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mercoledì 9 febbraio 2022

Gli occhi di Tammy Faye (2021)

La settimana scorsa è uscito anche in Italia Gli occhi di Tammy Faye (The Eyes of Tammy Faye), diretto nel 2021 dal regista Michael Showalter e tratto dal documentario omonimo di Fenton Bailey e Randy Barbato. Con questo film si comincia il recupero pre-Oscar! In questo caso le nomination sono Miglior Attrice Protagonista e Miglior Trucco e Parrucco.


Trama: Tammy Faye e il marito Jim cominciano una carriera come telepredicatori ma col successo arrivano anche una serie di scandali ben poco cristiani...


Come ogni anno, i Golden Globe (e, per estensione, gli Oscar), portano con sé una serie di biopic di figure popolarissime in America ma a me completamente sconosciute. Tammy Faye Bakker e il marito Jim sono stati protagonisti, verso la fine degli anni '80, di uno dei più grandi scandali mediatici dell'epoca, che ha portato l'allora famosissimo televangelista Jim Bakker a venire condannato per frode (dopo essersi arricchito alle spalle di una moltitudine di fedelissimi donatori) e anche per una serie di violenze sessuali ai danni di donne nonostante, si dice, fosse omosessuale. La moglie Tammy Faye, la quale, come ho scritto su Facebook, ai miei occhi è parsa un incrocio cristiano tra Vanna Marchi e Moira Orfei, è rimasta sempre fuori di galera e, col tempo, è diventata un'icona gay grazie anche alla sua apertura mentale e al suo appoggio nei confronti della causa LGBT; che la signora non sapesse proprio nulla nulla nulla degli affari del marito a me pare strano, ma c'è da dire che Gli occhi di Tammy Faye non cerca di santificarla a tutti i costi, benché tra Tammy e Jim è chiarissimo chi sia il "cattivo" della situazione. Il film di Michael Showalter racconta dunque, secondo il canovaccio tipico delle storie di ascesa e caduta di persone realmente esistite, il legame tra Tammy Faye e il marito a partire dal loro primo incontro al college, i loro primi spettacoli itineranti, le prime trasmissioni televisive e, infine, l'impero del network PTL da loro interamente gestito. Mentre Tammy Faye viene descritta fin dall'inizio come un'animo candido, ispirata da una cristianità inclusiva ("Io amo tutte le persone!") che spesso fa a pugni con le convinzioni ortodosse anche in virtù del suo aspetto assai civettuolo, il personaggio di Jim non è mai particolarmente limpido e, mano a mano che il film prosegue, la sua devozione appare sempre più falsa e subordinata a fare soldi e a mantenere una facciata di ipocrita rispettabilità. 


Come molti altri biopic simili, Gli occhi di Tammy Faye non brilla particolarmente per originalità a livello di sceneggiatura o di regia e il suo valore "documentaristico" varia a seconda di quanto lo spettatore decide di lasciarsi coinvolgere dall'argomento trattato. A me, lo sapete, il popolo americano fa sempre tanta tenerezza e questi personaggi assurdi che ogni tanto sfornano e rendono famosi, prima di venire traditi proprio da chi hanno messo sul piedistallo, mi mandano in brodo di giuggiole, e non nascondo che da due giorni passo il mio poco tempo libero a leggere articoli relativi ai due coniugi Bakker, anche perché Gli occhi di Tammy Faye non copre (ovviamente) tutto lo scibile né sullo scandalo che li hanno visti coinvolti né su cosa ne sia stato poi di loro. Tammy Faye, come ho scritto su, è diventata un'icona LGBT ed è morta di cancro nel 2007, mentre quell'idiota dell'ex marito ha perso il pelo ma non il vizio, perché è stato condannato ancora l'anno scorso per aver venduto rimedi a base di argento colloidale contro il Covid. Detto questo, ciò che è oggettivamente innegabile è la bravura di Jessica Chastain, irriconoscibile nei panni di questa signora dal trucco pesante e dalla voce simile a quella di Betty Boop. Che la Chastain sia molto legata al personaggio è palese dal modo in cui riesce a renderlo assai lontano dalla caricatura che rischiava di essere, a smuovere anche il cuore dello spettatore più disgustato da tutto quel carrozzone cristiano (eccomi!) conferendo dignità a Tammy Faye sia nei momenti faceti, sottolineandone tutta l'incredibile forza d'animo ed ottimismo, sia in quelli drammatici, che a tratti commuovono. Le sequenze in cui Tammy Faye è letteralmente costretta a perdere la fede per colpa di chi dovrebbe esserne il baluardo, in primis l'agghiacchiante marito, spezzano il cuore e verrebbe davvero voglia (sempre restando in tema biopic da Oscar) di invocare quella dolce anima buona di Mister Rogers per fargli prendere a schiaffi Jim Bakker da qui all'eternità. Onestamente, se la Chastain si portasse a casa un'Oscar per questa interpretazione non mi dispiacerebbe (fa sorridere come lei, pesantemente truccata, risulti molto meno finta della Kidman in Being the Ricardos, anche lei nella rosa dei candidati), ed è uno dei motivi per cui vi consiglierei di andare a vedere Gli occhi di Tammy Faye anche e soprattutto se non sapete nulla delle vicende che tratta. 


Del regista Michael Showalter ho già parlato QUI. Jessica Chastain (Tammy Faye Bakker), Andrew Garfield (Jim Bakker), Cherry Jones (Rachel Grover) e Vincent D'Onofrio (Jerry Falwell) li trovate invece ai rispettivi link.

mercoledì 2 febbraio 2022

tick, tick... Boom! (2021)

Il mio recupero "Globeale" quest'anno va a rilento e sono riuscita a guardare solo ora tick, tick... Boom!, diretto nel 2021 dal regista Lin-Manuel Miranda.


Trama: La vera storia di Jonathan Larson, che col suo primo musical di successo racconta il fallimento della sua opera Superbia e il terrore di ritrovarsi a 30 anni senza avere ancora combinato nulla...


Come potete immaginare, visto quanto spesso comincio i miei post ammettendo ignoranza, fino a due giorni fa nemmeno sapevo chi fosse Jonathan Larson e non avrei nemmeno mai guardato il film se non fosse stato per il Globe vinto da Andrew Garfield. Ovviamente, anche se conoscevo almeno di fama Rent (il musical più famoso di Larson, messo in scena subito dopo la sua morte) non ho mai avuto modo di ascoltarne le canzoni, quindi sono arrivata all'appuntamento con tick, tick... Boom! completamente ignara, cosa che probabilmente mi ha evitato di guardare il film con l'occhio del fan accanito, il che spesso non è un male. tick, tick... Boom! si basa sull'omonimo musical autobiografico di Jonathan Larson e racconta i primi periodi della sua carriera, funestati da enormi difficoltà economiche e svariati fallimenti, quando il compositore tentava di portare in scena il musical Superbia, un progetto cullato da anni; la storia è raccontata o, meglio, cantata in prima persona da Larson il quale, attraverso la sua esperienza personale, tocca argomenti chiave per la società americana degli anni '90, come la piaga dell'AIDS e una crescente dipendenza dei giovani da falsi modelli televisivi, ma anche questioni universali e tuttora attuali che riguardano tanto i 40enni che i 30enni, come il terrore di non valere nulla, la necessità di rinunciare ai propri sogni per, "banalmente", avere di che campare, la frustrazione di sentire il tempo fuggire via mentre non si è ancora combinato nulla di importante, la consapevolezza che il mondo è un posto orribile e che spesso noi non abbiamo non solo la possibilità, ma nemmeno la forza o il coraggio di cambiarlo, perché non riusciamo neppure ad affrontare i nostri piccoli problemi personali. Il trasporto di Larson e la sua passione arrivano dritti al cuore dello spettatore, e fa male sapere che il poveraccio è morto giovanissimo senza avere neppure avuto il tempo di assaporare il meritato, ricercato successo.


