dell'FBI, e Daniel Dae Kim come semplice comparsa. Il cast femminile sarebbe anche interessante, purtroppo The Jackal è un film di uomini in cui anche le donne forti, di riffa o di raffa, vengono ridotte al rango di donzelle da difendere, sedotte dal fascino mariuolo di Mulqueen, quindi sia Valentina che Isabella sono degli archetipi, più che dei personaggi con una profondità. In sostanza, The Jackal è il tipico film fine anni '90, con tante belle facce più o meno famose ma privo di stile o guizzi particolari; non è brutto, perché si guarda con piacere, ma è anonimo e sempre a un passo dall'essere mediocre, più che "medio". Per fortuna, c'è tantissimo Bruce Willis in tutte le salse, quindi non potrò mai volergli male. 


Di Bruce Willis (The Jackal), Richard Gere (Declan Mulqueen), J.K. Simmons (Witherspoon), Jack Black (Lamont), Sophie Okonedo (Ragazza giamaicana) e Daniel Dae Kim (Akashi) ho parlato ai rispettivi link.

Michael Caton-Jones è il regista della pellicola. Inglese, ha diretto film come Doc Hollywood - Dottore in carriera, Rob Roy e Basic Instinct 2. Anche produttore, attore e sceneggiatore, ha 68 anni. 


Sidney Poitier
interpreta Preston. Americano, lo ricordo per film come La parete di fango, I gigli del campo, La più grande storia mai raccontata, La calda notte dell'ispettore Tibbs, Indovina chi viene a cena?, Omicidio al neon per l'Ispettore Tibbs, 'L'organizzazione' sfida l'ispettore Tibbs, Nikita spie senza volto e I signori della truffa. Anche regista, produttore e sceneggiatore, è morto nel 2022.


Il ruolo di The Jackal era stato offerto inizialmente a Richard Gere, che ha rifiutato perché preferiva interpretare l'eroe (per il ruolo di Declan erano in lizza Richard Dean Anderson, Alec Baldwin, Jeff Bridges, Gary Busey, Kevin Costner, Harrison Ford, Mel Gibson, Tommy Lee Jones, Michael Keaton, Liam Neeson, Ron Perlman, Dennis Quaid, Arnold Schwarzenegger, Steven Seagal, Sylvester Stallone e Patrick Swayze); non è la prima volta che Richard Gere era stato chiamato per un ruolo andato poi a Bruce Willis, a cominciare dal John McClane di Trappola di cristallo. Rimanendo in tema attori, The Jackal è stato l'ultimo film distribuito in sala in cui ha lavorato Sidney Poitier, prima di dedicarsi a film TV e documentari. Come ho scritto nella recensione, The Jackal è ispirato a Il giorno dello sciacallo, che vi consiglio di vedere se vi interessa l'argomento, per poi provare la serie The Day of The Jackal, uscita qualche anno fa. ENJOY! 



venerdì 13 giugno 2025

Bolle di recensioni: Heart Eyes (2025) e Presence (2025)

Siccome rischiavano di cadere nel dimenticatoio e slittare a chissà quando, ho deciso di accorpare un paio di brevi opinioni su due horror (totalmente diversi tra loro) visti qualche tempo fa, anche perché nel frattempo, finalmente, Heart Eyes è uscito anche nei cinema italiani (alla buon'ora, gente!!). Quello di Soderbergh, invece, è ancora inedito nel nostro Paese, chissà perché! ENJOY!

Heart Eyes (Josh Ruben, 2025)

