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venerdì 29 gennaio 2021

Nicolas Cage Day: Drive Angry (2011)


Temevo che anche il 2021 sarebbe cominciato male. Non fraintendetemi, eh, è cominciato di merda per motivi che non vi sto a spiegare, ma quando Alessandra ha proposto di rinnovare il Nicolas Cage Day ho davvero temuto che non ce l'avrei fatta nemmeno stavolta. Per incredibile botta di (s)fortuna mi sono ritrovata invece a guardare Drive Angry, diretto e co-sceneggiato nel 2011 dal regista Patrick Lussier


Trama: un uomo fugge dall'inferno per salvare la sua nipotina neonata, presa di mira da un branco di satanisti...


Ma PERCHE' non avevo mai guardato Drive Angry, che ricordo essere passato al cinema nientemeno che in treddì e che, visto oggi su Amazon Prime Video, fa venir voglia di cavarsi gli occhi, da tanto l'indispensabile effetto tanto di moda all'epoca è invecchiato peggio che male? Perché, diamine, visto che Nic Cage qui dà il meglio di sé, o, per meglio dire, interpreta un personaggio già talmente sopra le righe di suo che non deve neppure andare in overacting per renderlo leggendariamente trash? Bastano una parrucchetta bionda e uno di quei suoi soliti sorrisetti da "ti faccio il mazzo ma non lo sai" e Cage si inserisce alla perfezione all'interno di questo horror (?) action zamarro scritto dalla versione adolescenziale ed incazzata di Lussier e Todd Farmer; incazzata perché vabbé, ci sono le macchine che spaccano e gente che muore male per mezzo di fuciloni e altre armi, adolescenziale perché, davvero, come se non bastasse l'idea pirla di uno che scappa dall'inferno per salvare la nipotina dai satanisti che la vogliono uccidere e la cui situazione scatena la voglia di aiutare di una strappona bionda che è un incrocio tra un G.I. Joe e una modella di Victoria's Secret, ci si aggiungono anche dialoghi di rara inutilità, come lo "spiegone che spiegone non è" in cui il personaggio di Cage racconta all'amico di un tempo come diamine è morto. Vi sfido a non trovare delle similitudini con le vostre peggiori interrogazioni alle superiori, quelle in cui non sapevate cosa dire ai prof, da tanto è svogliato il modo in cui la morte di "John Milton" viene riportata scevra di qualunque dettaglio. Sorvolo poi sull'abbondanza di donne nude che vengono malmenate, non voglio nemmeno sapere quanti machos si saranno esaltati davanti al binomio automobili/patata dolorante o mi sale la carogna più di quanto sia necessario con un film simile, considerata anche la fine che fa Amber Heard: costretta a diventare madre e regalata a un vegiu (povero David Morse) che accenderà ogni notte un cero a Nicolas Cage per ringraziarlo di avergli fatto vincere la lotteria della passera. 


Ma qui si sta mancando il punto, ovvero l'omaggio a Cage. Il problema, mannaggia, è che in Drive Angry il prode Nic diventa quasi l'elemento che nobilita il film, se non addirittura il protagonista che viene eclissato in positivo dal meraviglioso contabile di William Fichtner e in negativo dall'orrido, inutile, leppegusu Jonah King di Billy Burke, trovato al discount probabilmente perché Benicio del Toro si era dato alla macchia. Davanti alla gente brutta, ma davvero orripilante, buttata all'interno del cast di Drive Angry, Nic Cage diventa quasi figo e desiderabile, ve lo giuro; non so come abbiano condotto la ricerca di attori ma probabilmente tra i requisiti c'erano cose come "inbred" e "minus habens" altrimenti non si spiega. Ciò detto, Cage si è consacrato comunque anima e corpo al progetto e non mancano momenti epici di pura Cageanità (che avrebbe potuto salire a livelli inenarrabili, visto che il buon Nic avrebbe voluto recitare con la testa rasata e un tatuaggio a tutta capoccia), tra i quali una bevuta finale memorabile, una scopata ancor più leggendaria e un inizio scoppiettante anzichenò. Spiace solo che, visto il personaggio, il solito occhio pazzo Cageano sia stato poco utilizzato ma di sicuro Drive Angry rientra tranquillamente nel novero dei suoi migliori film trash e non merita di finire nel dimenticatoio di alcune sue produzioni recenti che, ahimé, mi cominciano ad evidenziare un po' di vecchiaia.


Se UN Cage non vi basta, recuperate ovviamente gli altri omaggi dei prodi blogger parrucchinomuniti e... ENJOY!


La Bara Volante

In Central Perk

La Stanza di Gordie 

Director's Cult 


martedì 26 gennaio 2021

Get Duked! (2019)

Se avete voglia di guardare una simpatica commedia vagamente spruzzata di horror, Get Ducked!, diretto e sceneggiato nel 2019 dal regista Ninian Doff, fa al caso vostro. Lo trovate su Amazon Prime Video.

Trama: quattro ragazzini disagiati vengono forzati a competere per il premio Duca di Edimburgo, che li vede costretti a campeggiare per due giorni nelle Highland scozzesi. La comparsa di gente armata di fucile trasforma un'esperienza potenzialmente noiosa in qualcosa di mortale...


Ged Duked!
è una di quelle spassose commedie nere che riescono tanto bene ad inglesi, irlandesi e scozzesi, come in questo caso. Il film avrebbe dovuto chiamarsi Boyz in the Wood, poi non se n'è fatto nulla, ma il titolo originale racchiude in sé lo stile un po' "gangsta" di uno dei personaggi, che inizia come una presa in giro di un ragazzetto benestante che vuole fare il nigga (il personaggio si fa chiamare DJ Beetroot) e poi si ritrova, con somma sorpresa, a diventare l'idolo di un gruppetto di contadini delle Highlands; la caratterizzazione del ragazzino si accompagna alla perfezione a quella degli altri tre compari di sventura, due ideali nipoti scemi dei personaggi di Trainspotting e uno che compete seriamente per il prestigioso premio in quanto nerd disadattato del gruppetto, e il mix dà il la ad una serie di gag esilaranti, scontri generazionali e prese in giro della società non solo scozzese, degnamente accompagnate dall'aspetto "horror" della pellicola. A un certo punto, infatti, i nostri cominciano a venire cacciati proprio dal Duca di Edimburgo e tra allucinogeni, poliziotti alla Hot Fuzz ed equivoci a non finire, i noiosi due giorni a spasso per le Highlands diventano una lotta per la sopravvivenza che lascerà anche il tempo ai contendenti di imparare qualcosa su loro stessi e sull'amicizia.


