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lunedì 28 febbraio 2022

Il Bollodromo #91: Lupin III - Parte 6 - Episodio 20

Continuano i filler della serie Lupin III - Parte 6! Sabato l'episodio era interamente dedicato a Fujiko, come già si poteva evincere dal titolo: 二人の悪女 (Futari no akujo - Due perfide donne). ENJOY!


E' un giorno di deboscia come un altro: mentre Fujiko si dà allo shopping, Lupin la intrattiene con la classica telefonata da smartworking, ovvero elegante sopra e in mutande fuori dalla telecamera (mentre Jigen lucida la pistola fuoricampo), e cerca di strapparle un appuntamento. A rovinargli i piani, arriva la Harley Quinn della situazione, ovvero una vecchia amica di Fujiko, Amelia, che la "rapisce" per rivangare i bei tempi in cui rubavano assieme e per proporle un nuovo colpo. Fujiko non è troppo convinta; Amelia è carina, "tomboyish" e casinista, ma anche raffazzonata, infatti il loro ultimo colpo ai danni di un magnate della tecnologia si era concluso con una quasi cattura e con detto magnate sfigurato da un ferro rovente, presumibilmente morto. Nonostante ciò, Fujiko accetta di aiutarla a rubare la collana del capo di una setta, dove Amelia si è già infiltrata in guisa di suora, con la scusa che al capo/sacerdote/divinità piacciono le belle donne.


Le due fanciulle arrivano dunque sull'isola sede della setta e lì Fujiko scopre (ma ci ero arrivata anche io tipo 10 minuti prima) che il gran sacerdote non è altro che il magnate della tecnologia sfigurato, ovviamente assetato di vendetta nei confronti della pettoruta ladra, che viene lasciata in mutande e reggiseno e legata a un marchingegno di tortura assai simile a quello del vecchio Mister X, solo con ferri roventi al posto delle manine che fanno il solletico. Fujiko viene ovviamente salvata da un override del sistema operato da Lupin, che già da mesi tentava di entrare nel database dell'ex magnate onde fregargli tutti i soldi, il marrano viene marchiato a morte e Amelia viene perdonata perché non ha tradito Fujiko per soldi, bensì per vendicarsi del magnate, reo di avere venduto come schiave delle sue vecchie amiche dell'orfanotrofio... e poi perché incinta. Di chi non si sa, visto che il compagno di Amelia non si vedrà mai nell'episodio e visto che la fanciulla dimostra un amore per Fujiko fuori dal comune, ma sta di fatto che di lì a poco nasce un pargolo e Amelia arriva a definire Fujiko "papà". Vabbé.


Nonostante sia un filler, l'episodio scorre fortunatamente rapido e divertente, soprattutto grazie alla vivacità simpatica di Amelia, tanto che quasi quasi verrebbe voglia di vedere di nuovo la strana coppia all'opera. Molto belle e vivaci anche le melodie della colonna sonora, gradevoli le animazioni e accattivante il giusto il character design di Amelia, anche se è davvero dura figurarsi la sensuale Fujiko in combutta con una ladruncolotta in felpetta rosa e shorts. Interessanti anche le citazioni, a partire da quella, già segnalata, della macchina di tortura del vecchio Mr X, per arrivare ai chupa chups utilizzati come sostitutivo delle sigarette: sapevate che nel (fortunatamente) mai realizzato anime Lupin VIII, di cui rimane solo il pilota, il discendente di Jigen avrebbe tenuto in bocca dei lecca lecca invece della sigaretta d'ordinanza? Orrore e raccapriccio, ma potete trovare ancor più orripilio QUI. Alla prossima settimana!




venerdì 25 febbraio 2022

Wrath of Man (2021)

Qualche domenica fa dovevo andare a vedere King's Man ma per una sfortunata serie di eventi non sono riuscita. Ho ripiegato dunque su Wrath of Man, pseudo-remake del film Cash Truck, diretto e co-sceneggiato da Guy Ritchie nel 2021 e disponibile su Prime.


Trama: il nuovo acquisto all'interno di un'agenzia di portavalori si rivela essere anche troppo bravo nel suo mestiere e sta allo spettatore scoprire perché...


C'era una volta Guy Ritchie. C'era, di fatto, nemmeno troppo tempo fa, visto che lo scoppiettante The Gentlemen è del 2019. Non che sia scomparso, qualcosa del regista inglese rimane in questo Wrath of Man, eppure qui dentro manca un elemento particolarmente importante, ovvero la cazzoneria allegra e il black humour che caratterizzano da sempre la maggior parte dei film meglio riusciti di Ritchie, perché la pellicola in questione è di una serietà mortale. Se vogliamo, la cosa fa un po' ridere già di per sé, vista la natura "classica", molto anni '80/'90, della trama, e dei suoi personaggi tagliati con l'accetta. Ma andiamo nel dettaglio. Wrath of Man racconta la storia di H, uomo duro e puro che non sorride mai nemmeno per sbaglio (e io torno a ripetere, caro il mio Jason Statham, che la fissità facciale Bruce Willis l'ha raggiunta verso il 2015, all'età di 60 anni, mentre tu devi ancora compierne 50 ma sei già irrecuperabile da un decennio) e che trova lavoro all'interno di un'agenzia di portavalori, come guardia giurata, dopo che già due dipendenti si sono beccati un proiettile in faccia durante una rapina. La pericolosità di un lavoro dove, di regola, basta mollare i soldi per sopravvivere, viene sottolineata ad ogni piè sospinto dai vari dipendenti dell'agenzia, un'accozzaglia di uomini (e una donna) duri e puri ma non quanto H, che si ritrovano basiti dinnanzi alla bravura, alla freddezza e al celodurismo di quest'ultimo, il quale in un paio di occasioni riesce a sbaragliare da solo i malviventi uccidendoli malissimo e addirittura mettendone in fuga un paio solo guardandoli. Potete scommetterci i bicipiti scolpiti che H nasconde un segreto, e Ritchie ve lo rivelerà sfasando un po' di piani temporali e andando avanti e indietro tra capitoli scanditi da citazioni (penso) bibliche e personaggi tutti più o meno biasimevoli ma privi di quel guizzo di simpatia capace di renderli in qualche modo gradevoli.


