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domenica 24 gennaio 2021

Pieces of a Woman (2020)

Spinta dalle molte critiche positive, ho recuperato uno degli ultimi film usciti su Netflix, Pieces of a Woman, diretto nel 2020 dal regista Kornél Mundruczó.


Trama: dopo un parto casalingo finito in tragedia, Martha si isola sempre di più dal suo compagno e dalla sua famiglia.


Pieces of a Woman
rischia davvero di mandare in pezzi più di uno spettatore. Non sto a dirvi quanto mi abbia fatto passare la voglia di avere figli dopo la prima, mortale mezz'ora di travaglio in presa diretta con tutte le complicazioni del caso né quanto sarei partita a prendere a schiaffi entrambi i protagonisti in quella stessa occasione, perché insomma, se le cose cominciano a "puzzare" bisogna tapparsi il naso e correre in ospedale senza stare tanto a fare "gli alternativi", ma queste sono le considerazioni superficiali di una brutta e cinica persona. Parlando un po' più seriamente, Pieces of a Woman è uno splendido, dolorosissimo racconto che tocca molteplici emozioni umane, non tutte positive, e nasce dall'esperienza personale della sceneggiatrice Kata Wéber, che dopo aver perso un figlio ha deciso di allontanarsi dal marito, proprio il regista Kornél Mundruczó, una scelta che molti potrebbero criticare ma che, davanti a quello che viene mostrato nel film, è probabilmente la più condivisibile. Da donna, ci ho provato a mettermi nei panni di Sean, uomo alle prese con una delle tragedie più grandi della sua vita, ma ammetto di aver fatto fatica ad empatizzare con lui proprio perché non riuscivo a fare a meno di perdermi nel dolore di Martha. Non ho mai sperimentato la maternità ma l'idea di sentire crescere una creatura in grembo per nove mesi, con tutte le gioie e i dolori della gravidanza, solo per poi stringere tra le braccia un corpicino freddo la trovo agghiacciante e senza nulla togliere al dramma vissuto dai futuri padri, penso proprio che sia la madre a subire maggiormente il contraccolpo fisico ed emotivo di un orrore simile; immagino quanto ci si debba sentire vuote, inadeguate, private di un pezzo fondamentale del proprio sé, assillate da amici e famiglia che, spesso anche a "fin di bene", non smettono di ricordarci la perdita mentre ci invitano a riprenderci e trovare la forza di andare avanti (o, in questo caso, a cercare una tardiva giustizia), costrette a farci forza anche per mariti e compagni. Non si può criticare Martha per la volontà ferma di scegliere il distacco, anche dalla bambina, non la si può criticare per l'incapacità di "consolare" un compagno che si strugge nemmeno fosse Mario Merola (al "I miss her so much!!" ho pensato solo "TU! Che l'hai vista 5 minuti! Che ca**o deve dire lei che se l'è portata dentro 9 mesi??" - Sì, sono emotiva. Sì, già non sopporto LaBeouf, quindi figuriamoci, soprattutto se poi lo fai rientrare nel cliché dell'uomo che deve sfogare il dolore con l'uccello), non la si può criticare per la decisione di prendersi del tempo per capire e, forse, guarire.


Pieces of a Woman
ci getta di peso nell'ordalia di una donna che non può fare altro che aspettare che il tempo passi, così da imparare a convivere col dolore per non smettere di vivere o di sperare in un futuro che non sia solo morte e disperazione ma anche speranza e vita. Lo fa attraverso la riflessione, sì, ma anche il taglio netto col passato, ché esistono cose per le quali vale la pena lottare ed altre che, invece, per quanto possa fare male, devono necessariamente essere lasciate indietro, mentre per altre forse è necessario chiudere gli occhi e perdonare, forse crescere, maturare. E' bellissimo, in Pieces of a Woman, vedere le vicende accompagnate da un lento disgelo naturale che non necessariamente coincide con quello del cuore; è bellissimo il desiderio di vita di Martha, incarnato nei semi di mela messi a germogliare, quasi un modo per venire a patti con una natura matrigna ed incomprensibile; sono bellissimi i dialoghi muti tra lei e la madre, quello sguardo sul finale che prelude a un nuovo inizio ma anche ad una nuova fine, perché il ciclo della vita è implacabile in questo. E' bellissima, ed è bravissima, Vanessa Kirby, che da bionda bambolotta action in Hobbs & Shaw ci viene restituita dimessa, "normale" ed incredibilmente umana, capace di spezzare il cuore a un sasso non solo nei momenti di tristezza lacrimevole ma soprattutto in quelli dove il suo sguardo comunica un vuoto tremendo e un dolore incommensurabile. Pieces of a Woman non è un film facile ma se avrete la pazienza e il cuore di affrontarlo potrebbe arricchirvi oltre che commuovervi, farvi riflettere su situazioni in cui si spera di non doversi mai trovare ma che purtroppo possono capitare, quindi vi consiglio di guardarlo anche perché credo proprio che qui ci sia materiale da Oscar.