Il regista Ninian Doff viene dal mondo dei videoclip e si vede, perché come ho scritto sopra la musica ha un ruolo preponderante nel film, così come una serie di elementi "fantastici" ed allucinati che la fanno da padrone in parecchie sequenze; diciamo che se DJ Beetroot esistesse davvero questo film potrebbe essere un ottimo trampolino di lancio, se non altro per mandarlo in qualche contest trash come l'Eurovision, e anche all'interno della pellicola queste parentesi musicali funzionano alla grande e spiazzano, oltre a divertire. Il consiglio, ovviamente, già che il film è disponibile su Prime Video anche non doppiato (miracolo!! Signori, dovreste farlo per TUTTI i film in catalogo, ché spesso affidarsi solo al doppiaggio italiano è una sconcezza), è di sforzarsi e guardarlo in lingua originale coi sottotitoli, perché, se siete mai stati in Scozia, l'immediatezza rozza dell'accento scozzese è un di più che vi farà ripiombare negli splendidi luoghi mostrati nel film e vi renderà ancora più simpatici i giovani attori protagonisti e gli esilaranti poliziotti da operetta che si mettono sulle loro tracce. Se cercate qualcosa di divertente per una serata disimpegnata, insomma, Get Duked! è il film che fa per voi.


Di Eddie Izzard (Il duca) e Alice Lowe (Sovrintendente) ho già parlato ai rispettivi link. 

Ninian Doff è il regista e sceneggiatore della pellicola, al suo primo lungometraggio. Inglese, è anche produttore.

Kate Dickie interpreta il sergente Morag. Scozzese, ha partecipato a film come Prometheus, The Witch, Star Wars - Gli ultimi Jedi, Wildfire e a serie quali Il trono di spade. Anche produttrice, ha 50 anni e quattro film in uscita tra cui The Green Knight.


Se il film vi fosse piaciuto recuperate Killer in viaggio. ENJOY!

domenica 24 gennaio 2021

Pieces of a Woman (2020)

Spinta dalle molte critiche positive, ho recuperato uno degli ultimi film usciti su Netflix, Pieces of a Woman, diretto nel 2020 dal regista Kornél Mundruczó.


Trama: dopo un parto casalingo finito in tragedia, Martha si isola sempre di più dal suo compagno e dalla sua famiglia.


Pieces of a Woman
rischia davvero di mandare in pezzi più di uno spettatore. Non sto a dirvi quanto mi abbia fatto passare la voglia di avere figli dopo la prima, mortale mezz'ora di travaglio in presa diretta con tutte le complicazioni del caso né quanto sarei partita a prendere a schiaffi entrambi i protagonisti in quella stessa occasione, perché insomma, se le cose cominciano a "puzzare" bisogna tapparsi il naso e correre in ospedale senza stare tanto a fare "gli alternativi", ma queste sono le considerazioni superficiali di una brutta e cinica persona. Parlando un po' più seriamente, Pieces of a Woman è uno splendido, dolorosissimo racconto che tocca molteplici emozioni umane, non tutte positive, e nasce dall'esperienza personale della sceneggiatrice Kata Wéber, che dopo aver perso un figlio ha deciso di allontanarsi dal marito, proprio il regista Kornél Mundruczó, una scelta che molti potrebbero criticare ma che, davanti a quello che viene mostrato nel film, è probabilmente la più condivisibile. Da donna, ci ho provato a mettermi nei panni di Sean, uomo alle prese con una delle tragedie più grandi della sua vita, ma ammetto di aver fatto fatica ad empatizzare con lui proprio perché non riuscivo a fare a meno di perdermi nel dolore di Martha. Non ho mai sperimentato la maternità ma l'idea di sentire crescere una creatura in grembo per nove mesi, con tutte le gioie e i dolori della gravidanza, solo per poi stringere tra le braccia un corpicino freddo la trovo agghiacciante e senza nulla togliere al dramma vissuto dai futuri padri, penso proprio che sia la madre a subire maggiormente il contraccolpo fisico ed emotivo di un orrore simile; immagino quanto ci si debba sentire vuote, inadeguate, private di un pezzo fondamentale del proprio sé, assillate da amici e famiglia che, spesso anche a "fin di bene", non smettono di ricordarci la perdita mentre ci invitano a riprenderci e trovare la forza di andare avanti (o, in questo caso, a cercare una tardiva giustizia), costrette a farci forza anche per mariti e compagni. Non si può criticare Martha per la volontà ferma di scegliere il distacco, anche dalla bambina, non la si può criticare per l'incapacità di "consolare" un compagno che si strugge nemmeno fosse Mario Merola (al "I miss her so much!!" ho pensato solo "TU! Che l'hai vista 5 minuti! Che ca**o deve dire lei che se l'è portata dentro 9 mesi??" - Sì, sono emotiva. Sì, già non sopporto LaBeouf, quindi figuriamoci, soprattutto se poi lo fai rientrare nel cliché dell'uomo che deve sfogare il dolore con l'uccello), non la si può criticare per la decisione di prendersi del tempo per capire e, forse, guarire.


