mercoledì 16 aprile 2025

I ragazzi della Nickel (2024)

La mia Oscar Death Race si era conclusa con una bella mattonata, ovvero I ragazzi della Nickel (Nickel Boys), diretto e co-sceneggiato nel 2024 dal regista RaMell Ross a partire dal romanzo omonimo di Colson Whitehead


Trama: Per un banale errore, Elwood viene arrestato come ladro di auto proprio mentre si sta recando per la prima volta all'università grazie ad una borsa di studio. Viene spedito alla Nickel School, un riformatorio dove i ragazzi di colore come lui fanno una vita molto più tremenda degli altri...


I ragazzi della Nickel
racconta una vicenda romanzata tratta però da una storia vera, quella della Florida School for Boys della città di Marianna. All'interno del riformatorio, nel corso degli anni, sono avvenute moltissime morti sospette e, in tempi recenti, sono state trovate molte tombe scavate nel terreno, probabilmente appartenenti a ragazzi scomparsi misteriosamente, dichiarati "scappati da scuola". Una storia orrenda, di abusi che risalgono addirittura ai tempi della fondazione e che sono continuati fino al nuovo millennio, che ha ispirato Colson Whitehead a trarne un romanzo ambientato negli anni '60, l'epoca di Martin Luther King e delle lotte per i diritti civili delle persone di colore. Il protagonista, Elwood, è un ragazzo intelligente e dal forte senso di giustizia, ispirato proprio dai fondatori di questi importanti movimenti; mentre fa l'autostop per raggiungere l'università, però, ha la sfortuna di venire caricato da un ladro d'auto, e viene arrestato con l'accusa di esserne il complice. Da quel giorno, per Elwood inizia il calvario all'interno della Nickel School, dove i diritti civili non esistono e i ragazzi di colore vengono trattati molto peggio di quelli bianchi. Un posto dove è meglio mettere a tacere ogni velleità di giustizia ed altruismo, pena incappare in punizioni corporali, torture e persino morte. L'unico conforto, per Elwood, oltre alle rare visite della nonna materna, è l'amicizia con Turner, un compagno di prigionia disilluso e cinico, col quale Elwood sviluppa un legame quasi fraterno, nonostante il carattere del protagonista sia così riservato e schivo da rasentare l'autismo. Quest'ultima considerazione è un'idea che mi sono fatta io, e probabilmente deriva dallo stile scelto da RaMell Ross per raccontare la storia. I ragazzi della Nickel, infatti, è interamente girato attraverso un punto di vista soggettivo, che alterna ciò che vede Elwood (il punto di vista preponderante per quasi tutta la prima ora) a ciò che vede Turner, inserito dopo l'arrivo di Elwood alla Nickel. Il risultato, per quanto mi riguarda, ha avuto l'effetto opposto a quello probabilmente ricercato dal regista, ed è per questo che ho cominciato il post parlando di mattonata. Nonostante l'importanza e la natura dolorosa della vicenda, infatti, non riuscire ad avere un quadro "complessivo" di ciò che accade, vedere con gli occhi di un altra persona sprazzi di ambienti, persone ed avvenimenti, mi ha fatto provare un'enorme sensazione di distacco da tutto ciò che passava sullo schermo.


Questi sprazzi di vita, colti da uno sguardo mai diretto, quanto piuttosto timido e schivo, alternati a spezzoni televisivi, visioni, sogni e scampoli di futuro ripresi da una gopro, li ho trovati molto faticosi da seguire, soprattutto all'inizio, quando servono essenzialmente per dare un'idea generale dell'infanzia di Elwood, della sua personalità e di come sia finito su una macchina rubata. Da lì in poi, se non altro, I ragazzi della Nickel imbastisce un minimo di trama, per quanto sfilacciata ed episodica, e sviluppa maggior coesione poco prima del finale, quando Elwood prende un'importantissima decisione che influenzerà il futuro suo e di Turner. Anzi, è proprio il finale che ha risollevato la scarsa opinione che avevo del film, pur riconfermando come, su di me, uno stile come questo non abbia fatto presa, visto che avrei dovuto piangere come una fontana, conoscendomi. Riconosco dunque la bravura e l'originalità di RaMell Ross, almeno come regista, e la natura suggestiva del suo film, che vanta una fotografia e delle immagini splendide, e che sicuramente sarà stata una sfida non da poco per il responsabile del montaggio (anzi, non capisco perché I ragazzi della Nickel abbia ottenuto un'esageratissima candidatura a Miglior film e una per la Miglior sceneggiatura non originale, quando i meriti dell'opera sono altri...), ma onestamente avrei più voglia di leggere il libro di Colson Whitehead piuttosto che riguardare una pellicola che ho percepito come un'esercizio di stile fine a se stesso. Non mi sento comunque nemmeno di sconsigliarlo, perché magari quella che non è la mia cup of tea è la mug of chocolate di altri! Se siete curiosi, potete trovare comodamente I ragazzi della Nickel su Prime.  

RaMell Ross è il regista e co-sceneggiatore della pellicola, al suo primo lungometraggio. Tedesco, anche produttore, lavora principalmente come direttore della fotografia. Ha 42 anni.


Hamish Linklater
, che interpreta Spencer, fa parte della "Flanagan Family", perché era padre Paul nello splendido Midnight Mass. Ciò detto, se Nickel Boys vi fosse piaciuto, recuperate Moonlight. ENJOY!

martedì 15 aprile 2025

Opus (2025)

In qualche modo, pur con un po' di ritardo, sono riuscita a recuperare Opus, diretto e sceneggiato dal regista Mark Anthony Green.


Trama: Ariel, giovane apprendista giornalista, viene invitata assieme al capo e ad alcune celebrità nella magione isolata di Alfred Moretti, un famosissimo cantante pop ritiratosi da trent'anni e pronto a tornare con un nuovo disco...


Mi erano capitati davanti agli occhi diversi trailer di Opus, prima della sua uscita, e l'impressione che ne avevo tratto era che il film di Mark Anthony Green fosse una specie di horror a base di culti strampalati, con una bella dose di elementi grotteschi, tanto per gradire. La prima impressione è stata, in effetti, quella giusta, e francamente non capisco cosa si aspettasse la gente, che sta massacrando il film in parecchie recensioni. Mi rendo conto che la A24, che produce Opus, ci ha abituati più che bene, ma il film è una dignitosa opera prima che riprende un po' lo stile di alcuni grandi successi horror recenti, in primis Midsommar e The Menu. Opus segue le vicende di Ariel Ecton, giovane aspirante giornalista che non riesce a sfondare in quanto, per dirla nelle parole del suo migliore amico, è "troppo normale". Di estrazione sociale normale, senza grandi traumi o successi nell'infanzia e nell'adolescenza, senza problemi di sorta, Ariel non è abbastanza interessante da rendere tali i suoi articoli, o poter raccontare una storia avvincente. L'occasione, però, bussa alla porta quando, assieme allo spocchioso capo, viene invitata all'anteprima del nuovo disco di Alfred Moretti, una star del pop ritiratasi a vita privata da 30 anni. Il luogo dell'anteprima è un'isolata comune, dove Moretti vive assieme a un numero imprecisato di seguaci di un culto, i "livellisti", di cui anche lui fa parte. Le varie celebrities invitate assieme ad Ariel (un critico, una paparazza, un'influencer e una conduttrice televisiva) si lasciano conquistare con entusiasmo dai lussi della comune e dalla personalità sopra le righe di Moretti, mentre la ragazza comincia subito a notare parecchie cose che stonano, sia nel cantante che nel culto da lui professato. La trama di Opus è, effettivamente, derivativa e un po' pasticciata, perché vuole mettere troppa carne al fuoco, ma il concetto che (proprio per questo motivo) rischia di sfuggire allo spettatore disattento, non è banale. Il film sottolinea l'attrattiva dell'esclusività, la tendenza a mettere su un piedistallo celebrità mediocri scomodando parole come "genio" e "capolavoro", l'istinto tutto umano di sorvolare su parecchie cose, quando la superficialità si presenta infiocchettata e viene servita come un privilegio. Di fatto, Moretti è imbarazzante, le sue canzoni sono oscene e banali, le sue pose da star nascondono un vuoto cosmico che diviene ancora più evidente nel corso dell'agghiacciante finale. Eppure, il concetto di un mondo dominato dall'esclusività di presunti meriti artistici, da proteggere come la più preziosa delle reliquie e da tramandare a prescindere dal vuoto esistenziale che incarna, non è così peregrina e fa molta più paura del film in sé.


