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mercoledì 28 febbraio 2024

La zona d'interesse (2023)

Gli Oscar si avvicinano a grandi passi e so, anche quest'anno, che il mio intento di vedere tutti i film candidati naufragherà miseramente. La distribuzione sta comunque dando una mano per quelli più importanti, come La zona d'interesse (The Zone of Interest), diretto e co-sceneggiato nel 2023 dal regista Jonathan Glazer a partire dal romanzo omonimo di Martin Amis e candidato a cinque premi Oscar: Miglior film, Miglior regista, Miglior sceneggiatura non originale, Miglior film internazionale, Miglior sonoro.


Trama: vita quotidiana di Rudolf Höss, comandante del campo di concentramento di Auschwitz, che vive assieme alla sua famiglia in un'idilliaca casetta a un passo dall'orrore...


Siccome cerco (a ragione o a torto) di sapere il meno possibile sui film, prima di guardarli, non avevo idea di cosa aspettarmi da La zona d'interesse, tranne che avesse a che fare col nazismo e con una pericolosa vicinanza ad Auschwitz. Ciò ha contribuito ad aumentare il disagio di fronte alla cronaca della quotidianità dell'allegra famiglia Höss, novelli Von Trapp ibridati con le peggiori caratteristiche WASP, che vivono (in)felici in un paradiso borghese a pochi metri da un luogo dove si consuma uno dei più grandi crimini della storia dell'umanità. Ho messo "in" davanti a "felici" perché il comandante Rudolf Höss e la moglie, Hedwig, sperimentano tutti i banali problemi di un lavoratore indefesso e una casalinga devota. Rudolf è "il migliore in quello che fa", la versione nazi dell'impiegato del mese, e si impegna quotidianamente per inventare nuovi ed efficienti metodi di sterminio ad Auschwitz, ciò nonostante i suoi superiori temono non sia in grado di gestire il carico di lavoro e, come succede in qualsiasi multinazionale, il rischio è quello di venire trasferito o demansionato. Hedwig vive per la splendida casetta frutto del lavoro del marito e per i privilegi da esso derivanti, come abiti e gioielli provenienti dal "Kanada", vacanze italiane, scuole esclusive per i pargoli, giardini lussureggianti e chi più ne ha più ne metta, ma non crediate che la sua sia una vita più facile: tirare su alberi e viti in grado di coprire muri di cinta, filo spinato e il fumo che esce dai forni crematori è un lavoraccio, tanto quanto passare le giornate ignorando l'orrore o derubricandolo a uno sconveniente fastidio. Questo, in breve, è ciò che lo spettatore deve "subire" dall'inizio alla fine de La zona d'interesse e se la regia asseconda il desiderio dei protagonisti di non vedere, attraverso riprese di rigorosa e fredda geometria che relegano i dettagli indesiderabili a bordo schermo (tranne quando il punto di vista diventa quello della madre di Hedwig, che viene travolta da un orrore inaccettabile che la spinge a fuggire), il sonoro non concede un attimo di tregua né di pietà e violenta le orecchie con un costante brusio di urla, spari, sirene e pianti disperati, a malapena celati dal perenne rombo di un motore. 


Col suo stile rigoroso, Glazer mette in scena un atteggiamento sociale attualissimo e quanto mai pericoloso. Non si tratta solo di vivere come se niente fosse davanti a tragedie umanitarie enormi, tappandosi il naso per non sentire e inorridendo solo quando le conseguenze indesiderate arrivano a sfiorarci più da vicino, incupendoci per un minuto o due, ma anche della stolida determinazione ad ignorare il bene. Realizzate utilizzando una telecamera termica per non ricorrere alla luce artificiale, le sequenze in cui una ragazza, mettendo a repentaglio la propria vita, esce di notte per lasciare viveri nei luoghi dove gli ebrei ridotti in schiavitù potranno trovarli, sono ulteriore emblema della cecità dei protagonisti e dell'orrore di una società dove i mostri vestono di un bianco abbacinante, baciati dalla luce del giorno, e dove i pochi eroi strisciano non visti, illuminati da un'invisibile luce interiore che la tecnica in questione amplifica ed evidenzia. La figura della domestica polacca, realmente esistita, è l'unica fonte di speranza in un film che non solo condanna il passato, ma mette in guardia anche le future generazioni. Separata dal presente da quotidiane pulizie e comode teche di vetro, la storia rischia di perdere mordente e ridursi ad innocue (per quanto tristi) immagini di un passato che si pensa, erroneamente, non potrà mai ripetersi; la luce che, dal fondo di un buio tunnel, colpisce Höss sul finale, preceduta da conati di vomito, potrebbe essere simboleggiare il corpo che si ribella a una mente capace di annullare la percezione di un orrore senza limiti, ma anche la paura di vedersi derubricato a nota a margine di una tragedia in cui vengono celebrati i vinti, oppure l'incubo di avere "lavorato" tanto per nulla, ché del grandioso progetto nazista non è rimasto altro che un asettico museo, un monumento al loro fallimento. Comunque la si veda, un film come La zona d'interesse (al di là dei suoi effettivi meriti artistici, e sono tanti, a partire dalla bravura dei due interpreti principali) è necessario per i mala tempora in cui ci troviamo. Non saremo sicuramente cattivi come Rudolf o Hedwig, almeno non tutti, ma l'orrore della morte e della guerra è a un passo dall'enorme casa con giardino in cui abbiamo la fortuna di abitare ed è sempre più facile girare la schiena e fare finta di non vedere, tra un apericena e un meme su Facebook.


Del regista e co-sceneggiatore Jonathan Glazer ho già parlato QUI mentre Sandra Hüller, che interpreta Hedwig Höss, la trovate QUA.




martedì 27 febbraio 2024

NAGA (2023)

Silvia lo ha incensato come uno degli horror dell'anno, quindi mi sembrava giusto dare un'occhiata a NAGA (ناقة), disponibile su Netflix, diretto e co-sceneggiato dal regista Meshal Al Jaser.