Pieces of a Woman
ci getta di peso nell'ordalia di una donna che non può fare altro che aspettare che il tempo passi, così da imparare a convivere col dolore per non smettere di vivere o di sperare in un futuro che non sia solo morte e disperazione ma anche speranza e vita. Lo fa attraverso la riflessione, sì, ma anche il taglio netto col passato, ché esistono cose per le quali vale la pena lottare ed altre che, invece, per quanto possa fare male, devono necessariamente essere lasciate indietro, mentre per altre forse è necessario chiudere gli occhi e perdonare, forse crescere, maturare. E' bellissimo, in Pieces of a Woman, vedere le vicende accompagnate da un lento disgelo naturale che non necessariamente coincide con quello del cuore; è bellissimo il desiderio di vita di Martha, incarnato nei semi di mela messi a germogliare, quasi un modo per venire a patti con una natura matrigna ed incomprensibile; sono bellissimi i dialoghi muti tra lei e la madre, quello sguardo sul finale che prelude a un nuovo inizio ma anche ad una nuova fine, perché il ciclo della vita è implacabile in questo. E' bellissima, ed è bravissima, Vanessa Kirby, che da bionda bambolotta action in Hobbs & Shaw ci viene restituita dimessa, "normale" ed incredibilmente umana, capace di spezzare il cuore a un sasso non solo nei momenti di tristezza lacrimevole ma soprattutto in quelli dove il suo sguardo comunica un vuoto tremendo e un dolore incommensurabile. Pieces of a Woman non è un film facile ma se avrete la pazienza e il cuore di affrontarlo potrebbe arricchirvi oltre che commuovervi, farvi riflettere su situazioni in cui si spera di non doversi mai trovare ma che purtroppo possono capitare, quindi vi consiglio di guardarlo anche perché credo proprio che qui ci sia materiale da Oscar.


Di Vanessa Kirby (Martha), Shia LaBeouf (Sean), Ellen Burstyn (Elizabeth), Benny Safdie (Chris), Sarah Snook (Suzanne) e Molly Parker (Eva) ho già parlato ai rispettivi link. 

Kornél Mundruczó è il regista della pellicola. Ungherese, ha diretto film come Delta, White God - Sinfonia per Hagen e Una luna chiamata Europa. Anche attore, sceneggiatore e produttore, ha 45 anni.



venerdì 22 gennaio 2021

Freaky (2020)

Finalmente un horror leggero, dopo tanta tristezza! Oggi tocca infatti a Freaky, diretto e co-sceneggiato dal regista Christopher Landon.


Trama: Millie è una ragazzina schiva e bullizzata che, un giorno, viene attaccata da un killer mascherato. Colpita da un pugnale maledetto, Millie si ritrova nel corpo del killer mentre la coscienza di quest'ultimo si riversa nella bionda fanciulla...


Alzi la mano chi non è cresciuto con Tutto accadde un venerdì! Certo, se siete dei millenials malvagi invece che dei vecchiacci nati negli anni '80 non lo avrete mai sentito nemmeno nominare e se vi raccontassi la storia di madre e figlia che, un venerdì, si ritrovano con i ruoli invertiti e ognuna nel corpo dell'altra, pensereste o a Quel pazzo venerdì oppure al nulla cosmico. Negli ultimi due casi, shame on you, ovviamente, ma nulla vi vieta di godervi comunque la commedia horror Freaky, in cui accade più o meno la stessa cosa ma con un serial killer al posto della mamma e con un modus operandi assai simile a quello che aveva condannato il "povero" Charles Lee Ray a finire nel corpo di un orrido bambolotto. Protagonista del film è Millie, bionda teenager che avrebbe tutte le carte in regola per essere la reginetta della scuola e che invece, per quei cortocircuiti mentali che accorrono solo nelle sceneggiature degli horror o delle commedie USA, è bullizzata da chiunque perché incapace di valorizzare la sua estrema figaggine indossando un paio di jeans e truccandosi un pochino; il giorno in cui nel suo corpo finisce la coscienza di un serial killer, per inciso, costui lo fa, trasformandola giustamente nella gnocca del liceo, peccato che la gamma emotiva del pluriomicida sia pari a quella di una cozza pazza ed assetata di sangue, cosa che rischia di rovinare ancor più la vita sociale di Millie. Quest'ultima, poverella, si ritrova invece nel corpicione di un pluriomicida ricercato, e ha il suo bel da fare a convincere i suoi migliori amici ad aiutarla prima che lo scambio diventi permanente.


Gli scambi di persona, se gestiti bene, sono molto divertenti e Freaky non si sottrae a questo felice assioma; Landon, dopo averci regalato gli esilaranti Auguri per la tua morte e il suo seguito, continua a confermarsi maestro delle commedie horror e mette in scena un film in cui si ride dall'inizio alla fine nonostante alcune morti particolarmente efferate, assecondando con simpatia molti cliché del genere (sono molteplici gli omaggi a Halloween e Venerdì 13, tanto che il film avrebbe dovuto chiamarsi Freaky Friday the 13th) e, ovviamente, prendendoli in giro con leggerezza. Se in Auguri per la tua morte la bella Jessica Rothe era mattatrice assoluta, qui buona parte del carico comico del film posa sulle ampie spalle di Vince Vaughn, che, in un ideale Oscar dell'horror, quest'anno sarebbe tra i candidati per il modo assolutamente delizioso in cui riesce ad esprimere tutte le idiosincrasie di un'adolescente insicura senza sembrare una caricatura e facendo comunque ridere; scene  come quelle della cabina nel negozio, quella del bacio o quella del primo incontro con gli amici di sempre sono davvero ben realizzate e fanno perdonare un po' di "piattume" a livello di resa della bionda serial killer, che invece si limita a guardare scazzata il prossimo senza instillare un minimo di inquietudine allo spettatore. L'idea di Landon sarebbe di creare un cross-over tra Auguri per la tua morte e Freaky e personalmente non vedrei l'ora, quindi spero che questo Freaky ottenga il successo necessario per esaudire il suo desiderio!


Del regista e co-sceneggiatore Christopher Landon ho già parlato QUI. Vince Vaughn (Il macellaio) e Kathryn Newton (Millie) li trovate invece ai rispettivi link.


