Pagine

venerdì 29 novembre 2019

TFF 2019: Mientras dure la guerra - Tito

Sfruttando la tecnologia fornita dal Bolluomo tenterò anche io di fare come i cinèfili dell'internet come si deve, che seguono in tempo reale le loro performance festivaliere. Infatti, da giovedì a sabato, sarò al Torino Film Festival e ieri, giovedì, ho già visto due pellicole (avrei dovuto vedere anche El Hoyo ma grazie alla mortale combinazione Trenitalia/disagi post-allerta rossa sono arrivata in ritardo...). Ne parliamo di seguito, soprattutto di una, che l'altra... ENJOY!


Mientras dure la guerra di Alejandro Amenabar

Amenabar è maturato ancora. La Spagna all'alba della dittatura di Franco, teoricamente dotato di pieni poteri solo "per la durata della guerra", poi sappiamo com'è andata a finire, vista attraverso gli occhi dello scrittore e saggista Miguel De Unamuno. Sostenitore del colpo di stato di destra, avrà modo di pentirsi delle sue scelte e della sua indole volubile e testarda.
Amenabar racconta una Spagna ancora "sana", dove monarchici e socialisti, fascisti e comunisti litigano e discutono ma si rispettano senza odiarsi, un po' come facevano i nostri Don Camillo e Peppone, che minaccia di scomparire sotto l'ignoranza salviniana di chi si limita a discriminare e lottare per il potere, senza altro modo di esprimersi se non slogan e banalità nazionaliste.
Il film non glorifica Unamuno né lo rende un martire, bensì mette sullo stesso piano d'importanza la storia personale di un uomo pieno di difetti e la riflessione sulla condizione della Spagna e sulle sue radici, diventando così un'opera universale, necessaria oggi più che mai.
Vero, c'è del melodramma, ma anche molto realismo, e ci si commuove più per la frustrazione e l'idea di ciò che è davvero successo a migliaia di persone innocenti che per il dramma umano di Unamuno, peraltro splendidamente interpretato da Karra Elejalde.
Ovviamente, di  questo bellissimo film non si ha ancora notizie relative a una distribuzione italiana. Incrociamo le dita.


Tito di Grace Glowicki

E dopo un film meraviglioso ci voleva la schifezza indipendente messa per raggiungere la quota minima festivaliera di film girati col culo ma originalissimi. Per carità: Grace Glowicki dirige, sceneggia, produce, RECITA nei panni di un ragazzo traumatizzato e problematico, quindi tanto di cappello, ma il film in sé fa pena. O meglio, inizia citando Mysterious Skin e, nella colonna sonora, Shining, il che mi potrebbe stare bene, si mantiene su accettabili livelli di pochezza arrivando al punto di coinvolgere lo spettatore sia sfruttando stilemi tipici dell'horror sia attraverso l'introduzione di un ragazzo che apparentemente servirebbe per capir che caspita sia successo di preciso a Tito, ma alla fine la riflessione sui postumi da trauma lascia davvero il tempo che trova e si perde in scene ininterrotte di gente che si fa le canne. In compenso, poi, peggiora, con una lunghissima sequenza finale a base di rohypnol che lascia il pubblico lì sulle poltrone, come l'aratro nel maggese (i pochi aratri che sono rimasti, in quanto tra gente che ha dormito e se n'è andata abbiamo toccato un record...). Mi si dice che non sia nemmeno il film peggiore del festival, il che mi consola, temevo di aver beccato la vera sòla del TFF!


giovedì 28 novembre 2019

(Gio)WE, Bolla! del 28/11/2019

Buon giovedì a tutti!! Comincia ufficialmente, con l'uscita di Frozen II, il periodo natalizio nelle sale cinematografiche, fonte di gioie e dolori in egual misura. Io, se le condizioni meteo della mia bella ma disastrata Liguria lo consentiranno, da oggi a sabato sarò al Torino Film Festival: purtroppo non sono tecnologica come tutti i cinèfili dell'Internet che si rispettino quindi temo non riuscirò a tenervi aggiornati in tempo reale sulle mie visioni festivaliere (e come ciò influirà sulla programmazione del blog non voglio saperlo, porca miseria, vista la piccolissima quantità di post già scritti ç_ç) né, ahimé, su The Irishman, uscito proprio ieri su Netflix, ma pazienza. Quel che conta è che guarderò un sacco di film interessanti, si spera, e farò un giro nella splendida Torino, per poi tornare alla triste realtà Savonese. Nel frattempo... ENJOY!

Frozen II - Il segreto di Arendelle
Reazione a caldo: Frrrremo!!
Bolla, rifletti!: Tanto avevo adorato Frozen e il primo corto legato al franchise quanto avevo detestato il mediometraggio dedicato ad Olaf, quindi ammetto di avere un po' di ansia riguardo al secondo capitolo della saga. Ma chi voglio prendere in giro, andrò comunque a vederlo, ovviamente NON alla prima settimana di programmazione o rischio di venire sepolta da una slavina di pargoli festanti.

Un giorno di pioggia a New York
Reazione a caldo: Mah...
Bolla, rifletti!: Onestamente? Andrei solo per il cast, visto che Woody Allen non mi ha mai convinta più di tanto, ma siccome questa settimana sarà impossibile, aspetterò un tranquillo recupero casalingo futuro.

Ailo - Un'avventura tra i ghiacci 
Reazione a caldo: Per carità.
Bolla, rifletti!: Già non amo i documentari al cinema, in più con la voce di Fabio Volo...

Midway 
Reazione a caldo: No-no
Bolla, rifletti!: Film di guerra senza cuore a base di effetti speciali? Li lascio ad altri, io evito volentieri!

Un cartone animato? Al cinema d'élite? Miracolo!

La famosa invasione degli orsi in Sicilia 
Reazione a caldo: Sigh...
Bolla, rifletti!: Un vero peccato che esca a Savona proprio nella settimana in cui mi sarà impossibile andare al cinema qui, visto che sembra una di quelle opere divertenti e poetiche capaci di affascinarmi. Nessun problema, proverò a recuperare, intanto, l'opera originale di Buzzati.

mercoledì 27 novembre 2019

Paterson (2016)

Non ricordo chi mi avesse consigliato la visione di Paterson, diretto e sceneggiato nel 2016 da Jim Jarmusch, ma in questi giorni mi sono messa a guardarlo, giusto per curiosità.


Trama: Paterson fa l'autista di autobus in una cittadina che porta il suo stesso nome e le sue giornate scorrono tranquille, tra una poesia e una follia della fidanzata...