Trama: Sarah, dopo essere andata a una festa in mezzo al deserto all'insaputa dei genitori, incappa in una serie di terribili disavventure che rischiano di farla arrivare tardi all'appuntamento col padre...


Una bella botta di adrenalina questo NAGA, nonché uno dei film più particolari che potete trovare nel catalogo Netflix. Non fatevi però trarre in inganno dalla fuorviante descrizione, che lo categorizza come un horror con un ben strano antagonista da sconfiggere, perché rischiereste di non apprezzarlo; NAGA non è un survival horror o un (wo)man vs animal ma provoca ugualmente ansia e un senso di disagio, in virtù della sua trama allucinata e al cardiopalma, interamente imperniata sulla corsa contro il tempo della protagonista. Sarah è una giovane ribelle, la cui personalità spiccata è enfatizzata dal fatto di essere nata in Arabia Saudita, per di più all'interno di una famiglia rigorosissima, dominata da un padre-padrone. La sua ribellione è tanto giusta quanto ben più pericolosa rispetto a quella delle sue coetanee occidentali, perché il pericolo non si nasconde solo in casa ma anche negli occhi di ogni uomo che incrocia la sua strada e che la vede come vittima o come creatura inferiore. Di conseguenza, la decisione di andare di nascosto assieme al fidanzato (o amico d'infanzia? Il rapporto è un po' ambiguo...) a una festa in mezzo al deserto si traduce in una serie di imprevisti uno più terrificante dell'altro, scanditi da un conto alla rovescia in sovrimpressione che si colora di rosso a mano a mano che l'ora dell'appuntamento col padre si avvicina. L'idea è simile a quella di un Fuori orario virato al femminile ma senza sesso: Sarah esce dalla sua (un)comfort zone e viene punita da incontri con personaggi allucinanti o amici stronzi, passando per poliziotti particolarmente incazzati fino ad arrivare a mostruosi cammelli che sembrano usciti dritti dall'inferno, e ad ogni incontro sia il suo fisico che la sua sanità mentale vanno comprensibilmente in pezzi. Ciò che, però, rende diverso NAGA da film con trame simili, è la natura assolutamente cazzuta della protagonista, una ragazza stupenda che detesta il mondo, odia essere trattata a pesci in faccia e, soprattutto, non se la fa menare da anima viva, nemmeno quando la situazione la vorrebbe rannicchiata e piangente in un angolo, rassegnata alla sconfitta. Potere della strizza di papino, certamente, ma soprattutto potere della consapevolezza di vivere in una società dominata da stronzi paraculi tutelati da leggi e religioni ingiuste, e non avete idea di quanto sia liberatorio il fotogramma finale, che vede Sarah sfogare tutta la sua rabbia con uno sberlone degno di Bud Spencer.


La regia e il montaggio rispecchiano non solo la forsennata corsa contro il tempo di Sarah, ma anche la sua natura indomita. La macchina da presa di Meshal Al Jaser non sta mai ferma, segue ed asseconda la protagonista (l'esordiente e bravissima Adwa Bader, che dovrebbe fungere da modello per ogni donna vessata sul pianeta e dà fior di punti sia a Sheryl Lee che ad Amanda Seyfried in quanto ad urla incazzate) in ogni movimento e trasforma gli ambienti più banali e raccolti in dimensioni distorte dove non è assicurata la possibilità di uscirne vivi; la prospettiva delle riprese restituisce un punto di vista influenzato non solo dalla droga che prende Sarah all'inizio delle sue disavventure, ma soprattutto una realtà filtrata da un costante senso di disgusto o ansia, come se ogni evento del film fosse un incubo dove il senso del tempo e dello spazio non esiste più. Nonostante questo, non c'è una sola sequenza del film che non sia assolutamente comprensibile, almeno a livello di percezione visiva, anche nelle abbondanti riprese notturne, inoltre la frenesia di NAGA viene ulteriormente alimentata da un montaggio sincopatissimo e dalla scelta di spezzare la consecutio temporum con flashback che lasciano in sospeso le situazioni più spinose. L'unico difetto di NAGA è che mette troppa carne al fuoco a livello di trama, non tanto per quanto riguarda l'ossatura della stessa, quanto piuttosto per un paio di "deviazioni" che non si amalgamano bene alla storia principale e sollevano dubbi (a mio parere) ininfluenti, ai quali ho trovato difficile dare una motivazione. Limite mio, ovvio, che non vi deve fermare dal dare una chance a questo film particolarissimo, per una serata ad alto tasso di adrenalina! 

Meshal Al Jaser è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Arabo-saudita, è al suo primo lungometraggio. Ha 28 anni.



venerdì 23 febbraio 2024

Past Lives (2023)

E' uscito la settimana scorsa un altro dei pluricandidati per l'imminente notte degli Oscar, Past Lives, diretto e sceneggiato nel 2023 dalla regista Celine Song e candidato a due statuette: Miglior Film e Miglior Regia.


Trama: Na Young e Hae Sung sono due ragazzini coreani che si frequentano e si piacciono. Il giovanissimo sentimento viene stroncato dalla partenza di Na Young, che si trasferisce coi genitori e la sorella in Canada. Passano dodici anni, Na Young è ormai diventata Nora Moon e, un giorno, trova su Facebook un messaggio di Hae Sung, che vorrebbe parlare di nuovo con lei...