Da par suo, anche Opus è molto infiocchettato, anche se non è barocco e trash come lo stesso Moretti. Soprattutto la fotografia, la scenografia e i costumi sono incredibilmente curati (gli ultimi lo sono in maniera dichiarata, come del resto anche il make-up) e la cura del dettaglio è tale che non solo le opere d'arte che si vedono nella comune sono molto interessanti, ma lo spettacolo dei burattini che precede il climax del film è un incubo ad occhi aperti degno della migliore stop-motion horror. Ciò che colpisce di più all'interno di Opus, però, è un John Malkovich che da anni non era così weird ed istrionico, probabilmente dai tempi di Burn After Reading, ultimo baluardo prima di un decennio di ruoli minori in film dimenticabili. John Malkovich riesce a fare ridere a crepapelle per la noncuranza con cui si muove nei modi più ridicoli, cantando testi imbarazzanti persino per l'epoca in cui il personaggio era all'apice della gloria, per poi piombare, subito dopo, in quella freddezza pericolosa, vanagloriosa ed infantile che era la cifra stilistica dell'adorato Cyrus "The Virus" di Con Air. Non ho paura di dire che, senza John Malkovich, Opus sarebbe un fallimento abbastanza cocente, e non basterebbe la bravura innegabile di Ayo Edebiri, degno contraltare del viscido Moretti, ad innalzare il film, anche perché è difficile trovare un attore che mantenga eleganza nella follia (forse giusto Dan Stevens avrebbe potuto vestire i panni di Moretti, ma l'età non sarebbe stata credibile). Il resto del cast, a mio avviso, è un po'sprecato, soprattutto Amber Midthunder avrebbe potuto dare molte più gioie, ma d'altronde un maggiore approfondimento dei personaggi di contorno avrebbe tolto potenza allo scontro tra l'eccentrico Moretti e la "banale" Ariel. Ammetto quindi che mi sarei aspettata qualcosina di più da Opus, ma non è affatto un brutto film e, per quanto mi riguarda, merita di sicuro una visione, anche solo per godere di un John Malkovich in gran spolvero... soprattutto se, come me, da decenni "venerate la sua stella" e aspettavate un suo ritorno da mattatore.


Di John Malkovich (Alfred Moretti), Juliette Lewis (Clara Armstrong), Tony Hale (Soledad Yusef), Amber Midthunder (Belle) e Rosario Dawson (voce originale di Billie Holiday) ho già parlato ai rispettivi link.

Mark Anthony Green è il regista e sceneggiatore della pellicola, al suo primo lungometraggio. Americano, è anche produttore.


Ayo Edebiri
interpreta Ariel Ecton. Americana, ha partecipato a film come How it Ends e a serie quali The Bear. Come doppiatrice ha lavorato in Tartarughe Ninja - Caos mutante e Inside Out 2. Anche produttrice, sceneggiatrice e regista, ha 30 anni e due film in uscita, tra cui After the Hunt di Guadagnino.


Se Opus vi fosse piaciuto recuperate Blink Twice, The Menu, Midsommar e Get Out. ENJOY!

venerdì 11 aprile 2025

2025 Horror Challenge: Piranha (1978)

Questa settimana la challenge prevedeva un Ecological Horror. La mia scelta è caduta su Piranha, dretto nel 1978 dal regista Joe Dante.


Trama: Un banco di pericolosissimi piranha geneticamente modificati viene liberato per sbaglio nelle acque di un fiume di montagna. Un eremita alcolizzato e un'investigatrice privata correranno contro il tempo per impedire una strage...


C'è stato un periodo, da bambina, in cui Pirahna e Piraña paura passavano sistematicamente in TV. Mio padre, ovviamente, non se li perdeva mai e ancora oggi ricordo il suo "piranha piranha!" con tanto di battito di denti quando si passava vicino a un fiume o un lago. A me facevano parecchia paura quei film, ma li guardavo con gioia perché erano l'unico modo che avevo per fruire di qualcosa di simile all'horror, genere che mmadre ha bandito almeno finché non sono entrata in possesso di un videoregistratore e di una tessera del videonoleggio. Ora, saranno stati almeno vent'anni, se non di più, che non guardavo Piranha e lo ricordavo come una commedia horror assai divertente; in realtà, il film di Joe Dante è come Fantozzi, una di quelle pellicole di cui si coglie la tristezza, il pessimismo di fondo solo con l'età e l'esperienza, e ammetto di non essermi divertita granché, guardandolo per la challenge. O meglio, la prima parte può trarre in inganno, soprattutto grazie allo scoppiettante personaggio di Maggie, investigatrice privata dal piglio deciso che viene inviata in una località turistica ad indagare sulla scomparsa di due ragazzi. Maggie trascina nella sua indagine un alcolista solitario, Paul Grogan, e insieme raggiungono un comprensorio militare abbandonato, all'interno del quale c'è un'enorme piscina dove (ma lo sappiamo solo noi spettatori) i due ragazzi scomparsi sono stati aggrediti e uccisi da qualcosa nascosto nell'acqua. Lì, scoprono che l'esercito americano sta ancora compiendo esperimenti genetici atti a trasformare creature viventi in potenti armi di sterminio, non prima di liberare per sbaglio un banco di piranha geneticamente modificati, aprendo loro la via per un fiume che confluisce nelle due principali attrazioni turistiche del luogo: un campo estivo per bambini e l'Aquarena resort. In generale, la struttura principale di Piranha è quella di un eco-horror prodotto da Roger Corman, il che si traduce in personaggi tagliati con l'accetta, una divisione tra buoni e cattivi abbastanza netta, qualche sporadica nudità (in realtà Corman, durante le scene di massacro sul pre-finale, ha chiesto a Dante di toglierne parecchia, con sommo stupore del regista) e, ovviamente, sangue e violenza. Sotto la superficie, però, c'è la rappresentazione di un'umanità triste e solitaria, di un tessuto sociale fatto di speculatori industriali che condannano le persone alla povertà, di militari che distruggono l'ambiente non per riportare la pace, ma per prepararsi alla guerra, alimentando un circolo vizioso di morte e noncuranza per la vita, umana o animale che sia (d'altronde, l'unica soluzione al problema piranha è ulteriore inquinamento. Alla faccia del cane che si morde la coda). 


