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venerdì 27 settembre 2024

Bolla Loves Bruno: Die Hard - Duri a morire (1995)

Con l'estate ho un po' abbandonato la rassegna dedicata a Bruce Willis ma torno alla carica oggi con Die Hard - Duri a morire (Die Hard With a Vengeance), diretto nel 1995 dal regista John McTiernan.


Trama: a un passo dall'alcolismo e buttato fuori dalla polizia, John McClane è costretto a superare l'hangover cimentandosi con gli indovinelli di Simon, terrorista che lo odia e che minaccia di fare saltare in aria New York...


Dopo parecchi flop commerciali e un paio di capolavori come Pulp Fiction e La morte ti fa bella, Bruce Willis è tornato a giocare sul sicuro e a vestire la canotta d'ordinanza del suo personaggio più iconico, il poliziotto John McClane. Nonostante riconosca la superiorità di Trappola di cristallo, pellicola che ha definito un genere e lanciato più di una carriera, devo ammettere che Die Hard (il primo film della saga distribuito in Italia col titolo originale) è quello che ho guardato più volte e che ricordo meglio, complici i mille passaggi televisivi e il mio amore adolescenziale e mai esauritosi per Bruce Willis. Mi piace molto ancora oggi, ovvio. E' probabilmente più cretino dei suoi due predecessori, a livello di trama, ma proprio per questo è divertente da morire, zeppo di momenti action da rimanere a bocca aperta e Bruce Willis divide la scena con un Samuel L.Jackson che gli tiene testa senza rubargli la scena. Soprattutto, man mano che il finale si avvicina, la storia si snoda in almeno tre punti diversi, seguendo il perverso gioco messo in piedi da Simon, terrorista con un odio particolare per il povero McClane; se, all'inizio, i suoi indovinelli sono semplici, andando avanti la complessità aumenta così come la posta in ballo e i riflettori vengono puntati non solo sugli sforzi di John e Zeus, ma anche alcuni poliziotti diventano protagonisti attivi senza venire relegati a macchiette e risultando più o meno indispensabili per sventare il pericolo. Questo è anche il primo film della serie ad avere un'intera città protagonista, il che consente a McTiernan di sfruttare spettacolari, conosciutissimi setting newyorkesi e, alla sceneggiatura, di approfittare di tutti i pregi e difetti della Grande Mela per arricchire ancora di più la storia. Basti pensare al fattore tempo, reso scarso dal terrificante traffico della città, o alla quantità spropositata di scuole potenzialmente minacciate, per non parlare di quartieri pericolosissimi per un poliziotto bianco che porta in giro cartelli razzisti. 


Per quanto riguarda la regia, McTiernan confeziona un manuale dell'action, perché in Die Hard non manca nulla, tenendo conto che dopo nemmeno un minuto abbiamo già un'esplosione. Ci sono inseguimenti con automobili e persino una lotta tra camion e inondazioni, treni che si schiantano e fanno venire giù l'asfalto di mezza Wall Street, sparatorie su ogni tipo di mezzo, elicotteri impazziti, pericolosissimi salti su navi in movimento; con tutto questo, McTiernan riesce a non mandare in sovraccarico lo spettatore e a gestire anche la scena più caotica con una maestria invidiabile, inserendo persino piccoli dettagli ironici oppure indizi che risulteranno fondamentali nel corso del film. Per quanto riguarda il cast, ritengo che l'unico neo di Die Hard sia Jeremy Irons. Non fraintendetemi, è elegante ed insidioso quanto basta, ma la voce originale non mi fa impazzire (questo è uno dei rari casi in cui preferisco il doppiatore italiano) e, quanto a carisma, Alan Rickman lo batte di parecchie misure. Per fortuna, Bruce Willis ne ha invece da vendere, e quanto riesce ad essere cool anche da sfatto, col mal di testa da hangover e sporco come il lume! Il personaggio di John McClane gli calza ancora a pennello e si vede che Willis, interpretandolo, si rifugia in una comfort zone che gli permette di recitare al meglio e, soprattutto, di dare sempre di più a un personaggio che, nel '95, aveva ancora parecchio da dire (e anche da dare. Il fisico di Bruccino è di tutto rispetto, le scene action che lo vedono coinvolto, al netto dell'ovvio utilizzo di stuntman, non devono essere state facilissime da girare). I duetti con Samuel L. Jackson sono ancora oggi, a distanza di 30 anni, molto spassosi, tuttavia la questione razziale non è invecchiata proprio benissimo, o forse sono io a trovare trito e un po' fastidioso il ribadire costantemente lo stereotipo di onesto lavoratore nero di Zeus contrapponendolo al cliché di sbirro bianco e scapestrato di McClane. Per carità, il contrasto funziona, ma anche meno. Nota stonata piccolissima per un film che riguarderei anche subito, e che mi ha conquistata fin dal suo primo passaggio televisivo!


Del regista 
John McTiernan ho già parlato QUI. Bruce Willis (John McClane), Jeremy Irons (Simon), Samuel L. Jackson (Zeus), Graham Greene (Joe Lambert) e Colleen Camp (Connie Kowalski) li trovate invece ai rispettivi link. 


Il film inizialmente si doveva intitolare Simon Says e avrebbe potuto prendere due vie: o essere il terzo sequel di Arma letale oppure il seguito di Drago d'acciaio, con Brandon Lee come protagonista e Angela Bassett come personaggio femminile al posto di Zeus. Quanto a quest'ultimo, Laurence Fishburne ci ha pensato troppo e ha perso il posto in favore di Samuel L. Jackson, mentre Sean Connery ha declinato l'offerta di interpretare Simon Gruber perché troppo diabolico. Ciò detto, se Die Hard - Duri a morire vi fosse piaciuto, recuperate di sicuro Trappola di cristallo e 58 minuti per morire, e poi tentate Die Hard - Vivere o morire e Die Hard - Un buon giorno per morire, che finora non ho mai avuto il coraggio di guardare. ENJOY!


martedì 24 settembre 2024

Speak No Evil - Non parlare con gli sconosciuti (2024)

Martedì scorso sono andata a vedere Speak No Evil - Non parlare con gli sconosciuti (Speak no Evil), diretto e sceneggiato dal regista James Watkins partendo dalla sceneggiatura dell'omonimo film danese.


Trama: Louise e Ben, americani trapiantati a Londra con la figlioletta Agnes, incontrano durante una vacanza gli inglesi Paddy e Ciara, assieme al figlio Ant. Tornati a casa, vengono invitati a passare un weekend a casa dei nuovi amici, i quali però si rivelano meno simpatici del previsto...