Ritchie
tenta di avvicinarsi allo stile di Michael Mann, buttandoci in mezzo anche qualcosina di 8 mm in una sequenza potenzialmente ad alto tasso di orrore/squallore, ma non riesce ad andare oltre la superficie di uno stile che non è evidentemente il suo, né a nobilitare questa storia di superuomini con superproblemi dando loro un minimo di profondità. Il che non vuol dire che ho odiato Wrath of Man, anzi, la trama sicuramente intrattiene molto, non fosse altro che per capire cosa sia successo ad H e cosa si nasconda nel suo passato, e le scene d'azione sono realizzate con tutti i crismi di una regia assai curata, tuttavia non mi ha divertita in quella maniera tutta esaltante che è propria di Ritchie e c'è da dire che neppure i personaggi sono granché, il che si traduce in uno spreco di attori anche validi (Holt McCallany e Jason Statham sono gli unici due che spiccano, per ovvi motivi, mentre gli altri potrebbero anche essere scambiati con dei cartonati e spariscono dalla mente dello spettatore dopo due minuti, siano essi buoni o cattivi), inghiottiti da quell'aria cupa e triste che pervade la pellicola in tutta la sua interezza. Peccato, perché Wrath of Man avrebbe avuto tutte le potenzialità per diventare un film con le palle, anche con un cambio di stile da parte di Ritchie (ché non è giusto rimanere sempre immutabili e ancorati al passato, per carità), ma così risulta troppo piatto e privo di personalità per farsi ricordare più di un paio di giorni.   


Del regista e co-sceneggiatore Guy Ritchie ho già parlato QUI. Jason Statham (H), Holt McCallany (Bullet), Josh Hartnett (Boy Sweat Dave), Jeffrey Donovan (Jackson), Scott Eastwood (Jan), Andy Garcia (Agente King) e Eddie Marsan (Terry) li trovate invece ai rispettivi link. 


Laz Alonso, che interpreta Carlos, è il Latte Materno della serie The Boys. Se Wrath of Man vi fosse piaciuto cercate Cash Truck, l'originale da cui è tratto, e aggiungete Heat - La sfida. ENJOY!

mercoledì 23 febbraio 2022

Non aprite quella porta (2022)

Nonostante ne abbiano parlato cani e porci, ho deciso di scrivere anche io due (stupide e spoilerose, vi avverto) righe su Non aprite quella porta (Texas Chainsaw Massacre), diretto dal regista David Blue Garcia e disponibile su Netflix.


Trama: i giovanissimi investitori che hanno acquistato una cittadina del Texas per trasformarla in un paradiso commerciale si ritroveranno a dover affrontare un problema tanto imprevisto quanto mortale, ovvero Leatherface.


Non aprite quella porta
, frutto della collaborazione tra David Blue Garcia, Fede Alvarez e la Romania, è probabilmente il film "horror" più divertente che vi capiterà di vedere quest'anno, ma vi avviso: per approfittare come si deve dei suoi mille aspetti esilaranti, dovrete essere un po' brilli, altrimenti vi gireranno solo le palle. Diamo a Cesare quel che è di Cesare. Dal mero punto di vista dello splatter, Non aprite quella porta 2022 ve ne regalerà litri, così come abbondanza di morti violente particolarmente atroci, quasi tutte inflitte ai danni di persone non granché simpatiche, se non addirittura detestabili, e un'altro punto di forza del film è che è talmente breve e veloce nel suo andare subito al punto, che non avrete modo di annoiarvi. Se da un horror chiedete solo questo, non sarò assolutamente io a dissuadervi dal guardarlo, e potrei anche dirvi che Non aprite quella porta è perfetto per quanto possa esserlo qualsiasi altro dimenticabile horror realizzato in esclusiva per Netflix. Purtroppo, anche sotto l'effetto di Riesling e Don Zoilo, non sono proprio riuscita ad evitare di venire schiaffeggiata da quelle due o tre belinate in guisa di eclatanti esempi di pigrizia in fase di sceneggiatura, oltre che dalla smaccata voglia di scimmiottare (o magari volevano cavalcarne il successo? Non si capisce) il recente reboot di Halloween, tanto che spesso mi è parso di guardare quei "bei" film horror di serie Z zeppi di dialoghi imbecilli e cretinate assortite che tanto mi divertivo a recensire armata di blocchetto per gli appunti, oppure uno Sharknado. Da qui in poi sono SPOILER come se piovessero, io vi avverto!


Non aprite quella porta
2022 parte dall'idea di essere un reboot ma anche un sequel, e non lo dico io che della saga ho visto giusto un paio di film, ma proprio la sceneggiatura, che ambienta le vicende in un universo dove Sally, l'unica sopravvissuta alla mattanza anni '70, ha passato tutta la sua vita (come Laurie Strode! *wink wink*) a cercare Leatherface per accopparlo. Peccato che Leatherface, tutt'altro che interdetto, abbia pensato bene, per non farsi beccare, di rifugiarsi in un orfanotrofio e mescolarsi ai pargoli dell'istituto nonostante fosse un omone di, a spanne, direi almeno 20 anni oltre che 190 cm, facendola fessa per lunghi decenni pur abitando nella stessa città. Se già questo non vi pare un assunto idiota, parliamo di come gli sceneggiatori hanno scelto di spedire giovani vittime da Leatherface. Nell'anno del Signore 2022, un branco di fighètti della grande città (non se ne salva uno. Né il ragazzo di colore, né la ragazzetta traumatizzata da una sparatoria che si convince di essere predestinata alla morte, nemmeno avesse sbagliato film) decide di acquistare proprio "quella" cittadina del Texas per trasformarla in rinomato centro di shopping, divertimenti, raffinatezza, vita migliore. E per quali eventuali clienti, di grazia? Per lo zotico panzone che sta alla pompa di benzina e non vede il sapone da decenni o per lo zotico che si presenta come un celodurista di prim'ordine, tutto fucili automatici, The South Gonna Rise Again e cazzimma, e poi soccombe appena Leatherface gli tira un buffetto? Giustamente è troppo anche per Leatherface, che di fronte all'idea di avere sotto casa ristoranti poké, negozi bio e monopattini, sbrocca male come un vecchio improvvisamente privato dei cantieri.