Sono forse io una brutta persona? Probabilmente sì, perché questo Paterson non mi ha fatto né caldo né freddo, anzi, a tratti mi ha annoiata a morte. Se non altro ho avuto la riconferma che Adam Driver (come del resto Kristen Stewart o Robert Pattinson) quando viene tirato fuori dal franchise che lo ha reso famoso come "frignetta" ed inserito in produzioni più indie e particolari è un signor attore, anzi, di più, un attore adorabile, che non mi stanco di osservare; obiettivamente, mi pare che Jarmusch stia cercando di fare di lui un novello Bill Murray, visto che il personaggio di Paterson, non fosse per sopraggiunti limiti d'età, sarebbe stato perfetto per l'amato Bill. Ma perché Paterson mi ha avvolta in una pesante cappa di aburrimiento? Di cosa parla questo film? Ecco, il problema è questo: di nulla. Paterson è l'elogio della vita tranquilla, dei piccoli episodi che conferiscono pepe alla normalità, dell'amore per le piccole cose di Ameliana memoria, e segue la settimana di questo autista e poeta, che osserva la vita scorrere davanti al parabrezza del bus, ascolta le conversazioni dei passeggeri, e riversa su carta i suoi aulici pensieri, trovando sempre il tempo di ritagliarsi un momento per riflettere o meravigliarsi di ciò che lo circonda. Lì per lì non sarebbe nemmeno male come idea, non fosse che Paterson ha una fidanzata e un cane che richiamano all'azione, anzi la ESIGONO. Ho passato l'intero film a pregare che Paterson prendesse a calci in culo quella scansafatiche streppona e pseudo-artista che si tiene in casa, cacciando fuori lei e il malefico cane, ma niente da fare: il povero Adam Driver abbozza su ogni cosa, dall'inghiottire immangiabili "secret pie" con broccoli e cheddar allo spendere 400 dollari per una chitarra perché la signorina "ha il sogno di diventare una musicista country", portando a casa stipendi mentre la fidanzata passa le giornate e decorare la casa, dipingere orridi quadri e guardarsi allo specchio. Sul finale nulla cambia, nulla migliora, nulla peggiora, e so di essere limitata io ma l'ho trovato assai frustrante.


E' un peccato, perché a pensarci Paterson è semplice e poetico come gli scritti del suo protagonista, che ne accompagnano le vicende scorrendo in sovraimpressione, opera in realtà del poeta metropolitano Ron Padgett, uno dei preferiti del regista; il contrasto tra la realtà prosaica ma non necessariamente fredda e banale, anzi, molto malinconica, vissuta da Paterson e quei momenti di quiete profonda ricercati nella poesia è assai piacevole e lo stesso vale, alla fine, per lo schema che ripropone sette giorni tutti uguali salvo per pochi dettagli o varianti sul tema, ché alla fine la vita è così. In realtà, forse, ciò che ho più apprezzato di Paterson, assieme all'interpretazione di Adam Driver, è il modo in cui vengono tradite tutte le aspettative dell'audience. Il film infatti contiene almeno un paio di anticlimax, uno legato al destino del cane di Paterson, l'altro legato alle coppie di gemelli che, da un certo punto in poi, cominciano a cicciare fuori ovunque, con gran stupore del protagonista, due dettagli che potrebbero portare a risvolti di trama inaspettati e che, invece, rimangono lì, a far il gesto dell'ombrello allo spettatore. Mah, forse non a tutti gli spettatori, diciamo solo a me. Rileggendo il post, comunque, mi sono accorta di avere apprezzato Paterson più di quanto avessi pensato quando ho cominciato a scrivere, quindi non mi sento di sconsigliarlo. Mal che vada, avrete avuto modo di godervi l'ennesima, valida interpretazione di Adam Driver e di sfogarvi inveendo contro una delle ragazze più irritanti mai comparse sullo schermo.


Del regista e sceneggiatore Jim Jarmusch ho già parlato QUI mentre Adam Driver, che interpreta Paterson, lo trovate QUA.


I due studenti che parlano dell'anarchico italiano sul bus sono i due ex ragazzini di Moonrise Kingdom - Una fuga d'amore, Jared Gilman e Kara Hayward. ENJOY!

martedì 26 novembre 2019

Light of My Life (2019)

A causa dei disastri meteorologici accorsi nel weekend non sono potuta andare al cinema e temo che non recupererò mai più né L'ufficiale e la spiaCountdown, ma perlomeno sono riuscita, in qualche modo, a guardare Light of My Life, scritto, diretto ed interpretato da Casey Affleck.


Trama: un padre e una figlia cercano di sopravvivere in un mondo dove il genere femminile è stato quasi completamente cancellato a causa di un misterioso virus.


Light of My Life è uno stranissimo film post-apocalittico, in cui la fanno da padrone toni intimi e tinte neutre, ricordando spesso un'altra pellicola atipica per il suo genere (in quel caso l'horror), ovvero A Ghost Story. La storia è interamente imperniata sul rapporto padre e figlia tra l'adolescente Rag e il suo papà senza nome, impegnato a proteggerla da una società in cui le donne sono quasi sparite e dove le poche superstiti vivono rinchiuse in edifici, "rifugi" o forse qualcosa di più negativo; Rag, non ancora sviluppata, veste come un ragazzino e porta i capelli corti, ma lo stesso, dopo la prima occhiata distratta, viene in qualche modo percepita dagli uomini che la incontrano come "femmina" e questo condanna lei e il padre a vivere perennemente in fuga. Affleck non spiega mai di preciso cosa sia successo alle donne, nella realtà da lui riportata sullo schermo. Probabilmente sono state colpite da un virus, quasi sicuramente gli uomini hanno paura delle superstiti e si può solo pensare che, prima o poi, le donne prigioniere verranno usate per ripopolare un mondo squilibrato, finendo per diventare oggetti sessuali oppure peggio. Il terrore del personaggio di Affleck, costretto a crescere da solo una figlia in un mondo allo sbando, è quindi comprensibile e palpabile anche se il film gioca di sottrazione e non indulge mai nella spettacolarizzazione delle minacce che incombono sui due, preferendo sfruttare dialoghi a lume di torcia, campi lunghi in cui padre e figlia si perdono all'interno di paesaggi affascinanti ma inospitali e nemici non particolarmente caratterizzati, talvolta solo ombre che si muovono dietro l'apparente sicurezza di una finestra oppure uomini talmente repentini nei loro attacchi che è raro che allo spettatore rimangano impressi i volti.


Nonostante questo, o forse proprio per questo, Light of My Life a tratti è più angosciante di molti altri film post-apocalittici (a me viene in mente sempre, come esempio negativo, quell'It Comes at Night che è piaciuto a tutti tranne a me), anche perché i personaggi sono molto ben costruiti e non ci si può non affezionare alla coppia di protagonisti. Un plauso a Casey Affleck, che oltre ad essere un regista rigoroso e raffinato, con un occhio non banale per la composizione delle singole sequenze, oltre ad essere uno sceneggiatore capace di creare dialoghi spontanei e significativi, è stato anche in grado di crearsi un ruolo perfetto per le sue abilità di attore; il suo papà goffo, che spesso incespica sulle parole ed improvvisa storie deliziose per la sua bambina, non proprio in formissima o in salute ma deciso a non mollare per il bene della figlia, è credibile e perfetto proprio grazie a quei difetti che lo rendono incredibilmente umano e c'è moltissima alchimia con la ragazzina che interpreta Rag, non la tipica mocciosetta da copertina, bensì una ragazzina dotata di una bellezza androgina senza essere "aliena", un minuto spontaneamente solare e l'altro spontaneamente incazzata come una biscia, come tutti gli adolescenti. Certo, dire che Light of My Life è un film per tutti sarebbe un po' disonesto da parte mia. Spesso i tempi sono MOLTO dilatati e qualche spettatore potrebbe patire la lunghezza di dialoghi apparentemente inutili, mentre io mi sono lasciata cullare anche da questi momenti di intimità che spezzano la catena di eventi prima di un finale assai commovente. Fossi in voi, non lo perderei.


Del regista e sceneggiatore Casey Affleck, che interpreta Papà, ho già parlato QUI. Tom Bower (Tom) ed Elisabeth Moss (Mamma) li trovate invece ai rispettivi link.