So che James Watkins è un regista inglese, ma Speak no Evil è il remake più americano che vi capiterà di vedere in tutta la vostra vita, salvo forse Missing - Scomparsa, di cui tra l'altro parleremo prossimamente. Gli americani hanno bisogno di risposte e certezze, e Speak no Evil è LA risposta a tutte le domande che vi siete sicuramente posti guardando l'originale danese. Poiché il film di Watkins nasce per dare delle risposte, il primo tempo è sostanzialmente la copia carbone di ciò che è stato fatto in precedenza, con un paio di esasperazioni atte a fornire un contesto ancora più chiaro: Louise e Ben sono PALESEMENTE una coppia in crisi, Agnes è PALESEMENTE una bambina ansiosa e problematica, Paddy è PALESEMENTE uno spirito libero ma anche un po' pericoloso, tant'è che gira in Vespa senza casco davanti a dei vigili urbani, il lazzarone. Tutti questi dettagli Christian Tafdrup non li forniva ma, nonostante ciò, la pellicola risultava fruibilissima, era dopo che cominciavano le magagne. Lasciando un attimo da parte l'ironia, è interessante vedere la differenza di approccio anche per ciò che riguarda le dinamiche di "potere" tra i personaggi. La coppia danese del primo film era composta da persone che, tutto sommato, erano mosce e depresse in egual misura, ma il più sofferente era il marito, fiaccato da una routine priva di poesia che, progressivamente, gli inaridiva l'animo. Sull'onda dell'attuale "woman power", il personaggio di Louise è molto più cazzuto (anche se non più simpatico) del marito vittima e, anche dalle inquadrature, si evince che lo scontro di personalità, per non parlare di un po' di tensione sessuale sottesa, è tutto tra lei e Paddy; quest'ultimo è il boss finale da sconfiggere, senza se e senza ma, tanto che Ciara (resa più ambigua da una sottotrama che potrebbe o non potrebbe rispecchiare la realtà) è una presenza evanescente o quasi, con buona pace della sempre bravissima Aisling Franciosi, divorata dal carisma di James McAvoy. C'è anche un altro aspetto da considerare, esplicato fin dal soggetto della prima inquadratura. A Watkins interessa girare un film sulla perdita dell'innocenza, sull'homo homini lupus, non una metafora estremizzata della società odierna, fatta di cupissima sopportazione. Per fare ciò, ritorna alle atmosfere che gli sono congeniali fin dai tempi del lontano Eden Lake, mettendo in scena anche uno scontro sociale ben definito, tra persone fondamentalmente fighette e "civilizzate" che non si sentono di offendere i campagnolassi ignoranti che hanno dato loro la possibilità di passare un weekend diverso, cosa che apre a momenti di reale, esilarante e rozzo disagio, là dove Tafdrup se ti vedeva ridere ti prendeva a bacchettate forti sulle dita. 


Quindi sì, per citare Stannis, guardando l'originale Speak no Evil mi sono sentita MOLTO americana, e non avete idea di quanto, proprio per questo motivo, mi sia goduta la versione di Watkins, la quale, da metà in poi, offre allo spettatore tutto il giusto sfogo al prurito di mani cominciato nel momento esatto in cui i protagonisti entrano nella casa dei loro ospiti. Sono consapevole quanto chiunque altro che le soluzioni ricercate da Watkins sono facili, almeno a livello di sceneggiatura (non di esecuzione, per quanto mi riguarda, visto che comunque mi è mancato il respiro per l'ansia più di una volta), ma, se non altro, le reazioni dei personaggi hanno una motivazione plausibile. Che poi i risultati di queste reazioni portino ad esiti discutibili, è qualcosa che dipende dalla sensibilità individuale, ma qui si scende nello spoiler e non vorrei farne. Se avete piacere, ne riparleremo nei commenti; umanamente parlando, posso dire di essere soddisfatta di quello che ho visto, da spettatrice non mi sarebbe dispiaciuta un po' più di cattiveria, ma sono veramente bazzecole, perché quando si innesca il ricordo dello Speak no Evil originale affiora alle labbra un inevitabile sorriso. Del nuovo Speak no Evil, poi, ho apprezzato il cast, la confezione, persino la colonna sonora, decisamente più vicina ai miei gusti. L'unico che proprio non ho sopportato è Scoot McNairy, anche troppo mollo per il personaggio che interpreta, ma Mackenzie Davis e Aisling Franciosi sono due garanzie e James McAvoy dà libero sfogo all'esperienza vissuta sul set di Split e Glass, civilizzando "la bestia" quanto basta per trarre in inganno i malcapitati e portando a casa un'altra validissima interpretazione. Per una volta, dunque, il "trattamento Blumhouse" non mi è dispiaciuto. Capisco chi urlerà al vilipendio ma, come al solito, il film originale nessuno lo tocca e sta sempre lì, fruibile da chi volesse passare una serata in gioiosa depressione; il remake, per una volta, cerca una strada sua per raccontare un'altra storia e innescare altre riflessioni, non mi è sembrata una stupidata realizzata tanto per dare contentini e semplificare a beneficio del pubblico idiota, quindi non posso fare altro che consigliarlo! 


Del regista e sceneggiatore James Watkins ho già parlato QUI. James McAvoy (Paddy), Mackenzie Davis (Louise Dalton), Scoot McNairy (Ben Dalton) e Aisling Franciosi (Ciara) li trovate invece ai rispettivi link. 


Se il film vi fosse piaciuto recuperate, ovviamente, Speak no Evil. ENJOY!

venerdì 20 settembre 2024

In a Violent Nature (2024)

Ci ho messo un po' a guardarlo, ché d'estate il tempo libero è più raro che in inverno, ma finalmente ho recuperato un film che aspettavo da parecchio, In a Violent Nature, diretto e sceneggiato dal regista Chris Nash.


Trama: uno zombie omicida viene risvegliato da un gruppo di campeggiatori, segue sanguinosa vendetta per i torti passati e presenti...