Mentre il remake di Aja buttava tutto in supercazzola, tanto che uno aveva proprio piacere a vedere masticati gli sciocchi protagonisti, il Pirahna di Joe Dante è fin troppo realistico nella sua rappresentazione dei traumi mentali associati al dolore fisico e alla morte; l'orribile destino di un paio di personaggi innocenti, tra i quali la povera Betty, colpisce lo spettatore, ma personalmente ho trovato molto più angoscianti lo sguardo perso di Bradford Dillman, "curato" da una figlia in lacrime con l'inseparabile borraccia colma di superalcolico, lo sconforto di Dick Miller davanti ai giornalisti sciacalli, e il primo piano finale di Barbara Steele, agghiacciante monolite imperturbabile, che sceglie nuovamente di ignorare la portata mortale della minaccia da lei stessa creata, condannando l'umanità a versare sangue nelle acque degli oceani. Saranno le onde che si tingono di rosso, sarà la malinconica colonna sonora dell'elegantissimo Pino Donaggio, ma onestamente non mi veniva da ridere, né mi sono divertita come mi succedeva da bambina. E da piccoli, si sa, non si hanno neppure gli strumenti per apprezzare l'arte, o i primi passi dei grandi. Un film nato come opera di serie Z, come "parodia" de Lo squalo (al punto da beccarsi un paio di denunce per plagio, fatte scomparire da un illuminato Steven Spielberg) è in realtà una fucina di giovani talenti che avrebbero fatto strada. Il primo, ovviamente, è Joe Dante, al suo primo lungometraggio in solitaria. La fantasia del regista, all'epoca poco più che trentenne, è stata limitata giusto dal budget irrisorio, che ha permesso di conservarne una scintilla in guisa di creaturina in stop-motion che si aggira nel laboratorio militare per poi non farsi più vedere in tutto il resto del film; in realtà, Dante avrebbe voluto che la creatura tornasse nel corso di Piranha, ogni volta un po' più grande, fino ad averne una versione gigante pronta a distruggere un porticciolo. Purtroppo non se n'è fatto nulla, ma ci sono comunque i pesci zannuti e tanto, tanto sangue. Anche qui, le mani dietro alle mattanze dei piranha sarebbero diventate famosissime, perché gli orridi pescetti sono stati realizzati da Phil Tippett, mentre, su suggerimento di Rick Baker, il make-up è stato affidato a un altro mago degli effetti speciali, l'allora diciassettenne Rob Bottin. La loro arte, unita al terribile effetto sonoro che accompagna la masticazione dei piranha, è l'ennesima riprova della tristezza della CGI odierna, che sicuramente non induce lo stesso raccapriccio, né la sensazione tangibile di morsi e ferite dolorosissime, se non addirittura mortali. Quindi, il mio consiglio è riguardare Piranha con occhi più maturi, perché è un film invecchiato molto bene ed è assai meno stupido di quanto ricordavate. Provare per credere!


Del regista Joe Dante ho già parlato QUI. Kevin McCarthy (Dr. Robert Hoak), Dick Miller (Buck Gardner) e Barbara Steele (Dr. Mengers) li trovate invece ai rispettivi link.

Bradford Dillman interpreta Paul Grogan. Americano, ha partecipato a film come Fuga dal pianeta delle scimmie, Cielo di piombo, ispettore Callaghan, Bug insetto di fuoco, Swarm - Lo sciame che uccide, e a serie quali Colombo, Wonder Woman, Love Boat, L'incredibile Hulk, Fantasilandia, Charlie's Angels, Dynasty e La signora in giallo. E' morto nel 2018.


Piranha
ha avuto un seguito, Piraña paura, e un paio di remake, ovvero il film TV Piranha - La morte viene dall'acqua e Piranha 3D. Se il film vi fosse piaciuto, recuperateli e aggiungete Lo squalo. ENJOY!


mercoledì 9 aprile 2025

Holland (2025)

Siccome Fresh mi era piaciuto molto, appena è uscito su Prime Video il film Holland, della regista Mimi Cave, mi ci sono fiondata senza pensarci due volte. Occhio perché il post conterrà qualche spoilerino, quindi se non avete ancora visto Holland, guardatelo poi tornate qui.


Trama: Nancy vive nella fiabesca cittadina di Holland assieme al marito Fred e al figlioletto Harry. La sua è una vita da sogno, almeno finché, cercando un orecchino scomparso, la donna non comincia a sospettare che Fred le nasconda qualcosa...


Galeotto fu un orecchino. Un piccolissimo oggetto è tutto ciò che serve a Nancy per rimettere in discussione la sua vita. Ma diciamo che l'orecchino è la goccia che fa traboccare il vaso, l'incarnazione tangibile di un sassolino nella scarpa che Nancy magari non avverte coscientemente, ma che la porta ad avere tremendi incubi la notte, visioni di un'oscurità claustrofobica, di acque che la inghiottono trascinandola a fondo. Nancy è la tipica moglie di Stepford (è un caso che abbiano scelto la Kidman per il ruolo della protagonista? Io penso di no) e vive in una deliziosa cittadina dove tutti sono amici, i pochissimi outsider sono tenuti saldamente a bada, ogni cosa richiama le immagini da cartolina di un'Olanda che non esiste ma che viene celebrata da festival, tradizioni e ricette. Nancy è apparentemente molto grata della vita che ha. DEVE essere grata, in effetti, perché qualcosa nel suo passato, che non verrà mai rivelato precisamente al pubblico, ha fatto sì che toccasse a Fred salvarla e darle un posto dove stare, degli obiettivi... un ruolo. Eppure, come ho scritto prima, il sassolino c'è, e di solito le mogli di Stepford cominciano il loro percorso di liberazione "giocando" a fare le detective, fondamentalmente per vincere la noia (taciuta, mi raccomando!) di una vita perfetta e sempre uguale. Se poi a dare una mano nell'eccitante indagine ci si mette anche un collega carino, outsider a sua volta poiché proveniente nientemeno che da un posto esotico come il Messico, alla smania da investigatrice si aggiunge il "pensiero stupendo" di una scappatella, perché forse nemmeno la vita sessuale matrimoniale è idilliaca come ci si è costretti a credere. Ma questa, se vogliamo, è la parte meno interessante di un film che diventa prevedibile in ogni suo plot twist, poiché attinge a piene mani da una tradizione consolidata e che, a un certo punto, diventa quasi la fotocopia del racconto Un bel matrimonio di Stephen King. Ciò che avrei voluto maggiormente indagato, e che invece diventa la coda di un finale aperto un po' pasticciato, è il dramma psicologico della protagonista, "bloccata" anche nel momento della liberazione dalla "programmazione" impartitale non solo da Fred, ma dall'intero sistema sociale di Holland. Nonostante tutto, Nancy decide di continuare a fare finta di niente, dopo essersi cullata per settimane nei sogni infantili di un principe azzurro sexy intervenuto a salvarla da un marito fedifrago. Questo perché Fred è qualcosa di peggiore, e non è tanto il desiderio di preservare il figlioletto da un orribile trauma a spingerla, quanto la speranza di tornare alla sua vita da sogno, a un innegabile agio economico, a una routine che annebbia la mente e non fa pensare. Sicuramente meglio venire compatita perché cornuta, che vedersi togliere tutto perché il marito è un serial killer.