Come ho detto, non conosco l'opera originale di Larson (peraltro, ho letto qualche articolo in merito e scoperto che la versione definitiva di tick, tick... Boom!, con l'introduzione di una canzone da Superbia, è in parte farina del sacco di David Auburn) quindi non posso dare giudizi con cognizione di causa, ma per quanto mi riguarda Lin-Manuel Miranda, al suo primo lavoro da regista cinematografico, ha fatto un lavoro egregio, realizzando un'opera che, da totale profana, mi ha divertita e coinvolta fino a farmi piangere sul finale. Mi è piaciuto molto il modo in cui sia la regia che il montaggio riescano a rendere perfettamente il mix di stili presenti nel libretto del musical (peraltro molto bello, e credo che non ci siano canzoni create ad hoc per il film); se i brani spaziano dal rock, al pop, al rap, alla tipica melodia da musical fino ad arrivare a concitati monologhi recitati con un'inquietante ticchettio di lancette in sottofondo, la regia mescola numeri musicali con tanto di coreografia, costumi sfarzosi e cambiamento di scenografie, a riprese più "naturali", stralci di spettacoli, ricostruzioni di video realizzati con la Betacam e, sui titoli di coda, video d'archivio che mostrano il vero Larson alle prese con molte delle situazioni rappresentate nel film. Da parte sua, Andrew Garfield ci mette tutta la passione del mondo e il Globe se lo è meritato; nonostante ritenga abbia una faccia troppo "scema" per interpretare Spiderman, come attore serio mi piace dai tempi di Non lasciarmi e come Jonathan Larson risulta di una tenerezza disarmante. Vederlo impegnarsi e commettere un errore dopo l'altro, con quella faccetta aperta e onesta che si ritrova, fa venire voglia di abbracciarlo, inoltre è bravissimo sia come cantante che come attore teatrale e, sul finale, le sue lacrime spezzano letteralmente il cuore. tick, tick... Boom! è dunque un film che consiglio anche se non siete particolarmente interessati al genere. Garantisce il Bolluomo, che pur avendolo visto solo da un certo punto in poi, è rimasto talmente catturato (anche se non lo ammetterebbe mai) che se lo è guardato fino alla fine!


Di Andrew Garfield (Jonathan Larson), Alexandra Shipp (Susan), Vanessa Hudgens (Karessa) e Bradley Whitford (Stephen Sondheim) ho già parlato ai rispettivi link. 

Lin-Manuel Miranda è il regista della pellicola, alla sua prima esperienza dietro la macchina da presa, ed interpreta il cuoco del diner. Famoso soprattutto come compositore, ha lavorato spesso come attore ed è anche produttore. Americano, ha 42 anni.




lunedì 10 gennaio 2022

Golden Globes 2022

Alla faccia di quel famoso medico dei VIP che diceva di no, il Coviddo è tornato a mordere, e ciò, assieme a mille (probabilmente giuste) polemiche ha fatto sì che i Golden Globe di quest'anno fossero particolarmente sottotono, senza cerimonia neppure a distanza, senza nulla. Per la solita pignoleria, anche se ho visto davvero pochissimi dei candidati, facciamo un breve recap, anche per capire cosa recuperare in vista degli Oscar, che si terranno il 27 marzo. ENJOY!



Miglior film drammatico
Il potere del cane  (Inghilterra/Canada/Australia/Nuova Zelanda 2021)

Non cominciamo proprio benissimo, diciamo. Il tanto atteso ultimo film di Jane Campion l'ho trovato bellissimo a livello di regia e fotografia, ottimi gli attori, ma mi è mancato il trasporto emotivo necessario per apprezzarlo in pieno. Purtroppo, oltre a Dune, che immaginavo non avrebbe visto un globe nemmeno da lontano in quanto, oRore!, film di fantascienza, non ho avuto modo di recuperare nessun altro candidato, quindi non saprei fare paragoni. 


Miglior film - Musical o commedia
West side Story (USA, 2021)

Vittoria facile per l'ultimo film di Spielberg, che infatti ha portato a casa un sacco di premi. Anche in questo caso, però, mi è mancato qualcosa, forse perché non avevo mai avuto modo di guardare West Side Story, in nessuna delle sue versioni, e, mi perdonino i fan, ho trovato la trama un po'... ingenua (grazie, Bolla, è un musical con un po' di anni sulla schiena...)? Non so se è l'aggettivo giusto, comunque nulla da dire sulla messinscena, strepitosa, e le coreografie, ovviamente. Mentirei, però, se non dicessi che avrei preferito Don't Look Up, più nelle mie corde.  



Miglior attore protagonista in un film drammatico
Will Smith in King Richard

Lo so, sono una brutta persona, ma a me Will Smith sa sulle balle da sempre, quindi non mi fionderò al cinema a vedere King Richard e lo recupererò giusto se sarà tra i candidati all'Oscar, con calma. Per quanto riguarda gli altri candidati, ho avuto modo solo di apprezzare l'intensa interpretazione di Cumberbatch, quindi, anche in questo caso, non posso fare confronti.


Miglior attrice protagonista in un film drammatico
Nicole Kidman in Being the Ricardos

Adoro i film biografici su celebrità a me sconosciute, e Being the Ricardos, disponibile su Prime, era già da settimane sul mio radar. Ora, ovviamente, non posso fare altro che metterlo in cima alla lista dei recuperi, sperando mi piaccia visto che le recensioni lette sono parecchio tiepide. Per il resto, sono molto felice di un mancato premio a Lady Gaga, con tutto il bene che le voglio, e aspetto trepidante di poter vedere Kristen Stewart nei panni di Diana, anche se, ahimé, l'uscita italiana di Spencer è stata rimandata a data da destinarsi.

Miglior attore protagonista in un film musicale o commedia
Andrew Garfield in Tick, Tick... Boom!

Altro film biografico, altro musical, però questo non mi ha attirato fin dal principio. Dovrò dargli una chance, anche perché è da settimane disponibile su Netflix. Peccato per Di Caprio, la cui interpretazione tragicomica di uno scienziato costretto a diventare VIP per essere creduto in una situazione da fine del mondo è decisamente calzante.