Se Freaky vi fosse piaciuto recuperate Auguri per la tua morte (lo trovate su Infinity e altri servizi streaming), Ancora auguri per la tua morte (Prime Video) e, ovviamente, il pluricitato Tutto accadde un venerdì (o, se siete dei giovinastri senza cuore, Quel pazzo venerdì; li trovate entrambi su Disney +). ENJOY!

martedì 19 gennaio 2021

The Swerve (2018)

E guardatelo un film allegro, ogni tanto. No, figuriamoci. Meglio puntare su The Swerve, diretto e sceneggiato nel 2018 dal regista Dean Kapsalis.


Trama: vinta dall'insonnia e dalla presenza di un topolino in casa, l'insegnante Holly viene risucchiata in una spirale di incertezza e depressione sempre più profonda...


Siete felici? Lasciate perdere The Swerve. Siete depressi? CAZZO, lasciate perdere The Swerve. Personalmente, ci ho messo due giorni per finire di guardarlo e non per mancanza di tempo, stavolta. La sera in cui ho cominciato la visione, a un certo punto, semplicemente, ho spento la TV, vinta da un'angoscia crescente, e il mattino dopo ho fatto la sciocchezza di finirlo, col risultato di andare al lavoro praticamente in lacrime e rimanere soffocata da una cappa di tristezza durata fino al giorno successivo. Anche ora che scrivo queste righe, se ripenso a The Swerve mi sento male. Il film di Dean Kapsalis non è proprio un horror, però racconta dell'orrore quotidiano, quello che si alimenta dell'indifferenza e dell'egoismo ed esplode in faccia alle persone quando è troppo tardi per porre rimedio. In questo caso, vittima dell'orrore è Holly. Una donna che, in quanto dotata di un lavoro, un marito, due figli e una casa dovrebbe aver raggiunto tutti gli obiettivi della sua vita agli occhi degli altri; certo, magari servirebbe un po' di pecunia in più, lavori prestigiosi, chissà, ma non stiamo a spaccare il capello. Paragonata alla sorella costantemente in rehab, da trattare coi guanti e assecondare in ogni capriccio, Holly non deve lamentarsi e di conseguenza ogni suo problema viene trattato con superficialità quando va bene o con irritazione quando va male, poiché il dovere di una donna felice quale è Holly, di base, è solo uno: non rompere le scatole al prossimo, soprattutto al marito e ai figli per i quali ormai la donna è la versione umana di un Bimby o un Roomba, e più non dimandate. Se avete visto Swallow, il concetto di The Swerve è assai simile. La differenza è che la protagonista di Swallow è molto giovane e la gravità del suo disturbo, assieme a un trauma legato all'infanzia, la portano ad aprire gli occhi e liberarsi da un destino infingardo prima di soccombere, mentre l'orrore che inghiotte Holly è più sottile e "normale", talmente subdolo (e magari soffocato da innumerevoli "passerà", "cosa vuoi che sia", "domani andrà meglio") che quando arriva a spezzare la donna è ormai troppo tardi per rimediare e ribellarsi.   


Povera Azura Skye. Io me la ricordo ancora, con le punte delle ciocche rosa, mentre nei panni di Cassie Newton racconta a Buffy di come presto sarebbe morta, rimpiangendo tutte le cose che non avrebbe mai potuto fare. Lo so, sono pazza, ma il cortocircuito mentale di vedere quella ragazzina dolce e speranzosa diventare una donna sciupata, con gli occhi vividi di pianto e disperazione oppure persi nel vuoto di una depressione mostruosa... beh, a volte sarebbe davvero meglio morire, e pazienza per i rimpianti. L'angoscia crescente di Holly viene portata su schermo da quest'attrice praticamente sconosciuta, che ad ogni errore, ogni sconfitta, fa venire voglia di entrare nella pellicola ed abbracciarla, mentre l'esordiente (!) Dean Kapsalis le costruisce attorno un mondo irreale nella sua tristissima realtà, fatto di ambienti familiari che paiono volere chiuderlesi addosso, luoghi trasfigurati dalle ombre e dalla mancanza di sonno, lunghi piani sequenza di assoluto disinteresse familiare, dentro i quali la Skye o non compare o spunta giusto ai margini, spettatrice di una vita dalla quale, chissà perché, il suo personaggio è stato escluso, nemmeno fosse parte del mobilio. The Swerve è un film crudele, che dilania lo spettatore prendendolo alla sprovvista tra una scena di amara ironia nera e l'altra, trascinandolo in un incubo cupo senza nemmeno dargli il tempo di rendersene conto... di nuovo, finché non è troppo tardi. Io, che non sono cattiva come Kapsalis, invece vi avviso: scegliete con accortezza quale prezzo volete pagare per vedere un film molto bello e cercate soprattutto di capire come siete messi a livello di umore, o rischiate di passare delle brutte giornate dopo la visione.    

Dean Kapsalis è il regista e sceneggiatore della pellicola. Americano, è al suo primo lungometraggio. 

Azura Skye interpreta Holly. Americana, ha partecipato a film come Red Dragon, Chiamata senza risposta e a serie quali Buffy l'ammazzavampiri, CSI: Miami, Doctor House, Bones, Ghost Whisperer, Cold Case, American Horror Story e Streghe; come doppiatrice ha lavorato in American Dad!. Ha 39 anni.


Se The Swerve vi fosse piaciuto recuperate il già citato Swallow. ENJOY!

venerdì 15 gennaio 2021

Possessor (2020)

Vergognosamente, pur essendo grande fan di Cronenberg padre ho sempre snobbato il figliolo Brandon, che quest'anno ha diretto e sceneggiato Possessor.


Trama: la killer Vos uccide le persone trasferendo la propria coscienza all'interno di ospiti che vengono costretti a suicidarsi una volta svolto il lavoro. Quando la sua ultima vittima deciderà di imporre la propria volontà, per Vos cominceranno i problemi.