Viewer advice
: In a Violent Nature è un film che richiede buona predisposizione d'animo e una capacità di "sopportazione" elevata, nel caso non amiate i film dal ritmo lento e cadenzato. A me è piaciuto molto e tra poco vi dirò il perché, ma capisco anche che, guardandolo, vi possiate fare due palle cubiche e il motivo è presto detto: non succede "nulla". Oddio, ci sono delle morti violente che farebbero la felicità di ogni cultore del gore, nonché fantasiosi rimaneggiamenti dell'anatomia umana, ma sono quasi note a margine di un documentario in cui il tipico killer sovrannaturale degli slasher macina chilometri per ridurre le sue vittime in coriandoli sanguinolenti. Per buona parte del metraggio, la macchina da presa si posiziona appena dietro il taciturno e mostruoso Johnny, seguendolo nel corso dell'implacabile ricerca dei rei che lo hanno risvegliato per un motivo idiota, mentre attorno a lui scorrono le immagini di una natura incontaminata e silenziosa. Il film adotta, dunque, il punto di vista del killer e già questo è originale. Non si tratta infatti di una rilettura del mito di questo genere di mostri, nessuna origin story che ci spinge a comprenderne le motivazioni, magari snaturandone l'essenza di male cieco ed inesorabile; semplicemente, lo spettatore viene messo nelle condizioni di sapere cosa succede quando il killer non si vede, quando negli slasher normali ci vengono mostrati i giovani protagonisti che discutono o cercano, terrorizzati, di capire perché stanno venendo fatti fuori uno per uno. Il distacco, come ho scritto, è lo stesso di un documentario, anzi, maggiore, in quanto non c'è voce narrante che ci racconti la vita del killer. Lui c'è, esiste, fa parte della natura violenta del titolo, e all'interno di questa stessa natura lussureggiante è alla stregua di una bestia feroce che ti attacca perché sì, non una presenza estranea. I corpi estranei sono quelli dei ragazzi che lo hanno risvegliato per un futile motivo ma, anche lì, non c'è nessun giudizio negativo nei loro confronti, solo testimonianze dei rispettivi caratteri, tocchi di colore che servono a poco, catturati come siamo dall'implacabile, lenta testardaggine di Johnny. Lui ci mette il tempo che serve, ma prima o poi arriva, sicuro come la morte (appunto) e le tasse.


Per questo, o ci si fa affascinare da questa idea, da questo stile, oppure In a Violent Nature diventa una gran sòla, a prescindere dalla bravura oggettiva di Chris Nash e del mostruoso lavoro compiuto non solo sulla scenografia naturale, ma soprattutto sul sonoro. La mattanza di Johnny viene accompagnata dal frusciare delle foglie, dai rami che si spezzano, dall'acqua che scorre, dagli uccellini che cinguettano... e dai rumori più terrificanti che possiate immaginare, capaci di rendere alcune efferatezze ancora più realistiche. Eppure, non sono nemmeno queste ultime a rendere In a Violent Nature uno degli horror migliori visti quest'anno, quanto i terrificanti dieci minuti finali. Un ribaltamento di prospettiva preceduto da una sequenza di totale, allucinante panico durante la quale sembra di venire ricatapultati a Burkistsville, Maryland , con una strega pronta a dare manforte a Johnny. Pochi secondi in cui abbandoniamo il punto di vista di Johnny e torniamo a guardare attraverso gli occhi delle prede, privati dell'impersonale sicurezza di un energumeno al quale non potrà succedere nulla di male, e anche fosse chissenefrega, tanto la certezza è quella di rialzarsi e tornare più cattivo di prima. Dieci minuti durante i quali ho guardato con la stessa, stolida fermezza di Johnny, un punto poco più in basso del focus dell'inquadratura, perché avevo il cuore a mille e la consapevolezza che mi sarebbe esploso nel petto al minimo suono diverso da quello di una voce umana, al minimo jump scare, anche il più cretino. Se ho fatto bene o meno a proteggermi durante il finale di In a Violent Nature, lascio a voi il piacere di scoprirlo, ovviamente. Quel che posso dirvi è che il film mi ha conquistata e spero che qualcuno decida di distribuirlo al cinema anche da noi, per guardarlo come merita, con un sonoro e uno schermo ben più adeguati di quelli casalinghi!

Chris Nash è il regista e sceneggiatore della pellicola. Principalmente tecnico degli effetti speciali, come regista ha diretto un episodio di The ABCs of Death 2. E' anche produttore e attore.


La donna che guida l'auto sul finale è l'attrice Lauren-Marie Taylor, una degli interpreti del secondo film della saga Venerdì 13, L'assassino ti siede accanto. ENJOY!


martedì 17 settembre 2024

Missing (2023)

Il tema della challenge horror di oggi era Cyber Horror. Ho così recuperato Missing, diretto e co-sceneggiato nel 2023 dai registi Nicholas D. Johnson e Will Merrick.


Trama: June, orfana di padre, ha con la madre un rapporto tempestoso. Quando però la madre scompare e non torna da una vacanza in Colombia, la ragazza impiega tutti i mezzi tecnologici a sua disposizione per ritrovarla...


Reader warning
: Missing non è un horror, affatto! Ci sono rimasta molto male nel scoprirlo, ma non ho lasciato che la delusione inficiasse il mio giudizio su un film che, con me, partiva già un po' svantaggiato per meri motivi organizzativi. Siccome per certe cose sono insopportabilmente precisa, nonostante la challenge avesse proposto Missing, l'idea era quella di recuperare prima Searching, nonostante non sia un vero e proprio prequel e presenti una storia slegata; purtroppo, Prime Video mi dava Missing in scadenza entro 7 giorni e, calcoli alla mano, ho capito che non sarei mai riuscita a guardare le pellicole nell'ordine giusto, quindi ho dovuto fare buon viso a cattivo gioco. Fortunatamente, Missing è davvero fruibile come pellicola a sé stante (anche se temo di essermi spoilerata il finale di Searching, quindi spero che la mia memoria si resetti al più presto), inoltre possiede anche uno stile che, su di me, riesce a fare presa. Il film è infatti uno screenlife thriller, ovvero una di quelle pellicole dove ogni cosa accade mostrata sullo schermo di un pc, laptop e cellulare, sfruttando tutti i social e le app che utilizziamo quotidianamente; questo metodo a me piace molto, perché mi incuriosisce sempre capire quanto i realizzatori siano in grado di barcamenarsi tra la totale aderenza al mezzo narrativo scelto e la necessità di far progredire la storia senza che i protagonisti mollino i loro device. Nonostante qualche faciloneria (o magari sono io ad essere particolarmente impedita nell'uso delle varie app) Missing riesce a mantenere questo equilibrio e non solo  sfrutta trucchetti informatici, app e siti di cui io ignoravo totalmente l'esistenza, ma coinvolge lo spettatore in un thriller zeppo di twist e colpi di scena, peraltro non facilmente intuibili. Il fatto che la protagonista sia un'adolescente rende verosimile il fatto che June viva 24 ore su 24 sui social e utilizzi il computer o il cellulare per tutto, sia per connettersi con gli amici, sia per fare banalmente la spesa, e anche il rapporto freddo con la madre giustifica un'interazione fatta di brevi messaggi di testo e vocali lasciati in segreteria, in grado di fungere da "archivio" per consentire a June di progredire nelle indagini.