Miglior attrice protagonista in un film musicale o commedia
Rachel Zegler in West Side Story

Bravissima cantante, perfetto musino innocente e acqua e sapone, ma posso dire che a me 'sta Maria spueia mi ha detto davvero poco? Certo, forse è andata comunque bene così: quello in Don't Look Up non è uno dei ruoli più memorabili di Jennifer Lawrence, ed Emma Stone in Crudelia è strepitosa, ma forse non degna di un Globe. 



Miglior attore non protagonista
Kodi Smit-McPhee in Il potere del cane

Da una parte ho avuto fortuna, perché perlomeno ho avuto modo di guardare la performance del vincitore, dall'altra mi mancano tutte le altre interpretazioni. Mi viene da dire che al buon Kodi è stato riservato un ruolo assai difficile, un personaggio ermetico con il quale non è semplice empatizzare, e la sua recitazione mi è parsa assai buona, quindi posso ritenermi soddisfatta.



Miglior attrice non protagonista
Ariana DeBose in West Side Story

Al momento, questo è l'unico premio che mi convince davvero, perché la passionale Anita risplende come una stella all'interno di West Side Story ed è il personaggio che mi ha coinvolta di più, sia nei momenti faceti che in quelli drammatici. Se la ragazza portasse a casa un Oscar non mi dispiacerebbe affatto!



Miglior regista
Jane Campion per Il potere del cane

Nulla da dire, davvero, il premio per la miglior regia è ovviamente meritato. Ma sarebbe stato meritatissimo anche (forse di più) quello a Villeneuve per Dune.

Miglior sceneggiatura
Kenneth Branagh per Belfast

Il film biografico di Branagh è uno di quelli che aspetto di più, peccato che fino a Marzo noi italiani ci stra-attacchiamo al *bip*. Peccato per Adam McKay, ma obiettivamente la sceneggiatura di Don't Look Up! è leggermente derivativa, per quanto l'abbia apprezzata molto, mentre chi ha letto Il potere del cane mi dice che il romanzo è molto più emozionante del freddo adattamento, quindi nessun vilipendio alla Campion, in questo caso.


Miglior canzone originale
No Time to Die di Billie Eillish e Finneas O'Connel, per il film No Time to Die

Ammetto di non conoscere nessuna delle canzoni tranne Dos oruguitas di Encanto, che mi era piaciuta molto, quindi mi adeguo. 

Miglior colonna sonora originale
Dune di Hans Zimmer

Mi cito: "E per mesi, probabilmente, ascolterò la colonna sonora di Hans Zimmer, talmente evocativa ed esotica da risultare quasi ipnotica, uno score emozionante come non mi capitava di sentire da tempo in un "blockbuster", per quanto d'autore" Direi che stavolta ci ho visto giusto, ma mi sono piaciute molto anche le colonne sonore di The French Dispatch ed Encanto.



Miglior cartone animato
Encanto (USA 2021)

Per questione di orgoglio ligure avrei preferito la vittoria di Luca. E, pur non avendo visto gli altri film candidati e pur avendo apprezzato molto Encanto, non si tratta di uno dei prodotti migliori o più indimenticabili della Casa del Topo, quindi temo si sia trattato di un Globe leggermente paraculo, per venire incontro a questioni di minoranze ecc.


Miglior film straniero
Drive My Car (Giappone, 2021)

Ne avevo già sentito parlare come di uno dei film più belli dell'anno scorso, è arrivato il momento di metterlo in cima alla lista dei recuperi. Con tutto il rispetto per E' stata la mano di Dio, che mi ha convinta poco.

Quest'anno con le serie TV va malissimo. Tra quelle nominate ho visto solo Wanda/Vision e Squid Game e l'unico vincitore che conosco è, per l'appunto, Oh Yeung-su, l'adorabile, commovente vecchino della serie Netflix coreana. Al momento, le uniche che potrei recuperare sono Hacks, Dopesick, La ferrovia sotterranea e Omicidio a Easttown che constano di una sola stagione, il resto per me è pura utopia, non ci provo neppure! E con questo è tutto... ci si risente per gli Oscar! ENJOY!

venerdì 7 gennaio 2022

Spider-Man: No Way Home (2021)

Finalmente domenica sono andata a vedere Spider-Man: No Way Home, diretto nel 2021 dal regista Jon Watts, dopo un'attesa di quasi un mese dovuta alla gente folle che si è riversata a frotte in sale, come quella savonese, dove le regole anti-covid, prima dell'obbligo di portare la FFP2, erano pura utopia. Vediamo un po' se è valsa la pena attendere!


Trama: dopo che Mysterio ha rivelato al mondo l'identità di Spider-Man, la vita di Peter Parker e dei suoi amici è diventata un disastro. Il ragazzo decide quindi di chiedere aiuto a Doctor Strange per cancellare la memoria delle persone ma ovviamente l'incantesimo va storto...


Sì, ne è valsa la pena. Non sono di quelle che definiscono i film Marvel dei capolavori, anche perché salvo pochissimi casi li ho tutti dimenticati ad una settimana dalla visione, ma No Way Home ha davvero il suo perché e oserei dire (ma, come avete letto, non sono granché affidabile) che è una delle poche pellicole del MCU a curare veramente il personaggio protagonista, facendolo evolvere e crescere tra gioie e dolori; non so se è un paragone da fare, anche perché i Potterhead sono più micidiali dei fan del MCU, ma l'evoluzione del personaggio Spider-man interpretato da Tom Holland mi ha ricordato i romanzi di Harry Potter, dove i primi due erano libri per bambini semplici e principalmente ironici, poi dal terzo in poi i toni si sono fatti più cupi e i protagonisti più complessi e problematici. A costo di privare della freschezza il Peter Parker di Holland, credo sia questa la strada da seguire per elevarlo dal novero di eroi "cazzari" i cui problemi durano il giro di un film, sepolti da una salva ininterrotta di battute e siparietti esilaranti, perché, se ci pensate, il Bimbo Ragno del MCU finora ha avuto vita molto facile: è entrato di diritto nella squadra di eroi più forti della Terra, preso subito sotto l'ala potente di Stark, che lo ha fornito di ogni tipo di gadget, e dopo la morte dell'adorato Tony ci hanno pensato Happy Hogan e Nick Fury a far sì che a Peter non mancasse nulla. A fare cerchio attorno alla sua identità segreta, oltre ai due pesi massimi, c'erano anche l'adorata zia May, l'amico fraterno Ned e la fidanzata MJ, cosa che ha sempre consentito a Peter di vivere come un'adolescente normale ma anche come supereroe, una fortuna che credo non sia mai toccata a nessun ragazzino di nessun fumetto, film o cartone animato, e tutte queste cose combinate hanno fatto sì che Peter Parker diventasse una sorta di ragazzino viziato, dolce e carino quanto volete ma comunque privo di una dose di durezza e indipendenza tali da renderlo un supereroe consapevole e responsabile, e questo viene sottolineato parecchie volte nel corso di No Way Home, che sbatte in faccia al protagonista fin da subito una situazione dalla quale il ragazzo non potrebbe mai fuggire da solo, senza essere "paraculato" a più livelli. 