Lo sapete, io sono refrattaria alle storie d'amore. Forse però non sapete che, se amore dev'essere, allora deve andare come dico io, perché all'età di 43 anni io, gli amori di finzione, li gestisco come delle ship: a me piace il personaggio X quindi mi incazzo come un'ape se il/la protagonist* finisce insieme a Y. Non c'è verso che i miei desideri irrealizzati non mi infondano nervoso, nemmeno quando, razionalmente, capisco tutti i motivi per cui non è andata come speravo, ché già ci sono tante delusioni nella vita, quindi perché anche nei film/libri/fumetti deve finire male? (cioè, un attimo. Preferisco che piuttosto il personaggio non realizzi il suo amore perché l'altro muore, pensate fin dove arriva la mia psicosi) Ecco, Past Lives mi ha lasciato questo tipo di nervoso. Ma è un film talmente bello che non ho potuto arrabbiarmi, giusto piangere sul finale perché, all'età di 43 anni, sono una bambina che detesta i sentimenti adulti, anche se li comprendo bene. Past Lives, basato in parte su un'esperienza autobiografica di Celine Song, racconta il rapporto decennale tra Nora Moon (nata Na Young) e Hae Sung. Da bambini, i due sono migliori amici, competono per i voti, si cercano e si piacciono, c'è del potenziale perché possano fidanzarsi alla maniera tenera dei ragazzini. Invece, i genitori di Nora decidono di emigrare in Canada e, per dodici anni, i due non si vedono né si sentono. Ci pensa internet a riunirli, quando Nora scopre che Hae Sung la sta cercando, ma è una riunione a distanza, fatta di sentimenti soffocati da un'inevitabile differenza linguistica, sociale, lavorativa, e nessuno dei due sembra in grado di fare un salto nel buio e abbandonare la propria nuova vita. Da questi presupposti, seguiti da un'altra fase dell'esistenza di Nora e Hae Sung, Celine Song costruisce una riflessione sul concetto coreano di in-yun. 


In-yun è qualcosa che travalica le epoche e che destina due persone a stare insieme o comunque ad incontrarsi, ed è tanto più intenso quanto più, nelle vite passate, il legame tra questi due individui era profondo. E' un concetto interessante e quasi "fatalista", se mi passate il termine, che potrebbe predisporre ad attendere un momento più propizio in un'altra esistenza, oppure a "bloccare" le persone in questa: Hae Sung è rimasto ancorato al passato, all'immagine di una Nora piagnucolona e sognatrice, bisognosa del suo sostegno, mentre la ragazza ha dovuto affrontare la solitudine in un paese straniero, ha tirato su una bella corazza, si è letteralmente dimenticata di lui. Quando i due si ritrovano su Internet, anche Nora si accorge che lo in-yun li lega ma, come Hae Sung, non ha il coraggio di rinunciare ai suoi sogni per seguire l'amore, né la pazienza di aspettare di, eventualmente, rimanere delusa. I sentimenti raccontati da Celine Song sono trattenuti e ragionati, la regista dà loro il tempo di respirare e di venire messi alla prova dal tempo e dall'intrecciarsi di destini, in una rappresentazione della vita tanto malinconica quanto "spietata" per chi spera che le cose non possano mai cambiare. Se avete visto il film, dal mio incipit capirete quanto ho odiato il personaggio di Arthur, il marito di Nora, che il mio cervello ha etichettato fin dalla prima scena come "terzo incomodo rompipalle". In realtà, poveraccio, l'occidentale Arthur è anche troppo consapevole di come il concetto di in-yun possa inghiottire in un boccone quello di sliding doors, e di come sia stata solo questione di fortuna diventare il marito di Nora. Una fortuna cementata, nel tempo, da amore, vita in comune e mille altri fattori, ma passabile di venire sgretolata nel momento stesso in cui la "vera" anima gemella, quella eletta fin dall'infanzia, dovesse ripresentarsi. 


Questo triangolo amoroso viene gestito da Celine Song con una delicatezza incredibile e con un esito non scontato, sottilmente intrecciato ad una regia funzionalissima alla sceneggiatura. Past Lives non è un film granché dialogato (nonostante, soprattutto sul finale, il gap tra coreano e inglese diventi una delle cose più importanti del film), perché ci pensano le immagini a veicolare più concetti di mille parole. La sequenza iniziale, col "gioco" delle voci fuori campo che cercano di capire quale sia il legame che intercorre tra Nora, Arthur e Hae Sung, le due stradine che si dividono per poi scorrere parallele durante l'addio infantile e silenzioso dei protagonisti, l'insistenza sugli sguardi, sui gesti non portati a termine, quel tesissimo prefinale in cui Nora e Hae Sung sembrano separati da una calamita che cerca di attirarli l'uno all'altra, il ritorno al passato di Hae Sung mentre Nora si avvia verso il futuro, sono tutti esempi di una raffinatezza rara per un'esordiente. E gli attori hanno un'alchimia talmente forte che, anche se Past Lives non è né mucciniano né teatrale a livello di espansività, sembra davvero che Greta Lee e Teo Yoo abbiano un passato comune di attrazione reciproca, con tutto quello che ne consegue. John Magaro, infine, è talmente dimesso da fare tenerezza e i dialoghi stentati tra Arthur e Hae Sung colpiscono molto più di quelli tra marito e moglie, così come il linguaggio corporeo e gli sguardi di un uomo che aspetta, con rassegnazione, la bastonata peggiore della sua vita. Insomma, a me le storie d'amore non piacciono ma mi è piaciuto Past Lives. Non è il film dell'anno e lo avrei candidato "solo" per la sceneggiatura, però è una bellissima sorpresa, da recuperare assolutamente. 


Di John Magaro, che interpreta Arthur, ho già parlato QUI.

Celine Song è la regista e sceneggiatrice della pellicola, al suo primo lungometraggio. Sud-coreana, anche produttrice, ha 36 anni.


Se il film vi fosse piaciuto recuperate la "Before Trilogy" di Richard Linklater e Decision to Leave. ENJOY!

mercoledì 21 febbraio 2024

I tre moschettieri - Milady (2023)

Una pausa dalla Road to the Oscars ci vuole e un film come I tre moschettieri - Milady (Les Trois Mousquetaires: Milady), diretto nel 2023 dal regista Martin Bourboulon, è l'ideale!


Trama: dopo l'agguato subito davanti a casa, D'Artagnan si mette alla ricerca di Constance, in mano a rapitori sconosciuti. L'incontro con una rediviva Milady e l'esacerbarsi delle tensioni tra cattolici e protestanti complicano ancora di più le cose, per tutti i Moschettieri...