In parallelo all'aspetto thriller della vicenda, Missing mette sul piatto una serie di "spunti di riflessione" che sta allo spettatore cogliere. Partendo dal banale ma necessario monito a non utilizzare la medesima password per mille siti diversi, si passa al rischio concreto di venire derubati non solo dei soldi ma anche dell'identità online, oltre a quello di non avere più un minimo di privacy, anche per le cose più sciocche come ricerche innocenti, e si arriva alla natura volubile dell'utente medio di Internet. Benché quest'ultimo aspetto serva giusto per dare una svolta più drammatica alla vicenda e ad enfatizzare il colpo di scena definitivo, è la spietata riproposizione del modo in cui una persona possa ottenere i famosi "5 minuti di notorietà" in positivo e, dopo poco, piombare in un inferno di critiche ed illazioni alimentate dai "tuttologi" del web, che non si fanno scrupolo a dire tutto quello che pensano, anche quando non è supportato da alcuna prova concreta, e riescono comunque ad influenzare l'opinione pubblica. Un altro aspetto positivo di Missing è una sceneggiatura che, con pochi accorgimenti, rende i personaggi (anche quelli secondari) tridimensionali e interessanti. E' facile empatizzare con June nonostante sia la tipica adolescente testa di cazzo, ed è ancor più facile voler bene al tuttofare Javi. Nato per essere il plot device che consente a June di indagare in loco pur non essendo fisicamente in Colombia, Javi si sviluppa fino a diventare un personaggio a tutto tondo, con un background e delle motivazioni, e come sostegno morale della protagonista è semplicemente perfetto. Missing poteva essere una delusione per più di un motivo, invece è un film che fa il suo dovere e regala una serata a base di tensione ed intrattenimento, quindi recuperatelo se potete! 


Di Ken Leung, che interpreta Kevin, ho già parlato QUI mentre Joaquim de Almeida, che interpreta Javi, lo trovate QUA.

Nicholas D. Johnson e Will Merrick sono i registi e co-sceneggiatori della pellicola, entrambi al loro primo lungometraggio e principalmente impegnati come montatori.


Storm Reid
, che interpreta June, ha partecipato anche a The Nun II mentre Megan Suri, che interpreta Veena, era la protagonista di It Lives Inside. Missing segue gli eventi di Searching, anche se non è necessario vederlo per capirci qualcosa; comunque, se Missing vi fosse piaciuto recuperatelo e aggiungete Run, Host e Unfriended. ENJOY!

venerdì 13 settembre 2024

Beetlejuice Beetlejuice (2024)

Nonostante qualche perplessità non potevo perdermi Beetlejuice Beetlejuice, diretto dal regista Tim Burton.


Trama: Lydia e la figlia Astrid sono costrette a tornare a Winter River per partecipare a un funerale. Lì, per una serie di circostanze, avranno di nuovo a che fare col bioesorcista Betelgeuse.


Non avevo grandi speranze quando ho deciso di andare al cinema a vedere Beetlejuice Betlejuice. Ormai dai tempi di Planet of the Apes, Burton non è più quello di un tempo, e il massimo che mi sarei aspettata è un prodotto dignitoso, in grado di farmi passare un paio d'ore in tetra allegria. Fino alla fine del primo tempo, in realtà, mi sono sentita invece come Califano. Tra nuovi personaggi abbastanza sciapi, vecchie conoscenze che non sembrano essersi evolute dagli anni '80 e omaggi alla prima pellicola, la sensazione è stata quella di una storia che stentava a decollare, schiacciata nella noia di un'introduzione infinita. Tutto il primo atto, infatti, serve a presentarci una Lydia ormai cresciuta, con figlia annessa che la odia a causa di un lavoro derivante dalla sua capacità di vedere qualsiasi fantasma tranne quello dell'adorato padre defunto. La sceneggiatura scava nelle dinamiche familiari dei Deetz, che subiscono uno scossone alla morte di un altro padre, quello di Lydia; l'evento costringe le donne superstiti, assieme al nuovo compagno di Lydia, Rory, a tornare a Winter River e ad affrontare un passato ancora ben radicato all'interno del diorama dei coniugi Maitland, ma finché non arriva l'unico, imprevedibile twist della pellicola, il tempo scivola via lento tra recriminazioni, bizzarrie e imbarazzi. La cosa che mi ha soprattutto fatto specie è vedere la tosta Lydia ridotta a cretinetti insicura, incapace di riconoscere il belinone che la sorte le ha messo accanto e di comunicare con una figlia ben più odiosa di quanto fosse lei da adolescente. Ha un bel daffare Delia a parlare di Karma, quando la realtà è che la rossa wannabe artista, nonostante il disprezzo di Lydia, ha sempre avuto un carattere egoista e volitivo, mentre la figliastra è diventata un'ameba dallo sguardo stralunato (lì, probabilmente, ci ha messo del suo anche la Ryder, che negli anni si è legata al ruolo di Joyce Byers e non ne è più uscita). Il film si risolleva un po' quando l'aldilà torna a farla da padrone, con le sue stranezze e la grottesca burocrazia sbattute in faccia senza pietà agli umani inconsapevoli, e quando, ovviamente, la presenza di Beetlejuice comincia a farsi un po' più preponderante. Da quel momento, se non altro, il ritmo aumenta e si torna a divertirsi, a dispetto della costante sensazione di avere davanti tre film in uno, rabberciati alla bell'e meglio come la bellissima Sall.... ehm, Delores di Monica Bellucci.