Quanto a Sally, la povera Sally. Sally cammina per la strada senza nemmeno guardare per terra, e si vede belin, sono decenni che hai Leatherface attaccato alle chiappe e manco te accorgi. Però chi se ne frega, direte voi. Sally è una vecchia incazzata, pure lei non se lo fa menare, ha un fucile e lunghi capelli bianchi, la carogna sulle spalle allevata a odio e rancore, sai che bello scontro fra titani ne uscirà fuori? Invece no. Nell'anticlimax più grosso della storia del cinema recente, Old Man Leatherface (cit.) se la trova davanti e la guarda con ancora meno interesse di quanto ne avrei io per l'ultima trasmissione della D'Urso e giuro che lei avrebbe ogni possibilità di fare spallucce e andarsene. Purtroppo, la poveraccia non solo viene dileggiata dalla sua ragione di vita, ma anche vilipesa dagli sceneggiatori mostrando di valere, ai fini della trama e dell'eventuale salvezza di un paio di personaggi, quanto il due di coppe a briscola, con buona pace di chi sperava in qualcosa di più di una semplice, triste lista di citazioni. La raffinatezza del "saluto" finale di Leatherface allo spettatore e alla gentrificazione è l'ennesimo, esilarante chiodo nella bara di un film che probabilmente voleva anche essere un serio e rispettoso omaggio aggiornato al gusto odierno di un film che, ancora oggi, è mirabile esempio di terrore e disagio privo o quasi di sangue, ma che si è invece trasformato nella pellicola più esilarante dell'anno. D'altronde, l'immagine che segue poteva darci un'idea di quali "stimoli" avrebbe indotto la visione. 


Di Olwen Fouéré, che interpreta Sally Hardesty, ho già parlato QUI mentre Alice Krige, che interpreta Mrs. Mc, la trovate QUA.

David Blue Garcia è il regista della pellicola, al suo secondo lungometraggio. Americano, lavora principalmente come direttore della fotografia ma è anche sceneggiatore, produttore e attore. 


Elsie Fisher
interpreta Lila. Americana, ha partecipato a serie quali Medium e Castle Rock; come doppiatrice, ha lavorato in Cattivissimo me, Masha e Orso, Cattivissimo me 2 e La famiglia Addams. Ha 19 anni e due film in uscita. 


Non sono particolarmente esperta di Non aprite quella porta ma, a ragion di logica, questo dovrebbe essere un sequel diretto del primo film; se siete amanti della completezza avete da recuperare però anche Non aprite quella porta - Parte 2 , Non aprite quella porta - Parte 3, Non aprite quella porta IV (1994), Non aprite quella porta 3D (che dovrebbe essere un sequel-reboot del primo) e Leatherface, ai quali potete aggiungere il remake del 2003 Non aprite quella porta e il suo prequel Non aprite quella porta: L'inizio (2006). ENJOY!

martedì 22 febbraio 2022

Assassinio sul Nilo (2022)

Siccome è uno di quei generi che unisce me, l'amico Toto e l'amica Elena, mercoledì siamo andati a vedere tutti assieme Assassinio sul Nilo (Death on the Nile), diretto nel 2022 dal regista Kenneth Branagh e tratto dal giallo omonimo di Agatha Christie


Trama: in Egitto per un altro caso, l'investigatore Poirot viene coinvolto nel viaggio di nozze di Linnet e Simon, ma la traversata del Nilo si trasforma nell'ennesimo caso di omicidio da risolvere...


A causa della mia ormai proverbiale mancanza di tempo, non sono riuscita a riguardare Assassinio sull'Orient Express come avrei voluto, quindi sono andata a rileggermi il post scritto all'epoca (vedete che a qualcosa serve avere un blog!) per capire un po' cosa avrei potuto dire di diverso su Assassinio sul Nilo, secondo excursus branaghiano nell'universo di Hercule Poirot. Alla fine della rilettura ho pensato che, probabilmente, è stato un bene non avere rivisto Assassinio sull'Orient Express, in quanto Assassinio sul Nilo sembra aver mantenuto tutti i difetti della precedente pellicola senza compensare con eventuali pregi. Anche questa volta, ovviamente, c'è un comparto tecnico di prim'ordine, nel quale spiccano scenografie, costumi e una fotografia sontuosa che sottolinea l'(in)naturale bellezza dei paesaggi egiziani (il film è stato interamente girato in Inghilterra, quindi c'è da porre enfasi anche sugli effetti speciali di prim'ordine), ma tutto ciò non basta a nascondere una generale aria di sciatteria e desiderio di far solo dei soldini. Branagh mi è parso con la testa impegnata già nell'acchiappaOscar Belfast (che ovviamente devo ancora vedere), perché qui mancano gli interessanti virtuosismi di regia e i momenti action che avevo apprezzato in Assassinio sull'Orient Express e, ancor peggio, Poirot è antipatico e mollo più di quanto ricordassi. Parlo da persona che non ha mai letto un libro di Agatha Christie, ma onestamente dubito che il famoso investigatore lo sia diventato a fronte dei suoi interminabili pipponi sull'amore, la solitudine e il rimpianto, che spezzano il ritmo del racconto in maniera vergognosa, al punto che (giuro) alla fine del primo tempo la storia non era ancora entrata nel vivo (!), persa in un atroce desiderio di appagare l'occhio del pubblico con una lunghissima introduzione all'interno della quale, col senno di poi, ci saranno giusto un paio di momenti o dettagli fondamentali per la risoluzione del caso.


Il risultato, posso dirlo?, è quello di avere davanti un giallo abbastanza noioso che non decolla quasi mai, neppure davanti all'arrivo, finalmente, del primo cadavere e che, come già accadeva nel primo film, fa un uso smodato del baffo tracotante di Kenneth Branagh a discapito del resto dei protagonisti, non memorabili né incisivi, neppure a fronte di un paio di cambiamenti che (a costo di passare per uno di quei bonobi razzisti e sessisti che infestano l'internet) mi sono parsi delle inutili forzature per strizzare l'occhio all'inclusività. Al solito, dunque, abbiamo un ottimo cast sprecato. Nessuno dei protagonisti, infatti, mi è rimasto particolarmente impresso e gli unici attori in grado di distinguersi dagli altri sono Gal Gadot, bella ed inarrivabile come al solito, il buon Tom Bateman a cui viene letteralmente affidato il cuore del film e quel minimo di vivacità necessaria a rendere un po' più simpatico e umano Poirot, una Sophie Okonedo molto affascinante nei panni di cantante agée, ed Emma Mackey, anche se la sua interpretazione di Jackie mi è sembrata persino troppo caricata. Gli altri svaniranno dalla mia mente probabilmente in un paio di giorni, così come succederà ad Assassinio sul Nilo nella sua interezza, un film che consiglio giusto come divertissement, se siete davvero appassionati del genere oppure se siete maniaci della completezza (esempio: se vi siete chiesti come sia nato il baffo d'ordinanza di Poirot qui vi verrà spiegato nei minimi dettagli e se siete delle persone brutte come me vi sbellicherete dalle risate per l'assurdità del tutto e per la serietà con cui i coinvolti hanno affrontato una simile baffonat... ehm, buffonata) sperando che Branagh torni a dedicarsi ad altro. 