Se Light of My Life vi fosse piaciuto recuperate A Quiet Place. ENJOY!


domenica 24 novembre 2019

Il tagliaerbe (1992)

Me la sono cercata. E' dal ToHorror Film Fest che me la cerco ed invoco Il tagliaerbe (The Lawnmower Man), diretto e co-sceneggiato nel 1992 dal regista Brett Leonard, e qualche sera fa alla fine l'ho riguardato.


Trama: uno scienziato sperimenta una combinazione di farmaci psicotropi e realtà virtuale su Jobe, tagliaerbe dall'intelletto limitato, trasformandolo così in un essere pericolosamente intelligente.


Chiunque conosca un minimo Stephen King sa che non ha mai scritto nulla di simile a Il taglierbe e che l'unica sua creatura dotata di questo nome è l'inquietante fauno presente nella raccolta di racconti A volte ritornano. Niente realtà virtuale, dunque, per il buon Stephen, e allora perché ovunque si legge che Il tagliaerbe è "tratto da un racconto di Stephen King"? Well, perché la New Line, produttrice del film in questione, aveva ottenuto i diritti per realizzare una pellicola basata su Il tagliaerbe, poi s'è ritrovata tra le mani un'altra sceneggiatura dal titolo Cyber God e boh, ha deciso di mettergli il titolo del racconto di King, mandando giustamente il Re su tutte le furie. La cosa è finita con una querela e l'uscita di fior di dollari dalle casse della New Line, il tutto per quello che non ho paura a definire "film demmerda". Il tagliaerbe era già brutto nel 1992 (credo di averlo visto in TV due o tre anni dopo l'uscita cinematografica e di essermi infilata educatamente due dita in gola) ma oggi, alla faccia dei soldi spesi per creare quelle che all'epoca erano innovative sequenze di animazione computerizzata, fa proprio schifo e crea letteralmente imbarazzo in chi è tanto sfortunato da vederlo. Per chi non conoscesse la storia, in pratica abbiamo un Pierce Brosnan abbastanza figo, pre-007, alle prese con una depressione da fallimento; infatti, tutti i suoi esperimenti a base di droghe e realtà virtuale sono finiti con la morte dei poveri scimpanzé usati come cavie e con l'esercito (incarnato dal testone del futuro Big Jim "Barbie Did It" Rennie e sì, prima che me lo chiediate, ce l'ho ancora a morte con quella schifezza di Anderdedoum) che sta lì ad aspettare ulteriori risultati a mo' di gatto attaccato ai marroni. Sconfortato e abbandonato persino dalla moglie, il Dottor Brosnan si imbatte nello scemo del villaggio, Jobe, pronunciato in italiano "Giobbe". Jobe o Giobbe che dir si voglia è purtroppamente un po' tardo, vive in una baracca accanto alla chiesa dove un pedoprete di tanto in tanto lo frusta per togliergli dalla testa le birbanterie del Demonio e lavora come tagliaerbe, da qui il titolo del film e il vilipendio a King.


In realtà, il problema di Jobe non è l'avere il quoziente intellettivo di una zucchina matura, ma il fatto che se ne va in giro con una salopette da belinone e una zazzera di capelli color stoppia la quale, unita alla fissità dell'espressione e a quegli occhi azzurrissimi, rende Jeff Fahey decisamente inguardabile. Ah, se come me state arrovellandovi per ricordare o capire perché il nome Jeff Fahey vi è familiare e non riuscite a spiegarvi come mai dovreste conoscere 'sto bambolone biondastro, sappiate che, col tempo, Fahey è invecchiato benissimo e si è unito alla Rodriguez Factory e persino al cast della serie Lost; probabilmente la bionda infoiata che a un certo punto comincia a sbattersi Jobe in tutti i luoghi, tutti i laghi e anche nella realtà virtuale era in grado di prevedere il futuro o non si spiega il suo desiderio ninfomane. Ma sto divagando. Ovviamente, in tempo zero Dott. Brosnan trasforma Jobe da bietolone ingenuo a creatura intelligentissima prima e Jean Grey poi e tutto sarebbe bellissimo se non fosse per il governo (e i matusa) che ci mette lo zampino risvegliando il lato oscuro di Jobe. Quando costui si convince di essere Dio, gli sceneggiatori perdono tutte le loro facoltà mentali e, senza alcun nesso logico, decidono che l'allora poco conosciuta realtà virtuale sarebbe stata in grado di modificare la realtà vera, così, a cazzo de cane. Come un novello Carrie, Jobbe si vendica dunque di tutti coloro che gli hanno fatto del male, alternando inquietanti momenti di vero disagio in cui trasforma le persone nell'equivalente di una piscina di pallette dell'Ikea, ad altri in cui forse dà fuoco alla gente o forse la muta nella versione 8-bit de la Torcia Umana in un qualsiasi videogioco anni '80, fino ad arrivare agli inguardabili 10 minuti finali di film in cui sette animatori, in otto mesi, hanno dilapidato 500.000 dollari per offrire al pubblico la mostruosità di un Jeff Fahey fattosi boss di fine livello all'interno di un alveare cibernetico (ah, ci sono anche delle bees che farebbero invidia a Nicolas Cage). E forse sono un'ingrata millenial che non riesce a mettersi nei panni di chi, nel 1992, pensava di aver fatto chissà cosa (rammento in particolare che la scena di sesso virtuale aveva fatto versare fiumi di inchiostro) ma, come ho detto, Il tagliaerbe mi aveva fatto abbastanza schifo già all'epoca e comunque il piglio squallido e televisivo della regia e della fotografia mette angoscia. Di un film che meriterebbe l'oblio salvo solo la sequenza finale: tutti quei telefoni che squillano, onestamente, mi mettono i brividi ancora adesso.


Di Jeff Fahey (Jobe Smith), Pierce Brosnan (Dr. Lawrence Angelo), Geoffrey Lewis (Terry McKeen) e Dean Norris (Il direttore) ho già parlato ai rispettivi link.

Brett Leonard è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Americano, ha diretto film come Premonizioni e Virtuality. Anche produttore e attore, ha 60 anni e due film in uscita.


Troy Evans interpreta il Sergente Goodwin. Americano, lo ricordo per film come Halloween 5 - La vendetta di Michael Myers, Balle spaziali 2 - La vendetta, Poliziotto in blu jeans, Demolition Man, Ace Ventura - L'acchiappanimali, L'ombra dello scorpione, Phenomenon, Sospesi nel tempo e Paura e delirio a Las Vegas inoltre ha partecipato a serie quali Hunter, Matlock, Dallas, I segreti di Twin Peaks, I racconti della cripta, Renegade, La signora in giallo, Una bionda per papà, Quell'uragano di papà, Cinque in famiglia, Più forte ragazzi, Senza traccia, CSI:Miami, E.R. Medici in prima linea e Hannah Montana; come doppiatore ha lavorato in Mucche alla riscossa e Il libro della vita. Ha 71 anni.


Del film esiste un director's cut dove lo scimpanzé non viene ucciso all'inizio ma viene trovato e accudito da Jobe e dove la moglie del Dr. Angelo viene controllata mentalmente da Jobe fino a venire uccisa dai poliziotti, inoltre esiste anche un sequel, con attori diversi, dal titolo Il tagliaerbe 2 - The Cyberspace. Ovviamente NON vi consiglio il recupero, ci mancherebbe! ENJOY!

venerdì 22 novembre 2019

Haunt (2019)

Halloween è passato da un po' ma i film a tema sono sempre graditi, soprattutto se a consigliarli è Lucia. Ecco perché in questi giorni ho recuperato Haunt, diretto e sceneggiato da Scott Beck e Bryan Woods, per la cronaca gli sceneggiatori di quel gioiello di A Quiet Place - Un posto tranquillo.