Faccio outing: non ho mai visto Antiviral quindi sì, vergogna su di me. Prometto che lo aggiungerò all'ormai infinita lista di recuperi cinematografici, nel frattempo, siccome ne stanno parlando tutti benissimo, ho deciso però di recuperare Possessor. Ora, forse sono stata condizionata dalla consapevolezza di stare guardando un film del figlio di Cronenberg ma l'eredità paterna si vede eccome, sia nei temi trattati che nella realizzazione. Attento agli stravolgimenti della carne e della mente, Brandon crea un incubo fatto di esseri umani depersonalizzati, avente come protagonista una killer dall'identità incerta, soprattutto per lei: chi è davvero la leggendaria Tasya Vos, costretta a recuperare pezzi di se stessa dopo ogni lavoro portato a buon fine? Quanto di lei è originale e vero e quanto, invece, è ormai "avvelenato" dalle personalità di miriadi di ospiti indossati e gettati via come stracci? In un mondo in cui la società viene governata da ricchi pronti a violare la mente di ignare persone per riuscire ad ottenere ciò che vogliono, non esistono punti fermi come la famiglia o le amicizie e neppure il passato, perché davanti a noi potrebbe esserci un parassita mentale e gli oggetti che richiamano ricordi cominciano a perdere di ogni significato, se mai lo hanno avuto, il che è specchio di una società alienante come l'assurdo lavoro di Colin, costretto a spiare dentro le case delle persone per scoprire che tipo di tende utilizzano. 


L'unico modo, forse, di percepire una parvenza di vita (o di vendicarsi per non averne una) è distruggere, letteralmente, i corpi altrui, accanendosi su di essi con una violenza senza limiti che Brandon Cronenberg non lesina all'interno di sequenze tremendamente gore, alle quali si affiancano altre scene di assoluta perfezione formale; inquadrature simmetriche, colori vividi e irreali, assai simili a quelli che utilizzava Argento nei suoi vecchi film, ambienti eleganti, la scelta di utilizzare quanto più possibile effetti speciali artigianali invece che ricorrere alla CGI, rendono Brandon una versione più patinata del padre ma non priva di fascino e personalità, tanto che diventa dura parlare di copia o di "nepotismo", anche se tra i collegamenti all'opera di papà c'è anche la presenza della brava Jennifer Jason Leigh. Il film, comunque, a livello attoriale posa interamente sulle spalle di Andrea Riseborough, presenza inquietante e fantasmatica che fa sentire il suo influsso anche nel momento in cui, di fatto, il protagonista del film diventa Christopher Abbott, creando un effetto ancora più straniante per lo spettatore. Da amante di David Cronenberg e dei suoi graffianti esordi, l'unica cosa che rimprovero al figliolo è l'aria da primo della classe perfettino che trasuda da ogni fotogramma, laddove Cronenberg senior non andava tanto per il sottile, ma detto questo Possessor è assolutamente promosso e non vedo l'ora di recuperare anche Antiviral


Di Andrea Riseborough (Tasya Vos), Jennifer Jason Leigh (Girder), Tuppence Middleton (Ava Parse) e Sean Bean (John Parse) ho già parlato ai rispettivi link.

Brandon Cronenberg è il regista e sceneggiatore della pellicola. Canadese, figlio di David Cronenberg, ha diretto film come Antiviral. Anche produttore e attore, ha 40 anni.


Christopher Abbott interpreta Colin Tate. Americano, ha partecipato a film come 1981: Indagine a New York, It Comes at Night, First Man - Il primo uomo e Vox Lux. Anche produttore, ha 34 anni e due film in uscita. 





martedì 12 gennaio 2021

Shadow in the Cloud (2020)

La prima, interessante sorpresa del 2021, scoperta ovviamente grazie a Lucia (e anche un po' grazie a Letterboxd, in verità) è stata Shadow in the Cloud, diretto e co-sceneggiato nel 2020 dalla regista Roseanne Liang


Trama: durante la seconda guerra mondiale, una pilota si imbarca su un aereo con un pacco misterioso e si ritrova bloccata in una torretta, presa tra la misoginia dell'equipaggio e i pericoli tangibili rappresentati dagli aerei giapponesi e da un gremlin.


Era dai tempi del secondo Kick-Ass che avevo perso un po' le tracce di Chloe Moretz, ex bambina prodigio di grandissime speranze protagonista in molti film interessanti, ridotta poi al rango di comparsa o di titolare di filmetti tra il dimenticabile e il brutto. Per fortuna è arrivato questo Shadow in the Cloud a dimostrarmi che la bravura della bella Chloe, nel frattempo diventata ventitreenne, non si è esaurita; il film di Roseanne Liang è sì un action ma l'azione, per buona parte del tempo, è interamente concentrata all'interno di una torretta nella pancia di un aereo, dove la macchina da presa indugia unicamente sul volto e sul corpo della Moretz e talvolta su quello che il personaggio di Maude è costretta a vedere dalla sua prigione, nella fattispecie il vuoto da 8000 piedi d'altezza, aerei giapponesi pronti a distruggere il fragile guscio di vetro che la separa da morte certa e, se questo non bastasse ancora, persino un gremlin, l'elemento "horror" di questo film che sarebbe al cardiopalma già di per sé così. Una volta chiusa la parentesi claustrofobica la pellicola non si fa meno ansiogena, anche se diventa sicuramente più cazzuta ed ancora più inverosimile ma sempre, quasi per tutta la sua interezza, affidata alle spalle di un'attrice che riesce a coniugare doti recitative evidenti a una fisicata di tutto rispetto che la rende un'eroina action assolutamente verosimile, all'interno di un film che non lesina colpi di scena fino alla fine e riesce a dare un colpo al cerchio e un colpo alla botte.


Il colpo al cerchio è sicuramente l'aver calcioruotato Max Landis fuori dal progetto a causa delle accuse di vari abusi sessuali. Il nome di Landis Jr. è rimasto nei credits a causa delle regole della Writers Guild of America ma credo che gli unici suoi contributi rimasti siano stati il gremlin e l'areo, perché Maude Garrett è l'emblema della donna forte e femminile, capace di mettere al loro posto non uno ma una mezza dozzina di uomini con due parole ben messe, consapevole della sua intelligenza e delle sue capacità prima ancora di trasformarsi nella versione più cazzuta dell'Atomica Bionda, il che ci porta al colpo alla botte. Sfido infatti qualunque broflake reazionario pronto ad unirsi al sacco del Congresso Americano a non esaltarsi davanti alla visione di una Moretz incazzata nera capace di rendere plausibili scene talmente surreali da dare il cinque ad uno Sharknado qualsiasi, coadiuvata da una regia e da un montaggio incredibilmente dinamici e da una colonna sonora perfetta, tutti elementi che, uniti assieme, fanno tranquillamente sorvolare su evidenti limiti di budget ed effetti speciali a tratti inverosimili. Vi dico solo che, arrivati alla fine di Shadow in the Cloud, vi verrà voglia di riguardarlo da capo e di consigliarlo a chiunque perché è perfetto per una serata ad alto tasso di adrenalina e, nonostante ciò, non è né fatto a tirar via, né popolato da attori cani, né tanto meno stupido, come spesso succede in questi casi.