Holland
, dunque, pecca in ciò che l'avrebbe reso ben più interessante, nell'approfondimento dei personaggi. Non solo di Nancy, scelta già di per sé un po' criminale, ma anche del collega Dave, a sua volta uomo dal passato misterioso e, probabilmente, introdotto a Holland come "quota" integrativa, per sottolineare la natura buona ed inclusiva degli abitanti, MA con parsimonia (d'altronde, basta sentire odore di alcool per mettere al bando un altro membro della comunità). Anzi, Dave è proprio uno degli aspetti del film che ho apprezzato meno, perché mi è sembrato che la sceneggiatura non sapesse come gestirlo; sul finale, addirittura, il personaggio viene utilizzato come veicolo di un dubbio quantomeno scorretto, arrivati a quel punto, e gli viene appioppata una natura da stalker pericoloso che solo spettatori al loro primo thriller si sarebbero potuti bere. A parte questi aspetti, che potrebbero avere dato fastidio solo alla sottoscritta, Holland è un film molto curato, soprattutto esteticamente. Mimi Cave, come già in Fresh, accompagna a concetti sgradevoli delle immagini patinate, che rendono il tutto ancora più grottesco. Holland è un posto plasticoso, colorato e finto quanto l'importante diorama che Fred costruisce nel capannone assieme al figlio, nonché un luogo fuori dal tempo (non ho capito se il film è ambientato nei primi anni dell'attuale millennio o se è solo la cittadina ad essere rimasta volutamente indietro); la regia ricorre spesso ad angoli di ripresa che distorcono le fattezze di persone e ambienti, mentre la fotografia aumenta l'effetto straniante dipingendo tutto con colori e luci palesemente posticce. Anche a livello di colonna sonora, scenografie e costumi è stato fatto un ottimo lavoro, perché in ogni sequenza c'è qualche dettaglio strano in grado di colpire lo spettatore e sviarne le percezioni, mettendolo ancora più in dubbio. Ora magari peccherò di bodyshaming ma uno di questi dettagli strani è proprio il viso di Nicole Kidman, sempre più finto, perennemente atteggiato a un'espressione di stupore, con quei lineamenti da bambolotta e la pelle lucida per i continui ritocchi estetici. Sarà la mia percezione, ma mi è sembrato che anche la sua recitazione fosse "finta", troppo caricata. All'inizio poteva anche essere una scelta vincente, visto che Nancy è fondamentalmente costretta a recitare e zittire tutto ciò che la rende umana ed imperfetta, ma anche verso il finale rimane una leziosità di fondo, una teatralità, una fissità a mio avviso indegna della grande attrice di un tempo. Preso per quel che è, Holland non è un brutto film, ma è l'ennesimo thriller usa e getta da "cestone" streaming, che, come molti suoi simili, lascia il tempo che trova. Da vedere una sera senza troppe aspettative, però, va più che bene. 


Della regista Mimi Cave ho già parlato QUI. Nicole Kidman (Nancy Vandergroot), Gael García Bernal (Dave Delgado) e Matthew Macfadyen (Fred Vandergroot) li trovate invece ai rispettivi link. 

Rachel Sennott interpreta Candy Deboer. Americana, la ricordo per film come Shiva BabyBodies, Bodies, Bodies. Anche produttrice e sceneggiatrice, ha 30 anni. 


Se Holland vi fosse piaciuto recuperate La donna perfetta, Don't Worry Darling e A Good Marriage. ENJOY!

martedì 8 aprile 2025

The Last Showgirl (2024)

Purtroppo a Savona hanno pensato bene di non fare uscire The Shrouds, quindi ho dovuto consolarmi con The Last Showgirl, diretto nel 2024 dalla regista Gia Coppola.


Trama: Shelly è una ballerina ultracinquantenne, impegnata da trent'anni nello show Le Razzle Dazzle, a Las Vegas. Quando arriva la notizia della chiusura improvvisa dello spettacolo, Shelly si ritrova a dover mettere in discussione la sua vita...


Come mi succede ormai da qualche anno, sono andata a vedere The Last Showgirl senza avere visto neppure un trailer, né sapere di cosa parlasse il film. Mi sono mossa "a sentimento", spinta da un cast di attrici che adoro, e curiosa di vedere come se la sarebbe cavata Pamela Anderson in quello che credo sia il suo primo film serio. Sono uscita dalla sala commossa, e con una gran voglia di riguardare Un sogno chiamato Florida, film con cui The Last Showgirl condivide il concetto di "morte del sogno americano" all'interno di uno dei luoghi simbolo della cultura popolare mondiale. Sean Baker raccontava lo squallore che circonda Disneyworld, in coloratissimi motel chiamati Magic Castle o simili, Gia Coppola racconta lo squallore nascosto dalle luci perenni di Las Vegas e, attraverso esso, parla dell'illusione di sentirsi parte di una magia eterna, immuni al tempo che passa, mentre il mondo attorno a noi cambia e diventa sempre meno tenero coi ruderi di una gloria ormai superata. Shelly ha 56 anni, per trenta ha lavorato in uno show (che noi non vedremo mai, per inciso) chiamato Le Razzle Dazzle, in cui bellissime ballerine in sontuosi costumi mostrano il corpo nudo o semi-nudo, impegnate in eleganti coreografie. Una sorta di Moulin Rouge a Las Vegas, quel tipo di spettacolo che attira sempre meno spettatori e turisti, tanto che, un giorno, arriva il fatidico annuncio: Le Razzle Dazzle chiuderà per sempre, e tanti saluti alle ballerine. Il mondo di Shelly crolla in un istante, quel mondo che la donna aveva bisogno di credere immutabile, soprattutto dopo aver sacrificato ad esso l'affetto della figlia, un possibile futuro a New York, una vita diversa. The Last Showgirl ha tantissime similarità non solo con Un sogno chiamato Florida, ma anche con il recente The Substance. Anche qui si parla di donne che non riescono a stare al passo coi tempi, che desiderano conservare l'illusione di essere bellissime e desiderabili, che vengono surclassate da ragazze più giovani e belle. A differenza di Elizabeth, però, Shelly non cova nel cuore acredine e disperazione, bensì l'ingenua speranza di poter continuare a rimanere sotto i riflettori per sempre, così com'è; se Elizabeth vede i suoi difetti al punto da scegliere di cambiare il proprio corpo, Shelly li ignora testardamente, chinando il capo ad ogni spostamento verso il fondo della fila di ballerine, pur di continuare a brillare, di rimanere in uno show sul cui manifesto c'è una lei di trent'anni prima, splendida e sorridente. 


Shelly è un personaggio positivo, benché non perfetto, ed è per questo che The Last Showgirl non prende mai la china di un Viale del Tramonto. La sceneggiatura del film, infatti, è molto attenta ad affiancare alla protagonista delle figure che rappresentano diversi modi di affrontare la terribile realtà al centro della trama. C'è Annette, che pur essendosi riciclata come cameriera non è mai riuscita a "crescere" e vive di stravizi come una ventenne; c'è Eddie, che non ha mai avuto problemi di vecchiaia e bellezza, sia perché è un uomo, sia perché è sempre rimasto dietro le quinte, nel lavoro e nella vita (ed è talmente clueless che persino il suo tentativo abbozzato di mansplaining fa tenerezza); ci sono Jodie e Mary-Anne, che mai vorrebbero il male di Shelly, ma hanno tutta la vita davanti per risolvere i loro problemi ed imparare dagli errori della loro "mamma" adottiva; c'è Hannah, che è veramente figlia di Shelly e che ha cercato di crearsi un futuro disprezzando chi ha scelto un successo effimero invece di passare l'esistenza con lei. L'interazione di Shelly con ognuno di questi personaggi ci permette non solo di scoprirne il carattere a poco a poco, ma anche di osservarne l'evoluzione a seguito del trauma subito, con tutte le umanissime reazioni di disperazione, rabbia, speranza e malinconia. Mai avrei pensato di scriverlo sul blog, ma Pamela Anderson è favolosa. In un mondo di Courtney Cox e Nicole Kidman, lei, un tempo paladina del ritocco estetico, ha scelto di mostrarsi al naturale, col volto deturpato dalla vecchiaia. Tutta la dignità infusa in questa scelta, la Anderson la riversa nel personaggio di Shelly, una donna fragile ma ottimista, orgogliosa di ciò che è stata e di ciò che potrebbe ancora essere, se il mondo non fosse un luogo così spietato. Vedere la Anderson vagare per le strade deserte di una Las Vegas fuori fuoco, o mentre si carica ogni sera di lustrini e trucco pesantissimo stringe già il cuore, ma mai quanto il confronto con il caustico regista di Jason Schwartzman (una delle sequenze più belle del film) o mentre sorride sul commovente finale, accompagnata dalle note di Beautiful that Way di Miley Cyrus.