Trama: ad Halloween, un gruppo di ragazzi si mette a caccia della Haunted House definitiva e si imbatte in un magazzino isolato che promette orrori veri. Purtroppo, questi orrori si riveleranno anche veramente mortali...



La questione haunted house ha cominciato ad intrigarmi già ai tempi di Halloween Night, mockumentary costruito sulla premessa che questi luoghi di "divertimento", spesso gestiti da privati, nascondano talvolta della follia reale e possano diventare un mezzo perfetto per uccidere persone; onestamente, sarei curiosa di andare una volta negli States sotto Halloween e provare l'ebbrezza di infilarmi in una vera haunted house ma film come Halloween Night e Haunt sono degli ottimi deterrenti, peggio delle storiche leggende metropolitane. Se andiamo a vedere, Haunt non è assolutamente innovativo per quel che riguarda la trama. Abbiamo il solito gruppo di ragazzi in cerca di emozioni forti e il solito gruppo di maniaci che gliene darà in abbondanza, pure troppe, con qualche approfondimento qui è là legato alla figura della protagonista (onestamente, nulla di fondamentale all'economia della storia); tuttavia, a differenza di Halloween Night che era molto soporifero nell'esecuzione e rozzo come nella "migliore" tradizione del mockumentary/found footage, abbiamo qui un horror che non lascia nemmeno un minuto di tranquillità allo spettatore, che parte con una zucca spappolata contro una porta e si conclude con un atto di violenza, e che soprattutto è girato in maniera fluidissima, senza fare ricorso a riprese traballanti, jump scare o altri artifici similmente scorretti. Haunt è, piuttosto, un ininterrotto succedersi di momenti ansiogeni, costruiti sui silenzi di chi popola la casa stregata, sulle aspettative dello spettatore e le sensazioni suscitate dalla mera visione di alcuni elementi (pochi ragni veri in mezzo a una marea di animaletti in gomma, l'immagine di coltelli e altri oggetti appuntiti sospesi come tante spade di Damocle) o, ancor peggio, da ciò che non si può vedere ma soltanto intuire, che sono poi i meccanismi del terrore su cui si basano le migliori haunted house, comprese quelle che si trovano nei luna park.


In virtù di ciò, è fondamentale l'aspetto scenico di tutta l'operazione. I mostri che popolano la haunted house sono gli archetipi del genere horror ed è questo a renderli già terrificanti (c'è il clown che fa già paura di per sé ma abbiamo anche il diavolo, la strega, il fantasma, la morte in persona...), perché non c'è nulla di peggio di avere davanti una creatura asettica che non spiccica parola, il volto nascosto dietro una maschera attraverso la quale non arriva nemmeno un minimo di empatia, ma anche questa terrificante certezza a un certo punto viene sradicata e lo spettatore si ritrova con un palmo di naso e ancora più sconcertato. Per quanto riguarda le scenografie, anche quelle sono fondamentali. La haunted house ha l'aspetto dimesso e ancora in fieri di un'attrazione amatoriale, alterna ambienti a modo loro "raffinati" e ben costruiti, perfetti per accalappiare i gonzi e metterli nella giusta predisposizione d'animo per lasciarsi ingannare dall'innocente divertimento horror, a luoghi sporchi e squallidi, che non si curano di nascondere la vera natura della haunted house, soprattutto una volta che il "trucco" è stato scoperto. Tante piccole cose, tanti piccoli tocchi di stile che, assieme alla gradevole sceneggiatura di Scott Beck e Bryan Woods e a pochi effetti artigianali ben piazzati, concorrono a rendere Haunt una piacevole scoperta, perfetta per Halloween. D'altronde, produce "cialtronetto" Roth, poteva mica farmi schifo un film simile?

Scott Beck e Bryan Woods sono i registi e sceneggiatori della pellicola. Entrambi americani, hanno diretto assieme un paio di film che non conosco, come The Bride Wore Blood e Nightlight. Anche produttori e attori, hanno 35 anni.


Katie Stevens, che interpreta Harper, era già comparsa nel tristissimo Polaroid. Detto questo, se il film vi fosse piaciuto, potete recuperare il già citato Halloween Night. ENJOY!

giovedì 21 novembre 2019

(Gio)WE, Bolla! del 21/11/2019

Buon giovedì a tutti! A un passo dagli arrivi natalizi, cosa offrono le sale savonesi? Scopriamolo! ENJOY!

L'ufficiale e la spia 
Reazione a caldo: Miracolo!!!
Bolla, rifletti!: Mai più avrei pensato che l'ultimo film di Polanski, bastato sull'Affaire Dreyfus, sarebbe arrivato al Multisala. Ottimo motivo per correre a vederlo!

Countdown
Reazione a caldo: Mah.
Bolla, rifletti!: Final Destination 2.0 ma sapete che quando esce un horror al cinema DEVO andare a vederlo di default, anche se probabilmente sarà una cretinata assurda.

Cetto c'è, senzadubbiamente 
Reazione a caldo: E senzadubbiamente mi frega poco...
Bolla, rifletti!: Non fraintendetemi, amo Albanese e il suo Cetto. Ma avevo già trovato pesante il primo Qualunquemente, un terzo capitolo non lo reggerei, non certo al cinema.

Finita la parentesi Parasite, il cinema d'élite torna a volgere lo sguardo alla Francia...

La belle époque 
Reazione a caldo: Interessante...
Bolla, rifletti!: Colmo di glorie del cinema francese, La belle époque è una commedia nostalgica dalla premessa assai fantasiosa, che non mi dispiacerebbe affatto vedere. Magari, in futuro..

mercoledì 20 novembre 2019

Quei bravi ragazzi (1990)

Tanta è la tristezza per non essere stata tra i fortunati che sono riusciti a vedere The Irishman al cinema, che ho deciso di prepararmi alla visione su Netflix riguardando (e facendo conoscere al Bolluomo) i film che mi hanno fatta innamorare di Martin Scorsese, in primis Quei bravi ragazzi (Goodfellas), da lui diretto e co-sceneggiato nel 1990 a partire dal romanzo Il delitto paga bene di Nicholas Pileggi.


Trama: Henry Hill, dodicenne di padre irlandese e madre siciliana, comincia a fare piccoli lavoretti per il boss Paul Vario e, a poco a poco, si fa un nome nella criminalità organizzata di Brooklyn; crescendo, assieme ai "colleghi" Jimmy e Tommy mette a segno una serie di colpi, truffe ed omicidi, finendo anche in carcere, finché non decide di impelagarsi nello spaccio di stupefacenti...