Di Vanessa Kirby (Martha), Shia LaBeouf (Sean), Ellen Burstyn (Elizabeth), Benny Safdie (Chris), Sarah Snook (Suzanne) e Molly Parker (Eva) ho già parlato ai rispettivi link. 

Kornél Mundruczó è il regista della pellicola. Ungherese, ha diretto film come Delta, White God - Sinfonia per Hagen e Una luna chiamata Europa. Anche attore, sceneggiatore e produttore, ha 45 anni.



martedì 8 marzo 2016

Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo (2008)

Per il momento siamo arrivati alla fine, la disamina su Indiana Jones si conclude oggi con Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo (Indiana Jones and the Kingdom of the Crystal Skull), diretto nel 2008 dal regista Steven Spielberg.


Trama: sopravvissuto per miracolo ad un'imboscata dei servizi segreti russi, Indiana Jones si ritrova a dover aiutare il giovane Mutt, legato ad un vecchio amico dell'archeologo, scomparso durante la ricerca di un fantomatico Teschio di cristallo...



Andare al cinema nel 2008 per assistere al ritorno, dopo 20 anni, del meraviglioso ed iconico Indiana Jones era stato un trionfo di emozioni e, allo stesso tempo, uno shock. Passano gli anni ma Indy è sempre lo stesso, piacione, sbruffone e incredibilmente avventuroso, tuttavia è cambiato il cinema, molte cose sono già state mostrate, all'innocenza si è sostituita l'esperienza e conseguentemente gli autori devono cercare di stupire le nuove generazioni "coccolando" allo stesso tempo quelle vecchie. Nel caso di Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo l'operazione nostalgia/rinnovamento è riuscita per metà: le gag interamente giocate sulla "vecchiaia" di Indy, sul rapporto tra il Professor Jones e una nuova generazione di avventurieri scapestrati, la consapevolezza di essere diventato un "matusa" nonostante l'immutata figaggine sono l'elemento vincente della pellicola e fa quasi effetto, a chi è cresciuto con la saga, vedere il protagonista nelle stesse condizioni in cui si era ritrovato Sean Connery nel film precedente. Purtroppo, non è altrettanto valida la trama imbastita da David Koepp e George Lucas, nonostante l'abbia trovata meno sconcertante di quanto ricordassi. Il "momento frigorifero", l'equivalente per molti detrattori del "salto dello squalo" di Happy Days, non è più esagerato del tuffo con gommone dall'aeroplano visto in Indiana Jones e il tempio maledetto, piuttosto ho trovato fastidioso il pesante elemento alieno che fa da perno all'intera vicenda, soprattutto perché, come sempre, vengono mostrati degli extraterrestri molto attivi nelle epoche passate ma incapaci di venire a recuperare i loro simili rimasti bloccati sulla Terra, alieni che un tempo portavano conoscenza e negli anni '50 solo un incredibile scazzo cosmico. Possibile non ci fosse nessun altro mito da sviscerare nell'epoca in cui è ambientata la pellicola? Mah.


Per il resto, Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo riconferma l'alto standard qualitativo della saga, almeno dal punto di vista tecnico, con Spielberg che si diverte come un matto a seguire con la macchina da presa i protagonisti nelle loro rocambolesche avventure, tra rapide mozzafiato, templi zeppi di trappole, inseguimenti estenuanti e tutti quegli elementi che rendevano i vecchi Indiana Jones dei veri gioiellini. Per quel che riguarda gli attori, Harrison Ford si diverte nei panni del protagonista e si vede, maneggia la frusta e calza il cappello con la stessa guascona disinvoltura di parecchi anni prima e il suo fascino è rimasto intatto, mentre Karen Allen è sempre adorabile e si riconferma LA Indiana Girl per eccellenza, l'unica capace di tenere testa a Ford. Accanto alla Indy Girl stavolta è stata inserita anche una nemesi al femminile impersonata nientemeno che da Cate Blanchett, a dire il vero un po' sprecata all'interno di un film d'azione come questo, e un Shia LaBeouf ancora poco famoso ma già dotato di una discreta personalità, perfetto contraltare "CCioFFane" alla "vecchiaia" (e chiamiamola così...) di Harrison Ford. Poco memorabile, invece, John Hurt nei panni di un vecchio professore amico di Indy e Karen, costretto per metà film a recitare il ruolo del demente armato di teschio di cristallo ed impegnato in improbabili conversazioni telepatiche con lo stesso. Ma forse il mio giudizio impietoso su quest'ultimo punto è dovuto alla mia ormai riconosciuta avversione verso l'alieno utilizzato come mezzo improprio per ravvivare trame che non si sa come portare avanti: ho avuto da ridire con l'amato Stephen King quindi perché non con Spielberg e Lucas, ai quali voglio bene (soprattutto a Spielberg) ma non ai livelli del Re? Appunto. Ho un po' di paura all'idea di cosa potrebbe riservare il quinto Indiana Jones, di cui ancora oggi si parla con insistenza, e con questo pensiero inquieto vi lascio... alla prossima saga!