Ha i suoi momenti, Beetlejuice Beetlejuice. Al di là dell'innegabile bellezza dei costumi di Coleen Atwood, delle scenografie, e di parecchi effetti speciali artigianali, il film raggiunge apici notevoli, per esempio, quando si affida alla verve della divertentissima Catherine O'Hara e alla sua elaborazione del lutto, fa battere il cuore nei momenti in cui Burton si convince di stare girando un horror e mette in campo un terrificante neonato frutto dell'empia unione tra Baby Killer e il cadaverino di Trainspotting, e poco prima del finale riesce persino a commuovere nonostante la faciloneria con cui i personaggi ci lasciano le piume. Il resto, purtroppo, l'ho trovato molto superficiale, oppure tirato per le lunghe. Non c'è stato, da parte mia, alcun coinvolgimento emotivo davanti a drammi familiari o ricongiungimenti, e onestamente avrei preferito che il personaggio interpretato all'epoca da Jeffrey Jones non venisse proprio utilizzato "fisicamente" (se decidi, giustamente, di non coinvolgerlo in quanto predatore sessuale pluricondannato e ritiratosi dalla recitazione da anni, mi pare assurdo infilare delle sue foto o animazioni in stop motion dal sembiante identico, o sfruttare un personaggio senza testa, ma perché?). Il numero musicale verso la fine richiama quello iconico della cena coi gamberetti, ma è davvero lunghissimo e, anche se io l'ho apprezzato ridendo parecchio, capisco perché uno dei miei compagni di visione si sia addormentato; allo stesso modo, enorme rispetto verso Burton per la scelta di utilizzare la melodia che accompagna il finale di Carrie - Lo sguardo di Satana, ma francamente mi è sembrato che la conclusione onirica di Beetlejuice Beetlejuice fosse attaccata con lo sputo, messa lì giusto per dare la possibilità di realizzare un altro sequel. D'altronde, il nome del bioesorcista va pronunciato tre volte, non mi stupirei se tra qualche anno arrivasse Beetlejuice Beetlejuice Beetlejuice. Nell'attesa (e non tratterrò il respiro, non mi va di finire laggiù e prendere il numero), per me è un nì. Non è un film che riguarderei, sono contenta comunque di averlo visto, ma temo che la settimana prossima l'avrò già dimenticato. Peccato.  


Del regista Tim Burton ho già parlato QUI. Michael Keaton (Beetlejuice), Winona Ryder (Lydia Deetz), Catherine O'Hara (Delia Deetz), Jenna Ortega (Astrid Deetz), Justin Theroux (Rory), Willem Dafoe (Wolf Jackson), Monica Bellucci (Delores) e Danny DeVito (uomo delle pulizie) li trovate invece ai rispettivi link.


Se Beetlejuce Beetlejuice vi fosse piaciuto, recuperate Beetlejuice, La sposa cadavere e The Nightmare Before Christmas. ENJOY!

 

martedì 10 settembre 2024

MaXXXine (2024)

Finalmente. Quando ormai non ci speravo più, anch'io sono riuscita ad andare al cinema e vedere MaXXXine, diretto e sceneggiato dal regista Ti West.


Trama: anni dopo la terribile esperienza in Texas, Maxine Minx, sempre decisa a diventare una stella del cinema, ottiene una parte in un film horror. Qualcuno, però, è sulle sue tracce, pronto a rivangare il suo passato...


Ti West
ha concluso la sua trilogia, il suo progetto più ambizioso. Per quanto avessi adorato, all'epoca, X, mentirei se dicessi che avrei scommesso anche solo un'euro sulla riuscita dell'operazione. Credevo, erroneamente, che non si potesse fare meglio di così. Invece, il regista ci ha prima stupito con un racconto di frustrazioni e speranze tanto potente da farci provare pietà per quella che, a rigor di logica, avrebbe dovuto essere solo una disgustosa e rancorosa matta, infine ha concluso il percorso del personaggio Maxine Minx, inserendolo in un discorso più ampio legato al cinema di genere e alla società americana, senza una sola sbavatura. Maxine ha cominciato, in X, come potenziale stellina dell'hard dotata del "fattore X", quel qualcosa in grado di bucare lo schermo, riconducibile ad una cazzimma e una durezza interiore nate dalla ferma volontà di sfondare, a qualunque costo; in parallelo, West raccontava un'America ipocrita, che rinnegava in pubblico la fame di libertà sessuale stigmatizzando un'industria del porno mai stata così fiorente, e rivendicava la dignità di chi in quell'industria lavorava o creava legami familiari. Con MaXXXine, arriviamo agli anni '80 in cui le speranze di ricchezza e di progresso si scontravano con un clima di puro terrore, alimentato da un'amministrazione durissima e bigotta, pronta a creare nemici mediatici per ciò che più contava davvero, riassumibile con Patria, mamma, torta di mele. Negli anni del Satanic Panic e delle proteste contro horror, pornografia e persino giochi di ruolo, la realtà abilmente nascosta sotto il tappeto dell'ipocrisia puritana era fatta di squallidi localini a luci rosse, serial killer e quant'altro e questa sensazione di pericolo e "sporco" tangibile viene resa da Ti West ogni volta che Maxine esce di casa per andare a lavorare. Quanto alla protagonista, il tempo passato e il mancato successo non l'hanno resa meno determinata, anzi; ben consapevole della realtà che la circonda, dov'è un attimo venire uccise da un pazzo e dimenticate in un angolo di strada, Maxine è ben decisa a non lasciare che nulla disturbi la sua paziente ricerca di un'occasione giusta, e finalmente quest'ultima arriva con un ruolo all'interno di un film horror. L'amore di Ti West per la sua protagonista e per l'industria cinematografica è tangibile. La regista del film "La puritana II", le maestranze e il set diventano per Maxine l'unico punto fermo di un'esistenza minacciata da un caotico passato, e ogni azione "altruista" intrapresa da un personaggio al quale importa solo di se stesso (e, nonostante questo, impossibile da odiare) nasce proprio dal desiderio di non perdere in primis questo porto sicuro, oltre alla ovvia possibilità di diventare una star, finalmente. Di vivere la vita che Maxine merita.