Io mi vergogno a parlare di Quei bravi ragazzi, perché non ne sono assolutamente degna, men che meno in grado. Rappresenta tutto ciò che adoro in un film, a partire dall'argomento trattato, ché ho sempre avuto un debole per le storie a tema "mafia", e potrei guardarlo anche mille volte senza stufarmi mai, trovando sempre nuovi motivi per entusiasmarmi, gioire e vergognarmi davanti all'assurda vita (vera, tra l'altro) di quella grandissima faccia di merda di Henry Hill. Per la prima volta l'ho guardato con Mirco e giuro, ho provato paura. Paura che non gli potesse piacere, che lo annoiasse, che mi si spezzasse il cuore all'idea che il mio compagno potesse trovare Quei bravi ragazzi meno che folgorante, invece l'ho visto ridere, stupirsi e sconvolgersi davanti a uno dei capolavori di Scorsese, anzi, quello che per me è IL suo capolavoro indiscusso. Guardare Quei bravi ragazzi per me è come salire su una macchina sportiva guidata da un matto e cominciare una sfrenata corsa in mezzo alla città, a rischio di mettere sotto qualcuno o schiantarsi alla prima curva; Scorsese non dà nemmeno il tempo di respirare, non sta fermo un secondo con la macchina da presa (tra piani sequenza, improvvisi restringimenti di campo, soggettive, cambi di prospettiva e il montaggio fenomenale e adrenalinico della Schoonmaker c'è da diventare scemi), perché nella vita frenetica di Henry e soci non ci si può soffermare a godersi nulla e c'è sempre bisogno di nuovi soldi, gioielli, vestiti, donne, cibo, droga. Credo ci siano pochissimi altri film dove lo spettatore viene così bombardato di dettagli contrastanti, attirato un istante prima dalla prospettiva del lusso e della fama ("eravamo come stelle del cinema") e subito dopo mosso a repulsione dall'orrore di un fiotto di sangue o dalla cafoneria di un branco di parvenu disperati, di queste donne truccatissime e sfatte accompagnate da mariti di un'ignoranza e una pochezza abissali. Non solo, lo spettatore viene messo di fronte a più punti di vista ed è costretto a fungere da "freno" per questa corsa disperata, così da non farsi catturare dall'insano fascino di una famiglia che protegge e supporta i suoi membri anche quando razionalmente verrebbe da fuggire a gambe levate davanti a gente che uccide per uno scatto d'ira senza fare distinzione tra amici o nemici.


I punti di vista di Quei bravi ragazzi sono fondamentalmente due, anzi forse tre. Il primo è quello di Henry Hill, ovviamente. Voce narrante per nulla pentita, convinto fautore della vita dei "bravi ragazzi" anche davanti agli eventi più sconvolgenti, Henry è un ragazzino cresciuto con valori distorti che non è mai diventato un adulto e quindi può tranquillamente venire riconosciuto come narratore inaffidabile; non che Henry ci racconti delle palle, quello no, ogni cosa che viene mostrata sullo schermo è effettivamente avvenuta, ma ci viene presentata come la normalità oppure, al massimo, come un piccolo incidente di percorso. Accanto ad Henry, di tanto in tanto, si fa sentire la voce della moglie Karen, di religione ebraica e di buona famiglia, che prende per mano lo spettatore e lo affianca, raccontandogli "la famiglia" vista da un esterno che arriva a poco a poco a comprenderne i meccanismi, alternando un piacevole stupore a perplessità sempre più grandi, a mano a mano che la patina di glamour dorato viene grattata via rivelando uomini abietti e dollari insanguinati, umiliazioni e soprusi a non finire. A fare da "totem", poi, c'è Paul Vario, il boss, interpretato magistralmente da un Paul Sorvino al quale basta uno sguardo per farsi capire, senza bisogno di parole. Paul Vario rappresenta la sicurezza delle regole codificate della strada, il cuore nero della famiglia che protegge ed assicura il perpetuarsi dei valori, per quanto sbagliati e distorti. Persino un bambino capirebbe che i veri nemici dei "bravi ragazzi" non sono poliziotti, governo o federali (che di tanto in tanto spuntano, solo per essere trattati alla stregua di moscerini fastidiosi) ma coloro che, dall'interno, non rispettano le regole, causando così la rovina del sistema; Paul è il guardiano della tribù, silenzioso ma perentorio, la sua è l'oasi relativamente tranquilla di chi conosce quel mondo, lo teme e lo rispetta, ne scandisce il ritmo con "rituali" regolari (Paul era quello che tagliava l'aglio così fine da farlo sciogliere, per dire) mentre Henry, Jimmy e Tommy sono le tre schegge impazzite che a un certo punto, per gratificare il proprio ego, vogliono di più e mandano al diavolo ogni legge del branco, condannandolo alla distruzione senza possibilità di ritorno, come accade spesso nei film di Scorsese. Henry si da allo spaccio, Tommy ammazza senza criterio, Jimmy parrebbe quello più assennato dei tre ma alla fine copre gli altri due in ogni loro sgarro, approfittando di volta in volta dei vantaggi che gli potrebbero derivare, confermandosi così il peggiore del gruppetto.


E che attori, ad interpretare questi personaggi indimenticabili, diventati nel tempo talmente iconici che persino gli Animaniacs li hanno omaggiati con I Picciotti (o i Goodfeathers, chiamateli come volete). Andiamo con ordine. Ray Liotta interpreta Henry ed è bellissimo, almeno all'inizio, con quegli occhi azzurro ghiaccio e il piglio vincente. E' bello come la visione che ha del mondo a cui appartiene, e non si può biasimare Karen per essersi fatta infinocchiare, poi però diventa sempre più brutto e volgare; sul finale, strafatto di coca fino agli occhi, tutto attorno a lui cambia diventando l'allucinazione di un paranoico, cambia persino la fotografia, che si fa più grigia e cupa, mentre l'uomo vaga "sudato che farebbe schifo a un piede" e con gli occhi pallati. Ray Liotta ha affermato di essere "la colla che tiene assieme i glitter". In effetti, la sua interpretazione potrebbe definirsi quasi misurata, perché a risplendere di luce propria (folle, ma pur sempre luce) sono due animali da palcoscenico come Robert De Niro e Joe Pesci. Il Jimmy di De Niro è un bastardo matricolato, calmissimo, a cui basta uno sguardo per dare a intendere un mondo di oscurità e noncuranza verso il genere umano capace di rivaleggiare con quella del grande amicone Tommy, interpretato da un Joe Pesci che, giustamente, ha ottenuto una statuetta come miglior attore non protagonista. Joe Pesci fa paura in Quei bravi ragazzi, ne fa persino a me che avrò guardato il film almeno una ventina di volte e ogni volta stringo i denti nell'attesa di quello che farà Tommy ai poveri malcapitati che hanno avuto la sventura di dire una parola sbagliata, che sia "buffo", "lustrascarpe" o "vai a farti fottere". Joe Pesci è una scheggia impazzita, è la bravura di chi improvvisa e sconvolge persino i suoi colleghi attori, è l'imprevisto costantemente alle calcagna di chi fa la vita da bravo ragazzo e non sa come e dove gli capiterà di morire, è l'aspetto grottesco e tragicamente buffo di gente ridicola, meritevole di venire ridotta a cliché anche quando Scorsese, invece, la eleva a poesia pura. Per dire, è così larger than life il personaggio di Tommy che nella sequenza della "promozione" mi sale un vergognoso magone alla gola. Quanto altro avrei da dire su Quei bravi ragazzi, cominciando con l'apprezzare senza riserve quel delirio di colonna sonora, tra crooner, musicarelli, rock, Layla e My Way che accompagnano alla perfezione ogni singola sequenza. Ma sono solo una povera fangirl di Scorsese, che invece meriterebbe fior di studiosi a venerarlo come merita, e l'unica cosa che posso fare è aspettare The Irishman con trepidazione, riguardando altre mille volte quello che per me è il miglior film sulla mafia di sempre.


Del regista e co-sceneggiatore Martin Scorsese ho già parlato QUI. Robert De Niro (James Conway), Ray Liotta (Henry Hill), Joe Pesci (Tommy DeVito), Paul Sorvino (Paul Vario), Kevin Corrigan (Michael Hill), Michael Imperioli (Spider), Samuel L. Jackson (Stacks Edwards) e Tobin Bell (Agente preposto alla libertà vigilata) li trovate invece ai rispettivi link.