Del regista Steven Spielberg ho già parlato QUIHarrison Ford (Indiana Jones), Cate Blanchett (Irina Spalko), Karen Allen (Marion Ravenwood), Shia Labeouf (Mutt Williams), Ray Winstone ("Mac" George Michale), John Hurt (Professor Oxley), Jim Broadbent (Rettore Charles Stanforth) e Andrew Divoff (uno dei soldati russi) li trovate invece ai relativi link.


Tra gli altri attori segnalo la presenza di Neil Flynn, il perfido "janitor" di Scrubs, qui nei panni dell'agente Smith, mentre sia Sasha Spielberg che Chet Hanks, rispettivamente figli di Steven Spielberg e Tom Hanks, hanno dei piccoli ruoli. A Sean Connery invece era stato proposto di partecipare al film tornando nei panni Henry Jones Sr. ma ha rifiutato, troppo impegnato a gustarsi il suo meritato ritiro dalle scene, mentre il rifiuto di John Rhys-Davies nel tornare come Sallah è stato pienamente giustificato dal desiderio di non limitarsi ad un beve cammeo durante la sequenza del matrimonio. Detto questo, se vi è piaciuto Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo recuperate Indiana Jones e i predatori dell'arca perduta, Indiana Jones e il tempio maledetto Indiana Jones e l'ultima crociata. ENJOY!

venerdì 12 giugno 2015

Fury (2014)

Con il solito ritardo di poco meno di un anno, è arrivato anche da noi l'apprezzatissimo Fury, diretto e sceneggiato nel 2014 dal regista David Ayer. Potevo forse non guardarlo?


Trama: nell'aprile del 1945 un gruppo di soldati americani combatte in Germania, all'interno di un carro armato, una guerra disperata contro i ben più potenti corazzati tedeschi e gli ultimi scampoli di resistenza nazista...


Due ore e dieci che sembrano una, interamente passate nel claustrofobico interno di un carro armato e sugli ancor più claustrofobici campi di guerra. Due ore e dieci di angoscia mista a un senso di partecipazione e fortissima empatia, ecco la sensazione che mi ha comunicato Fury, una pellicola talmente intensa e concitata che persino io, che notoriamente non amo i film "di guerra", non ho potuto fare altro che lasciarmi assorbire dalla storia narrata e soffrire o combattere assieme agli occupanti del carro armato che da il titolo al film. E ad ogni sequenza, chissà perché, mi venivano in mente i versi di quel bardo genovese che così bene cantò i sentimenti dei soldati al fronte con La guerra di Piero. Il giovane Norman come il protagonista di quella meravigliosa canzone che, poverello, avanza "triste come chi deve" ed è costretto a rinunciare alla sua innocenza ed umanità per rispettare una regola orribile ma indispensabile per la sopravvivenza, quell'"uccidi o vieni ucciso" (sì, anche bambini, donne e uomini disarmati) che gli viene inculcato sia dal brusco Don che dalla triste ed ingiusta realtà della guerra; in quel momento storico d'incertezza in cui gli alleati stavano quasi per vincere ma i tedeschi non avevano ancora perso, ogni istante di tranquillità e cameratismo nascondeva l'insidia di una bomba inesplosa, di un agguato tra gli alberi o di un cecchino appostato chissà dove, pronto a far saltare la testa di chi era così incauto da rilassarsi. I personaggi di Fury, soldati pieni di difetti e anche poco simpatici ma per questo ancora più umani, sono uomini allo stremo che vivono solo per la guerra e che affrontano i quotidiani orrori del conflitto nell'unico modo che conoscono. Trascinato di peso nel fango di una terra straniera e in una realtà che non gli appartiene, la recluta Norman si ritrova all'improvviso a dover fare parte di un gruppo rude e molto unito, i cui membri sono già sopravvissuti a decine di battaglie e si sono lasciati alle spalle ogni remora o residuo di innocenza; la pellicola dunque si focalizza sulla "crescita" di Norman, che attraverso varie esperienza cambia e passa dall'essere uno sbarbatello pauroso ed incerto ad una Macchina di guerra, per quanto ancora capace di provare emozioni.