Ovviamente, per raggiungere l'happy end, sempre che qualcosa di simile esista, Maxine dovrà passare per un'ordalia di morte e follia. Sono tanti i modelli a cui guarda Ti West, purtroppo per la sottoscritta è passato tuttavia tanto tempo da quando quegli stessi modelli mi sono passati sotto agli occhi. Perdonatemi, dunque, se non citerò Fulci e il suo Lo squartatore di New York, bensì i padri del Giallo all'italiana come Bava e Argento, "genitori" di killer senza volto e con le mani guantate, in grado di trasudare odio e perversione nonostante siano privi di un sembiante riconoscibile. Ma più del killer e del gusto di Ti West per delle morti ancora più splatter che nei film precedenti, mi ha colpita il modo in cui sono state rappresentate le sordide strade di una Los Angeles priva di patina nostalgica o glamour, con uno stile che mi ha ricordato moltissimo Cruising di Friedkin (anche se lì l'azione si svolgeva a New York); la fotografia di MaXXXine, fatta principalmente di ombre e cupe luci al neon, enfatizza ancora più la sensazione di pericolo imminente, di una città caotica e corrotta, dove gioventù e bellezza sopravvivono poco e male. Quanto a Mia Goth, sarebbe un delitto non parlarne. Mi riservo di farlo con più competenza quando avrò rivisto il film in lingua originale, perché al momento ho apprezzato maggiormente la sua interpretazione in Pearl, ma ormai direi che l'attrice ha centrato in pieno il personaggio titolare, portando a termine il non facile compito di spingere lo spettatore a fare il tifo per una "macchina da guerra" egoista e dalla morale ambigua. Anzi, sul finale a me è salito persino il magone per l'amarezza dello sguardo e delle espressioni di Mia Goth, specchio di un futuro incerto, sempre appeso a un filo, anche quando le cose parrebbero essersi risolte per il meglio (non ha aiutato la presenza, sui titoli di coda, della canzone Bette Davis Eyes, che mi spezza il cuore dal 2015). Il resto del cast non è meno interessante. Su tutti, ho apprezzato tantissimo l'inedito Kevin Bacon in versione detective laido e anche Elizabeth Debicki, con la sua algida eleganza, è perfetta come mentore di Maxine e motivatrice in grado di riportare il personaggio sulla "retta" via verso il successo. Sono sicura che MaXXXine meriterebbe ulteriori approfondimenti ma, come nel caso di Pearl, è un film che riuscirei a capire ed apprezzare di più a una seconda visione, quindi per ora mi fermo qui, ringraziando Ti West e Mia Goth per il bellissimo viaggio e per una delle trilogie migliori degli ultimi anni... nell'attesa che ci siano altre storie da raccontare!


Del regista e sceneggiatore Ti West ho già parlato QUI. Mia Goth (Maxine Minx), Elizabeth Debicki (Elizabeth Bender), Giancarlo Esposito (Teddy Night), Kevin Bacon (John Labat), Michelle Monaghan (Detective Williams), Bobby Cannavale (Detective Torres), Larry Fessenden (Guardia), e Lily Collins (Molly Bennett) li trovate invece ai rispettivi link. 

Sophie Thatcher interpreta la FX artist. Americana, ha partecipato a film come The Boogeyman e a serie quali The Exorcist e Yellowjackets. Anche produttrice, ha 24 anni e un film in uscita, Heretic.



Se MaXXXine vi fosse piaciuto, recuperate X - A Sexy Horror Story e Pearl. ENJOY!

venerdì 6 settembre 2024

Oddity (2024)

Spinta da un paio di immagini viste in rete, ho recuperato il recente Oddity, diretto e sceneggiato dal regista Damian Mc Carthy.


Trama: dopo l'omicidio della sorella gemella, una medium cerca di ricostruire l'accaduto, all'interno della casa dov'è avvenuto il delitto...


Oddity
è un film semplice, si potrebbe dire dall'impianto molto classico, che trova appunto forza in questa sua semplicità. Non importa, infatti, rinnovare i topoi dell'orrore, quanto saperli sfruttare al meglio, e Mc Carthy in questo dimostra di saperci fare. Tutto inizia da Dani, una donna decisa a passare la notte all'interno di un'immensa dimora. La situazione iniziale, che più classica non si può, mette già lo spettatore sul chi va là per una serie di dettagli che non vengono inizialmente spiegati: non si sa cosa ci faccia la donna lì, non si sa perché abbia impostato la macchina fotografica per fare ripetuti scatti in notturna, non si sa cosa si intende per il "we are connected" pronunciato durante una telefonata, si sa solo che il cellulare prende solo in un preciso punto dell'edificio e che non ci sono luci, quindi la costruzione di una situazione "da casa infestata" viene automatica. Tutti i misteri, se così si possono chiamare, di Dani, verranno rivelati a poco a poco, compresa la modalità della sua morte, attraverso le indagini della sorella gemella, Darcy. Darcy gestisce un negozio di "oggetti curiosi", come da titolo originale, spesso dotati di caratteristiche esoteriche, se non addirittura maledetti, ed è cieca. Il suo modo di vedere il mondo attraverso il dono della psicometria, il suo essere cresciuta in un ambiente che non nega gli spiriti, positivi o negativi che siano, si scontra con la pragmatica freddezza del marito di Dani, psichiatra che divide le persone in savi e pazzi, e che ha sempre una spiegazione scientifica per tutto. La "percezione" della realtà è la chiave di volta di Oddity, interamente costruito su sequenze riportate da punti di vista differenti, che spingono sia i personaggi che lo spettatore a dare interpretazioni viziate da preconcetti. Paradossalmente, chi è dotato di vista viene sviato, cullato da un'erronea sicurezza, mentre chi è cieco si affida a chi non è in grado di mentire, a percezioni che vanno oltre la razionalità. Oddity è per questo molto ironico, benché in senso amaro. Darcy è consapevole sia del suo potere sia del modo in cui gli altri la percepiscono come debole ed inferiore, ed è bello vedere come gli ignoranti ed irrispettosi vengano rimessi al loro posto con perfetto aplomb inglese e risposte salaci. Quanto a chi si ritiene superiore, Mc Carthy non perdona chi persevera nell'arroganza, e il contrappasso per chi sottovaluta il sovrannaturale e si crede più furbo degli altri è molto soddisfacente. 


La cosa più interessante di Oddity, tuttavia, è l'abilità del regista di sfruttare al meglio gli spazi, le luci e UN singolo elemento perturbante. In Caveat, il suo film precedente, l'ansia si concentrava soprattutto in una sequenza in particolare, che sfruttava paure ancestrali e usava, come detonatore, un terrificante coniglio di pezza. Se siete fan della bestiola, sappiate che in Oddity c'è un suo simpatico cameo, mentre il suo posto viene egregiamente preso da un golem di legno e, soprattutto, l'ansia viene distribuita a piene mani per tutto il film. Per quanto mi riguarda, Oddity è, al momento, la pellicola più terrificante del 2024, se parliamo di una paura viscerale, slegata da eventuale schifo splatter; la casa teatro del delitto, apparentemente ariosa e piena di spazi aperti, diventa un luogo sinistro, zeppo di ombre e punti ciechi che danno la sensazione di essere spiati da presenze oscure, sensazioni enfatizzate anche dal fatto che Mc Carthy non ricerca mai il jump scare, ma predilige creare situazioni di attesa che logorano i nervi dello spettatore. Aiuta molto il fatto che il golem di legno sia un incubo fattosi materia (non a caso una delle sequenze più efficaci vede la nuova fidanzata di Ted "giocherellare" attorno al manichino cercando di carpirne i segreti), ma a onor del vero Oddity fa paura già prima della sua comparsa, per tutta una serie di dettagli volutamente fraintendibili e alterati da una percezione stravolta dall'orrore di chi si ritrova a vivere determinate situazioni. Al suo secondo film, dunque, Damian Mc Carthy si è confermato un autore horror a tutto tondo, e personalmente non vedo l'ora che si metta alla prova con una terza pellicola, anche se le mie coronarie potrebbero non farcela. 