Come ho scritto sopra, gli altri attori sono il sostegno perfetto alla performance sensazionale di Pamela Anderson. Sono tutti davvero bravi, ma il mio cuore è andato ad un'altra Signora, che non si vergogna assolutamente di mostrare i segni del tempo e della natura matrigna, una Jamie Lee Curtis consapevole di ciò che è stata (una grandissima, tostissima gnocca) e di ciò che sarà ancora, grazie alla sua personalità carismatica. Non c'entra nulla con The Last Showgirl ma sto rileggendo One Piece e lei sarebbe stata una Kureha perfetta. Che gran perdita. Tornando al film, una particolarità che, a causa della miopia e di un po' di astigmatismo, mi ha reso un po' difficile seguire inizialmente le immagini, deriva dalla scelta di Gia Coppola di girarlo come fosse un documentario, ispirata più dalle fotografie che dai film. E' stato fatto dunque largo uso di camera a mano, per seguire da vicino le attrici nei loro movimenti, con una predominanza di primi e primissimi piani che, a causa di lenti particolari, rendono molto sfocato tutto ciò che circonda il soggetto principale, e ciò è stato causa di un po' di mal di mare, almeno finché non mi sono abituata. Inoltre, Gia Coppola e la direttrice della fotografia, Autumn Durald Arkapaw, hanno scelto di non girare in digitale, ma su pellicola. Il risultato è che le immagini di The Last Showgirl sono permeate di toni caldi e molto morbidi, e risultano un po' sgranate, come se i protagonisti vivessero in un mondo da sogno che lentamente si sta disfacendo, lasciando dietro di sé nugoli di lustrini scintillanti, il glitter leggero sulla pelle di Shelly e il blu più triste a cui possiate pensare. Ho scritto il solito sproloquio confuso, quindi tenete a mente solo questo: The Last Showgirl è un film splendido e dovete assolutamente vederlo. Ne uscirete un bel po' depressi, ma è un film che parla anche di speranza, grazie ad alcuni dialoghi molto interessanti, e sta allo spettatore coglierla e farne importantissimo tesoro.


Di Kiernan Shipka (Jodie), Dave Bautista (Eddie), Jamie Lee Curtis (Annette), Billie Lourd (Hannah) e Jason Schwartzman (il regista) ho già parlato ai rispettivi link.

Gia Coppola (vero nome Giancarla Coppola) è la regista del film. Nipote di Francis Ford Coppola, ha diretto film come Palo Alto e Mainstream. Anche attrice, sceneggiatrice e produttrice, ha 38 anni. 


Pamela Anderson
interpreta Shelly. Canadese, famosa per il ruolo di C.J. Parker in Baywatch, ha partecipato a film come Barb Wire, Scooby-Doo, Scary Movie 3, Superhero - Il più dotato fra i supereroi, Baywatch e ad altre serie quali La Tata, Quell'uragano di papà e V.I.P. Vallery Irons Protection; come doppiatrice ha lavorato in Futurama e Stripperella. Anche produttrice e regista, ha 58 anni e un film in uscita, il remake de La pallottola spuntata


Brenda Song
, che interpreta Mary-Anne, era la London Tipton delle serie Zack e Cody al Grand Hotel e Zack e Cody sul ponte di comando. Se The Last Showgirl vi fosse piaciuto, recuperate Un sogno chiamato Florida. ENJOY!

venerdì 4 aprile 2025

2025 Horror Challenge: Bit (2019)

La challenge horror  oggi chiedeva di guardare un Bubblegum Horror, ovvero un sottogenere di horror che si concentra più su una generale idea di bellezza, sia a livello di immagini che di palette visuale, e conferisce alla trama una nota di dolcezza tipicamente "girlie", una vivacità e spensieratezza che evocano, appunto, la frizzantezza delle gomme da masticare. L'utente di Letterboxd che ha creato la challenge ha lasciato un elenco di film tra i quali scegliere o prendere spunto, e io mi sono buttata su Bit, diretto e sceneggiato nel 2019 dal regista Brad Michael Elmore.


Trama: Laurel, ragazza transessuale, si trasferisce a Los Angeles dopo aver finito le superiori. Lì, incontra una cricca di vampire il cui obiettivo è liberare la società dagli uomini malvagi, che la trasformano in una di loro...


Se volete leggere una bella recensione di Bit dovete andare QUI, da Lucia, cosa che sicuramente avevo fatto io prima di inserire il film all'interno della mia Wishlist di Letterboxd. Lo dico perché, onestamente, mi ritengo troppo superficiale per riuscire a superare lo shock del momento scult che ha ridefinito completamente la visione di Bit, portandomi a trovargli tutti i difetti del mondo. A un certo punto, la capa-vampira Duke racconta a Laurel la sua triste esperienza con il Maestro vampiro Vlad, e io non ero pronta a trovarmi davanti un tamarro inguardabile con la blue steel e il fisico bolso di Marinelli in M - L'uomo del secolo, che compare muovendosi sinuoso sulle note di Rasputin dei Boney M. Ringrazio le divinità oscure di non aver avuto una tisana in mano o, probabilmente, sarei morta soffocata o con le narici sbollentate, perché ho soffiato così forte dal naso da aver spostato la ciccionissima gatta Macchia. Ma come cazzo si fa? Ma altro che "generale idea di bellezza, sia a livello di immagini che di palette"! Comunque, fosse solo il Maestro borzo, il problema di Bit. Il film di Brad Michael Elmore nasce con un'ottima, originalissima idea di fondo: quella di dare spazio ad una minoranza ben poco rappresentata al cinema, ovvero le persone trans. Laurel è una ragazza transessuale, interpretata da un'attrice transessuale e, come giustamente fa notare Lucia, è ben raro che la transessualità abbia connotazioni positive, anche e soprattutto nei film di genere. In Bit, invece, Laurel è una ragazza come tutte le altre, né buona né cattiva, una persona che cerca di rifarsi una vita dopo un percorso di transizione che, da alcuni dialoghi, si evince non facile. Nel verbo che ho usato, "evincere", risiede proprio uno dei moltissimi problemi di Bit, ovvero la reticenza con cui viene affrontata la presenza di una protagonista transessuale. Onestamente, non conoscevo l'attrice Nicole Maines e, dalle prime scene di Bit, non avrei mai detto si trattasse di una persona transessuale e ho paura che, se non avessi letto il post di Lucia, non avrei capito quale fosse il "trauma" di Laurel, perché non viene mai detto chiaramente, né dalla protagonista né da altri, che il personaggio è trans. Sì, quando Duke le fa tutta la tirata sugli uomini che non possono, categoricamente, venire trasformati in vampiri perché storicamente stronzi ed assetati di potere, Laurel le chiede "What about me?" e Duke le risponde "Never crossed my mind", o una cosa del genere, ma è tutto talmente lasciato in superficie che mi chiedo se lo spettatore medio, o mediamente ignorante come la sottoscritta, possa cogliere l'importanza di un simile dialogo o anche solo il significato letterale. 