Di Chloë Grace Moretz, che interpreta Maude Garrett, ho già parlato QUI.

Roseanne Liang è la regista e co-sceneggiatrice della pellicola. Neozelandese, ha diretto un altro lungometraggio, My Wedding and Other Secrets. E' anche produttrice e attrice.




venerdì 8 gennaio 2021

A Natale puoi: Parenti serpenti (1992) e Una poltrona per due (1983)

Diversamente dal solito, oggi ho deciso di riunire un paio di film visti durante le vacanze di Natale che, essendo passato un po' di tempo o avendoli visti con un occhio ai regali (indovinate un po' di quale dei due film sto parlando!), non sarei riuscita a trattare con la solita attenzione. Siete pronti a rituffarvi nell'atmosfera Natalizia? ENJOY!


Parenti serpenti (1992) di Mario Monicelli

Vergogna su di me. Finché non l'hanno passato su La7 il 23 dicembre scorso ammetto che non avevo mai visto Parenti serpenti. Ci siamo messi lì con Mirco, senza troppo entusiasmo, e questa corrosiva satira natalizia ci ha conquistati nel giro di pochi minuti. Ho trovato assolutamente geniale il repentino cambio di registro tra la prima parte, malinconica e nostalgica, il fulcro di tutte le esperienze Natalizie vissute da bambini con i nonni e i parenti stretti, tra neve e tradizioni, messe e banchetti, e la seconda, altrettanto (tristemente e purtroppo) realistica. Quell'amore grande, presente in tutte le migliori famiglie quando i membri riescono a vedersi giusto una volta all'anno, che diventa rapidamente un odio fomentato durante tutto il resto del tempo e che tira fuori il peggio di ogni essere umano. Certo, il finale è grottesco e surreale e tutto quello che volete ma quei litigi piccoli e cattivi, la fiducia mal riposta di chi è convinto di essere amato e invece è diventato solo un peso, rischiano di fare malissimo a tutti quelli che, al posto dei volti dei bravissimi e divertentissimi attori, riescono a vedere una faccia familiare. Forse non è il film migliore da vedere a Natale ma forse anche sì. A prescindere, va visto, non continuate a vivere nell'ignoranza come me!

Una poltrona per due (1983) di John Landis.

Questo è IL film della vigilia praticamente per chiunque conosca. Io non lo guardavo, credo, dagli anni '90 e se dovessi prrrroprio dire la verità non è mai stato uno dei miei preferiti dell'adorato Eddie Murphy: all'epoca amavo Beverly Hills Cop, Il principe cerca moglie, persino Il bambino d'oro, quanto al mio amore Dan Aykroyd c'erano solo i Ghostbusters e Ho sposato un'aliena. Tra l'altro, tutta la questione legata alla lotta di classe non faceva granché presa sulla bambina che ero e una "principessa" prostituta mi lasciava spaesata anzichéno. Visto oggi ho provato un'enorme nostalgia e la reiterata consapevolezza che a Mirco i film anni '80 non piacciono nemmeno per sbaglio, perché si è vagamente interessato solo quando hanno cominciato a parlare di borsa, ma per il resto nessun entusiasmo. Io invece ho quasi pianto alla vista di un Aykroyd giovane e rampante, dell'adorato Don Ameche e persino di un giovanissimo James Belushi e mi sono parecchio divertita, pur non avendogli prestato attenzione come avrei dovuto. Chissà, magari l'anno prossimo ci faccio un post più lungo e serio. 

martedì 5 gennaio 2021

Zio Frank (2020)

Consigliata da Mr. Ink, sempre nelle benedette ferie natalizie sono riuscita a guardare Zio Frank (Uncle Frank), scritto e diretto del 2020 dal regista Alan Ball e disponibile su Amazon Prime Video.


Trama: dopo la morte del padre, Frank torna nella sua città natale assieme alla nipote Beth e al compagno Wally, per affrontare i traumi del passato...


Madonna, Alan Ball. Che belli i tempi in cui potevo permettermi di guardare il suo Six Feet Under senza problemi di tempo od orario, perdendomi nelle sue elucubrazioni sulla morte, ad amare e odiare personaggi sfaccettati come mai ne avevo visti in TV, tranne forse ne I Soprano prima di loro. Quando ho letto che Ball era il regista e sceneggiatore di Zio Frank, ho deciso di dare retta al consiglio di Mr. Ink, con sommo scorno del Bolluomo che si è palesemente rotto le scatole ma non ha avuto il coraggio di dirlo alla sua fidanzata in lacrime e presa dai problemi esistenziali di Frank, professore universitario newyorkese considerato lo "strano" della famiglia. D'altronde, in South Carolina, negli anni '70, già conoscere la letteratura americana o non mostrare interesse per il football sarà stato sicuramente indice di stranezza, e non stupisce che la giovane Beth sia incuriosita e affascinata da questo zio che fa il professore a New York e ha tagliato i ponti con quasi tutti. Arrivata a New York per studiare, Beth scopre che lo zio non è solo weird, ma anche queer nell'accezione più gaia del termine, proprio quando il patriarca della famiglia muore e c'è da andare ad uno scomodo funerale dove, sicuramente, il compagno di Frank non sarà ben accetto in quanto uomo e persino mediorientale. La morte dell'odioso "papà Mac" sarà l'occasione per un viaggio in macchina, durante il quale Beth arriverà a capire che lo zio Frank non è "figo", bensì un uomo molto fragile con un trauma orribile alle spalle, vittima dei fantasmi del passato e terrorizzato dagli spettri del presente al punto che il rapporto con Walid (o Wally) diventa ogni giorno una lotta per potersi concretizzare. Anzi, è la vita di Frank ad essere una lotta, schiacciata da un senso di colpa e una vergogna tenute a bada soltanto dalla distanza da una terra fatta di ignorante timore di Dio e padri padroni che meriterebbero non un funerale ma una bella pisciata collettiva sulle loro tombe.