Il vero protagonista della pellicola è però il carro armato Fury che, come viene detto all'inizio e come tutti i suoi "fratelli" d'armi, ha una potenza assai inferiore a quella dell'artiglieria tedesca. David Ayer segue questo mastodonte come farebbe un documentarista con un elefante vecchio e stanco, affiancandone il cannone spesso in primo piano, mostrando nel dettaglio la sporcizia dei cingoli e le ferite riportate sul metallo ormai usurato e facendo diventare l'enorme "scatola di latta" un essere vivente al pari di Norman, Don e compagnia, un vero e proprio membro della squadra. Il carro armato viene così a simboleggiare la libertà e l'ultimo baluardo di difesa (emblematica la ripresa dall'alto che precede i titoli di coda) ed è sicuramente anche una casa, una sorta di ventre materno per i soldati capitanati da Don ma non solo: Fury è anche un mostro di metallo e all'occorrenza può diventare una trappola mortale per i suoi occupanti, un limite oltre il quale comincia una realtà sconosciuta e spaventevole ma pur sempre viva, lontana dall'alienazione che viene inevitabilmente a crearsi all'interno di quattro fredde e claustrofobiche pareti. David Ayer non è l'ultimo arrivato e riesce ad armonizzare alla perfezione la necessaria lentezza e "pesantezza" di una guerra combattuta sui carri armati a momenti di azione serratissima dove i continui scambi di granate e proiettili ricordano quasi un film di fantascienza; tra l'altro, non mi intendo di storia in generale o di seconda guerra mondiale in particolare ma la ricostruzione di mezzi e costumi a me è sembrata accuratissima, con tanto di utilizzo di un carro armato d'epoca realmente funzionante, il Tiger se non erro. Nonostante le varie critiche che ho letto in giro (critiche che in parte avvallo, ché il racconto non è particolarmente originale e soffre di alcuni momenti volutamente "finti", come il pranzo a casa delle signorine tedesche) a me sono piaciuti molto anche gli attori. Forse Brad Pitt non è il massimo dell'espressività ma, a mio avviso, il suo personaggio allucinato richiedeva proprio quest'approccio, mentre Logan Lerman, Shia LaBeouf (che normalmente odio) e Jon Bernthal sono perfetti e gli ultimi due portano a casa delle interpretazioni incredibili, nonostante i loro personaggi borderline rischiassero seriamente di venire trasformati in macchiette. Quindi, sono davvero contenta di essere andata a vedere Fury ma siccome mi sono accorta di avere scritto un post noiosissimo e troppo serio concludo con una bella domanda ignorante: ma quanto può essere figo Jason Isaacs, anche sfigurato, e quanto può essere incredibilmente MMostro Jon Bernthal, con quella faccia da Scéim che si porta dietro dai tempi di The Walking Dead?


Di Brad Pitt (Don "Wardaddy" Collier), Shia LaBeouf (Boyd "Bibbia" Swan), Logan Lerman (Norman Ellison), Michael Peña (Trini "Gordo" Garcia), Jon Bernthal (Grady Travis) e Jason Isaacs (Capitano Waggoner) ho già parlato ai rispettivi link.

David Ayer è il regista e sceneggiatore della pellicola. Americano, ha diretto film come End of Watch - Tolleranza zero. Anche produttore, attore e stuntman, ha 47 anni e un film in uscita, l'imminente Suicide Squad.


Tra gli altri attori che spuntano qua e là in Fury segnalo la presenza di Scott Eastwood, figlio di Clint Eastwood, nei panni del sergente Miles. Detto questo, se il film vi fosse piaciuto recuperate anche Salvate il soldato Ryan e Bastardi senza gloria. ENJOY!

venerdì 29 agosto 2014

Transformers 4 e la sua estinzione... forse!