Del regista Kenneth Branagh, che interpreta anche Hercule Poirot, ho già parlato QUI. Armie Hammer (Simon Doyle), Gal Gadot (Linnet Ridgeway), Annette Bening (Euphemia Bouc), Rose Leslie (Louise Bourget) e Russell Brand (Windlesham) li trovate invece ai rispettivi link. 

Letitia Wright interpreta Rosalie Otterbourne. Nata in Guyana, ha partecipato a film come Black Panther, Ready Player One, Avengers: Infinity War, Avengers: Endgame e serie come Doctor Who e Black Mirror. Anche produttrice e sceneggiatrice, ha 29 anni e quattro film in uscita, tra cui Black Panther: Wakanda Forever. 


Sophie Okonedo
interpreta Salome Otterbourne. Inglese, ha partecipato a film come Ace Ventura - Missione Africa, The Jackal, Hotel Rwanda (che le è valso la nomination all'Oscar come Miglior Attrice Non Protagonista), Hellboy e serie come Doctor Who. Ha 55 anni e un film in uscita. 


Tom Bateman
aveva già interpretato Bouc in Assassinio sull'Orient Express mentre Ali Fazal era l'Abdul di Victoria e Abdul. Dawn French e Jennifer Saunders, che interpretano rispettivamente l'infermiera Bowers e Marie Van Schuyler sono invece un duo comico parecchio famoso in Inghilterra. Ciò detto, se Assassinio sul Nilo vi fosse piaciuto, recuperate la versione del 1978 e, ovviamente, Assassinio sull'Orient Express. ENJOY!

lunedì 21 febbraio 2022

Il Bollodromo #90: Lupin III - Parte 6 - Episodio 19

Dopo l'interruzione dovuta alle Olimpiadi invernali, sabato è ricominciata la programmazione di Lupin III - Parte 6, con un episodio che vede praticamente assenti i personaggi principali, dal titolo フェイクが嘘を呼ぶ 後篇 (Feiku ga uso o yobu kōhen - La bugia dell'impostore - seconda parte). 


Avevamo lasciato Zenigata in un carcere di Cotornica (dicasi Turchia), accusato dell'omicidio della politica Hazel. La polizia del luogo non ha nessun'intenzione di scarcerarlo, quindi tocca ai kohai dell'ispettore, Yada e Arianna detta Ari, cercare indizi che ne provino l'innocenza. Nel corso delle indagini, veniamo a sapere che anche Ari ha avuto una maestra in passato, e guarda un po' se 'sta maestra non si chiamava Tomoe! Ossignur che ansia, signora mia. A parte questo, i due novellini tanto interdetti non sono, perché arrivano a pizzicare il "paparazzo" che seguiva come un falco Hazel e a trovare una foto che mostra un'immagine sfocata del killer della donna, un assassino troppo esile per essere Zenigata, il quale viene quindi liberato. Quest'ultimo scemo non è, e ha capito che i novellini si piacciono parecchio; da bravo papà li lascia liberi di andare a cena fuori da soli e persino di finire in camera assieme, ma sia mai che gli autori non pensino ai bambini e non condannino il povero Yada a ubriacarsi e parlare a sproposito, andando così in bianco proprio sul più bello e, ancor peggio, scatenandosi addosso la "maledizione di Jigen". Infatti, nemmeno Ari è scema, e ha notato al polso del killer un braccialetto identico a quello che portava Matja durante il loro ultimo incontro. E' vero che di quei braccialetti dozzinali ce ne saranno la metà di mille in giro per Cotornica, ma tant'è: Ari propone a Matja un incontro durante il quale quest'ultima, messa alle strette, ferisce gravemente/uccide (ancora non si sa ma propendo per la seconda ipotesi) la poliziotta, con somma disperazione di Yada e Zenigata, avvisati dell'incontro ma giunti troppo tardi in soccorso. Prima di spirare, Ari consegna a Zenigata una chiavetta e gli dice di darla a Lupin il quale, intanto... non sta facendo una beneamata mazza, salvo mangiare ramen e annoiarsi nel rifugio assieme a Jigen e Goemon.


L'episodio 19 è una puntata atipica, all'interno del quale i personaggi principali non si vedono praticamente per nulla e che mette sotto i riflettori quello Yada che ci camalliamo dietro da un paio di stagioni ma che non è mai stato approfondito granché. Per carità, anche stavolta di lui non veniamo a sapere altro salvo il suo destino di diventare dileggiato e sfigato più di Zenigata, perché tanto quel che importa agli autori è inserire in ogni puntata una donna diversa, più o meno legata a Tomoe. Quanto a quest'ultima, continuo a pensare che la sua identità si nasconda dietro quella di Matja, che avevo già "sgamato" come villainess QUI, ma a questo punto un'altra ipotesi è che la finta fioraia sia in realtà la vera figlia o addirittura IL vero figlio di Tomoe, e che stia uccidendo tutti i finti pargoli che la donna ha avuto nel corso del tempo per mera sete di rivalsa o vendetta. Vedremo. E, a proposito di vedremo, invito gli animatori a migliorare i disegni, ché in questa puntata hanno davvero toccato i minimi storici di sciatteria, perdiana. Il prossimo episodio sarà un altro filler (mabbastaaaaHHH) interamente dedicato a Fujiko; l'ultima volta che è successo il protagonista era Lucifero, stavolta mi pare le tocchi una wannabe Harley Quinn, quindi speriamo bene. 



venerdì 18 febbraio 2022

King Richard (2021)

Speravo di non doverlo guardare, invece King Richard, diretto nel 2021 dal regista Reinaldo Marcus Green, si è beccato ben 6 candidature all'Oscar (Will Smith Miglior Attore Protagonista, Miglior Film, Aunjanue Ellis Miglior Attrice Non Protagonista, Miglior Montaggio, Miglior Sceneggiatura Originale e Miglior Canzone) e non ho potuto esimermi.