Purtroppo, sarà proprio questa consapevolezza di avere sempre e comunque le spalle coperte che causerà il casino cosmico che ha fatto bagnare il 90% dei nerd del pianeta e che ha trasformato No Way Home in un vero e proprio evento, rendendolo più ricco, intrigante e anche piacevole da guardare, non posso negarlo. Giocherò a carte mezze scoperte senza fare troppi spoiler, tanto ormai il film lo avranno visto tutti (ma, se non l'avete ancora fatto, evitate l'infoporn con tutti i nomi degli attori coinvolti) e il mio blog ormai è meno letto di Grand Hotel, dicendo che rivedere certi volti è stato come riavvolgersi in una calda coperta, souvenir dei bei tempi in cui i cinecomics erano ancora appannaggio di poche case di produzione pazze e registi che ci credevano senza omologarsi, un rischio per lo spettatore che apriva il cuore alla speranza e poi rischiava di ritrovarsi tra le mani una mezza ciofeca ma, nonostante tutto, si teneva le urla di dolore nel cuore perché non erano ancora spuntati internet e i maledetti social a dar voce anche alle capre. L'interazione tra i moltissimi personaggi presenti nel film mi è parsa naturale e rispettosa delle personalità dei coinvolti (almeno, di quelli che conoscevo) e se è vero che è sempre divertente vedere Doctor Strange alle prese con quelle che per lui sono fondamentalmente delle inutili minchie di mare a fronte della sua infinita e spocchiosa sapienza, è ancora più vero che un film senza dramma sarebbe nulla e che i signori attori sono pochi ma riescono a nobilitare pellicole ben peggiori di queste: qui, in particolare, c'è un attore che mangia la scena a tutti quelli che si ritrovano a doverla condividere con lui, arricchendo non solo le loro interpretazioni, ma anche le sequenze appena successive alla sua apparizione, nelle quali il fantasma della sua presenza aleggia ancora, impossibile da ignorare. Si piange parecchio in No Way Home e, come ho scritto sopra, è giusto così, perché un po' di cupezza rende i personaggi più complessi e migliori, al di là di tutto il codazzo di gag ed effetti speciali che possono accompagnare le loro avventure.


Questi ultimi elementi, ovviamente, non mancano. Come nei primi due film si cerca di approfondire la vita scolastica e sentimentale di Peter Parker, e ormai il terzetto Holland/Zendaya/Batalon è talmente affiatato che viene da pensare che i tre siano molto amici anche fuori dal set, inoltre a Batalon è richiesto di alleggerire un po' le atmosfere fungendo da elemento comico. In questo caso, gli sceneggiatori sono riusciti a tenersi in ottimo equilibrio senza sconfinare nella farsa e anche a gestire le fila di una storia comunque assai complessa a livello di continuity senza troppe sbavature (non chiedetemi lumi in merito, mi mancano pezzi di puzzle. Fate come se doveste guardare Tenet, godetevelo e non fate domande). Passando agli effetti speciali, io ho un debole per la magia di Strange e per la sua dimensione specchio, ho dunque trovato l'intera sequenza di combattimento tra lui e Spider-Man assai entusiasmante vista su grande schermo, oltre ad avere ovviamente apprezzato lo showdown finale, chiaro e dettagliato nonostante l'abbondanza di personaggi e poteri coinvolti, e la scena centrale del film, dove Spider-Man viene messo di fronte ai suoi limiti nel modo più violento e tragico possibile. Non riesco, al momento, a prevedere che direzione prenderanno le avventure di Spider-Man (e nemmeno dell'MCU vista la graditissima guest star che compare a un certo punto!!), soprattutto visto che è il Dottor Strange il fulcro delle anticipazioni post-credit, ma se l'ex Bimbo-Ragno dovesse tornare in futuro tornerò al cinema a fargli compagnia perché ormai ho cominciato a volergli molto bene, nonostante le dichiarazioni scellerate del minchietta che lo interpreta. 
 

Del regista Jon Watts ho già parlato QUITom Holland (Peter Parker/Spider-Man), Zendaya (MJ), Benedict Cumberbatch (Doctor Strange), Jon Favreau (Happy Hogan), Jamie Foxx (Max Dillon/Electro), Willem Dafoe (Norman Osborn/Goblin), Alfred Molina (Dr. Otto Octavius/Doc Ock), Benedict Wong (Wong), Tony Revolori (Flash Thompson), Marisa Tomei (May Parker), Andrew Garfield (Peter Parker/Spider-Man), Tobey Maguire (Peter Parker/Spider-Man), Angourie Rice (Betty Brant), Martin Starr (Mr. Harrington), J.K.Simmons (J. Jonas Jameson), Rhys Ifans (Dr. Curt Connors/Lizard), Charlie Cox (Matt Murdock) e Tom Hardy (Eddie Brock/Venom) li trovate invece ai rispettivi link. 

Jacob Batalon interpreta Ned Leeds. Hawaiano, ha partecipato a film come Spiderman: Homecoming, Blood Fest, Avengers: Infinity War, Avengers: Endgame e Spiderman: Far From Home. Ha 26 anni. 


Thomas Haden Church interpreta Flint Marko/L'uomo sabbia. Americano, ha partecipato a film come Il cavaliere del male, Sideways, Spider-Man 3 e Hellboy. Ha 62 anni e due film in uscita.


La trama del film, che avrebbe dovuto riprendere una delle scene post-credits di Far From Home, quella in cui si scopre che i Maria Hill e Nick Fury della Terra sono in realtà degli Skrull mentre il vero Fury è nello spazio, è stata completamente cambiata per poter realizzare la mini-serie Secret Invasion, che dovrebbe uscire quest'anno. Nell'attesa che ciò, accada, se Spider-Man: No Way Home vi fosse piaciuto recuperate Spider-Man: Homecoming, Spider-Man: Far From Home, Doctor Strange, la serie Wanda/Vision (peraltro molto ma molto carina), Shang Chi e la leggenda dei 10 anelli... e poi armatevi di santa pazienza vintage con Spider-Man, Spider-Man 2, Spider-Man 3, The Amazing Spider-Man e The Amazing Spider-Man 2 - Il potere di Electro, mentre potete serenamente evitare quella cacca fumante di Venom e, ovviamente, Venom 2. ENJOY!

venerdì 19 febbraio 2021

The Social Network (2010)

Grazie a un buono Vodafone, il Bolluomo ha ottenuto 10 euro da spendere su Chili e nella selezione di film fuibili col buono in questione c'era The Social Network, diretto nel 2010 dal regista David Fincher. 


Trama: il giovane laureando Mark Zuckerberg crea il futuro Facebook ma, nel cammino, perde amici storici e si fa nuovi nemici...