Dando un’occhiata ai programmi stasera in tv, la mia attenzione è caduta sull’inutile “Hong Kong - Colpo su colpo”, film d’azione del 1998 con Jean-Claude Van Damme. E a proposito di “inutile”, mi è così venuto in mente che di recente nelle sale è uscito il 4° capitolo della saga Transformers dal titolo temerario Transformers 4 – L’era dell’estinzione. Ma estinzione di cosa esattamente? Della saga o di che altro?
La mia è ovviamente una provocazione, una domanda che vuole giocare sul fatto che in molti lo ritengono ormai un film privo di ogni significato realizzato solo per accontentare i fanatici degli effetti speciali e delle tuonanti esplosioni che rimbombano per tutto il film. Su una durata della pellicola di 164 minuti (esatto, ben 164 minuti!), credo che almeno 100 siano contornati da incessanti “boom” ed esplosioni di ogni genere.
A tal proposito mi viene in mente proprio una delle scene finali dove per circa 10/15 minuti si assiste alla distruzione di un’intera città dovuto ad un grosso magnete attaccato ad una navicella spaziale enorme in mano al nemico che sovrasta la città. Certo, devo dire che proprio quel magnete genera un suono davvero particolare che grazie al sofisticato impianto sonoro di un cinema ha il suo perché ed anche un certo fascino. Ma sentire questo rumore insieme a quello dei mille vetri che vanno in frantumi o a quello di accartocciamento delle macchine che si ritrovano sospese in aria a causa della potente forza magnetica, alla lunga stanca. E quei 15 minuti diventano così nauseabondi.


Per tutto questo e soprattutto per il fatto che il cast umano del film è totalmente cambiato segnandone così quasi un reboot e facendo sparire del tutto Shia LaBeouf senza alcuna spiegazione logica da dare al pubblico, Transformers 4 risulta senza dubbio uno di quei film privo di significato se non semplicemente quello di intrattenere il pubblico. Certamente questo non sarà uno scopo nobile tipico dei più bei film d’autore che tentano in qualche modo di lasciare un messaggio di vita a chi lo guarda, ma non lo fa neanche rientrare tra i peggiori film della storia dell’umanità.
Di fatto Transformers 4 vuole solo essere una macchina d’intrattenimento ed in questo Michael Bay, regista del film, ci riesce molto bene. Con oltre 2 ore di sceneggiatura su cui ricamare macchine che sfrecciano tra campi di grano ed autostrade, razzi che vengono schivati da enormi giganti di metallo, robot che si prendono a calci e pugni, navicelle spaziali con interni simili a quelli di Alien, allo spettatore viene impressa la giusta energia e il giusto input per non annoiarsi e proseguire il film fino alla fine.
Il regista eccede probabilmente in scene di combattimento proponendone fin troppe, ma si sa bene che Bay ama questo tipo di cose e non a caso è proprio lui lo stesso regista che si è occupato di alcuni titoli come Bad Boys, Armageddon, Pearl Harbor, Pain & Gain e The Island. Film utili solo per passare qualche ora in totale spensieratezza. Nulla di più.


Ma oltre ad essere una macchina d’intrattenimento vuole anche (e soprattutto) essere una macchina per fare soldi. Il film ha infatti incassato talmente tanto nel mondo da farlo rientrare nella classifica dei film con il maggiore incasso nella storia del cinema posizionandosi al momento al 12° posto. Ed è proprio questo che dimostra che Transformers non è una saga giunta al termine ma che anzi è un prodotto molto amato dalla maggior parte delle persone tanto da spenderci qualche soldo per andarlo a vedere al cinema.

lunedì 14 aprile 2014

Nymphomaniac - Volume 2 (2013)

Pronti per re-immergervi nel favoloso mondo di Gumb..ehm... Lars Von Trier? Spero di sì perché dopo il tour de force seSuale di ieri oggi si riprende con Nymphomaniac – Volume 2 (Nymphomaniac Vol. 2). Sono insaziabile, nevvero? Mah. Come al solito, i puristi e i cinefili si astengano.


Trama: il racconto di Joe prosegue, mentre Seligman ascolta sempre più attonito. Dopo aver perso sensibilità all’”arto”, infatti, la ninfomane proseguirà la sua esistenza cadendo sempre più in basso, in un vortice di solitudine e degrado…