In generale, comunque, a me è sembrato che l'intero discorso di "girl power" sia stato affrontato con molta superficialità. Lungi da me criticare un gruppo di vampire che fanno sommaria giustizia di stupratori, misogini, incel e gaslighters provetti (allo stesso tempo condannando a morte alcune donne "perché sì", destino che, per inciso, sarebbe toccato alla protagonista e che colpisce una povera crista rea di essere ubriaca e di passare per caso nei pressi delle vampire), ma la visione manichea secondo la quale tutti gli uomini, se dotati di un briciolo di potere, diventano delle merde, mentre le donne sono tutte eque, belle e buone non si può sentire. Anche perché, con un colpo cerchiobottista da primato, il finale sconfessa questa rivoluzionaria idea, offrendo allo spettatore la moraletta "non tutti gli uomini sono così cattivi, basta dare loro l'occasione. E comunque, anche le donne un po' stronze lo sono, eh". Non che pretendessi un ragionamento etico-sociale di alto livello da un film simile, però insomma. E non pretendevo neppure interpretazioni da Oscar o chissà quali virtuosismi di regia, ma più in basso di così c'è solo da scavare, per citare il bardo. La gang di vampire, protagonista compresa, sono quanto di più sciapo si possa immaginare, lo stereotipo del succhiasangue "stiloso" da teen romance (sui titoli di coda la protagonista ironizza su Twilight e la stessa scena iniziale percula tutte le storie d'amore tra umani e vampiri, ci vuole una bella faccia tosta!), e gli interpreti vanno dal livello "esordiente che perlomeno ci prova", come Nicole Maines, a "ma non ti vergogni??". In particolare, nella seconda categoria rientra non solo il bove vestito da vampiro di cui ho già ampiamente parlato sopra, ma persino James Paxton che, sul finale, omaggia il sexissimo, carismatico Severen interpretato da papà Bill, indossando occhiali da sole e t-shirt macchiata di sangue senza esserne degno. Del Brad Michael Elmore regista non mi sento di dire più di tanto; probabilmente, il film è costato quanto una dozzina di uova comprate attualmente in un supermercato americano, e il soldi saranno andati nei pochi, mediocri effetti speciali, condannando il resto ad atmosfere televisive debitrici degli anni '90 brutti. Altro che Bubblegum Horror, qui parliamo di occasione sprecata, ed è un vero peccato, viste le premesse.     


Di M.C Gainey, che interpreta Enoch, ho già parlato QUI

Brad Michael Elmore è il regista e sceneggiatore della pellicola. Anche produttore, ha diretto altri due film, The Wolfman's Hammer Boogeyman Pop. Ha un film in uscita.



mercoledì 2 aprile 2025

Mr. Morfina (2025)

Attirata prima da un martellante battage pubblicitario su Instagram e poi da un paio di trailer carinissimi, sabato sono andata a vedere Mr. Morfina (Novocaine), diretto dai registi Dan Berk e Robert Olsen.


Trama: Nathan Caine è un giovane vicedirettore di banca che soffre di insensibilità congenita al dolore con anidrosi. Innamorato di una sua dipendente, Nate sfrutta la propria condizione quando la ragazza viene presa in ostaggio dopo una rapina in banca...


Mr. Morfina. Io non mi capacito. Come se morfina e novocaina fossero la stessa cosa. Tra l'altro, gli effetti della novocaina sono più vicini a ciò che prova il protagonista, in quanto anestetizza zone del corpo, mentre la morfina è un antidolorifico a lungo termine; per intenderci, la novocaina è ciò che il dentista usa quando deve togliere delle carie, e il risultato è quello di lasciare il paziente completamente insensibile a tutto, tatto, caldo e freddo. Novocaine riprende anche il cognome di Nathan, Caine per l'appunto, e mi chiedo quanto sarebbe stato difficile, in fase di adattamento, mantenere l'assonanza Caine/"caina", invece di ricorrere a un banale, sciocchissimo Mr. Morfina. Peccato per questi dettagli fastidiosi che, come al solito, rovinano la fruizione al pubblico italiano privo di sale che prevedono spettacoli in v.o., perché Mr. Morfina è un film simpatico e divertente, senza troppe pretese. L'assunto di partenza, come avete letto nella trama, è perfetto per un film action con annesso messaggio positivo. Nathan non riesce a sentire il dolore, e neppure il caldo o il freddo, e questo lo ha condannato da sempre ad una vita priva di rischi, solitaria, talmente controllata che il protagonista non mangia neppure cibi solidi, per paura di mordersi la lingua senza saperlo (assieme al titolo italiano, l'unica vera cretinata del film). Spinto dalla storia d'amore decennale di un cliente, Nathan decide di buttarsi e uscire con Sherry, dipendente della sua banca amichevole e spigliata; dopo una serata passata assieme e una notte di sesso, la ragazza viene però presa in ostaggio da rapinatori armati, che scappano dalla banca con lei e col malloppo. Nathan si lancia quindi all'inseguimento dei criminali, dapprima incerto e titubante, poi sempre più consapevole del tremendo vantaggio derivante dall'incapacità di provare dolore, che gli consente di incassare calci e pugni senza battere ciglio, ignorare gli effetti di incidenti ben più gravi, persino trasformare parti del corpo in un'arma impropria. Certo, Mr. Morfina richiede una dose abbondante di sospensione dell'incredulità, perché va bene non sentire dolore, ma i colpi alla testa che vengono sistematicamente inferti al protagonista metterebbero al tappeto anche un pugile provetto, figuriamoci un impiegato di banca mai uscito di casa, ma per chi è abituato a vedere John Wick cadere da un palazzo e rialzarsi in piedi, non dovrebbe essere un problema.


La natura "sfigata" (ma nemmeno poi tanto) del protagonista si ripercuote sulle coreografie di lotta che lo vedono impegnato, che i coordinatori hanno cercato di mantenere più naturali possibili, guidate da cazzimma e disperazione più che da "tecnica", o al limite dalle fantasie malate di un videogiocatore nerd provetto, quale in effetti è Nate. Questo mix di "normalità" e condizioni fisiche estreme, unite alla natura spregiudicata e violenta dei rapinatori, fanno sì che Mr. Morfina metta il suo protagonista nelle situazioni più dolorose e allucinanti possibile, con conseguente uso di trucco e make up prostetico a tratti disgustoso; col Bolluomo un paio di volte ci siamo girati dall'altra parte per non dover testimoniare all'ennesima tortura o colpo particolarmente doloroso inferto al povero Nathan, anche perché c'è ben poco che gli risparmiano Dan Berk e Robert Olsen, nei limiti ovviamente di un film rated R di genere non horror. Jack Quaid, ormai sulla cresta dell'onda quando si parla di ruoli da bravo ragazzo con quel guizzo oscuro che lo ficca nelle situazioni più improbabili, si carica in spalla il film senza troppi problemi, passando con disinvoltura da disadattato a fidanzatino della porta accanto dalla faccetta pulita, da goffo giustiziere per caso a supereroe ultraviolento, conservando sempre dei tempi comici invidiabili. Mr. Morfina è praticamente uno one man show, anche se i personaggi secondari hanno tutti delle caratteristiche particolari che, sulla carta, dovrebbero renderli tridimensionali o, perlomeno, interessanti. In realtà, Jacob Batalon fa sempre l'amicone un po' scemo che salva la situazione, Amber Midthunder è carina ma convince di più nei ruoli spaccaculi e qui risulta un po' sottoutilizzata, e Ray Nicholson, quando non usa il sorriso folle ereditato dal padre, è talmente anonimo che mi sono accorta della sua identità solo sui titoli di coda. Tutto sommato, dunque, Mr. Morfina è un film molto gradevole e divertente, ma lo ricorderò giusto in virtù della malattia del protagonista, indubbiamente abbastanza originale da sedimentarsi nella testa.


Dei registi Dan Berk e Robert Olsen ho già parlato QUI. Jack Quaid (Nate), Amber Midthunder (Sherry), Jacob Batalon (Roscoe) e Betty Gabriel (Mincy) li trovate invece ai rispettivi link.

Ray Nicholson interpreta Simon. Americano, figlio di Jack Nicholson, ha partecipato a film come Una donna promettente, Licorice Pizza e Smile 2. Anche produttore, ha 33 anni. 