L'anno scorso ero rimasta con un palmo di naso davanti alla conclusione de I tre moschettieri - D'Artagnan, disperata all'idea di dover aspettare mesi per poter vedere la fine della saga. Quest'anno sono rimasta ancora più di tolla, perché (confermando la natura "maledetta" del popolo francese in generale) non solo I tre moschettieri - Milady ha un finale apertissimo, ma non c'è nessuna notizia di un terzo capitolo, anzi, pare che i realizzatori vogliano dedicarsi a riadattare Il conte di Montecristo. Ciò mi fa abbastanza girare le scatole, perché, se D'Artagnan era stata una bella sorpresa, con tutti gli ovvi limiti del caso, Milady sa molto di lavoro frettoloso, realizzato per dare un minimo di chiusa a una saga pur lasciando tantissimi spunti in sospeso e, soprattutto, con poca attenzione alla psicologia dei personaggi. In particolare, la Milady del titolo viene gestita in maniera pessima, a parer mio. Intrigante spia con un debole per il guascone D'Artagnan nelle prime sequenze del film, elegantissima amica-nemica dal fascino pericoloso, col proseguire della storia la donna assume sfumature sempre più cupe, legate principalmente al triste passato condiviso con Athos (non spiegato proprio benissimo né nel primo film né in questo, tanto che a un certo punto non si capisce più bene perché Milady detesti il moschettiere visto che lui pare devastato dal dolore e dall'aMMore, salvo poi dimenticarsene nell'ultimo atto); verso il finale, la sceneggiatura parrebbe tratteggiarla come un'antieroina femminista, in giusta lotta contro un mondo di uomini che l'hanno privata della libertà e della dignità senza mai neppure provare a capirla, ma il grado di menefreghismo col quale affronta l'unico, vero colpo di scena del film sconfessa interamente quest'interpretazione, relegandola al ruolo di pazza furiosa il cui unico scopo è vedere morto D'Artagnan. Va bene tutto, ma la pagina di Wikipedia dedicata al personaggio letterario è più comprensibile e meno superficiale, giuro. L'altra mossa poco accorta, per non dire cretina, è stata introdurre il personaggio del moschettiere di colore, Hannibal, in guisa di potentissimo deus ex machina con la personalità di un Gary Stu qualsiasi, solo perché su di lui verrà basata, a quanto pare, un'intera serie. Forse, solo forse, era meglio dare più spazio a Porthos e Aramis o a Richelieu visto che i primi due vengono usati come comic relief e il secondo, pur avendo più screentime rispetto al capitolo precedente, continua ad avere il carisma di un tizio lasciato a frollare su una croce e dimenticato lì (altro momento abbastanza cringe del film. Vedere per credere)?


Se non altro, e per fortuna, i moschettieri mantengono inalterate le personalità del primo film e sono sempre un bel vedere, soprattutto Athos ed Aramis, cosa che riconferma la natura prettamente "per pubblico femminile" di un film dove i begli attori si sprecano, senza nulla togliere ad una Eva Green talmente sensuale e strizzata all'interno di bustini pornografici che la mia eterosessualità ha rischiato di vacillare più volte (peccato per le parrucchette inguardabili e quei travestimenti imbarazzanti. No.). Però, signori miei, saremo anche donne ma ESIGIAMO scontri all'arma bianca fatti come si deve, per la miseria! Bourboulon, invece, stavolta ha deciso di realizzare in fretta e furia anche quelli, forse perché i due film sono stati girati uno dopo l'altro e il regista era stanco, tanto che durante i duelli e le battaglie non si capisce una mazza; la macchina da presa sembra sempre un po' in ritardo rispetto ai movimenti degli attori, incapace di seguirli, e il montaggio aiuta ben poco. Un po' meglio le riprese in campo lungo, con un paio di paesaggi ed ambienti mozzafiato, peccato per la fotografia di Nicolas Bolduc, brutta, fosca e grigiastra come quella del film precedente. Se dovessero girare un terzo capitolo spero vivamente che costui non sia della partita, perché a un certo punto mi bruciavano gli occhi. E nonostante quello che ho scritto, incrocio le dita perché un terzo capitolo ci sia (ovviamente con lo stesso cast altrimenti viene meno l'interesse principale, ehm, ehm...) e affinché una pausa sia ciò che serve a sceneggiatori e realizzatori per aggiustare un po' il tiro ed essere meno frettolosi a livello di sceneggiatura. La saga ha parecchie potenzialità, basterebbe avere la capacità di sfruttarle al meglio! 


Del regista Martin Bourboulon ho già parlato QUIFrançois Civil (D'Artagnan), Vincent Cassel (Athos), Eva Green (Milady), Louis Garrel (Luigi XIII) e Vicky Krieps (Anna d'Austria) li trovate invece ai rispettivi link.


Ralph Amoussou,
che interpreta Hannibal, aveva partecipato alla serie Marianne e al nostrano Diaz mentre Camille Rutherford, ovvero Mathilde, è la studentessa che intervista la protagonista in Anatomia di una caduta. Se I tre moschettieri - Milady vi fosse piaciuto recuperate il precedente I tre moschettieri - D'Artagnan e aggiungete I duellanti, I tre moschettieri di Stephen HerekLa maschera di ferro I tre moschettieri di Paul W. S. Anderson. ENJOY!

martedì 20 febbraio 2024

Lord of Misrule (2023)

Il sesto suggerimento della challenge HorrorX52 su Letterboxd diceva di guardare un film consigliato online. La scelta è caduta così sul recente Lord of Misrule, diretto nel 2023 dal regista William Brent Bell, visto che la mia homepage Facebook era zeppa di post a tema.


Trama: il giorno della festa del raccolto, la figlia di Rebecca, ministro della chiesa locale, scompare misteriosamente. Le indagini della donna riveleranno il cupo passato della cittadina in cui si è trasferita da poco...