A dimostrazione del fatto che Nymphomaniac NON era film da dividere in due parti nonostante il cliffhanger, il tono della pellicola non cambia repentinamente dal faceto al serio ma l’allegria (in senso Trieriano, ovvero assai simile a quella di un Capezzone qualsiasi) si mantiene alta mentre lo spettatore assiste incredulo (ma anche no visto che, dopo dieci amanti al giorno per 5/6 anni COME MINIMO la protagonista là sotto avrà avuto il Tunnel della Manica) ai metodi grotteschi con i quali Joe tenta di risvegliarsi l’orgasmo, tra colpi di straccio bagnato, inganni meccanici, ricordi d’infanzia, gravidanze, big bamboos... fino a toccare, molto banalmente, il fondo sostituendo al sesso la violenza. Aspettavate la svolta cupa? Don't worry, arriverà danzando sulle punte, come avrebbe fatto Billy Eliott prima di trasformarsi nella versione annoiata dello Zed di Pulp Fiction. E se la protagonista Joe abbraccia finalmente il massimo punto di degrado, anche la pellicola, fino a quel momento scorrevole, si impantana un po' tra uno sguardo inespressivo di LaBeouf, un'autocitazione VonTrieriana e una fotografia sempre più cupa e triste, specchio dell'animo e della baginga provati della protagonista. Alla risata si sostituisce lo sbadiglio e non basta qualche spunto vagamente interessante o la "rivelazione" di Stellan Skarsgard per ridestare l'interesse, che si affloscia ulteriormente quando Nymphomaniac, che era riuscito a mantenere comunque una sua identità più o meno coerente, diventa una sorta di loffio gangster movie erotico introdotto dalle note di Burning Down The House. A quel punto le banalità si sprecano davvero, come se Von Trier avesse davanti una lista dei cliché tratta direttamente dal Manuale del piccolo sporcaccione: settant'anni vergine celo, neri superdotati celo, frusta celo, fist fucking celo, lesbicata celo, golden shower celo e, per finire in bellezza, pedofilo celo (A tal proposito, Lars, il film che hai girato è una sciocchezzuola e te lo concedo, non c'è nemmeno da arrabbiarsi o scandalizzarsi, ma per la tirata sulla pedofilia meriteresti di venir preso a calci da qui all'eternità, deficiente che non sei altro. Provare pena un paio di balle, c'è mica qualcosa che devi confessare? Ti ascolto con una mazza chiodata in mano, tranquillo). A completare l'opera ci pensa un finale da facepalm, tratto direttamente da una canzone degli Elii ma preceduto da un meraviglioso spiegone conclusivo che, senza possibilità di errori, ci spiega per filo e per segno come interpretare in chiave "psicanalisi d'accatto" OGNI scelta di Joe. GRAZIE!


Cambiando il ritmo e il tono della storia narrata cambia leggermente anche il registro utilizzato per sequenze ed immagini, che diventano molto meno pop e sperimentali rispetto al Volume 1, più cupe e "mature"; ogni tanto Von Trier tira qualche zampata delle sue, come nella sequenza dell'orgasmo accompagnato da improbabili visioni o come la genialata dell'improvviso e spiazzante fast forward nella storia, che lascia perplesso il povero Seligman, ma per il resto il Volume 2 di Nymphomaniac risulta più piatterello e banale anche visivamente. La Gainsbourg sostituisce, con mia somma gioia, l'orrida ragazzetta che interpretava Joe da giovane e si riconferma attrice di una bravura incredibile e ovviamente molto affascinante nonostante l'aria sfatta e dimessa che l'accompagna per tutta la durata del film. Le comparsate di Udo Kier e Willelm Dafoe sono invece poco più che chicche messe lì per i fan di questi due mostri sacri, tuttavia c'è da dire che il simpatico Udo si becca un omaggio talmente weird che il suo buon nome non ne viene sicuramente intaccato. Sono invece indecisa su Jamie Bell, imprigionato in un personaggio talmente caricaturale e spiazzante che diventa molto difficile farsi un'idea dell'effettiva bravura dell'attore: certo, anche solo il fatto che non sia stramazzato al suolo dalle risate durante il momento "silent duck" potrebbe indicare che il giovanotto sa fare il suo mestiere, quindi gli concederei il beneficio del dubbio. O forse sono io che non ho capito la "profondità" (e mi si perdoni il gioco di parole) di quella che ho visto solo come una perplimente postilla, aggiunta tanto per. D'altronde, mi sono vissuta allo stesso modo tutto questo bailamme sessuale messo in piedi da Lars Von Trier, prendendolo come un esercizio di stile, una mera operazione commerciale fatta di tanto fumo e pochissimo arrosto, buona giusto per fare discutere le signore e i signori bene (ma esistono ancora?) nei loro salottini borghesi e fomentare la solita diatriba tra chi odia Von Trier e chi lo ama senza riserve. Sinceramente? Io mi pongo esattamente nel mezzo, non gli auguro né bene né male. Se la mia recensione vi ha incuriositi e vi è venuta voglia di vedere Nymphomaniac guardatelo senza timore di incomprensioni o accuse di esser dei maniaci sessuali in incognito, altrimenti fate come diceva Virgilio a Dante: non vi curate di Lars ma guardate e passate, magari in queste quattro ore fate all'amore per davvero che è la cosa migliore!