Trama: Richard Williams ha un "piano", ovvero quello di fare diventare le figlie Venus e Serena le migliori tenniste del mondo, e lo persegue con inaudita testardaggine...


Sarebbe meglio iniziare il post con una precisazione: lo "speravo di non doverlo guardare" scritto all'inizio deriva dal mio ormai consolidato e noto fastidio per Will Smith e per i film a tema sportivo. Per quanto riguarda i film, il fastidio nasce dalla mia atavica pigrizia, mentre Will Smith mi è sempre stato sulle balle a pelle fin dagli anni '90 in quanto non l'ho mai considerato un grande attore (no, non ho mai guardato Alì. No, non ho voglia di farlo, immagino che lì sia bravissimo, vi credo sulla fiducia!) e non ho mai apprezzato la sua aria tronfia da, per l'appunto, Principe di Bel Air. Quando ho visto il suo nome nella rosa dei candidati ho alzato gli occhi al soffitto e, mi spiace dirlo, ma dopo la visione di King Richard mi si sono direttamente ribaltati nelle orbite, in quanto la sua interpretazione è sì perfetta, ma solo perché a Richard Williams verrebbe voglia di dare schiaffi in eterno. Anzi, vi dirò di più. Durante la visione ho spesso pensato che il ruolo sia andato a Smith e non a Denzel Washington solo perché il primo è anche produttore del film, visto che Richard Williams ha la stessa identica simpatia del protagonista di Barriere, che aveva fruttato a Denzel la sua settima nomination. In virtù di ciò, non ritengo che l'interpretazione di Smith sia eccezionale come la dipingono in molti: Richard Williams, nonostante la storia gli abbia poi dato ragione, è qui dipinto fondamentalmente come un tronfio testa di pazzo che non accetta né ritardi né imprevisti che possano interrompere il suo "piano" di dare vita a due numeri uno del tennis mondiale e se la candidatura a Smith è stata data in virtù di quei due momenti in cui il personaggio si dimostra fragile e insicuro dopo un intero film passato a muso duro con sporadici sorrisetti sprezzanti, allora alzo le mani. E' tuttavia innegabile che Richard William sia un personaggio molto interessante e sfaccettato e che la storia di Serena e Venus, colma di potenziale ispirazione com'è, meriti di essere raccontata e conosciuta. 


King Richard
non ha fatto breccia nel mio fastidio per Will Smith ma sicuramente ha superato con agio le barricate erte contro i film a tema sportivo, coinvolgendomi con la storia vera di due ragazze che rischiavano di avere un destino già segnato nei peggiori ambienti di Compton e che invece, grazie alla dedizione e alla perseveranza dei genitori, sono riuscite ad assurgere a icone sportive e simboli di speranza per tutti i ragazzi come loro (e non solo Serena e Venus, ma tutte le figlie di Oracene Williams hanno avuto carriere interessanti). La sceneggiatura del "novellino" Zach Baylin è un perfetto condensato di tutto ciò che può coinvolgere lo spettatore e alterna in maniera abbastanza equilibrata ascese ed inevitabili cadute delle due atlete e dei piani di papà Richard, tratteggiando con poche pennellate la natura pericolosa del quartiere dove vivono e si allenano i Williams, nonché la perplessità suscitata sia nei bianchi che nei neri dalla "strana" famiglia, e nonostante metta forse troppa carne al fuoco riesce in qualche modo ad approfondire perlomeno i personaggi principali e, soprattutto, a trasmettere il fuoco della competizione durante i concitati match che vedono Venus protagonista. Tutto considerato, se si aggiungono anche le pregevoli interpretazioni di Aunjanue Ellis, Saniyya Sidney e Jon Bernthal (quest'ultimo dotato di una capigliatura sì inguardabile, ma mai quanto quella del vero Rick Macci!), King Richard è un film gradevolissimo, che merita di venire visto e che sicuramente scalda il cuore più del 90% dei biopic in gara quest'anno (ma non supera, a mio avviso, Tick Tick Boom!, molto più emozionante), basta solo tenere a mente che non si tratta di un capolavoro e che la marea di nomination e premi che gli sono piovuti addosso la dice lunga sulla qualità generale del Cinema in questi tempi coviddati o sui gusti della critica che conta.


Di Will Smith (Richard Williams), Jon Bernthal (Rick Macci), Tony Goldwyn (Paul Cohen), Brad Greenquist (Bud Collins) e Dylan McDermott (George Macarthur) ho già parlato ai rispettivi link. 

Reinaldo Marcus Green è il regista della pellicola. Americano, ha diretto film come Monsters and Men. E' anche produttore, sceneggiatore e attore. 


Aunjanue Ellis
interpreta Oracene "Brandy" Williams. Americana, ha partecipato a film come The Help, Se la strada potesse parlare e a serie quali Numb3rs, True Blood e Lovecraft Country. Anche produttrice, ha 53 anni. 



martedì 15 febbraio 2022

Drive My Car (2021)

Il percorso lungo e tortuoso dei recuperi pre-Oscar continua con Drive My Carドライブ・マイ・カー), diretto e co-sceneggiato nel 2021 dal regista Ryusuke Hamaguchi a partire dalla raccolta Uomini senza donne di Haruki Murakami e candidato a 4 premi Oscar (Miglior Film, Miglior Regia, Miglior Sceneggiatura Non Originale, Miglior Film Straniero).


Trama: Dopo avere scoperto i tradimenti della moglie, un attore e regista teatrale rimane ulteriormente sconvolto dalla morte di lei, che lo lascia con troppe domande senza risposta. 