Lorraine Bracco interpreta Karen Hill. Americana, la ricordo per film come 4 pazzi in libertà, Nei panni di una bionda, Ritorno dal nulla e serie quali I Soprano, inoltre ha lavorato come doppiatrice in BoJack Horseman. Anche produttrice e regista, ha 65 anni e due film in uscita.


Frank Vincent interpreta Billy Batts. Americano, ha partecipato a film come Toro scatenato, Casinò e serie quali Le avventure del giovane Indiana Jones, Walker Texas Ranger e I Soprano, inoltre ha lavorato come doppiatore in Shark Tale. Anche produttore, è morto nel 2017 all'età di 80 anni.


Abbastanza scandalosi gli Oscar di quell'anno, che hanno visto Quei bravi ragazzi perdere nella categoria miglior film, regia, sceneggiatura non originale e montaggio contro Kevin Costner e il suo Balla coi lupi; ora, io sono anni che non lo guardo ma anche un po' fanculo, dai, e vivaddio nel 1991 avevo 10 anni e non sapevo quasi cosa fossero gli Oscar, men che meno Scorsese, o sai il nervoso che mi sarei fatta. A 'sti punti giustifico di più la vittoria di Woopi Goldberg come non protagonista per Ghost, al posto di Lorraine Bracco. Parlando di cose più facete, Catherine e Charles Scorsese, madre e padre del regista, compaiono rispettivamente come madre di Tommy e come Vinnie. Tra le "comparsate" di spessore dei futuri componenti del cast de I Soprano, invece, oltre agli ovvi Lorraine Bracco, Michael Imperioli e Frank Vincent che sarebbero diventati la dottoressa Melfi, Chris Moltisanti e Phil Leotardo, segnalo la presenza di Tony Sirico (il futuro, amato e odiato Paulie, qui interpreta Tony Stacks), Vincent Pastore (futuro "Pussy" Bonpensiero), Suzanne Shepherd (qui è la madre di Karen, ne I Soprano è la madre di Carmela), Tony Lip (quello di Green Book, qui interpreta Frankie The Wop, ne I Soprano invece Carmine Lupertazzi Jr.); altre comparsate di lusso sono quelle di Vincent Gallo, che interpreta un membro della banda di Henry negli anni '70, e la figlia di Lorraine Bracco ed Harvey Keitel, Stella Keitel, che interpreta la figlia maggiore di Henry. Passiamo ora a chi, per sfortuna o poca lungimiranza, non ce l'ha fatta, Al Pacino in primis, che ha rifiutato il ruolo di Jimmy per paura di diventare uno stereotipo e poi lo stesso anno è finito a fare Big Boy Caprice in Dick Tracy (anche John Malkovich ha rinunciato al ruolo, comunque), mentre per la parte di Henry all'epoca si parlava di Tom Cruise, Sean Penn o Alec Baldwin. E ora una curiosità divertente: la vita del vero Henry Hill dal momento in cui ha cominciato la vita di testimone sotto protezione, è stata portata sullo schermo come commedia ne Il testimone più pazzo del mondo, scritto da Nora Ephron, moglie di Mitch Pileggi. Magari potreste recuperarlo, nel caso Quei bravi ragazzi vi fosse piaciuto, e ovviamente aggiungere Casino, Donnie Brasco e la trilogia de Il padrino! ENJOY!

martedì 19 novembre 2019

Le Mans '66 - La grande sfida (2019)

Pur non essendo molto interessata all'argomento, domenica mi hanno portata a vedere Le Mans '66 - La grande sfida (Ford v Ferrari), diretto dal regista James Mangold.


Trama: quando Enzo Ferrari rifiuta di unire la propria azienda alla Ford, Henry Ford II decide di batterlo sul campo delle corse automobilistiche e chiede l'aiuto fondamentale dell'ex pilota Carrol Shelby e del pilota Ken Miles per progettare un'auto in grado di competere alla 24 Ore di Le Mans...


Questo sarà un post viziato da tutta l'ignoranza del caso, anche più del solito. Se c'è una cosa infatti che non ho mai sopportato, dopo vedere ventidue tizi che corrono dietro a un pallone, è assistere alle corse di automobili. Di motori non so nulla, posso giusto apprezzare il design dei veicoli ma ho gusti particolari quindi rischio di provare schifo davanti a molti modelli adorati dagli appassionati, e onestamente l'idea di andare al cinema a vedere la storia della 24 Ore di Le Mans del '66 mi perplimeva non poco. Ribadisco di non avere idea di quali reali eventi siano accorsi quel giorno quindi mi sono bevuta tutto ciò che è stato raccontato sullo schermo da James Mangold e compagnia, ritrovandomi, inaspettatamente, ad esaltarmi, commuovermi e persino a pensare che avrei ucciso chiunque mi avesse spoilerato il finale della sfida tra Ford e Ferrari. Sfida che, per inciso, viene resa per una volta meglio nel titolo italiano; di Ferrari e di Ford, due macchiette dall'ego smisurato, alla fine importa poco, perché l'intera storia è imperniata sulle epiche fatiche di Carrol Shelby, ex pilota costretto a riciclarsi venditore di auto a causa di una malattia cardiaca, e Ken Miles, pilota geniale ma intrattabile. Come da tradizione americana, i due si imbarcano in un'impresa titanica, ovvero creare la prima macchina da corsa a marchio Ford, infondendo nell'opera e nella preparazione per la 24 Ore di Le Mans tutta la passione e la voglia di rivalsa contro un mondo che li ha quasi costretti a rinunciare ai loro sogni, combattendo allo stesso tempo contro la freddezza di uomini d'affari che guardano solo al profitto. La realtà dei fatti è stata dunque schematizzata mettendo da una parte i buoni, come Shelby, Miles e tutto il loro team, i collaboratori riluttanti come l'addetto al marketing Iacocca, e dall'altra parte i cattivi tout court come il viscido Leo Beebee, lo stesso Henry Ford II e, ovviamente, i piloti della Ferrari che sembrano usciti dritti da un film di mafia.


La semplificazione funziona, inutile nascondersi dietro a un dito. Viene incontro a chi, come me, di macchine non sa nulla e rischia di perdersi i tecnicismi di buona parte dei dialoghi iniziali, e consente allo spettatore di avere qualcuno per cui tifare, per cui trattenere il fiato ogni volta che le prove e le gare sembrano andare male, perché i due protagonisti sono caratterizzati alla perfezione, coi loro pregi e i loro umanissimi difetti, tanto che è impossibile non voler loro bene. Aiuta, ovviamente, che ad interpretarli siano due signori attori come Matt Damon e Christian Bale, di nuovo ridotto ad uno scheletro e quasi irriconoscibile nei panni di un "ragazzo" di campagna fattosi pilota e aiuta, neanche a dirlo, il fatto che James Mangold sia un regista capace di creare gradevoli sequenze di quiete familiare e complicità amichevole, ma anche di pestare (stavolta letteralmente) duro sul pedale dell'acceleratore quando si tratta di rendere l'idea di automobili lanciate a velocità impensabili su piste pericolosissime. Che anche una profana come me, a un certo punto, si sia ritrovata seduta sulla poltrona coi muscoli tesi e il piede pigiato su un freno virtuale, può darvi l'idea del dinamismo della messa in scena di Mangold, che nel corso di queste sequenze ad alta velocità alterna sapientemente riprese all'interno dell'abitacolo dell'auto, soggettive di ciò che il pilota vede dall'interno di una potenziale macchina di morte, panoramiche dei circuiti e ovviamente riprese ravvicinatissime dei veicoli in corsa, alternando il tutto con un montaggio serrato che riesce a non dare l'impressione di assistere a un freddo videogame. Alla fine della fiera, non bisogna sorprendersi se guardando Le Mans '66 ci si indigna e ci si commuove, ché la sceneggiatura è MOLTO bastarda e studiata a tavolino per toccare più cuori possibile, ma per una volta si può anche stare al gioco e godersi un film inaspettatamente bello, due ore e mezza che sembrano una. Magari da vedere in lingua originale per superare quel fastidioso (mabbasta con sti stereotipi...) tocco esotico della pronuncia itanglish, terribile da ascoltare in un film doppiato, e dare finalmente al signorile Remo Girone quel che è di Cesare.