Del regista e sceneggiatore Lars Von Trier ho già parlato qui. Charlotte Gainsbourg (Joe),  Stellan Skarsgård (Seligman), Shia LaBeouf (Jerome), Jamie Bell (K), Willelm Dafoe (L), Christian Slater (il padre di Joe) e Udo Kier (il cameriere) li trovate invece ai rispettivi link.

Per eventuali curiosità su Nymphomaniac - Volume 2 andatevi a leggere la recensione del Volume 1 e... ENJOY!



domenica 13 aprile 2014

Nymphomaniac - Volume 1 (2013)

Oh, alla fine ci sono riuscita. Anche io posso dire di aver visto il film sulla bocca di tutti o, perlomeno, la prima parte: Nymphomaniac - Volume I (Nymphomaniac: Vol. 1), scritto e diretto nel 2013 da Lars Von Trier. I vecchi cinefili barbogi e privi di senso dell’umorismo sono pregati di fermarsi qui con la lettura e distrarsi con qualcosa di più vicino ad una critica accademica, siete avvisati!


Trama: Seligman, acculturato signore ormai di una certa età, trova per strada Joe, una donna vittima di un misterioso incidente. La accoglie in casa sua e lei comincia a raccontargli i dettagli della sua vita da ninfomane…


Ho cominciato la visione di Nymphomaniac - Volume I aspettandomi le peggio cose. Ero certa che mi sarei addormentata, che avrei cominciato ad inveire contro le pretese del cinema autoriale, che come minimo non l’avrei capito e, pur di non parlarne sul blog ed evitare il rischio di venir tacciata di somma ignoranza, avrei fatto finta di non averlo nemmeno visto. Inaspettatamente, mi sono divertita parecchio durante la visione (non cominciate a pensare male...) e mi sono fatta delle grasse risate perché Nymphomaniac è essenzialmente uno di quei drammi grotteschi e paradossali che ultimamente rientrano molto nei miei gusti. Non c'è nulla di scandaloso, davvero: un film simile FORSE avrebbe potuto scatenare l'ira dei beghini un paio di decenni fa ma con quello che si sente in giro, tra Parioline e bunga bunga, la storia della ninfomane Joe fa quasi sorridere per l'ingenuità con cui viene messa in scena e, soprattutto, ascoltata dal povero Seligman/Papà Castoro/Grillo Parlante/ Stellan Skarsgard che, trovandosi davanti una Regina della Vulva in vena di autocommiserarsi ed ignorante come una capra, pensa bene di contestualizzare ogni suo racconto di "vita" associandovi riferimenti culturali o ittici, facili metafore che anche lo spettatore scemo potrà così capire: gli uomini come pesci che devono essere attirati nella rete, il delirium tremens di Edgar Allan Poe (vabbé…) accostato all’astinenza dovuta alla malattia del padre, la polifonia di Bach giusto per dare un tono all’incredibile voglia di copulare della protagonista e una sequenza di Fibonacci che ci sta sempre bene, mancava solo Dan Brown che seguiva tutte le indicazioni per trovare il tesoro nella patonza della Gainsbourg. La storia di Joe, che dovrebbe meritare tutta la nostra pietà in quanto malata di sesso e condannata ad una solitudine perpetua, diventa così una sequenza quasi ininterrotta di momenti (spero involontariamente) ridicoli, resi ancor più esilaranti da una presunzione di serietà gettata qui e là a sprazzi quasi come se il Von Trier sceneggiatore fosse indeciso tra il dare allo spettatore quello che si aspettava (pessimismo cosmico, ermetismo, voglia di vivere sotto i piedi, interamente riassunti nelle terribili immagini del padre morente) oppure percularlo senza pietà spiazzandolo completamente con questa storiella fintamente pruriginosa, talmente intrisa di moralismo e desiderio di espiazione da sembrare scritta da un'educanda.