Sono passati undici anni dall'uscita di The Social Network e chissà perché lo avevo snobbato fino a questo momento, visto che gli ingredienti per piacermi c'erano tutti e sono stati confermati durante la visione del film. Forse perché, all'epoca, temevo mi sarei trovata davanti una noiosa agiografia di San Zuckerberg da White Plains, invece The Social Network è tutto il contrario: partendo dal libro di  Ben Mezrich intitolato Miliardari per caso - L'invenzione di Facebook: una storia di soldi, sesso, genio e tradimento, Aaron Sorkin lo riadatta per lo schermo togliendo i gemelli Winklevoss ed Eduardo Saverin dai riflettori ma mantenendo comunque il loro punto di vista pur rendendo Mark Zuckerberg protagonista assoluto, col risultato che molto di quello che viene mostrato sullo schermo è opera di pura fiction basata su un mix di racconti, leggende metropolitane e mera invenzione. Qui scatta il dilemma "morale" che ha tenuti impegnati me e Mirco durante la visione. Nel film, Zuckerberg viene descritto come una sorta di Sheldon Cooper sbruffone, sicuro di sé nonostante una palese incapacità di avere normali rapporti umani, stronzo e, soprattutto, vendicativo ed invidioso; il motore della creazione di Facebook è il pentimento seguito ad un'atroce vendetta nei confronti di una ragazza, al quale seguono moltissime piccole e grandi ripicche nei confronti di amici e nemici in egual modo, cosa che spingerebbe gli animi molto meno critici del mio a partire verso la sede di Facebook con torce e forconi per picchiare selvaggiamente l'eminenza grigia del web. In realtà, molto di quello che si vede nel film è inventato, sopratutto per quello che riguarda l'"uomo Zuckerberg", che si dice sia privo di qualsivoglia capacità di provare emozioni forti o vincolanti, positive o negative che siano, quindi impossibilitato ad agire come una sorta di villain geniale. 


Nonostante questo, il film è molto interessante e non potrebbe essere diversamente visto che la sceneggiatura è di Sorkin, che rifugge la banalità della solita struttura di ascesa-caduta-risalita tipica di molte pellicole simili e si focalizza sull'esperienza di una persona che è perennemente in ascesa e perennemente in caduta, vittima di un cervello che lo rende incomprensibile a tutte le persone che incontra, e conseguentemente inviso anche allo spettatore, almeno in parte. Se i papaverini di Harvard sono giustamente dipinti come dei ricchi minchioni viziati che meritano di venire perculati da Zuckerberg e il creatore di Napster Sean Parker viene descritto come una scheggia impazzita da cui guardarsi, elementi che rendono per reazione più simpatico Zuckerberg, è inevitabile infatti che lo spettatore si senta comunque più vicino a Saverin, "reo" di volere una vita normale e magari di fare qualche soldino in maniera corretta. Non è un caso, dunque, che Saverin abbia la faccetta rassicurante di Andrew Garfield, mentre il bravissimo Jesse Eisenberg convoglia tutto il suo magnetismo un po' nerd nella figura controversa del protagonista, che allo stesso tempo affascina e allontana, un po' come la sua creatura più famosa: la facciata innocua di THE Facebook, che permette agli utenti di cercarsi, collegarsi e sviluppare amicizie, in realtà racchiude dinamiche ben più complesse, spesso incomprensibili, talvolta pericolose per gli utenti tanto incauti da fidarsi. In questo, lo Zuckerberg di The Social Network è una perfetta allegoria di quello che ha creato e probabilmente è lì che risiede l'intero senso della validissima operazione di Fincher, Sorkin e soci. 


Del regista David Fincher ho già parlato QUI. Jesse Eisenberg (Mark Zuckerberg), Rooney Mara (Erica Albright), Andrew Garfield (Eduardo Saverin), Armie Hammer (Cameron Winklevoss/Tyler Winklevoss), Max Minghella (Divya Narendra), Justin Timberlake (Sean Parker), Dakota Johnson (Amelia Ritter), Aaron Sorkin (Direttore agenzia pubblicitaria), Caleb Landry Jones (membro della confraternita) e Jason Flemyng (non accreditato, è uno degli spettatori alla regata) li trovate invece ai rispettivi link.


Il film ha vinto tre premi Oscar, per la Sceneggiatura, il Montaggio e la Colonna Sonora Originale. Andrew Garfield aveva sostenuto l'audizione per il ruolo di Zuckerberg ma alla fine era troppo spontaneo e sincero e il regista ha deciso di affidargli Saverin, mentre Shia Labeouf ha direttamente rifiutato di partecipare al film come protagonista. Se The Social Network vi fosse piaciuto recuperate Steve Jobs e La grande scommessa .ENJOY! 

mercoledì 8 febbraio 2017

La battaglia di Hacksaw Ridge (2016)

Forte delle sue sei nomination all'Oscar (Miglior Film, Andrew Garfield Miglior Attore Protagonista, Miglior Regia, Miglior Montaggio, Miglior Sonoro, Miglior Montaggio Sonoro), è stato anticipato dalla distribuzione italiana e la settimana scorsa è approdato nel Bel Paese La battaglia di Hacksaw Ridge (Hacksaw Ridge), diretto nel 2016 dal regista Mel Gibson.


Trama: durante la seconda guerra mondiale, Desmond Doss si arruola nell'esercito americano come medico, rifiutando tuttavia di portare con sé un fucile o di uccidere i nemici. Nonostante le rimostranze dei superiori, il soldato riuscirà comunque ad andare in guerra ad Okinawa e a tenere fede alle sue convinzioni...


Strana la storia di Desmond Doss. Uno pensa che gli obiettori di coscienza non desiderino andare in guerra e ritengano sia meglio mettersi al servizio della comunità in altri modi, rimanendo comunque sul suolo patrio, invece questo ragazzo della Virginia aveva un enorme desiderio di affiancare i suoi compatrioti in battaglia e provava un enorme senso di colpa all'idea di restarsene al sicuro. Come conciliare dunque le fortissime credenze religiose di un Avventista del settimo giorno e le necessità dell'esercito? Semplice: andando in guerra senza fucile, come medico, rischiando la propria vita e molto probabilmente anche quella degli altri. Solo che la scelta di Desmond Doss è stata tutt'altro che semplice, come potete immaginare, e il film di Mel Gibson ce la racconta senza eccessi di retorica né elogi del superuomo (anzi, pare che nell'ultima battaglia prima di venire congedato il soldato Doss, benché ferito dalle schegge di una mina, abbia lasciato il posto sulla barella ad un suo commilitone e abbia aspettato i soccorsi per alcune ore, episodio che Gibson ha scelto di non mostrare perché "difficilmente il pubblico ci avrebbe creduto"), focalizzando l'attenzione sul Credo inflessibile di un ragazzo al tempo stesso patriota ed altruista, sicuramente ingenuo ma anche molto coraggioso, con una prima parte di pellicola dedicata al difficile periodo passato da Desmond in un campo d'addestramento dell'esercito e una seconda in cui l'orrore della guerra viene sbattuto in faccia allo spettatore con la crudezza di cui solo il regista australiano è capace. Benché sia stato tacciato di fascismo, il bello de La battaglia di Hacksaw Ridge è che non elogia la guerra, anzi. La figura di Tom Doss, padre di Desmond, potrà anche sembrare un personaggio aggiunto tanto per dare colore e un trauma infantile al protagonista, eppure è palese come questo reduce disperato, alcoolizzato e desideroso di morire ribadisca l'inutilità dei conflitti armati e l'enorme prezzo pagato da chi, ferito nel fisico o nell'animo, non riesce più a vivere un'esistenza normale. Al limite, si può discutere della valenza di un personaggio ambiguo come quello di Desmond ma qui dipende dalla soggettività dello spettatore e dalla sua disponibilità ad accettare l'esistenza di un uomo che ha effettivamente vissuto le esperienze descritte nel film e compiuto determinate scelte.