Se Mr. Morfina vi fosse piaciuto recuperate Guns Akimbo. ENJOY!


martedì 1 aprile 2025

The Monkey (2025)

Pur avendo una scimmia sulle spalle epica (d'altronde...), ho purtroppo dovuto aspettare fino a mercoledì scorso per vedere The Monkey, diretto e sceneggiato dal regista Osgood Perkins partendo dal racconto La scimmia di Stephen King.


Trama: Hal e il gemello Bill trovano, tra i ricordi del padre, una scimmia a molla. Il giocattolo, purtroppo, ha una caratteristica terrificante: dopo aver girato la chiavetta che lo mette in moto, qualcuno è condannato a far una morte orribile...


Ho sempre pensato che il modo migliore di approcciare le opere di Stephen King, se non si è Frank Darabont , Rob Reiner o Mike Flanagan, fosse di battersene le palle del rispetto verso il Venerabile e prendersi tutte le libertà del mondo. Ciò vale, ovviamente, solo quando i soggetti finiscono nelle mani di registi e sceneggiatori con una fortissima personalità, altrimenti i risultati sono oscenità come L'acchiappasogni. Stanley Kubrick, con Shining, ha fatto un capolavoro, Osgood Perkins ha tirato fuori la supercazzola più divertente, folle e centrata dell'anno, partendo da un racconto breve di Stephen King che, come tutte le sue opere più riuscite, trasforma un oggetto normalissimo, quasi ridicolo, in un orrore da gelare il sangue. La scimmia è uno dei racconti Kinghiani che preferisco, nonché uno di quelli che mi fa più paura ancora oggi, ma sono io stessa consapevole che l'idea di una scimmia che batte i cimbali e causa la morte delle persone rischia di trasformarsi in una cretinata noiosissima, trasposta in film. Praticamente ne verrebbe fuori la versione scema di un Annabelle qualsiasi, con la scimmietta che, di tanto in tanto, ciccia fuori dal buio, a spaccarti le coronarie, uno jump scare dopo l'altro. Perkins, per fortuna, non è così banale e ha cestinato il serissimo soggetto proposto dalla casa produttrice, ben deciso a farne una commedia horror proprio per esorcizzare la consapevolezza che la morte è una delle cose più naturali, casuali e, sì, folli che esistano. Il regista, d'altronde, lo sa bene. Il padre, Anthony Perkins, è morto a 60 anni di polmonite causata dal virus dell'AIDS, la madre è morta l'11 settembre, era una dei passeggeri del volo 11 dell'American Airlines. Direi che Perkins la sua dose di morti "strane" le ha avute, e dopo anni passati a domandarsi il perché di una simile sfortuna, ha scelto di adottare una morale ben più filosofica, la stessa di cui si fa portavoce la serafica mamma Lois del film: quest'ultima balla coi figli dopo i funerali, Perkins ne ride prima, durante e dopo. Se pensate che le arzigogolate trame mortuarie di Final Destination fossero trattate con piglio ironico, dopo aver guardato The Monkey le paragonerete a Bergman e lo stesso racconto breve di King vi sembrerà Leopardiano.


The Monkey
riprende solo l'ossatura del racconto omonimo e l'idea di fondo, assieme ai nomi di alcuni protagonisti (mentre quelli di altri personaggi sono mutuati da alcune opere del Re, a mo' di omaggio). Il piccolo Hal trova una scimmia giocattolo tra i souvenir lasciati dal padre, un pilota d'aerei "buono a nulla" che da tempo ha abbandonato la famiglia e, come nel racconto, la scimmia è dotata del tremendo potere di causare una morte misteriosa ogni volta che la sua chiave viene girata, attivando il meccanismo musicale (un tamburo nel film, al posto dei cimbali, per motivi di copyright). Partendo da questo canovaccio di base, Perkins costruisce una trama fatta di crudeltà immotivate e traumi insanabili, popolata di personaggi che sarebbero stati perfetti all'interno di un episodio di Twin Peaks e che incarnano, anche quelli che compaiono solo pochissimi secondi, l'insensatezza del mondo in cui viviamo. A tutti quelli che non riconoscono Osgood Perkins all'interno di The Monkey, ricordo che, pur essendo molto meno estremi e caricaturali, già i personaggi di Longlegs mostravano caratteristiche "Lynchiane", e l'umorismo nero è sempre stata una cifra stilistica dell'Autore. Qui, Perkins si è ritrovato a calcare molto la mano, ma la trovo una scelta sensata. L'episodio de I Griffin in cui Stephen King propone all'editore una lampada assassina sottolinea ironicamente la passione del Re per i più sciocchi veicoli di morte, espressione della trivialità dell'esistenza e di quell'"oh cazzo!" che ci sorprende quando stiamo per arrivare al capolinea. Se esiste un Dio, e se permette che persone a caso muoiano nei modi più svilenti e stronzi, ha senso anche che una persona traumatizzata dal lutto possa elevare una scimmia giocattolo a divinità del caos, che il nostro destino sia manipolato da uno dei Cavalieri dell'Apocalisse, che un prete non abbia assolutamente idea di cosa dire di fronte all'assurdità di una vita stroncata, comportandosi da scemo. D'altronde, siamo circondati da scemi. A casa, al lavoro, per strada, nei negozi, online, in politica, nei centri di potere. La stupidità, in primis la nostra, è spesso causa di morti insensate, quindi tanto vale riderne, non abbiamo comunque la possibilità di farci nulla.


La volontà di calcare la mano sul grottesco si traduce in morti tremendamente splatter ed effetti speciali volutamente caricaturali, ma non per questo meno validi. Perkins avrà anche realizzato The Monkey con piglio ironico, sicuramente divertendosi come un matto, ma ciò non significa che il film non sia curato dall'inizio alla fine in ogni sua inquadratura, a partire dai titoli di testa vintage; le geometrie e le simmetrie tanto care al regista non mancano, un paio di sequenze oniriche sono assai notevoli e l'uso dei colori e delle luci meriterebbe una seconda e persino una terza visione. Considerato che anche la colonna sonora è molto ironica e particolare (la cosa che vorrei davvero sapere da Perkins è perché abbia usato QUESTA spettacolare, vintaggissima canzone in apertura, colonna sonora di un film indiano chiamato The Great Gambler che, a quanto posso capire, non ha davvero nulla a che fare con l'argomento trattato in The Monkey. So già che amerei la risposta!), l'unico aspetto del film che fa davvero paura, almeno a me, è il sembiante orribile della scimmia, dotata di due espressioni entrambe terrificanti ed occhietti che sembrano volerti scrutare nell'animo prima di ucciderti senza pietà. Invece, il solo difetto che imputo a The Monkey è lo spreco di Elijah Wood, il cui personaggio sopra le righe promette faville ma risulta solo una parentesi weird tra una morte e l'altra. Certo, Ted è l'ennesimo bullo pieno di sé che il povero Hal incrocia sul suo cammino, e senza la sua "minaccia paterna" il rapporto tra il protagonista e il figlio non potrebbe evolversi, ma mentirei se dicessi che non mi sarei aspettata qualcosa in più. Pazienza, è davvero un dettaglio trascurabile all'interno di un film che mi ha divertita oltre misura, e fatta uscire dal cinema piena di gioia nonostante l'argomento trattato. Per me, che sono terrorizzata dalla morte, soprattutto dei miei cari, e che talvolta mi trovo vittima di attacchi di panico al pensiero di non esistere più da un momento all'altro, poterne ridere ed esorcizzarla per un'oretta e mezza è un enorme regalo. Speriamo che The Monkey mi trasmetta a lungo un po' della sua leggerezza fatalista!


Del regista e sceneggiatore Osgood Perkins, che interpreta anche zio Chip, ho già parlato QUI mentre Elijah Wood, che interpreta Ted, lo trovate QUA.