Del regista e sceneggiatore Damian Mc Carthy ho già parlato QUI.


Se Oddity vi fosse piaciuto, recuperate Caveat. ENJOY!

mercoledì 4 settembre 2024

Aliens - Scontro finale (1986)

La challenge di oggi voleva un film degli anni '80 e ho scelto così Aliens - Scontro finale (Aliens), diretto e co-sceneggiato nel 1986 dal regista James Cameron e vincitore di tre premi Oscar: Migliori effetti speciali, Miglior colonna sonora originale, Miglior montaggio sonoro.


Trama: l'astronave di Ripley viene ritrovata e la donna viene svegliata dal sonno criogenico dopo più di 50 anni. Il ritorno sulla Terra risulta difficile, ma non quanto dover tornare sul planetoide dove il suo equipaggio era stato sterminato dall'alieno, ora trasformato in una colonia...


Avrò sicuramente già scritto che la saga di Alien non è tra le mie preferite e che, di conseguenza, avrò visto i film che la compongono solo una volta, al massimo un paio. Ciò vale anche per Aliens - Scontro finale, che ricordavo di aver visto intorno al 1997 e poi mai più, ispirata (non ridete) dalla cassetta X-Terror Files 2, che conteneva un riadattamento della colonna sonora inframezzato da alcuni degli iconici dialoghi, in primis il "Get away from her, you bitch!" finale. E' stato dunque come guardare un film inedito, completamente diverso dal predecessore, che invece avevo ancora ben fresco in mente. Aliens, a differenza di Alien, non è un horror ma un action di fantascienza, carico di quelle vibes anni '80 che tanto fanno andare in visibilio chi è figlio di quei tempi come me. Nonostante questo, è anche un film modernissimo, ovviamente. Ripley, che nel primo capitolo veniva fatta assurgere a protagonista in maniera inaspettata, dopo un primo atto passato quasi completamente nell'ombra, è il fulcro della storia fin dall'inizio, nonché baluardo contro tutto ciò che è all-american e testosteronico, dal capitalismo sfrenato che non guarda in faccia a nessuno per il profitto, ai fucili automatici più grossi di coloro che li impugnano. Ripley è l'estranea dell'equipaggio, con tutti i suoi traumi, le sue diffidenze e il suo carattere stundaio, ma nel giro di poco si guadagna il rispetto e la fiducia del gruppo di marine impegnati nella missione su LV-426. Questo perché Ripley, in questo film, non lotta per la sua salvare se stessa, bensì la piccola Newt, unica sopravvissuta alla mattanza degli alieni, e ciò la rende ancora più umana e fondamentale, così come rende Aliens meno freddo e, passatemi il termine, più "avventuroso" rispetto all'algido capolavoro di Ridley Scott. Come ho scritto sopra, sono due generi diversi, ed è inevitabile. Lo spettatore sa già cosa aspettarsi dai ferocissimi xenomorfi; la tensione non manca, così come non mancano un paio di scene schifosette, ma gli alieni sono meno subdoli e più diretti, Cameron punta tutto su un gran dispendio di armi ed esplosioni, con un confronto col "boss finale" che risulta in uno scontro fisico tra titani e tra due tipi di istinto materno, diversi ma speculari.


Chi, come me, non è legato alla saga ma ha guardato da poco Avatar, si potrà divertire a trovare già in questo Aliens embrioni di un sacco di armi, armature, equipaggiamenti e personaggi, se ci fosse ancora bisogno di testimoniare la genialità di James Cameron e la modernità del suo spettacolare modo di fare cinema. Non a caso, gli effetti speciali reggono alla perfezione l'usura del tempo. Nell'Alien di Ridley Scott sembrava tutto, volutamente, già vecchio e squallido, Aliens rende invece protagonisti complicati ma funzionali esempi di ingegno umano (che nulla possono contro gli xenomorfi, ma questo è un altro discorso) e, dal momento in cui compaiono gli alieni titolari, è impossibile non rimanere a fissare lo schermo a bocca aperta. A proposito degli alieni, è impressionante il loro attacco ed è impressionante il loro realismo sia nelle inquadrature ravvicinate sia quando brulicano addosso ai poveri marine, per non parlare della terrificante "madre" annidata in una delle scenografie più genuinamente raccapriccianti della storia del cinema; se già lo xenomorfo del primo Alien aveva una sua perversa personalità, la Regina è un incubo gigante di tremenda intelligenza, un inarrestabile concentrato di odio che, da sola, decreta la superiorità degli effetti pratici su qualunque frutto della grafica computerizzata. E anche il cast, ovviamente, ha buona parte del merito della riuscita di Aliens. Sigourney Weaver è sempre iconica e il suo personaggio si arricchisce di ulteriore profondità grazie al legame, tenero e credibile, con la piccola Newt, ma gente come Lance Henriksen, Bill Paxton e Jenette Goldstein sono le ciliegine sulla torta di un parterre di marine indimenticabile, benché sfortunato, e non lo dico solo perché, grazie a questo film, è stato realizzato quel trionfo di Il buio si avvicina. Per l'ennesima volta, la challenge horror (anche se Aliens - Scontro finale di horror ha poco o nulla) mi ha dato delle gioie e mi ha spinta a riguardare un film che, nella mia pigrizia, non sarei riuscita a recuperare nemmeno con l'uscita di Romulus, cosa che invece ha fatto Lucia, con la sua bella rassegna che vi invito a leggere, perché scritta con competenza e passione, a differenza di questo post. D'altronde, sono scoppiata a ridere pensando a Cartman nel momento esatto in cui Newt ha detto "Molto spesso vengono di notte. Molto spesso", quindi sono proprio una brutta persona. 
 

Del regista e co-sceneggiatore James Cameron ho già parlato QUI. Sigourney Weaver (Ripley), Michael Biehn (Hicks), Lance Henriksen (Bishop), Bill Paxton (Hudson), William Hope (Gorman), Jenette Goldstein (Vasquez) e Mark Rolston (Drake) li trovate invece ai rispettivi link. 