Ormai sono passati molti anni da quando guardavo Six Feet Under, ma davanti a Zio Frank mi è parso per un momento di reimmergermi nelle stesse atmosfere che caratterizzavano le vicende della famiglia Fisher: la morte come catalizzatore di eventi positivi o negativi, una costante nella vita anche dei più giovani, un umorismo talvolta leggero e altre volte quasi grottesco, l'impossibilità di avere sentimenti univoci nei confronti dei protagonisti, soprattutto. Salvo Beth e Wally, entrambi incredibilmente deliziosi, gli altri personaggi non sono così "simpatici", Frank in primis, che sfoggia gli stessi "lampi" di virilità testarda ed ignorante che mi rendeva terribilmente odioso il povero David all'inizio della prima stagione di Six Feet Under, quello stesso egoismo che minaccia di distruggere tutto e di non renderlo migliore di chi ha speso l'esistenza a fargli del male. Certo, questi sono anche i  motivi per i quali ho trovato Uncle Frank leggermente frettoloso e conseguentemente meno incisivo di quanto avrei voluto, visto che uno stile come quello di Ball merita tempi più dilatati, ma ciò non toglie che gli attori siano tutti incredibilmente bravi (la Lillis è ormai una garanzia ma stavolta la palma va alla famiglia sgangherata di Frank) e che la regia di Ball contribuisca ad immergere lo spettatore in un'atmosfera di falsa sicurezza in cui i ricordi più dolci si tramutano in un istante in incubi ricorrenti, alla faccia della bellezza di tutti gli elementi naturali che paiono caratterizzare il South Carolina. Se vi piace il genere, consiglierei senza dubbio il recupero.


Di Paul Bettany (Frank), Sophia Lillis (Beth), Steve Zahn (Mike), Judy Greer (Kitty), Margo Martindale (Mammaw), Stephen Root (Papà Mac) e Lois Smith (Zia Butch) ho già parlato ai rispettivi link.

Alan Ball è il regista e sceneggiatore della pellicola. Americano, ha diretto film come Niente velo per Jasira e serie quali Six Feet Under. Anche produttore e attore, ha 63 anni.


Peter Macdissi
interpreta Wally. Libanese, ha partecipato a film come Three Kings, Niente velo per Jasira e a serie quali X-Files, Six Feet Under e 24. Anche produttore, ha 46 anni.




domenica 3 gennaio 2021

Soul (2020)

Buon anno a tutti, innanzitutto, sperando che il 2021 porti solo cose belle. Il 2020 ne ha portata sicuramente una, almeno in campo cinematografico, ed è Soul, diretto e co-sceneggiato dai registi Pete Docter e Kemp Powers. Vi avviso che questo sarà un post molto personale, quindi avete tutto il diritto di fermarvi qui, dove dico che Soul è splendido e merita di essere visto, per poi tornare alle vostre faccende.


Trama: Joe è un insegnante di musica il cui unico sogno è quello di sfondare nel mondo del jazz. Proprio quando sta per arrivare, inaspettata, la sua occasione, Joe finisce in coma e cerca in tutti i modi di tornare nel suo corpo...


In un anno brutto come questo, Soul può distruggere una persona o può salvarla. In ogni caso, di sicuro è un film che fa riflettere. L'anno prossimo, ahimé, compirò 40 anni. Un tempo era già una bella età, anzi, se rileggo oggi i libri scritti da Stephen King, a 40 anni si era già considerati decrepiti; adesso, certo, non è proprio così ma più o meno vuol dire che sono già arrivata a metà della mia vita e che la parte migliore ce l'ho ormai alle spalle. Non mi è stato quindi molto difficile identificarmi con Joe, uomo di mezza età con una grande passione per la musica il quale, brutto da dire, nella vita non ha mai combinato un belino: ringrazio dal profondo Pete Docter e soci per avermi dato la prima mazzata più o meno a venti minuti dall'inizio del film, quando Joe mostra all'animella 22 la sua esistenza noiosa e monotona, priva di eventi particolarmente significativi, successi o sogni che diventano realtà. Una vita simile, giustamente, è impossibile che offra a 22, anima che a cominciare un'esistenza sulla Terra non ci pensa nemmeno, un motivo per cambiare idea. Certo, anche il Seminario dell'Io non è il posto più esaltante dell'universo ma almeno è un posto conosciuto e sicuro, mentre la Terra è piena di incognite e, se dev'essere altrettanto noiosa, tanto vale rimanere "non nati", a far disperare anime importanti che hanno tagliato ogni traguardo possibile e immaginabile e non si capacitano del fatto che 22 sia così "banale". Ah, la banalità. Probabilmente prima che spuntasse questa piaga che sono i social, molte meno persone avevano una percezione chiara di essere banali, medie se non mediocri, prive di una "scintilla" capace di farle spiccare in mezzo a una marea di persone tutte uguali e tutte omologate, ma adesso tutti DEVONO spiccare in qualcosa e i confronti sono sempre meno costruttivi, sempre più legati all'imperativo di venire "guardati" ed "ammirati", possibilmente invidiati. C'è gente che quest'anno, durante i vari lockdown, ha guardato in se stessa e ha riflettuto sulla propria esistenza in senso costruttivo e positivo, io purtroppo non ho avuto nemmeno quel lusso, anzi, ho continuato la mia banale vita di tutti i giorni che, ovviamente, è andata peggiorando: lutti, depressione, malanni assortiti, un senso di paura e precarietà costante, una perenne mancanza di tempo per fermarmi, riflettere o rilassarmi, pianti a giorni alterni e un odio crescente verso tutto e tutti, in primis verso me stessa. 