Sarebbe molto facile iniziare il post su Drive My Car saltando sul carro del vincitore e magnificando le lodi del film che ha stregato Cannes, prima ancora dell'Academy, vincendo ben tre premi, tra i quali quello per la migliore sceneggiatura. Purtroppo per voi (ma soprattutto per me), io sono una Crassa ignorante e ritengo che Drive My Car sia una di quelle pellicole che necessitano di essere elaborate, magari dopo un paio di visioni, e che riescono a colpirmi maggiormente dopo una riflessione a freddo invece di folgorarmi sulla via di Damasco; purtroppo, a causa della sua durata elefantiaca probabilmente non rivedrò Drive My Car mai più nella vita, ché (con rispetto parlando) tre ore di depressione e silenzi non mi fanno benissimo alla psiche. Quindi no, Drive My Car non è il mio film del cuore, ma neppure il più bello del 2021, almeno per quanto mi riguarda, e se arriverà a vincere qualche Oscar spero sia solo quello per la sceneggiatura, effettivamente profonda e articolata, a mio avviso più godibile non tanto per chi conosce l'opera originale di Murakami, quanto piuttosto Zio Vanja di Checov. La creatura del drammaturgo russo, infatti, "perseguita" i personaggi e scorre in parallelo con le loro vicende, trasformandosi in una sorta di specchio o di completamento di tutto ciò che li turba, in primis, ovviamente, per quanto riguarda il protagonista Kafuku-san, drammaturgo e attore che ha perso la moglie poco dopo averne scoperto i tradimenti. Kafuku è un artista specializzato nella produzione di opere multilingue, ovvero con attori di diverse nazionalità che recitano nella loro lingua d'origine; l'amara ironia della vicenda è l'impegno profuso da Kafuku nel superare ogni scoglio legato alla comunicazione, adoperandosi affinché siano le interpretazioni degli attori ad arrivare al cuore del pubblico e a far "parlare" il personaggio, in aperto contrasto con l'incapacità di Kafuku di comunicare con la moglie, risultante in un gigantesco senso di colpa a seguito della morte di lei.


Fin dall'inizio, Kafuku viene connotato come un uomo metodico ed indipendente, e la prima parte del film è dedicata a tratteggiare il legame tra lui la moglie, sceneggiatrice dall'animo contorto che sembrerebbe il perfetto opposto del marito; quest'ultimo, prima ancora della scoperta del tradimento, parrebbe restio ad aprirsi completamente con lei o a sondarne l'animo, anche a seguito di un lutto che ha minacciato di distruggere il matrimonio. Lo stesso distacco, la stessa freddezza, Kafuku la dimostra nei confronti di attori e collaboratori, come se tra lui e loro ci fosse un muro, lo stesso che lo spingerebbe a non cedere a nessuno la guida della sua Saab rossa (un piccolo mondo di solitudine); suo malgrado, a Hiroshima Kafuku viene costretto dai produttori del suo ultimo spettacolo ad affidare la guida a un'autista, che diventerà la prima, minuscola crepa nel suo isolamento. Non aspettatevi, tuttavia, che la giovane, silenziosa autista cambi in quattro e quattr'otto il carattere di Kafuku, come accadrebbe in qualsiasi film americano. Qui siamo in Giappone e il silenzio è d'oro, la confidenza e la fiducia vanno conquistate a poco a poco e, anche quando ciò accade, i sentimenti di amicizia e rispetto sono talmente soffusi (e, allo stesso tempo, intensi) che le parole non possono comunque esprimerli. Lo stesso vale per la rabbia, per il dolore, per l'odio, la passione, per tutto ciò che ci rende umani e quindi imperfetti, più proni a venire colpiti e sconfitti, a venire atterriti dai neri abissi che si nascondono dentro di noi; Drive My Car prende questa paura, adegua ad essa gli stilemi del cinema "on the road" alternandoli a momenti in cui il cinema si fa teatro e viceversa, dove le voci di Murakami, Checov e Hamaguchi si fondono arrivando a dialogare con quella della nostra coscienza, tra attimi quasi triviali (anche un po' weird, vedi la lampreda), altri di indiscutibile poesia e moltissimi, troppi per la verità, di inconfutabile stasi letargica. Per me la visione di Drive My Car equivale al cibo giapponese degustato in loco: lì per lì soddisfa poco, rischia anche di non piacere, ma rimane sempre la voglia di mangiarlo e di sentire ancora quel gusto tutto particolare... ma occhio, in questo caso, a non farvi calare la palpebra nel frattempo. 

Ryusuke Hamaguchi
è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Giapponese, ha diretto film come Happy Hour e Il gioco del destino e della fantasia. Anche produttore, ha 44 anni. 



venerdì 11 febbraio 2022

The Last Thing Mary Saw (2021)

Tra i buoni propositi di inizio anno c'era quello di partecipare a una challenge di Letterboxd, la Horror 52 che, come potete intuire, porterebbe a vedere un'horror alla settimana per tutto l'anno. Inutile dire che sono riuscita, per ora, a partecipare solo con la quarta settimana, che prevedeva la visione di un horror uscito nel 2022; la scelta è quindi ricaduta su uno degli ultimissimi acquisti di Shudder, The Last Thing Mary Saw, scritto e diretto nel 2021 dal regista Edoardo Vitaletti.


Trama: in una comunità puritana di metà ottocento, Mary e la servetta Eleanor si amano, andando contro ad ogni precetto della famiglia della prima. Il loro giusto desiderio di libertà le porterà a percorrere un sanguinoso cammino...


Il primo horror visto su Shudder quest'anno parte all'insegna dell'allegria. The Last Thing Mary Saw è una cupissima pellicola d'atmosfera, che gioca con le atmosfere gotiche e rurali già care a film come il The Witch di Eggers e sfrutta il topos della comunità chiusa (sia a livello di mentalità che di ambiente) all'interno della quale "qualcosa" non si conforma alle rigide regole. In questo caso, la "non conformità" risiede nel sentimento d'amore che lega Mary, membro di un'importante famiglia gestita con pugno di ferro da un'inquietante matriarca, e la serva Eleanor, due ragazze che, all'interno del loro legame, cercano quella libertà di pensiero, parola e azione in grado di contrastare le pesanti imposizioni accettate passivamente da tutti i membri della famiglia e provenienti da una parola di Dio completamente priva di gioia. L'atmosfera cupa ed angosciante in cui sono immerse le due, fa sì che anche il loro amore sia all'insegna del terrore e della tristezza, anche nei momenti di complice solitudine, perché l'ombra del peccato e della persecuzione grava sempre su di loro, persino durante un'intima pausa di lettura; non stupisce, dunque, che alla violenza di un intero ambiente che fa loro del male senza neppure alzare un dito, le ragazze decidano di rispondere con una violenza definitiva che sia in grado di liberarle, alla fine della quale comincia The Last Thing Mary Saw, realizzato come un lungo, angosciante flashback. Cosa sia "l'ultima cosa vista da Mary", legata a doppio filo con un libriccino proibito, dalle pagine strappate, è possibile scoprirlo solo sul finale, ambiguo ed inquietante quanto il resto del film.