Paul Reiser interpreta Burke. Americano, lo ricordo per film come Beverly Hills Cop - Un piedipiatti a Beverly Hills, Beverly Hills Cop II - Un piedipiatti a Beverly Hills II, Bella, bionda... e dice sempre sì, Storia di noi due, Dietro i candelabri, Whiplash, The Darkness e serie quali Innamorati pazzi, The Boys e Stranger Things. Anche sceneggiatore e produttore, ha 68 anni e un film in uscita, inoltre tornerà nell'ultima stagione di Stranger Things


Stephen Lang aveva fatto l'audizione per i ruoli di Burke e Hicks, mentre per quanto riguarda Bill Paxton c'è stato il serio rischio di vederlo come Zed in Scuola di polizia 2: Prima missione e per fortuna ha preferito accettare la parte di Hudson o non avremmo mai avuto Bobcat Goldthwait! Per brindare allo scampato pericolo, recuperate AlienAlien 3, Alien - La clonazione, Prometheus, e Alien: Covenant. ENJOY!  



martedì 3 settembre 2024

Alien: Romulus (2024)

Con la riapertura del multisala, sono corsa a vedere un film di cui avevano detto tutti meraviglie, Alien: Romulus, diretto e co-sceneggiato dal regista Fede Alvarez.


Trama: per fuggire alle tremende condizioni di vita della colonia, la giovane Rain ed altri amici decidono di tentare il viaggio verso un pianeta lontano, appropriandosi di un'astronave abbandonata. Ignorano che quest'ultima sia abitata da qualcosa di terrificante...


Se leggete da un po' il mio blog, saprete che non conosco granché la saga di Alien, anche se mi piace andare al cinema quando escono i film della serie. Li prendo però, per ignoranza, come stand-alone slegati da tutto il resto, non sono assolutamente in grado di trovare collegamenti salvo Ripley (quando c'è), l'alieno del titolo, e un paio di altri aspetti di dominio comune, che potrebbero conoscere anche i miei genitori. Alien: Romulus l'ho vissuto, dunque, come un "film horror con lo xenomorfo" e, come tale, per quanto mi riguarda ha assolto egregiamente il suo dovere, anche perché il mio cervello non è stato distratto da elementi riservati al fandom, sano o tossico che sia. Mi è piaciuto molto, per esempio, il minimo di background ed empatia riservati alla protagonista, Rain, e al suo sintetico difettoso, il povero Andy. Il rapporto familiare tra un'orfana che vive di stenti all'interno di una triste colonia spaziale dove non sorge mai il sole (una tale esasperazione del capitalismo da aver fatto il giro ed essere tornata a dividere le persone in classi sociali basate sui singoli lavori) e un androide col cervello di un bimbo che lei considera come un fratello vero tocca il cuore, ed è il motore della maggior parte degli sviluppi della sceneggiatura. Andy e Rain sono gli unici personaggi per i quali ci preoccupiamo davvero, nonostante i loro compagni non meritino le cose orrende che li aspettano sulla Romulus (oddio, forse uno sì), questo perché al loro comprensibile desiderio di una vita migliore, simboleggiato da un'alba luminosa, si unisce la rappresentazione di un legame verosimile e sincero. E ho apprezzato, ovviamente, l'approccio più horror di Alvarez, quei picchi di cattiveria che non risparmiano nemmeno gli "intoccabili". Qui, più che negli altri Alien che ho visto o ricordo, lo xenomorfo ha il gusto del gore e non solo spunta dagli anfratti più schifidi all'interno dei poveri cristi tanto sventurati da finire vittime dei facehuggers, ma ricorda agli incauti viandanti che non sta bene scontrarsi contro chi ha il sangue corrosivo. La sceneggiatura viene più che incontro a chi, come me, ricorda poco o nulla del resto della saga o non la conosce proprio (come il Bolluomo che, però, ha mostrato di gradire) ma il ritmo del film si mantiene tutto sommato veloce senza impantanarsi in spiegoni troppo didascalici e mentirei se dicessi che ogni tanto non mi sono sentita mozzare il respiro, non tanto con l'entrata in scena degli xenomorfi grossi, quanto più per quelle schifezzuole fecondanti.


Apprezzabile, all'interno di un film anti-capitalista ma finanziato da una grossa major, che Alvarez abbia deciso di affidarsi il più possibile ad effetti speciali artigianali, senza ricorrere troppo alla CGI senz'anima. Inoltre, benché il regista abbia sempre giocato in "piccolo", ambientando i suoi film all'interno di rifugi o case, bisogna dire che qui ha dimostrato di saper gestire al meglio anche i grandi spazi, sia esterni che interni alle gigantesche astronavi che fungono da teatro della vicenda, e a trasformarli in luoghi claustrofobici e oscuri, dove la mancanza di ossigeno è l'ultimo dei problemi. L'unica cosa che mi ha dato fastidio di Alien: Romulus (tornando in argomento anti-capitalismo, asservimento alle major, mancanza di anima, ecc.) è una scelta che mi indispone a livello etico e che qui non sto a spoilerare, se ancora non avete visto il film. Mi chiedo però se non ci fosse un altro modo per far drizzare i capelli ai fan e, contemporaneamente, sfruttare l'effetto nostalgia anche per fornire spiegazioni ai neofiti, senza ricorrere a mezzucci che già avevo visto con occhio critico in Ghostbusters: Legacy. Temo siano scelte che rischiano di svilire, nel tempo, il lavoro dei professionisti, e di prendere chine molto pericolose, soprattutto a scapito di chi non è ancora famoso e, così, rischia di non diventarlo mai. Ma ho già detto troppo, se avete visto il film o lo andrete a vedere ne riparleremo, i poco utilizzati commenti servono apposta. Fastidio da vecchia barbogia a parte, ho trovato Alien: Romulus un ottimo horror estivo, molto dinamico e ansiogeno ma anche, passatemi il termine, più "leggero" rispetto agli ultimi due Alien diretti da Ridley Scott, che avevo trovato più affascinanti. Non mi sono entusiasmata quanto avrei voluto (o mi sarei aspettata), ma è comunque un film che vi consiglio di vedere al cinema.


Del regista e co-sceneggiatore Fede Alvarez ho già parlato QUI mentre Cailee Spaeny, che interpreta Rain, la trovate QUA


Alien: Romulus
si colloca, cronologicamente, tra  Alien e Aliens - Scontro finale, quindi precede Alien 3 e Alien - La clonazione ma viene prima di Prometheus, e Alien: CovenantENJOY!