Messa da parte quindi la fondamentale natura innocua della storia presa in esame, bisogna dire che Nymphomaniac tiene desta l'attenzione per un paio di motivi, al di là dell'esilarante cliffhanger imposto dai produttori che hanno deciso di spezzare quest'opera in due parti distinte (vedere per credere, Stallone non avrebbe potuto fare meglio, ci vuole del genio!). Innanzitutto, il Von Trier regista è sgamato all'inverosimile, tanto da piazzare subito all'inizio della pellicola una zamarrissima canzone dei Rammstein che mi ha messo istantaneamente nel giusto mood. Dopo questo colpo d'accelleratore le sequenze si alternano tra la staticità tipica della "scuola" Dogma, suggestioni Malickiane, divertenti didascalie pop alla Wes Anderson e strizzate d'occhio a Kubrick (ci mancava giusto la Sarabanda di Handel poi il quadro sarebbe stato completo...), in un guazzabuglio di stili accattivante e stimolante che rende il film, composto da episodi introdotti ognuno da un titolo e un'immagine evocativa, inaspettatamente piacevole. Gli attori ci mettono del loro, soprattutto i grandi nomi. Tolta la presenza costante di un grandissimo Stellan Skarsgard che si è fatto perdonare la ridicola partecipazione a Thor - The Dark World assumendo su di sé il non facile ruolo di confessore, tra gli altri interpreti "relegati" a mere comparse spicca una favolosa Uma Thurman protagonista dell'episodio più grottesco e convincente dell'intera pellicola, una sequenza molto simile a quelle più riuscite del meraviglioso Carnage. La giovane protagonista Stacy Martin, per quanto sia oggettivamente di una bruttezza rara (se fossi uomo non la copulerei nemmeno col membro di un altro, alla faccia della ninfomania...), è bravissima a portare interamente sulle proprie spalle (e non solo) uno dei ruoli più antipatici e difficili della storia del cinema, peccato però che abbiano deciso di affiancarle uno dei giovani attori più bolsi in circolazione: la faccia inespressiva di Shia LaBoeuf mi farebbe passare qualsiasi desiderio, ve lo garantisco, ma effettivamente per la parte che ha (un uomo forse ancora più mollo e odioso della protagonista) calza a pennello. Aspettando quindi il Volume 2, di cui parlerò già domani perché come ho detto il cliffhanger mi ha catturata e non potevo non sapere cosa sarebbe successo alla povera Joe, vi direi di andare tranquillamente al cinema a vedere Nymphomaniac - Volume 1 senza timore di addormentarvi o innervosirvi: questa volta Trier è stato magnanimo e meno "affilato" del solito, rischiate anche di divertirvi durante la visione o quando ve lo racconteranno gli amici, com'è successo a Toto che ha chiosato:

"Ma la polifonia prevede una simultaneità, altrimenti non è polifonia. Se vuole fare un paragone che se ne fotta 10 tutti insieme, ma non 10 in una giornata semplicemente uno dopo l'altro. Quella è monodia.
Avrei capito una gang bang..."

Capito, Lars? Eh. Un po' di precisione, diamine.


Di Stellan Skarsgård (Seligman), Christian Slater (il padre di Joe) e Uma Thurman (Mrs. H) ho già parlato ai rispettivi link.

Lars Von Trier (vero nome Lars Trier) è regista e sceneggiatore della pellicola. Danese, ha diretto film come Idioti, Dancer in the Dark, Dogville, Antichrist, Melancholia e alcuni episodi della serie Il regno. Anche attore, ha 58 anni.


Charlotte Gainsbourg (vero nome Charlotte Lucy Gainsbourg) interpreta Joe. Inglese, la ricordo per film come Jane Eyre, I miserabili, 21 grammi - Il peso dell'anima, Antichrist e Melancholia. Anche sceneggiatrice, ha 43 anni e quattro film in uscita.


Shia LaBeouf (vero nome Shia Saide LaBeouf) interpreta Jerome. Americano, lo ricordo per film come Scemo & più scemo - Iniziò così..., Charlie's Angels - Più che mai, Constantine, Disturbia, Transformers (e seguiti), Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo e Wall Street - Il denaro non dorme mai; inoltre, ha partecipato a serie come X-Files ed E.R. Medici in prima linea. Anche regista, sceneggiatore e produttore, ha 28 anni e un film in uscita.


Connie Nielsen (vero nome Connie Inge-Lise Nielsen) interpreta la madre di Joe. Danese, ha partecipato a film come Vacanze di Natale '91, L'avvocato del Diavolo, Rushmore, Il gladiatore, One Hour Photo The Hunted - La preda. Ha 49 anni e tre film in uscita.


A differenza di Liam Hemsworth, che ha rifiutato la parte di Jerome, pare che Shia LaBoeuf ne fosse così entusiasta che, per averla, ha mandato a Von Trier dei filmati dove faceva sesso con la fidanzata. Contento lui. Ma, d'altronde, con quell'espressione bolsa è stato effettivamente meglio puntare su altri pregi. Nulla di fatto anche per Nicole Kidman, che ha dovuto rinunciare al ruolo di Mrs. H per impegni pregressi. Nell'attesa che esca Nymphomaniac - Volume 2 a fine mese, se il primo capitolo vi fosse piaciuto recuperate anche il resto della filmografia VonTrierana perché credo nessun altro giri pellicole simili. ENJOY!

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