Potrei sbagliare ma, al momento, il 2024 horror mi è sembrato privo di uscite di spessore. Gennaio è passato praticamente senza horror, febbraio comincia all'insegna di questo Lord of Misrule che è un folk horror dalle grandi ambizioni e dalla resa fiacca. Non che da William Brent Bell mi aspettassi un nuovo Midsommar, ma fare male con antichi riti pagani e una cittadina con un piede nel cristianesimo e uno nella superstizione è maledettamente difficile. Infatti, Lord of Misrule non è orribile, è solo un'occasione mancata con problemi di ritmo. In un paesino inglese, la figlia del nuovo vicario viene eletta angelo del raccolto e, prima della fine della festa, scompare nei boschi. La madre, più di chiunque altro, si impegna a cercarla, anche perché nottetempo la bambina le compare all'interno di incubi sempre più inquietanti; in parallelo, il paesino viene scosso da strani eventi, mentre un passato accantonato (ma mai dimenticato, come dimostrano i simboli pagani disseminati in ogni dove) si sovrappone al presente in maniera sempre più insistente. Lord of Misrule inizia nella maniera migliore possibile. Ci sono bambini innocenti affascinati da simboli e rituali che invece non lo sono poi tanto, c'è una festa di paese dove il cosiddetto Lord of Misrule viene evocato per cacciare Gallowgog, un'entità pronta a distruggere il raccolto e la prosperità dei cittadini, c'è un'atmosfera generale di segreti e minacce neppure tanto sottili, nata dalla contrapposizione tra la religiosità della protagonista e la natura pagana di ciò che si nasconde dietro la scomparsa della figlia. Lo spettatore mediamente scafato, dopo 10 minuti ha già capito che gli amichevoli abitanti del paese lo sono solo di facciata, il problema è che William Brent Bell non è in grado di costruire la tensione né veicolare l'inquietudine derivante dall'"ignoranza" della protagonista e dalla presenza di occhi che tengono costantemente d'occhio le sue mosse. 


Il ritmo di Lord of Misrule si ammoscia nelle inconcludenti indagini di Rebecca, tra una sequenza onirica e un'infinita serie di salotti o cucine di campagna in cui la protagonista fa domande ai vari abitanti prima di tornare nei boschi, in un'affannosa ricerca che si concretizza in un finale ambiguo eppure, nonostante ciò, anch'esso ampiamente prevedibile. Parrebbe quasi che Lord of Misrule punti più su apparenze e suggestioni, come se il regista avesse voluto girare un folk horror e si fosse letto un bignami del genere, ma senza accompagnare una trama di sostanza ad immagini che, lasciate a sé stesse, diventano evanescenti quanto il fienile nero dove si svolge il finale del film. Probabilmente la fiacchezza di Lord of Misrule deriva anche da un casting poco azzeccato. Tuppence Middleton non è particolarmente carismatica, anzi, sembra spesso la povera Enoiósa quando chiedeva costantemente "Dov'è mia sorella? Dovè mia sorella?" e le dinamiche tra il personaggio di Rebecca e suo marito sono talmente forzate da privare il film anche di quel disagio derivante da un rapporto che si sgretola; la piccola Evie Templeton pare perennemente addormentata, Matt Stokoe sa di poco, Ralph Ineson ci mette tutto l'impegno del mondo a risultare inquietante ma la sceneggiatura lo fa perdere nell'ennesima serie di immagini disturbanti fini a sé stesse, quindi ci sono giusto un paio di spaventevoli vecchie a salvare la baracca, e un'altra mocciosa che chiama schiaffi fin dalla prima inquadratura. Non male il Gallowgog versione "spirito", così come le scenografie, i costumi e la musica, accompagnati da un'interessante divisione del film in quattro capitoli/simboli, ma è un po' poco per salvare Lord of Misrule dall'immediato oblio.


Del regista William Brent Bell ho già parlato QUITuppence Middleton (Rebecca Holland) e Ralph Ineson (Jocelyn Abney) li trovate invece ai rispettivi link.


Se Lord of Misrule vi fosse piaciuto recuperate, ovviamente, The Wicker Man e Midsommar. ENJOY!

venerdì 16 febbraio 2024

Il colore viola (2023)

Altro giro di Oscar, altro regalo! Oggi tocca a Il colore viola (The Color Purple), diretto nel 2023 dal regista Blitz Bazawule, tratto dall'omonimo musical (a sua volta ispirato a Il colore viola di Steven Spielberg e al romanzo di Alice Walker ) e candidato a un Oscar per la migliore attrice non protagonista.


Trama: A quattordici anni, Celia si è vista togliere dalle braccia i figli generati dalle violenze del padre. Finita in sposa al gretto Mister, Celia viene anche privata dell'affetto della sorella Nettie, di cui perde le tracce poco dopo il matrimonio. Un giorno, però, la donna incontra la cantante Shug, un flebile raggio di speranza in una vita all'insegna del dolore...


Il colore viola
, nella versione diretta da Steven Spielberg, è uno di quei film che devo avere (intra)visto da bambina durante uno dei tanti passaggi televisivi senza ovviamente capire una mazza, o non si spiega perché ci sia rimasta letteralmente di tolla quando, all'inizio, si è cominciato a parlare di incesti e, in seguito, di amore per persone dello stesso sesso. Poco danno, appena finirà la Award Season ho intenzione di rivederlo ma, nel frattempo, è uscito il film tratto dal musical di Broadway che, come la maggior parte dei candidati di quest'anno, mi ha lasciata abbastanza freddina. Il film racconta la triste vita di Celie, vittima di abusi sessuali da parte del padre fin da ragazzina, la sua disperazione nel vedersi togliere i due figli nati da queste violenze, il suo rapporto con l'amata sorella Nettie, il matrimonio infelice con l'orribile Mister, la scomparsa di Nettie e l'arrivo di Shug, ex amante di Mister e cantante dall'animo libero e disnibito; attorno a Celie, si sviluppano altre storie di donne di colore che affrontano, ognuna a modo loro, la subordinazione femminile, il razzismo e persino la vita in un Paese in guerra. Converrete con me che ce n'è abbastanza per far piangere come vitelli e per scatenare un'indignazione senza limiti, anche perché ogni singolo uomo del film meriterebbe di venire appeso per le palle come lo strange fruit di Billie Holiday; purtroppo, Il colore viola è, credo, l'unico musical che non è riuscito a veicolare in me alcuna emozione, anche perché i numeri musicali che mi sono piaciuti (o che ricordo ancora) sono giusto quelli più allegri, che poco hanno a che fare con la storia raccontata, come Push Da Button o, al limite, Hell No!. Mi è sembrato, piuttosto, che le canzoni spezzassero la naturale drammaticità di un film che, visti gli argomenti trattati, avrebbe dovuto abbracciare in toto il dramma dei personaggi e approfondire maggiormente le questioni razziali (la malvagia moglie del sindaco è un mero plot device, nemmeno si capisce cosa succeda a Sofia dopo il carcere), col risultato di peccare di superficialità e trasformare la maggior parte dei protagonisti in figurine monodimensionali.