Avevo visto Heart Eyes già parecchio tempo fa, ma era finito vittima della marea di post ai quali avevo dato la precedenza. Nulla di male, perché nel frattempo è stato distribuito anche in Italia, e va bene parlarne oggi, anche se sarò un po' più stringata nel parlare del nuovo film di Josh Ruben. E non perché non sia bello, beninteso! Heart Eyes è uno slasher "di cuore", letteralmente. Segue tutte le regole del genere ma, siccome tra gli sceneggiatori c'è l'adorabile Christopher Landon, l'horror si mescola senza soluzione di continuità ad un altro tipo di film, in questo caso la commedia romantica. Sì perché Heart Eyes, o HEK, come viene chiamato nel film, adora uccidere le coppie proprio il giorno di San Valentino e l'intero film ruota attorno all'equivoco che vede la protagonista, Ally, e un suo nuovo collega di lavoro, Jay, venire scambiati per due innamorati che tubano, per tutta una serie di circostanze che vi lascio il piacere di scoprire. Inutile dire che, come in tutte le commedie romantiche che si rispetti, i due protagonisti si innamoreranno davvero l'uno dell'altra nel corso della pellicola. Superfluo anche dire che Heart Eyes li seguirà molto da vicino, lasciandosi dietro una scia di persone uccise con metodi molto fantasiosi e coreografici. Josh Ruben, con un budget più consistente rispetto al suo primo film da regista (parlo di Scare Me, purtroppo non ho ancora avuto modo di vedere A cena con il lupo), conferma di saperci fare, di avere un occhio brillante per la messinscena e per i dettagli stilosi o originali, mai fini a se stessi, come conferma il favoloso look del killer (opera di Tony Gardner, che già aveva realizzato le maschere di Freaky, Auguri per la tua morte e Totally Killer) e non avete idea di quanto mi piacerebbe vederlo all'opera con qualche horror più "serio". Per quanto mi riguarda, Heart Eyes merita anche solo per l'esilarante inizio, la somma presa per il culo di tutte le falsissime storie a tema amore, fidanzamento e matrimonio che si vedono nei feed di Instagram, ma in generale è una visione divertentissima e intelligente, che non annoia neppure per un secondo, oltre che zeppa di belle facce (Devon Sawa in primis, sempre graditissimo!). Se ci fosse un sequel non mi lamenterei, anche perché vorrei vedere la faccia dello sugar daddy di Monica.  

Presence (Steven Soderbergh, 2024)

Tra challenge, uscite cinematografiche e altri film, ci ho messo un po' a scrivere un post su Presence, il che si tradurrà in maggior brevità rispetto al solito, anche perché la mia memoria ha delle difficoltà a richiamare alla mente un'opera così poco emozionante, dopo due settimane dalla visione. Presence avrebbe dovuto uscire il 6 febbraio in Italia ma si è perso nel limbo distributivo di una Lucky Red evidentemente interessata a portare altri film al cinema, e ora pare abbiano deciso di distribuirlo il 24 luglio, quando la maggior parte dei cinema saranno chiusi. Poco danno, se mi posso permettere. Presence non mi ha granché entusiasmata, anzi, ammetto di avere avuto non poche difficoltà a rimanere sveglia durante la visione, e questo nonostante sia molto interessante dal punto di vista dell'esecuzione. Il film, infatti, è stato girato con una piccola videocamera digitale direttamente dal regista, e mostra per tutta la sua durata il punto di vista soggettivo di una presenza (da qui il titolo), di uno spirito, all'interno di una casa. La narrazione è costituita esclusivamente di ciò che la presenza vede e sente, con tutto ciò che ne consegue. Il problema di Presence, per quanto mi riguarda, è che la trama non è nulla di che, i personaggi sono appena abbozzati e, spesso, vengono introdotte alcune questioni in apparenza importantissime che si concludono in un nulla di fatto, come se la presenza non avesse alcun interesse a seguirle. Lo stesso tema dell'elaborazione del lutto, da cui prende il via tutta la vicenda (la famiglia della giovane Chloe decide di cambiare casa dopo il trauma subito dalla ragazza, alla morte improvvisa della sua migliore amica), dà semplicemente il la ad una serie di conflitti familiari isterici, con la giovane colpevolizzata dal fratello, ignorata dalla madre e sostenuta solo da un padre privo di polso, una serie ripetuta di dinamiche familiari fastidiose all'interno delle quali si inserisce, da un certo punto in poi, una vena thriller angosciante. Presence, salvo per il modo in cui è stato realizzato, riesce in effetti a sorprendere solo sul finale, con una conclusione spiazzante in grado di dare un perché anche alle scelte tecniche. Peccato che il film diventi interessante solo nei suoi ultimi, concitati e persino commoventi minuti.