Del regista James Mangold ho già parlato QUI. Matt Damon (Carrol Shelby), Christian Bale (Ken Miles), Jon Bernthal (Lee Iacocca), Josh Lucas (Leo Beebee), Tracy Letts (Henry Ford II) e Ray McKinnon (Phil Remington) li trovate invece ai rispettivi link.

Noah Jupe interpreta Peter Miles. Inglese, ha partecipato a film come Wonder, A Quiet Place: Un posto tranquillo e a serie quali Penny Dreadful e Downton Abbey. Ha 14 anni e un film in uscita, A Quiet Place: Part II.


Remo Girone interpreta Enzo Ferrari. Nato in Eritrea, lo ricordo per serie quali La piovra 3 (per me sarà sempre Tano Cariddi), La piovra 4, La piovra 5 - Il cuore del problema, La piovra 6 - L'ultimo segreto, La piovra 7 - Indagine sulla morte del commissario Cattani,  Fantaghirò 5 e Il commissario Rex. Ha 71 anni e un film in uscita.


Se l'argomento vi intriga, potete recuperare il documentario The 24 Hour War, disponibile su Prime Video, e magari anche Le 24 ore di Le Mans. ENJOY!

domenica 17 novembre 2019

Bollalmanacco On Demand: Underground (1995)

Torna dopo una pausa di almeno un mese il Bollalmanacco On Demand. Oggi, grazie ad Arwen Lynch, parlerò di un film che ha vinto la Palma d'Oro a Cannes nel 1995, Underground, diretto e co-sceneggiato dal regista Emir Kusturica. Il prossimo film On Demand sarà Dogtooth. ENJOY!


Trama: nell'ex Jugoslavia, durante la seconda guerra mondiale, Marko e il Nero vivono rocambolesche avventure sotto i bombardamenti nazisti. Dopo essere stato catturato, liberato e infine ferito da una bomba, il Nero finisce assieme ad altri abitanti del paese in un rifugio sotterraneo dove, ingannati da Marko, passeranno ben vent'anni a costruire armi mentre in superficie si susseguono cambiamenti ed altre guerre...


"La musica balcanica ci ha rotto i coglioni, è bella e tutto quanto ma alla lunga rompe i coglioni/Probabilmente ne avrei tutta un'altra opinione se fossi un balcanico, se fossi un balcone/ Ma siccome non sono un croato, né un balcone balcano/ Non capisco perché tutti quanti si ostinano insistentemente a suonare questa musica di merda". Si scherza, suvvia, anche perché io adoro la musica balcanica. Però, non me ne voglia Kusturica, non ho potuto fare a meno di pensare ad Elio e alla sua Concerto del primo maggio ogni volta che Bregovic entrava a gamba tesa con le sue melodie balcaniche a far da colonna sonora (più o meno ogni 10 minuti di film) alle vicissitudini folli di Marko e del Nero, due "compagni" comunisti uniti nella lotta contro i "porci fascisti figli di troia" nella prima parte di questa surreale pellicola che abbraccia quasi cinquant'anni di storia dell'ex Jugoslavia. Storia, beninteso, della quale conosco veramente poco, quindi non farò come quelli che hanno saputo o potuto criticare Kusturica per l'eventuale faziosità politica o il tradimento della patria, ma mi limiterò a spiegare perché Underground mi è piaciuto molto, con la sua comicità grottesca, gli inaspettati tocchi di lirismo e quel senso di tragedia che spesso mi ha portata sull'orlo delle lacrime. E' un paragone lontano ed azzardato, ma siccome l'ho visto di recente non ho problemi a dire che Underground è per certi versi simile a Parasite per il modo in cui una storia popolata da personaggi buffi e divertenti prende, a un certo punto, un'inaspettata svolta tragica, fatta di tradimenti e morte e capace di colpire laddove bombardamenti e donne che muoiono di parto, affrontati alla stregua di barzellette, non riescono ad arrivare. Le vicende di Underground cominciano durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale, durante l'occupazione nazista, e nel corso della prima parte del film assistiamo alle peripezie di Marko e Nero, impegnati con la resistenza comunista e, sopratutto il secondo, a conquistare l'amore della "bella" Natalija, attrice di teatro già concupita da un membro della Gestapo. Salvo il bombardamento iniziale, che mi ha annientata per il modo in cui mostra la disperazione di Ivan, guardiano dello zoo, davanti agli animali morti, questa parte del film è esilarante; Marko e il Nero sono costantemente ubriachi, le loro imprese hanno del picaresco anche nei momenti più concitati (le torture naziste sembrano quasi una parodia) e il tentativo di matrimonio forzato con Natalija è degno di un film dei Fratelli Marx. Tutto cambia, però, quando Marko decide di ingannare il suo amico di sempre, il suo stesso fratello e tanti bravi compaesani imprigionandoli in un sotterraneo e facendo credere loro che la guerra mondiale sia ancora in corso, per la bellezza di vent'anni in cui lui e Natalija (nel frattempo diventata sua moglie)  fanno la bella vita come contrabbandieri di armi.


Mescolando immagini di repertorio a invenzioni cinematografiche, inserendo a un certo punto anche una sequenza di puro metacinema parodistico, Kusturica affronta con Underground vent'anni di guerre, cambiamenti e morte, che hanno arricchito pochi e distrutto la tempra di un popolo allo sbando, confuso e schiacciato dall'ignoranza, impossibilitato ad abbracciare la speranza del futuro e i cambiamenti imposti dalla modernità. Mano a mano che Underground procede, il film si fa sempre più malinconico e il regista molla definitivamente gli ormeggi che lo tengono ancorato alla realtà per abbandonarsi ad immagini e vicende surreali che hanno del felliniano, quasi che la Storia fosse troppo ridicola o terribile da affrontare. Ecco allora che i cittadini vissuti per vent'anni in un sotterraneo vengono liberati da una scimmia e scoprono una città nella città dove i limiti spazio-temporali sembrano non esistere neppure, mentre il confine tra la vita e l'aldilà diventa limpido come uno specchio d'acqua e il peso di tutte le falsità perpetuate negli anni comincia a storpiare corpi e distruggere menti, facendo salire alla gola dello spettatore (che nel frattempo, come me, aveva cominciato ad adorare i protagonisti del film, il folle Nero in primis) un groppo grosso come una casa. Al di là delle faziosità e di tutte le critiche, infatti, a mio avviso il senso di un film come Underground è uno solo: le guerre, gli "ismi", tirano fuori il peggio delle persone e le rovinano, tolgono loro qualsiasi forma di libertà e privano di significato parole come amore, fratellanza e amicizia. Ben venga allora la musica, ben venga quell'anarchia alcoolica e sciocca che rende irresistibile il Nero, ben vengano le scaramucce teatrali e l'innocenza di chi ha passato la vecchiaia cercando l'adorata scimmia, persino l'esilarante stupore di chi non ha mai visto il sole o la luna, anche se quello, porca miseria, è davvero un riso amaro. Se non lo avete mai guardato, Underground è un film che sicuramente vi lascerà stupiti oltre che storditi, quindi recuperatelo; probabilmente, il che non è necessariamente un male, vi farà venire voglia di documentarvi un po' su quello che è stato il conflitto balcanico, di cui io ricordo purtroppo "solo" le terribili immagini che passavano al telegiornale quando ero ragazzina, neanche fosse accaduto dall'altra parte del pianeta.