Probabilmente, però, la cosa che mi è piaciuta meno de Il colore viola è la regia, accompagnata da una fotografia inguardabile che fa risultare tutto posticcio. La scena finale, in particolare, con quei terribili raggi di sole (Dio? Spero davvero non simboleggiassero la luce divina...) che imbibiscono i personaggi, fa sanguinare gli occhi, ma in generale è tutto il film a sembrare un tremendo abuso di ritocchi digitali, e non giova una regia statica sia nelle scene "realistiche" che nei numeri musicali. Ne soffrono, va da sé, le interpretazioni dei coinvolti, che in realtà non mi sono dispiaciute. Ecco, il fatto che Danielle Brooks sia stata candidata all'Oscar per quella che, indubbiamente, è la performance migliore del film ma rapportata ad altre non spicca neppure per sbaglio, è l'ennesima riprova della malafede di un'Academy costretta a spuntare determinate quote "black" per ogni categoria, però Sofia è l'unico personaggio che mi ha smosso qualche lacrimuccia. Gli altri, a partire dall'intensa Fantasia Barrino nel ruolo di Celie, si impegnano al massimo nel rendere vivi ed emozionanti i loro personaggi, e indubbiamente tutti sono bravissimi quando si tratta di cantare e ballare; purtroppo, come ho scritto sopra, né i numeri musicali né le canzoni sono granché, quindi mi è parso si siano trovati costretti a cavare sangue dalle rape. In definitiva, per quanto mi riguarda, questo Il colore viola musicarello è un grosso "Hell no!", ma se non altro mi è venuta voglia di leggere il libro.


Di Taraji P. Henson (Shug Avery), Colman Domingo (Mister), 
Corey Hawkins (Harpo) e Whoopi Goldberg (non accreditata, interpreta l'ostetrica) ho già parlato ai rispettivi link.

Blitz Bazawule (vero nome Samuel Bazawule) è il regista della pellicola. Ghanese, ha diretto film come The Burial of Kojo. Anche produttore, sceneggiatore, attore e compositore, ha 42 anni.


Danielle Brooks
interpreta Sofia. Americana, ha partecipato a serie come Orange is the New Black e Peacemaker. Anche produttrice e regista, ha 35 anni. 


La Sirenetta Halle Bailey interpreta Nettie da giovane. Sia Fantasia Barrino, che interpreta Celie, che Danielle Brooks hanno ripreso i ruoli che avevano nella versione teatrale del musical mentre Oprah Winfrey (Sofia nell'omonimo adattamento di Spielberg, che vi consiglio di recuperare se vi è piaciuto Il colore viola) ha declinato l'invito a partecipare al film. ENJOY!

mercoledì 14 febbraio 2024

Scanners (1981)

Continua la challenge Letterboxd HorrorX52 e oggi tocca a un horror uscito nel mio anno di nascita. La scelta è caduta su Scanners, diretto e sceneggiato nel 1981, appunto, dal regista David Cronenberg.


Trama: un potentissimo esper viene prelevato da un'organizzazione segreta dedita allo studio degli Scanner, esseri dotati di enormi poteri psichici, per combattere contro una fazione opposta, pronta a conquistare il mondo...


Avevo visto Scanners non so nemmeno più quanti anni fa ed era uno dei rari film di Cronenberg di cui non mi era rimasto impresso nulla tranne una scena, la più famosa. Riguardandolo oggi, ho capito perché, e la colpa non è nemmeno di Cronenberg, anzi, è proprio grazie a lui se questo film non è diventato un disastro completo. Infatti, per ottenere le agevolazioni e i fondi del tax credit canadese, il film era stato messo in produzione senza una sceneggiatura definitiva né set o location, di conseguenza Cronenberg si è ritrovato a scrivere intere scene al mattino appena prima di cominciare a girare, con attori a cui si richiedeva di improvvisare e materiale "ricompattato" alla bell'e meglio in post-produzione. Non c'è da stupirsi, dunque, che Scanners si distingua per l'idea generale, figlia dei temi cinematografici del tempo ma sicuramente destinata ad influenzare tutto ciò che è venuto dopo, e per un paio di scene fondamentali, mentre tutto il "contorno" è un freddo thriller dal ritmo soporifero. Ho trovato molto difficile entusiasmarmi per le vicende di Cameron Vale, Scanner dotato del potere di uccidere le persone col pensiero e schiacciato da una telepatia senza controllo, e ai piani dell'agenzia segreta che lo vorrebbe utilizzare come arma contro lo Scanner malvagio Darryl Revok; tra uno spiegone e l'altro, il cupo ed inespressivo Cameron vaga per la nazione cercando di non farsi uccidere, conosce l'affascinante Scanner Kim, scopre un complotto mondiale atto a sradicare l'umanità e creare una società di mutanti e viene messo di fronte alla rivelazione più scioccante dai tempi di Star Wars, ma morire che Stephen Lack veicoli un minimo di carisma o che Cronenberg mostri alcuno sprazzo di empatia per il soggetto. A tratti, sembra quasi di avere davanti un trattato scientifico, con uno sceneggiatore interessato a sviscerare il collegamento tra corpo e mente, a piantare i semi della sua nuova carne arrivando persino a parlare di sistemi nervosi equiparabili a computer e viceversa, il che è sicuramente affascinante da un punto di vista biografico/cinematografico, ma non di mero intrattenimento.