Theo James interpreta Hal e Bill. Inglese, ha partecipato a film come la trilogia di Divergent e serie quali Downton Abbey; come doppiatore, ha lavorato in X-Men '97. Anche produttore, ha 41 anni e un film in uscita. 


Tatiana Maslany
, che interpreta Lois è la She-Hulk titolare del MCU. Se The Monkey vi fosse piaciuto recuperate Tucker and Dale vs Evil e la saga di Final Destination. ENJOY!

venerdì 28 marzo 2025

2025 Horror Challenge: Body Bags (1993)

La challenge horror oggi ha come tema "film per la TV". La scelta è caduta su Body Bags - Corpi estranei (Body Bags), diretto dai registi John Carpenter e Tobe Hooper nel 1993.


Body Bags
è un po' un cheat, nel senso che era nato come serie antologica per la televisione, ma è diventato un film quando l'emittente Showtime ha deciso di sospendere il progetto. Di un'intera serie sono rimasti dunque tre episodi e una cornice assai simile, per atmosfere e stile, agli intermezzi de I racconti della cripta, dove un "narratore" dall'umorismo assai macabro introduceva l'episodio settimanale. Il narratore, in questo caso, è quello delle grandi occasioni, perché proprio John Carpenter, nei panni di un coroner dedito al consumo di formalina e ben poco schifato dai cadaveri che lo circondano, funge da anfitrione all'interno della cornice del film. Le singole storie esplorano ognuna un sottogenere dell'horror: la prima, The Gas Station, è uno slasher, la seconda, Hair, una commedia nera  virata sui toni surreali alla Twilight Zone, e l'ultima, Eye, un body horror sovrannaturale. Ma andiamo con ordine. The Gas Station, diretto da John Carpenter, è un classico slasher urbano in cui una ragazza, sola in un luogo isolato, è costretta ad affrontare uno spietato killer che cerca di assassinarla, dopo essere stata "snervata" da una serie di incontri con diversi casi umani (il più inquietante dei quali ha il volto di un Wes Craven abbastanza irriconoscibile) e alcune piccole sventure "da distrazione". Un film abbastanza recente, Open 24 Hours, deve moltissimo a The Gas Station, che è un manuale condensato di elementi thriller capace di tenere con il fiato sospeso lo spettatore e, nonostante la sua breve durata, di piazzare anche un plot twist angosciante. Come aperitivo, per così dire, non mi è dispiaciuto, anzi. In tutta onestà, ero tesa come una corda di violino durante la visione.


Più sciocchino e divertente è invece Hair che, come da titolo, parla di capelli. Per citare Elio, quelli del protagonista "sono andati via e non torneranno mai", il che è causa di profondo sconforto, talmente profondo da intaccare persino quella che sembrerebbe una relazione ben avviata. In quanto dotata, al momento almeno, di capelli folti e spessi, il tormento del protagonista e la sua folle vanità mi hanno indotta a ridere spesso, più che a compatirlo, e in effetti l'esilarante interpretazione di Stacy Keach (affiancato da un paio di caratteristi d'eccezione, tra i quali la sempre sexyssima Deborah Harris) accentua la natura grottesca della minaccia horror che gli grava sulla capoccia pelata, una volta fatto ricorso a un "prodigio della tecnica frutto di ricerche e sperimentazioni che ci aiutano nel look". A livello di paura ed effetti speciali (un pochino ridicoli, a differenza di un make-up di prim'ordine) c'è da dire che Hair è l'episodio più debole dei tre, nonostante la regia di Carpenter, ma ha comunque delle implicazioni abbastanza disgustosette per riuscire a strappare qualche brivido, magari agli spettatori meno scafati.


Si torna a fare sul serio con Eye, episodio diretto da un Tobe Hooper in ottima forma (se penso che quell'abominio de Le notti proibite del Marchese De Sade è dello stesso anno di Body Bags mi sento male). Il segmento inizia con una mutilazione terrificante, sbattuta in faccia allo spettatore con degli effetti speciali ottimi, e continua con visioni agghiaccianti che portano lentamente alla follia il giocatore di baseball professionista interpretato da Mark Hamill. Eye è più lungo degli altri due episodi, quindi gli sceneggiatori hanno un po'più di respiro nel dare un minimo di background all'orrore che stravolge la vita di Brent e tratteggiare i protagonisti, il rapporto che intercorre tra Brent e la moglie Cathy e, soprattutto, la loro natura profondamente religiosa; la Bibbia, in particolare, diventa sia veicolo per una rapida follia, sia ultima fonte di salvezza, almeno parziale, perché il tono di Eye è cupo, disperato e tremendamente serio, a differenza dei due episodi che lo hanno preceduto. Un vero peccato che Hooper non si sia tenuto un po' di ispirazione per i successivi lungometraggi della sua carriera, ahimé.


Riassumendo, Body Bags è un piacevolissimo figlio del suo tempo, un horroraccio senza troppe pretese né chissà quali particolarità, salvo l'essere pieno zeppo di belle facce adorate dagli amanti del genere. Non incute particolare paura, soprattutto quando traspare la natura televisiva di un'opera che, in particolare per quanto riguarda Carpenter (si dice che l'estenuante processo di make-up per trasformarlo nel coroner gli abbia fatto passare ogni velleità, ma visto il modo in cui gigioneggia sullo schermo, a me sembra si sia anche divertito!), è sicuramente stata vissuta dai registi come un divertissement e un mezzo per rilassarsi nell'attesa di progetti più seri, ma ho visto cose ben peggiori. Body Bags è l'espressione di una scena horror vivace e divertita, un film "brutto" con il suo perché, un piccolo baluardo di ciò che il nuovo millennio, di lì a poco, avrebbe spazzato via. Agli amici di Notte Horror che dovessero leggere il post, lo consiglio in particolare per l'annuale rassegna estiva, nel caso non lo avessero mai visto o non ne abbiano mai parlato sul blog. Chi non ha idea di cosa stia parlando ma volesse comunque passare una serata non troppo impegnativa davanti alla TV, può trovarlo su Prime Video


Dei registi John Carpenter (che ha diretto gli episodi "The Gas Station" e "Hair", oltre a partecipare come Coroner) e Tobe Hooper (che ha diretto l'episodio "Eye" e compare come medico dell'obitorio) li trovate ai rispettivi link, come anche Tom Arnold (medico dell'obitorio), Robert Carradine (Bill), Wes Craven (Uomo pallido), Peter Jason (Uomo alla pompa di benzina), Sam Raimi (il cadavere di Bill), David Naughton (Pete), George 'Buck' Flower (Straniero), David Warner (Dr. Lock), Deborah Harry (l'infermiera), Mark Hamill (Brent Matthews) e Charles Napier (Manager della squadra di baseball).  

Stacy Keach interpreta Richard Coberts. Americano, ha partecipato a film come Classe 1999, Fuga da Los Angeles, American History X, Children of the Corn 666 - Il ritorno di Isaac, Machete, Sin City - Una donna per cui uccidere, Cell, Gotti - Il primo padrino e a serie quali L'ispettore Tibbs, Oltre i limiti, Will & Grace, E.R. Medici in prima linea e Due uomini e mezzo. Come doppiatore, ha lavorato in Rugrats e I Simpson. Anche produttore, regista e sceneggiatore, ha 84 anni e un film in uscita. 


Tra le varie guest star segnalo la presenza di Greg Nicotero (l'uomo col cane nell'episodio Hair), la modella Twiggy (Cathy Matthews nell'episodio The Eye) e il regista Roger Corman (Dr. Bregman). A Clive Barker era stato chiesto di partecipare, ma ha rinunciato per impegni pregressi. Se Body Bags vi fosse piaciuto, recuperate Creepshow, Creepshow 2 e I delitti del gatto nero. ENJOY 

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