E' indubbio, infatti, che Mel Gibson celebri Desmond Ross e renda omaggio al primo obiettore di coscienza decorato con la Medal of Honor, tuttavia non si può negare che le azioni di questo soldato fossero paradossali, come viene più volte sottolineato nel corso della pellicola. Andare in guerra come medico, benché giurando di non uccidere nessuno e di salvare vite umane, significa comunque appoggiare le azioni di chi combatte e chiudere gli occhi davanti alla morte di migliaia di individui, amici o nemici che siano, senza contare il rischio di diventare un ulteriore peso per i commilitoni che non possono venire difesi e che, in qualche modo, devono comunque difendere il medico. Certo, questo è il ragionamento di chi vive nel 2016 e non ha mai provato sulla pelle un conflitto armato, mentre è chiaro che la seconda guerra mondiale è stato uno sconvolgimento capace di mandare a gambe all'aria retorica, pacifismi e buonismi, quindi tanto di cappello a chi ha avuto il coraggio di "fare il suo dovere nei confronti del proprio Paese" e salvare quante più persone possibili (alla fine del film ci sono dei filmati originali che mostrano Desmond Ross in tempi recentissimi; al netto della follia religiosa, mi fossi trovata davanti quest'uomo lo avrei abbracciato come un nonno, altro che apologia del fascismo). Tanto di cappello anche a Mel Gibson, che è riuscito a girare un film interessante, pieno di momenti in qualche modo toccanti e con delle sequenze di battaglia realistiche, ben definite, a tratti difficili da sostenere ma incredibilmente belle dal punto di vista della regia. L'incubo (altro che battaglia) di Hacksaw Ridge è degno di un Train to Busan, con i giapponesi che escono a frotte, come ratti o zombie, dai tunnel sotterranei e cominciano a falciare soldati senza pietà, mentre a noi spettatori non resta che sentire sulla pelle ogni goccia di sangue, il fango, il sudore e il dolore di questi esseri umani ridotti a sacchi sanguinolenti, impossibilitati a contrastare un nemico che mette davanti al proprio benessere quello del paese (anche la scena del seppuku è parecchio impressionante). Quindi bravissimo Mel Gibson e bravo anche Andrew Garfield, molto intenso nei panni di Desmond Doss, nonostante come attore continui a preferirgli altri. La battaglia di Hacksaw Ridge non è magari un film di guerra all'altezza del più volte citato Full Metal Jacket (Vince Vughn dev'esserselo guardato più di una volta in preparazione al ruolo del Sergente Howell) ma è comunque un grande film che merita almeno una visione, possibilmente su grande schermo per godere appieno dell'orribile spettacolo della guerra.


Del regista Mel Gibson ho già parlato QUI. Andrew Garfield (Desmond Doss), Hugo Weaving (Tom Doss), Rachel Griffiths (Bertha Doss), Teresa Palmer (Dorothy Schutte), Vince Vaughn (Sergente Howell) e Sam Worthington (Capitano Glover) li trovate invece ai rispettivi link.


Se La battaglia di Hacksaw Ridge vi fosse piaciuto recuperate American Sniper, Salvate il soldato Ryan e l'immancabile Full Metal Jacket. ENJOY!

martedì 17 gennaio 2017

Silence (2016)

Potevo esimermi dal vedere l’ultimo film diretto e co-sceneggiato da Martin Scorsese? Assolutamente no! Come ennesima prova d’amore sono stata accompagnata nientemeno che dal povero Mirco allo spettacolo pomeridiano di Silence, tratto dall’omonimo libro di Shusaku Endo. Segue post lunghissimo e sconclusionato che potete anche non leggere ma che è servito a me per dare un senso a ciò che ho visto. Se volete un riassunto: il film è bellissimo, andatelo a vedere ma astenetevi se non avete la pazienza di sopportare tempi cinematografici dilatati a dismisura.  Banalmente, se già non avete sopportato The Wolf of Wall Street questo vi ucciderà.


Trama: due missionari gesuiti si recano in Giappone per scoprire quale sia stato il reale destino di Padre Ferreira, presumibilmente ucciso durante le persecuzioni cristiane oppure convertitosi agli usi locali…


Se Quentin Tarantino è per me aMMore, quello di una fangirl che mai riscontrerà un solo difetto nelle sue opere, quello per Scorsese è sempre stato un sentimento più serio, che mi accompagna più o meno dagli anni delle superiori, da quando cioè sono rimasta folgorata da Quei bravi ragazzi. Martin Scorsese è una fede, qualcosa da studiare a fondo, qualcuno con cui non essere sempre d’accordo ma verso il quale il rispetto non deve mai venire meno, anche quando sforna robette come Hugo Cabret che ti fanno alzare un po’ il sopracciglio e guardare oltre, nell’attesa che arrivi il prossimo film capace di toglierti il fiato. Onestamente, fiato me ne è rimasto parecchio dopo la visione di Silence (che non è, almeno per me, IL film più bello di Scorsese come sentirete dire da molti) eppure è stata l’unica pellicola recente del regista che mi ha spinta a recuperare libri e saggi universitari per rituffarmi nello studio della poetica del buon Martin, cercando di capire cosa potesse nascondersi dietro la passione per la storia raccontata da Shusaku Endo e, soprattutto, per comprendere il punto di vista di chi ha passato anni cercando di realizzare un film simile. Il dubbio, ovviamente, è nato fin da subito ed è stato condiviso a lungo con l’amico Toto: per chi, come noi, è ipercritico nei confronti del cattolicesimo, cosa potrebbe significare guardare quasi tre ore di film apprezzato dai prelati che lo hanno visto proiettato in anteprima in Vaticano e tratto da un’opera scritta da un convertito? Saremmo stati costretti a subire tre ore di pippone pro-cattolico, all’urlo di “che cattivi i Giapponesi e poveretti i cristiani”? Sinceramente, non lo credevo possibile e sono contentissima di non essermi sbagliata, perché la poetica scorsesiana dell’”incertezza”, dell’essere umano incapace di distinguere tra giusto e sbagliato, dell’uomo in lotta contro la società, della solitudine e delle illusioni si riafferma prepotentemente in Silence, al di là del contenuto cattolico della pellicola. La storia dei due missionari che vanno in Giappone per recuperarne un terzo è l’ennesima conferma che solo il Cristo de L’ultima tentazione è stato capace di prendere in mano il proprio destino e fare una scelta dettata dalla propria coscienza (giusta o sbagliata, questo non sta a noi deciderlo) mentre tutti gli altri personaggi di Scorsese sono stati influenzati o dalla società in cui sono nati e cresciuti o da una limitata visione del mondo, ritrovandosi così privi del controllo sulla loro vita. 