A salvare lo spettatore stanco da una giornata di lavoro, come per esempio la sottoscritta, arrivano per fortuna i momenti che vedono Cronenberg in combutta col mago degli effetti speciali Dick Smith e con l'attore Michael Ironside, lanciato proprio da questo film. Val la pena guardare Scanners anche "solo" per la manifestazione estrema dei poteri dei protagonisti: la sanguinosissima esplosione iniziale durante la dimostrazione pubblica è un trionfo di tensione spasmodica con un finale deflagrante, il duello finale tra Cameron e Darryl fa venire una goduriosissima pelle d'oca dallo schifo, ma, col senno di poi, anche la scena iniziale mette ansia, per la consapevolezza di ciò che potrebbe accadere alla vecchiaccia dalla lingua velenosa che si permette di malignare sull'aspetto di uno sconvolto Cameron. Michael Ironside, dal canto suo, è un trionfo di carisma. Sia nella sua versione silenziosa e minacciosa, sia quando si profonde in folli monologhi, Darryl Revok è un antagonista in grado di mettere davvero paura (e neppure tanto in torto, ripensandoci...) e dispiace solo che, per la maggior parte del tempo, il personaggio sia stato utilizzato come "spauracchio" nominato di tanto in tanto, e abbia uno screentime troppo risicato, sacrificato all'occhio spento di Stephen Lack. Lungi da me, nonostante tutto, questionare sul valore di un'opera che ha lanciato Cronenberg nell'empireo del cinema mainstream, affermandolo come Autore visionario con una poetica ben precisa e dandogli la possibilità di realizzare i capolavori che mi hanno fatta innamorare: senza Scanners non avrebbe potuto esserci Videodrome e il solo pensiero rischia di farmi letteralmente scoppiare la testa!!


Del regista e sceneggiatore David Cronenberg ho già parlato QUI mentre Michael Ironside, che interpreta Darryl Revok, lo trovate QUA.


Jennifer O'Neill, che interpreta Kim Obrist, era la protagonista di Sette note in nero di Fulci mentre Stephen Lack, che interpreta Cameron Vale, è tornato a lavorare con Cronenberg in Inseparabili. Anche Robert A. Silverman, ovvero Benjamin Pierce, è un assiduo collaboratore del regista, ed è comparso in Rabid - Sete di sangue, Brood - La covata malefica, Il pasto nudo ed eXistenZ. Nel 2007 era stato annunciato un remake del film, per la regia di Darren Lynn Bousman e la sceneggiatura di David S. Goyer, ma ad oggi il progetto sembrerebbe essere finito nel limbo. In compenso, sono usciti due seguiti del film, Scanners 2 - Il nuovo ordine e Scanners 3, tutti del 1991, e due spin-off, Scanner Cop e Scanner Cop II, che potete recuperare (io però non garantisco, perché non li ho mai visti!) se vi è piaciuto Scanners, assieme a Carrie - Lo sguardo di Satana, Fenomeni paranormali incontrollabili, Patrick e La zona morta. ENJOY!

martedì 13 febbraio 2024

Bollalmanacco On Demand: Anatomia di una caduta (2023)

Oggi unisco una rubrica a me molto cara ma, ahimé, un po' negletta, alla consueta Road to the Oscars annuale, coniugando la richiesta di Patrizia con la necessità di guardare Anatomia di una caduta (Anatomie d'une chute), diretto e co-sceneggiato nel 2023 dalla regista Justine Triet e candidato a cinque premi Oscar: Miglior film. Miglior regia, Miglior attrice protagonista, Miglior sceneggiatura originale e Miglior montaggio.

Trama: quando un uomo viene ritrovato morto nei pressi del suo chalet di montagna, dopo una presunta caduta dal terzo piano, la moglie viene sospettata di omicidio...


Avevo perso Anatomia di una caduta per via delle date limitate e gli orari balenghi del cinema d'élite, e mi era dispiaciuto molto perché tutti lo incensavano. L'attesa è stata lunga, ma, finalmente, posso dare ragione a chi ha definito questo film un gioiello. Anatomia di una caduta è un thriller ibridato con un legal drama e, soprattutto, uno studio psicologico raffinatissimo non solo dei protagonisti e dei legami che intercorrono tra essi, ma anche del modo in cui la percezione del singolo viene influenzata da dubbi, preconcetti e pressione sociale. Tutto prende il via dalla morte di Samuel, insegnante e aspirante scrittore che viene trovato morto in mezzo alla neve dal figlioletto cieco, di ritorno da una passeggiata. Poiché il luogo della morte è lo chalet di montagna di Samuel, e poiché in quel momento solo lui e la moglie Sandra si trovavano all'interno, la donna viene indagata e processata per omicidio, mentre il piccolo Daniel diventa l'unico, inaffidabile testimone di una vicenda ricostruita ed analizzata tramite perizie esterne e prove circostanziali che scoperchiano un vaso di Pandora fatto di rancore, colpe rinfacciate, dolore ed egoismo. Davanti agli occhi della giuria (e degli spettatori) viene messo a nudo un legame affettivo duramente provato dall'incidente che è costato la vista a Daniel, e logorato in maniera irreparabile dall'incapacità che hanno Sandra e Samuel di venirsi incontro. Sandra è una scrittrice famosa, la sua vita è consacrata alla propria arte e tutto ruota attorno ai suoi ritmi, mentre Samuel è schiacciato dalla frustrazione di essere uno scrittore fallito che ha dovuto ripensare la sua esistenza in funzione dei bisogni della moglie e del figlio: ogni crepa della relazione viene definitivamente chiarita dalla spietata registrazione della litigata furibonda accorsa il giorno prima della morte di Samuel, ma i rapporti "di forza" tra i due sono chiari fin dalla prima, geniale sequenza, in cui la musica a tutto volume del marito (non ascolterete mai più P.I.M.P. con la stessa spensieratezza) arriva, inopportuna e fastidiosa, ad interrompere l'intervista di Sandra, costretta a congedare la sua interlocutrice con un sorriso indulgente, colmo di amara ironia.  