Emir Kusturica è il regista e co-sceneggiatore della pellicola, inoltre compare come contrabbandiere di armi. Nato a Sarajevo, ha diretto film come Il valzer del pesce freccia, Gatto nero, gatto bianco e La vita è un miracolo. Anche produttore e compositore, ha 55 anni.


Predrag "Miki" Manojlovic, che interpreta Marko, è assurto agli "onori" delle cronache cinematografiche nostrane nel 1998, quando ha interpretato il macellaio ne Il macellaio con Alba Parietti, quando ancora in Italia si giravano film porno distribuibili in sala e passabili in TV. A proposito di televisione, di Underground esiste una versione di 5 ore, passata come miniserie sulla TV serba; non vi dico di recuperarla, per carità, ma se Underground vi fosse piaciuto proprio tanto, magari... ENJOY!

venerdì 15 novembre 2019

The Nightingale (2018)

Attendevo da anni il ritorno dietro la macchina da presa di Jennifer Kent. Lo ha fatto nel 2018 con The Nightingale, e non avrei potuto essere più spiazzata e soddisfatta di così.



Trama: Tasmania, 1820. Clare, irlandese deportata, si affida alla guida dell'aborigeno Billy per inseguire nel bush gli uomini che le hanno distrutto la famiglia.



"This is my home. This is my land". Credo di non essermi mai sentita tanto piccola e vergognosa, nella mia sicumera di bianca privilegiata, come nel vedere un aborigeno piangere davanti alla "concessione" di poter mangiare al tavolo assieme ai padroni della sua terra. E' stato come se mi avessero tirato uno schiaffo, perché dopo due ore di atrocità perpetrate da soldati e coloni inglesi ai danni degli aborigeni originari della Tasmania, non potevo fare altro che apprezzare l'apertura mentale di un anziano signore, l'unico pronto ad accogliere i due protagonisti di The Nightingale e a trattarli come esseri umani. Poi è arrivato, appunto, l'ennesimo schiaffo della Kent: cosa c'è da apprezzare? Perché Billy, ultimo superstite della sua stirpe massacrata, dovrebbe ringraziare chi lo tratta come ospite in una terra che lo ha visto nascere, con un'ipocrisia tale da fare rabbrividire? Ecco come, grazie a due battute e un primo piano, Jennifer Kent è riuscita ad annullare le barriere del tempo, riversandomi addosso l'orribile storia di una barbarie che continua e che ha visto gli invasi venire divorati dalla perniciosa influenza degli invasori, assumendo su di loro i peggiori difetti dell'uomo bianco, diventando una minoranza di persone che vivono spesso, ancora oggi, ai margini della società, annebbiate dai fumi dell'alcool. Io l'Australia (non la Tasmania) un po' l'ho vissuta. E' troppo facile dimenticare, tra un g'day e un mate, la sua natura di colonia penale inglese. Troppo facile dimenticare come gli aborigeni fossero considerati meno che umani, è vero, ma anche gli irlandesi o gli scozzesi non se la passassero meglio, specialmente le donne. Ma pensate cosa dev'essere stato, a inizio ottocento, essere donna e venire mandata a scontare una pena per reati spesso futili in una terra selvaggia e sconosciuta dove la maggior parte degli abitanti "bianchi" erano galeotti o soldati di sesso maschile. Posso solo immaginare che gli stupri, i soprusi e le esecuzioni sommarie fossero all'ordine del giorno e, per quanto la prima mezz'ora di The Nightingale sia atroce, da spezzare il cuore, che motivo c'è di nascondere la testa sotto la sabbia ed edulcorare ciò che sta alla base di un film che parla del disperato tentativo di due persone di rimanere umane nonostante tutto?


Perché The Nightingale non è un rape and revenge. Sì, la base da cui parte tutto è la stessa di un b-movie anni '70 a tema, ma giustamente alla Kent la vendetta interessa fino a un certo punto, in quanto The Nightingale sviluppa essenzialmente il rapporto di amicizia e reciproca comprensione tra due reietti che si scoprono "fratelli", al di là del colore della pelle e delle differenze di sesso (interpretati da due semi-esordienti di allucinante bravura). Accomunati da terribili perdite, a rischio di diventare inumani quanto i loro aguzzini, Clare e Billy all'inizio si odiano, avviluppati da un reticolo di pregiudizi e diffidenza: agli occhi di Clare, Billy è innanzitutto un maschio (e dopo essere stata violentata più volte, vorrei vedere quale donna si fiderebbe ancora) e poi un selvaggio probabilmente pronto a ucciderla o mangiarla; agli occhi di Billy, Clare è l'invasore, un'inglese (non irlandese) come tutti gli altri, degna solo di disprezzo. Sarebbe stato facile mostrare la catarsi violenta di due giustizieri improvvisati, punire i malvagi e poi ognuno per la sua strada, ma la Kent è interessata innanzitutto a mostrare la fatica di cambiare, di staccarsi da un cammino tracciato in anni di violenza e orrore, di ricominciare a vivere conservando almeno un minimo di umanità e dignità anche all'interno di un mondo destinato a non cambiare. Di fatto, è brutto da dire, Clare e Billy non sono i rivoluzionari forieri di importanti mutamenti sociali. Sono due uccellini che possono solo sperare di costruirsi un nido di pace temporaneo, persi davanti a un orizzonte di una bellezza abbacinante che può giusto liberarli per qualche istante dalla loro misera condizione. Quello che riserverà loro il futuro la Kent non lo dice ma sarebbe inutile essere ingenui; The Nightingale racconta ciò che è stato, il fondamento di ciò che in effetti ancora è, di questa nostra società così iniqua e sbagliata, le cui prospettive sono declinate secondo valori occidentali, "bianchi" e principalmente maschili. E' quindi giusto inorridire davanti a The Nightingale e non solo per le terribili scene di violenza, talmente realistiche da far stare male, ma anche per quello che racconta di noi attraverso il filtro dell'illusoria sicurezza di una distanza temporale. E se volete sapere perché The Nightingale è anche tecnicamente un film splendido, uno dei migliori dell'anno, vi rimando all'articolo di Lucia, che sicuramente ve lo spiega meglio di me, nell'attesa che The Nightingale venga distribuito anche qui in Italia.


Della regista e sceneggiatrice Jennifer Kent ho già parlato QUI. Sam Clafin (Hawkins) e Charlie Shotwell (Eddie) li trovate invece ai rispettivi link.

Damon Herriman interpreta Ruse. Australiano, ha partecipato a film come The Mask 2, La maschera di cera, J. Edgar, The Lone Ranger, C'era una volta a... Hollywood e a serie quali Cold Case, CSI- Scena del crimine e Breaking Bad. Anche sceneggiatore, produttore e regista, ha 49 anni.