Lo stesso, ovviamente, accade al vero protagonista di Silence, Padre Rodrigues. Il film prende il via dalla missione “gesuitica” che porta lui e Padre Garupe ad andare in Giappone per scoprire cosa ne è stato di Padre Ferreira ed inizialmente si ha davvero l’impressione di stare guardando un’opera incentrata sulle persecuzioni dei Gesuiti e in generale di tutti i cristiani in terra nipponica: le torture iniziali, la disperazione di chi si ritrova privo di guide religiose, la speranza di avere nel villaggio ben due preti (trattati alla stregua di reliquie), l’inquisizione del terrificante Inoue, sono tutti elementi importanti ma in qualche modo fuorvianti. Presto la sceneggiatura (scritta dallo stesso Scorsese e da Jay Cocks) si focalizza sui dubbi umani di Padre Rodrigues, ritrovatosi solo in terra straniera e messo costantemente alla prova da immagini di violenza, da una cultura che non capisce e, soprattutto, dal SILENZIO. Silence è un film quasi privo di colonna sonora e quando i personaggi non dialogano si sentono solo i monologhi interiori di Padre Rodrigues, i suoni della sofferenza o quelli di una natura spietata ed indifferente: la pellicola si apre e si chiude con l’assordante frinire delle cicale che, come ben sa chi legge manga (ed è talmente sfigato da non avere mai vissuto in Giappone, come la sottoscritta), è un suono tipico dell’estate giapponese, calda e soffocante, perfetta per rappresentare la prigione fisica e spirituale in cui viene a ritrovarsi il protagonista. Dio già non dava risposte a Cristo, l’umanissimo Cristo raccontato da Scorsese negli anni ’80, figurarsi se la sua voce può venire in soccorso di un giovane gesuita che, paradossalmente, si addossa una vocazione da martire talmente egoistica da fargli perdere completamente il senso di ciò che lo circonda. Padre Rodrigues non sente la voce di Dio (come tutti, del resto) eppure arriva a credersi l’incarnazione di Cristo sulla Terra, il depositario di tutte le sofferenze dei cristiani giapponesi, chiudendosi ancora di più nelle sue convinzioni superbe e causando così la morte di coloro che hanno deciso di seguirlo e resistere in suo nome; le illusioni di cui è preda (che lo portano persino ad immaginarsi la voce di Cristo che lo perdona, giacché il silenzio non era abbastanza) offrono gioco facile all’inquisitore giapponese che invece, forte di un senso pratico interamente collegato alla realtà storico-culturale in cui vive, riesce a portare a termine il suo compito con disarmante leggerezza e lucida spietatezza, senza tuttavia risultare un personaggio completamente negativo.  


Quello che temevo, ovvero che i cristiani venissero dipinti interamente come buoni e i giapponesi come dei maledetti torturatori, fortunatamente non è successo perché ogni personaggio viene tratteggiato con delle sfumature di grigio, fortemente connotato da qualcosa che supera la sua indole naturale. L'inquisitore Inoue, la cui identità coglie di sorpresa tanto noi quanto Rodrigues (ed ecco il pregiudizio su cui fa leva quella volpe di Scorsese), è figlio del Giappone e se ci si prendesse la briga di andare oltre le sue pose da aristocratico e l'interpretazione magistrale e molto caricaturale dell'attore nipponico Issei Ogata si capirebbe chiaramente come tutto ciò che l'uomo racconta a Rodrigues corrisponda ad una triste realtà che, nonostante non possa essere intesa come verità assoluta (ma lo stesso vale per la religione cristiana), è comunque radicata all'interno di una società antica, provvista di regole ben chiare e resa fragile da problemi di politica interna; se, di nuovo, ci si prendesse la briga di contestualizzare la vicenda di Silence, si capirebbe come la religione cristiana, dopo essere stata bene accolta ai tempi di Oda Nobunaga, venisse vista negli anni seguenti come un tentativo di colonizzare il Giappone e sovvertire l'ordine sociale, anche perché molti gesuiti offrivano supporto armato ai daimyo cristiani, tra le altre cose. Quindi torturare cristiani inermi è una buona cosa? Assolutamente no ma Scorsese si premura lo stesso di sottolineare la profonda differenza tra l'atteggiamento aggressivo-passivo di Rodrigues e quello più "aperto" di Padre Ferreira, per quanto quest'ultimo sia stato imposto con la forza. Ferreira è quindi migliore di Rodrigues? Anche lì, Scorsese non da risposte e lascia tutto alla sensibilità dello spettatore, ma a me verrebbe da dire no. Anche Ferreira è un uomo che lasciato che altri decidessero per lui e, pur di non perdere la vita a sua volta, oltre che la fede, ha accettato non solo di abiurare ma persino di aiutare il governo giapponese a scovare le immagini religiose nascoste dai cosiddetti キリシタン (la traslitterazione in katakana di "christian"), rimanendo quindi privo di uno scopo nella vita e, probabilmente, continuando a soffrire per l'impossibilità di sentire la voce di Dio: Ferreira sicuramente alla fine salva i prigionieri e il corpo di Rodrigues ma lo lascia poi allo sbando, abbandonando l'anima del suo ex discepolo in balìa degli stessi dubbi che attanagliano lui. 


Chi invece agisce come veicolo di salvezza, per quanto improbabile, è il peculiare Kichijiro. Ubriacone, sporco, traditore e paraculo (posso anche dirlo, tanto ormai chi è arrivato a leggere fino qui??), Kichijiro è il tipico cristiano che compie le nefandezze peggiori confidando comunque nel perdono di Dio e, nonostante non smetta di tormentare per un attimo Rodrigues, alla fine viene comunque ringraziato da quest'ultimo in un toccante confronto. Lì per lì pensavo che Kichijiro fosse la rappresentazione di Giuda, invece diventa per il protagonista l'ultimo baluardo di fede, l'estrema prova di coraggio che porta a perdonare i peccati più empi e a rimettere le colpe anche quando la persona in questione non lo merita; probabilmente Kichijiro è l'unico ancora in grado di far sentire a Rodrigues che la voce di Dio, per quanto flebile, esiste e forse viene persino considerato un modello di forza per la sua capacità di attaccarsi alla fede anche dopo assere stato schiacciato, gettato nel fango e deriso. Forse invece sono io che mi faccio troppi viaggi mentali, spinta dalla complessità degli argomenti trattati e dalla bellezza che Scorsese, in quanto regista, riesce a ricreare attraverso le immagini, anche quando queste ultime mostrano soltanto sangue, morte e desolazione, sfruttando il creato "divino" come mezzo per spegnere le vite dei fedeli. Il regista italoamericano, come al solito, non lascia nulla al caso e non spreca neppure un'inquadratura o un suono (quel gallo che canta tre volte a me ha messo i brividi), così che ogni splendida immagine ed ogni sequenza diventano l'equivalente di immagini sacre per tutti coloro che amano il buon cinema. E già che sono arrivata al quarto paragrafo di post annichilendo il 99% di chi passerà di qui posso sfogare anche la mia anima scema, visto che ho scritto queste righe per puro piacere personale: Adam Driver è stato deluso dalla fede, ecco perché è passato al lato Oscuro della Forza (e comunque, figlio mio, sei brutto come il peccato, non ti si può guardare!!), ad Andrew Garfield non avrei dato due lire invece non è mai stato così bravo e Tadanobu Asano è figo, tremendamente figo, persino con l'orrido taglio di capelli che andava di moda in Giappone nel 1600. 浅野忠信 遊びに行こう!