La bellezza dell'opera prima di Edoardo Vitaletti, che è anche curatissima a livello di regia e di fotografia, soprattutto visto che la maggior parte delle scene è ambientata in luoghi cupi e desolati, claustrofobici, è l'ambiguità sottesa che colloca la vicenda di Mary ed Eleanor a metà tra realtà e superstizione, tra eventi che avrebbero potuto tranquillamente succedere e altri che lasciano lo spettatore perplesso sulla reale natura del pericolo che incombe sulle due. La sensazione che dà Vitaletti è quella di un mondo governato da un Dio (?) implacabile, alla cui volontà non si può sottrarre neppure chi viene mosso da un afflato di disperato coraggio; l'idea di una persecuzione umana e bigotta, fatta di "correzioni", punizioni corporali e silenzi, si accompagna a quella di un'occhio onnisciente che, in qualche modo, spinge le sue vittime verso un destino ineluttabile, in barba ad ogni soluzione che potrebbero trovare. Non è un caso se, ad interpretare la terribile nonna, c'è Judith Roberts, già terrificante Mary Shaw in Dead Silence, il cui sguardo pare sempre essere presente sulle povere Mary ed Eleanor, la cui esistenza si snoda come una di quelle fiabe nere (o parabole) dove ad ogni azione corrisponde una reazione spropositata che possa fungere da insegnamento morale agli incauti, e non è nemmeno un caso se The Last Thing Mary Saw è diviso in capitoli, l'ultimo elemento in grado di spingere all'immedesimazione uno spettatore che dovrebbe avere davvero il cuore di pietra per non sentirsi toccato da questo film. Se non lo avete ancora capito, ve lo consiglio, sperando che anche quest'anno la piattaforma Shudder regali moltissime altre (cupe) gioie.  


Isabelle Fuhrman (Eleanor) e Rory Culkin (l'intruso) li trovate ai rispettivi link.

Edoardo Vitaletti è il regista e sceneggiatore della pellicola, al suo primo lungometraggio. Italiano, è anche produttore.


Stefanie Scott
interpreta Mary. Americana, ha partecipato a film come Insidious 3 - L'inizio, Jem e le Holograms, Insidious: L'ultima chiave, Beautiful Boy e lavorato come doppiatrice per Ralph Spaccatutto. Anche produttrice, ha 26 anni.


Judith Roberts
interpreta la matriarca. Americana, ha partecipato a film come Eraserhead - La mente che cancella, Natale di sangue, Dead SilenceYou Were Never Really Here e a serie come NOS4A2. Ha 88 anni.


Se The Last Thing Mary Saw vi fosse piaciuto potete recuperare Brimstone, The Witch e Il sabba. ENJOY!

mercoledì 9 febbraio 2022

Gli occhi di Tammy Faye (2021)

La settimana scorsa è uscito anche in Italia Gli occhi di Tammy Faye (The Eyes of Tammy Faye), diretto nel 2021 dal regista Michael Showalter e tratto dal documentario omonimo di Fenton Bailey e Randy Barbato. Con questo film si comincia il recupero pre-Oscar! In questo caso le nomination sono Miglior Attrice Protagonista e Miglior Trucco e Parrucco.


Trama: Tammy Faye e il marito Jim cominciano una carriera come telepredicatori ma col successo arrivano anche una serie di scandali ben poco cristiani...


Come ogni anno, i Golden Globe (e, per estensione, gli Oscar), portano con sé una serie di biopic di figure popolarissime in America ma a me completamente sconosciute. Tammy Faye Bakker e il marito Jim sono stati protagonisti, verso la fine degli anni '80, di uno dei più grandi scandali mediatici dell'epoca, che ha portato l'allora famosissimo televangelista Jim Bakker a venire condannato per frode (dopo essersi arricchito alle spalle di una moltitudine di fedelissimi donatori) e anche per una serie di violenze sessuali ai danni di donne nonostante, si dice, fosse omosessuale. La moglie Tammy Faye, la quale, come ho scritto su Facebook, ai miei occhi è parsa un incrocio cristiano tra Vanna Marchi e Moira Orfei, è rimasta sempre fuori di galera e, col tempo, è diventata un'icona gay grazie anche alla sua apertura mentale e al suo appoggio nei confronti della causa LGBT; che la signora non sapesse proprio nulla nulla nulla degli affari del marito a me pare strano, ma c'è da dire che Gli occhi di Tammy Faye non cerca di santificarla a tutti i costi, benché tra Tammy e Jim è chiarissimo chi sia il "cattivo" della situazione. Il film di Michael Showalter racconta dunque, secondo il canovaccio tipico delle storie di ascesa e caduta di persone realmente esistite, il legame tra Tammy Faye e il marito a partire dal loro primo incontro al college, i loro primi spettacoli itineranti, le prime trasmissioni televisive e, infine, l'impero del network PTL da loro interamente gestito. Mentre Tammy Faye viene descritta fin dall'inizio come un'animo candido, ispirata da una cristianità inclusiva ("Io amo tutte le persone!") che spesso fa a pugni con le convinzioni ortodosse anche in virtù del suo aspetto assai civettuolo, il personaggio di Jim non è mai particolarmente limpido e, mano a mano che il film prosegue, la sua devozione appare sempre più falsa e subordinata a fare soldi e a mantenere una facciata di ipocrita rispettabilità. 