Non c'è da stupirsi se, per più di metà film, guardando Soul, ho pensato: porca puttana, sono come Joe. Prendete il miraggio del posto fisso. Io per ora ce l'ho, lavoro dal 2007 sempre nello stesso posto, ma mi piace quello che faccio? Nemmeno per sogno, lo faccio perché devo, così come Joe insegna musica senza capire davvero perché, senza metterci anima ma solo un costante senso di rimpianto e frustrazione, che si accresce il giorno in cui entra in coma proprio quando avrebbe la sua occasione di diventare un musicista vero. Le occasioni perdute, che ci impediscono di guardare al presente e al futuro perché è molto più facile piangere sulla sfiga che abbiamo sempre avuto; eppure, se ci si mette nei panni di 22 invece, magari si scopre che la sfiga non è tale ma è facilmente sostituibile da una nostra fondamentale mancanza di coraggio. Un esempio "recente"? Non ho fatto l'artistico non per sfiga, ma perché (ah, anche lì, le "voci" che ci costringono all'immobilità e al disprezzo verso noi stessi) mi dicevano che non mi avrebbe portata a nulla, anche se amavo disegnare. Grazie a questo cambio di rotta ho scoperto di amare le lingue, certo, ma l'amore per il disegno mi è rimasto e quest'anno è crollato tutto quando, dopo un paio di corsi on line, ho capito di essere mediocre ed incapace, cosa che mi ha resa ancora più depressa di quanto già non fossi. Posso solo ringraziare Mirco, un paio di amici online che mi hanno incoraggiata con dei regali a tema, il maestro del corso e sì, anche Soul, se in questi giorni di festa ho cominciato a guardare a questa incapacità (e alle opere ben più belle di tutti i miei compagni di corso e di un sacco di amici su Facebook) e a tutte le cose che mi fanno male da anni con un po' di coraggio, cercando di accettare quel che è stato e quel che sono e provando a migliorarmi, anche di poco, senza arrendermi e, soprattutto, cercando di godere di quel che ho.


Questo per dire che Soul ci insegna che la vita, con tutte le sue difficoltà spesso anche terribili, può essere bella. E che banalità, direte voi, e avete ragione. Soul ci insegna che la vita è bella anche nella sua normalità, ma SOLO se noi vogliamo che lo sia, solo se riusciamo ad armarci del coraggio di accettare quello che abbiamo senza rinunciare a migliorarlo e migliorarci ma soprattutto senza abbatterci se vediamo che proprio non si riesce. Joe, concentrandosi sull'obiettivo di sviluppare la sua "scintilla", ha di fatto smesso di vivere: "Poor Joe", come avrebbe detto con disprezzo mammà Soprano, non vede al di là del suo naso, non vede gli studenti che gli chiedono aiuto, non si interessa di amici e conoscenti, non percepisce i problemi altrui né la bellezza di quello che lo circonda e io, purtroppo, mi sono resa conto di essere uguale a lui. Uguale a lui e anche un po' uguale a 22, che per paura e per la pesantezza dei giudizi altrui, rinuncerebbe alla possibilità di qualcosa di nuovo, magari spaventoso ma magari anche positivo, chissà. E' riunendo queste due anime, "jazzando" sulle ali dell'improvvisazione e di punti di vista differenti, che forse è possibile davvero dare un senso all'esistenza e imparare a vivere, non solo a sopravvivere come sto (stiamo?) facendo ora. E' lo schiaffo finale di Soul a far aprire gli occhi definitivamente ed è uno schiaffo che, per qualche minuto prima dell'inevitabile happy end, mi ha distrutta dalle lacrime: Joe alla fine capisce, purtroppo lo fa troppo tardi, proprio quando rinuncia alla propria vita per salvare 22 dalla tristezza oscura che l'ha annullata. E' lì, giuro, che ho pregato irrazionalmente che il cartone non finisse con la morte di Joe e dove l'unica cosa che ho pensato è stata: e sua madre? E le vecchiette? E i suoi amici, i suoi studenti, così orgogliosi di lui anche quando avevano davanti il "normale" Joe? E la sua vita banale? Credeteci o no, sto scrivendo il post (sconclusionato, me ne rendo conto) con difficoltà, perché ho le lacrime agli occhi e il magone a ripensare alla vergogna e alla paura provata guardando Soul, e anche al piccolo senso di speranza e voglia di cambiare che mi ha lasciato. Sicuramente è stato il film giusto al momento giusto e, come tutte le opere, è impossibile che scateni le medesime sensazioni in tutti coloro che ne fruiranno, ma io mi sento (dopo averli maledetti spesso nel corso del film) di ringraziare Docter e soci per questo piccolo gioiellino, che mi fa riflettere da giorni.  


Del co-regista e co-sceneggiatore Pete Docter ho già parlato QUI. Jamie Foxx (voce originale di Joe), Alice Braga (Jerry), Phylicia Rashad (Libba) e Angela Bassett (Dorothea) li trovate invece ai rispettivi link. 

Kemp Powers è il co-regista e co-sceneggiatore della pellicola, al suo primo lavoro dietro la macchina da presa. Americano, è anche attore e produttore.


Tina Fey
è la voce originale di 22. Attrice comica del Saturday Night Live, ha partecipato a film come Anchorman 2 - Fotti la notizia e a serie quali 30 Rock; come doppiatrice ha lavorato in Ponyo sulla scogliera, Megamind e serie come Spongebob Squarepants, Phineas e Ferb, I Simpson. Americana, anche sceneggiatrice e produttrice, ha 50 anni.


Graham Norton
, presentatore ufficiale dell'Eurovision per la BBC, presta la voce a Spartivento. Se Soul vi fosse piaciuto recuperate Il libro della vita, Inside Out, La sposa cadavere, Coco... e, ovviamente, cercate su Youtube qualunque cosa riguardi La linea di Osvaldo Cavandoli, che mi è tornata in mente ogni volta che compariva Terry! ENJOY!