Del regista e co-sceneggiatore Martin Scorsese ho già parlato QUI. Andrew Garfield (Rodrigues), Adam Driver (Garupe), Liam Neeson (Ferreira), Tadanobu Asano (Interprete), Ciarán Hinds (Padre Valignano) e Shin'ya Tsukamoto (Mokichi) li trovate invece ai rispettivi link.


Daniel Day-Lewis avrebbe dovuto interpretare Padre Ferreira ma la lunga produzione del film (è dai tempi di Gangs of New York che Scorsese avrebbe voluto girarlo) ha fatto sì che l'attore fosse impossibilitato a partecipare e lo stesso è successo a Gael García Bernal e Benicio Del Toro, in parola per i ruoli di Padre Rodrigues e Padre Garupe. Tadanobu Asano ha invece sostituito Ken Watanabe nel ruolo di interprete. Il romanzo di Shusaku Endo era già stato portato sullo schermo nel 1971 dal regista Masahiro Shinoda, col titolo Chinmoku; ovviamente non l'ho mai visto ma se Silence vi fosse piaciuto recuperatelo e aggiungete L'ultima tentazione di Cristo e magari Kundun. ENJOY!

mercoledì 27 luglio 2011

Non lasciarmi (2010)

Nonostante la mia passione per i film più truci e beceri sono una di quelle persone che al cinema piange molto volentieri. Intendiamoci, se vedessi Scusa ma ti chiamo amore non spremerei nemmeno una lacrima, ma ho una trilogia di pellicole “maledette” che mi fanno cominciare a singhiozzare fino a star male: Edward mani di forbice, Papà ho trovato un amico e L’uomo bicentenario. Senza contare varie ed eventuali, alle quali si è aggiunto lo struggente e bellissimo Non lasciarmi (Never Let Me Go), diretto nel 2010 dal regista Mark Romanek e tratto dall’omonimo libro di Kazuo Ishiguro.



Trama: Kathy, Ruth e Tommy sono tre ragazzini che conducono una vita normale in un college severo ma apparentemente normale. In realtà, il loro destino è già segnato perché, come tutti i loro compagni, i tre sono stati creati come “banca di organi” per le altre persone, e avranno un’aspettativa di vita assai breve. Crescendo, i tre percorreranno strade separate e arriveranno a capire l’orribile realtà in cui vivono…



Non lasciarmi è un film devastante. E’ quel genere di pellicola che io adoro, perché è “piccola”, per nulla ridondante, delicata come una piuma, eppure molto più valida di tanti altri roboanti drammoni che ci vengono ogni tanto propinati; è un film che ci fa innamorare dei personaggi e ci rende così molto più partecipi della loro terribile vicenda, perché si concentra sul loro stato d’animo, sulle loro scelte, sui loro rimpianti e anche sui loro errori, attraverso la dolce e nostalgica voce narrante di Kathy, un personaggio meravigliosamente forte e allo stesso tempo fragile. Non lasciarmi colpisce lo spettatore perché mostra il dramma di tre umanissime persone create per essere solo delle “cose”, dei ricettacoli di pezzi di ricambio, che nonostante ciò conoscono e sperimentano tutto quello che fa parte di una vita “normale”: amore, speranza, delusione, tristezza, odio, amicizia, perdita. Non è un film facile né allegro, non ricerca soluzioni ad effetto oppure liete ma lascia un senso costante di rassegnazione e speranza frustrata, perché fin dall’inizio ci rendiamo conto che i tre protagonisti, crescendo, non diventeranno supereroi e non riusciranno a cambiare il mondo ma potranno solo cercare di vivere al massimo nel tempo che verrà loro concesso… che è poi quello che deve fare la maggior parte di noi.



Non lasciarmi si regge completamente sulla stupenda performance di Carey Mulligan, che infonde alla sua Kathy una dignità e una malinconia struggenti, tanto che non ci si stancherebbe mai di sentirla narrare le vicende della pellicola; a farle da contrappunto è il personaggio di Keira Knightley, più consapevole e calcolatore ma altrettanto umano, perseguitato dal terrore della solitudine e della morte. Alle immagini malinconiche della natura che circonda i protagonisti (splendida quella della spiaggia con il relitto affondato) si affiancano quelle fredde ed asettiche del college, degli appartamenti e degli ospedali, che mirano ad affermare la spersonalizzazione dei ragazzi “allevati” solo per fornire pezzi di ricambio, e tutto viene unito e reso ancora più commovente da una stupenda colonna sonora che risuona a lungo nella mente dello spettatore, anche dopo che il film è finito. Purtroppo Non lasciarmi è passato quasi in silenzio nei cinema italiani, come al solito. Se non siete riusciti a vederlo vi consiglio di cercarlo, perché merita tantissimo. Personalmente, cercherò il romanzo in libreria.



Di Keira Knightley, ovvero Ruth, ho già parlato qui.

Mark Romanek è il regista della pellicola. Tra i suoi altri (pochi film) ricordo l’interessante One Hour Photo con Robin Williams (che ha anche anche sceneggiato). Americano, anche sceneggiatore e produttore, ha 52 anni e un film in uscita.



Carey Mulligan interpreta Kathy. Inglese, la ricordo per aver partecipato a Orgoglio e pregiudizio, Wall Street: il denaro non dorme mai e alla miniserie televisiva Bleak House, oltre che ad alcuni episodi di Dr. Who. L’anno scorso è stata nominata all’Oscar come miglior attrice protagonista per un film che non conoscevo, An Education. Ha 26 anni e due film in uscita.



Andrew Garfield interpreta Tommy. Americano, ha partecipato a film come Parnassus – L’uomo che voleva ingannare il Diavolo e The Social Network, nonché ad alcuni episodi di Dr. Who. Ha 28 anni e due film in uscita, tra cui l’imminente reboot di Spiderman, dove lui interpreterà proprio l’amichevole Uomo Ragno di quartiere.



Charlotte Rampling interpreta Miss Emily. Inglese, la ricordo per film come Yuppi Du (ebbene sì, quello con Celentano… mi costringevano a guardarli!!), L’orca assassina, Angel Heart – Ascensore per l’inferno e Basic Instinct 2. Ha 65 anni e cinque film in uscita, tra cui l’imminentissimo Melancholia di Lars Von Trier.



Tra gli altri interpreti, segnalo l’ormai onnipresente Domnhall Gleeson, qui nei panni di Rodney. E ora vi lascio con il trailer originale... ENJOY!!

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