Come molti altri biopic simili, Gli occhi di Tammy Faye non brilla particolarmente per originalità a livello di sceneggiatura o di regia e il suo valore "documentaristico" varia a seconda di quanto lo spettatore decide di lasciarsi coinvolgere dall'argomento trattato. A me, lo sapete, il popolo americano fa sempre tanta tenerezza e questi personaggi assurdi che ogni tanto sfornano e rendono famosi, prima di venire traditi proprio da chi hanno messo sul piedistallo, mi mandano in brodo di giuggiole, e non nascondo che da due giorni passo il mio poco tempo libero a leggere articoli relativi ai due coniugi Bakker, anche perché Gli occhi di Tammy Faye non copre (ovviamente) tutto lo scibile né sullo scandalo che li hanno visti coinvolti né su cosa ne sia stato poi di loro. Tammy Faye, come ho scritto su, è diventata un'icona LGBT ed è morta di cancro nel 2007, mentre quell'idiota dell'ex marito ha perso il pelo ma non il vizio, perché è stato condannato ancora l'anno scorso per aver venduto rimedi a base di argento colloidale contro il Covid. Detto questo, ciò che è oggettivamente innegabile è la bravura di Jessica Chastain, irriconoscibile nei panni di questa signora dal trucco pesante e dalla voce simile a quella di Betty Boop. Che la Chastain sia molto legata al personaggio è palese dal modo in cui riesce a renderlo assai lontano dalla caricatura che rischiava di essere, a smuovere anche il cuore dello spettatore più disgustato da tutto quel carrozzone cristiano (eccomi!) conferendo dignità a Tammy Faye sia nei momenti faceti, sottolineandone tutta l'incredibile forza d'animo ed ottimismo, sia in quelli drammatici, che a tratti commuovono. Le sequenze in cui Tammy Faye è letteralmente costretta a perdere la fede per colpa di chi dovrebbe esserne il baluardo, in primis l'agghiacchiante marito, spezzano il cuore e verrebbe davvero voglia (sempre restando in tema biopic da Oscar) di invocare quella dolce anima buona di Mister Rogers per fargli prendere a schiaffi Jim Bakker da qui all'eternità. Onestamente, se la Chastain si portasse a casa un'Oscar per questa interpretazione non mi dispiacerebbe (fa sorridere come lei, pesantemente truccata, risulti molto meno finta della Kidman in Being the Ricardos, anche lei nella rosa dei candidati), ed è uno dei motivi per cui vi consiglierei di andare a vedere Gli occhi di Tammy Faye anche e soprattutto se non sapete nulla delle vicende che tratta. 


Del regista Michael Showalter ho già parlato QUI. Jessica Chastain (Tammy Faye Bakker), Andrew Garfield (Jim Bakker), Cherry Jones (Rachel Grover) e Vincent D'Onofrio (Jerry Falwell) li trovate invece ai rispettivi link.

martedì 8 febbraio 2022

Vampyr (1932)

Grazie a Il cinema ritrovato e alla Cineteca di Bologna, al cinema d'élite è arrivato, la settimana scorsa, Vampyr, diretto e sceneggiato nel 1932 dal regista Carl Theodor Dreyer a partire da Carmilla e altri racconti di Joseph Sheridan Le Fanu


Trama: David, giovane studioso di fenomeni sovrannaturali, si ritrova coinvolto in una storia di vampiri, ombre e morte...


Poiché all'epoca dell'università avevo moltissimo tempo per guardare film e il mio amore per il cinema era in pieno boccio, non ero completamente digiuna di Dreyer, di cui avevo già guardato i bellissimi La passione di Giovanna D'Arco e Dies Irae, ma ammetto che Vampyr ancora mi mancava. Guardarlo al cinema, nell'anno del Signore e dei coviddi 2022, è stata un'esperienza straniante ma interessantissima, soprattutto davanti alla quantità considerevole di persone accorse a vedere un film degli anni '30 e davanti alla reazione di dette persone, quasi tutte estasiate, alcune perplesse, molte stupite di quanto "lynchiano" sembrasse Vampyr. Effettivamente, al netto di una trama molto semplice, dichiaratamente tratta dai racconti di Joseph Sheridan Le Fanu, e considerata la povertà non solo di mezzi, ma anche di ambienti (la troupe ha dormito negli stessi edifici filmati) e attori professionisti (due, tra i quali non figura il protagonista, che infatti nella vita ha poi fatto altro), la visionarietà di Vampyr e l'originalità di buona parte delle sequenze ha dell'incredibile, e l'aspetto più bello della visione è stato, almeno per me, cercare di immaginare le reazioni del pubblico dell'epoca (non buone, a quanto ho letto) davanti a quelli che a me sono sembrati effetti speciali all'avanguardia. Vampyr è il primo film sonoro di Dreyer, infatti ci sono ben pochi dialoghi e l'impianto è assai simile a quello di un film muto, con molti lunghi testi che raccontano gli eventi allo spettatore, tra didascalie e persino pagine dei libri letti dai protagonisti, ma quello che "manca" in dialoghi viene compensato dalle minacciose atmosfere che funestano sin dall'inizio il viaggio di David, accolto nel misterioso paese di Courtempierre da uomini con la falce, voci inquietanti udite nella locanda, anziani e distinti signori che entrano di nascosto nelle stanze lasciando spaventevoli missive contenenti ancor più spaventevoli libri. E questo è solo l'inizio.


Le vicende di David hanno una fortissima qualità onirica, tanto che, col senno di poi, sembrerebbe quasi che tutte le avventure da lui vissute a Courtempierre siano "semplicemente" un sogno iniziato dal momento in cui l'uomo si è coricato nel letto, fomentato da quegli studi che già lo hanno portato a vivere un po' distaccato dalla realtà. Lo spettatore, in una girandola di inquadrature ancora in parte legate all'espressionismo tedesco (anche se Vampyr è per buona parte dotato di una fotografia luminosissima, con poco contrasto) può quindi assistere ad un'improvvisa, inquietante separazione dell'anima dal corpo, tanto più straniante perché priva di una "motivazione", a danze di ombre apparentemente giocose che riveleranno la loro cupa natura nel corso della storia, ad una delle morti più particolari della storia del Cinema e, in generale, si ritrova a passare un'ora e mezza vittima di una soverchiante sensazione di claustrofobia e smarrimento, la stessa che provano personaggi costretti a subire i capricci di entità malefiche e mortali, davanti alle quali neppure la fede in Dio sembra poter fare qualcosa. Il cambiamento di atmosfera tra la maggior parte del film (popolato, peraltro, da attori dotati di volti molto espressivi e "gotici", non solo Julian West che assomiglia tantissimo a Lovecraft ma soprattutto quegli anziani dal sembiante malvagissimo) e un finale che apre, letteralmente, il paesaggio davanti a chi è riuscito con tenacia a sopravvivere, coincide con una sensazione di sollievo e di risveglio che ha il sapore di una fiaba e che raramente si riesce a provare col cinema moderno. La visione di un simile film al cinema è qualcosa che consiglio, se avete la fortuna di avere vicino a casa una sala che aderisce a queste iniziative, ma a prescindere un po' di ripasso dei grandi nomi del Cinema mondiale non fa mai male!

Carl Theodor Dreyer è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Danese, ha diretto film come La passione di Giovanna D'Arco, Dies Irae e Ordet - La parola. Anche produttore e attore, è morto nel 1968 all'età di 79 anni.