A sconvolgere, durante la visione di Anatomia di una caduta, non è tanto la scoperta di altarini nascosti o la capacità della Triet di presentarci una vicenda priva di risoluzione (nessun flashback arriverà, alla fine, ad avvallare o confutare il verdetto), ma la spietatezza riservata al piccolo "osservatore" esterno che, con volontà incrollabile e un terribile desiderio di sapere, si ritrova con la famiglia e l'infanzia a pezzi, condannato a rimanere solo con una madre che potrebbe o non potrebbe essere un'assassina. Il "la verità è solo quella in cui desideri fermamente credere", offerto a mo' di salvagente dopo un devastante attacco di panico, è qualcosa con cui la mente di un bambino, per di più privato di un senso importante come la vista, rischia di non venire mai a patti, e la conseguenza è la possibilità concreta di diventare un adulto egoista e disorientato come i suoi genitori. Per questo, ritengo che l'intero cast sia da Oscar, non solo la bravissima Sandra Hüller, che interpreta una straniera in terra straniera, costretta ad articolare concetti difficili e personali in una lingua a lei quasi sconosciuta (il film andrebbe visto in v.o.), in un'alternanza incredibile di momenti in cui la protagonista meriterebbe schiaffi e biasimo ad altri in cui suscita una pena infinita; il piccolo Milo Machado Graner mette una gran pena (e mannaggia al mio animo horror, che per un attimo terribile mi ha ingannata) ma il mio cuore è andato interamente a quel grandissimo merda di Antoine Reinartz, un avvocato d'accusa implacabile e spietato, pronto a non fare eccezioni nemmeno per un ragazzino palesemente impaurito ed insicuro, davanti al quale la mia speranza che Sandra fosse innocente ha vacillato più volte, "deviata" dal ritratto di un'assassina costruito con granitica convinzione. E questa è la conferma definitiva che Anatomia di una caduta è, innanzitutto, un efficacissimo film sulla manipolazione e sul potere di una narrazione costruita ad arte, per quanto distorta, un'opera necessaria in quest'epoca che ci vede pronti ad additare e condannare senza pensarci su due volte. Guardatelo, non ve ne pentirete!

Justine Triet è la regista e co-sceneggiatrice della pellicola. Francese, ha diretto film come Tutti gli uomini di Victoria Sibyl - Labirinti di donna. Anche montatrice e produttrice, ha 45 anni. 


Sandra Hüller
interpreta Sandra Voyter. Tedesca, ha partecipato a film come Vi Presento Toni Erdmann, Sibyl - Labirinti di donna e La zona d'interesse. Ha 46 anni e un film in uscita. 


 

venerdì 9 febbraio 2024

Flux Gourmet (2022)

Avrei voluto riaprire la rubrica Bolle di Ignoranza, ché non ho capito molto questo Flux Gourmet, diretto e sceneggiato dal regista Peter Strickland, ma magari con l'aiuto di qualcuno che lo ha visto...



Trama: un collettivo di artisti le cui performance si basano sui suoni prodotti dalla cottura del cibo sperimentano tensioni e problemi all'interno di una sontuosa villa, mentre lo scrittore incaricato di intervistarli comincia a soffrire di disturbi gastrici sempre più invalidanti.


Flux Gourmet è un film che ho dovuto ricominciare un paio di volte dopo essermi addormentata passati giusto venti minuti, e non è che dopo essermi risvegliata lo abbia apprezzato granché. A mia discolpa, posso dire di avere forse approcciato Flux Gourmet nel modo sbagliato, pensando che fosse un horror come In Fabric, film di Strickland che invece avevo molto gradito, mentre la sua ultima opera è più una commedia grottesca che mescola elementi autobiografici e uno stile che rimanda a quello di Greenaway e Lanthimos. Protagonisti del film sono un gruppo di artisti senza nome le cui performance riguardano il "sonic catering", ovvero la realizzazione di spettacoli in cui l'elemento fondamentale è la riproduzione dei suoni derivati dalla cottura in diretta del cibo, che è poi la stessa cosa in cui si cimenta Strickland col suo gruppo musicale The Sonic Catering Band. Il terzetto di artisti, capitanati dalla prepotente Elle di Elle, viene ospitato nella magione di Jan Stevens, una sorta di mecenate che, periodicamente, apre le porte del suo elegante palazzo a collettivi diversi e li affida alle "cure" di Stones, il cui compito è di intervistarli e realizzare una sorta di libretto introduttivo per il pubblico. Purtroppo, Stones ha i suoi problemi, derivanti da un reflusso gastrico e un'aerofagia che non gli lasciano scampo e che lo costringono a lunghe sedute in bagno e ad evitare contatti umani troppo ravvicinati, il che non è affatto facile tra spettacoli, interviste e cene con discussioni annesse. La trama di Flux Gourmet parte da queste premesse e ruota attorno a screzi sempre più pesanti non solo tra i membri del collettivo, esasperati dalle manie di controllo del "capo" Elle di Elle, ma anche tra quest'ultima e Jan Stevens, che vorrebbe invece dire la sua su alcuni aspetti dello spettacolo e non accetta il carattere testardo di Elle, inoltre viene presa di mira da un altro collettivo di artisti scartati; parallelamente ai problemi "artistici", ci sono quelli più terra terra di Stones e gli esami sempre più invasivi a cui viene sottoposto dal Dr. Glock, che a poco a poco vengono inglobati nelle performance via via più estreme del collettivo.


Il mio scarso apprezzamento del film deriva, di base, dal non aver colto appieno il nocciolo della questione. Immagino, vista la natura grottesca e volutamente esasperata delle performance del collettivo e, soprattutto, del corollario alle stesse (orge, monologhi aventi come argomento manuali di cucina o feticismi, piuttosto che scenette mute dove gli attori seguono un copione letto da Jan Stevens in cui si descrivono personaggi che fanno la spesa), che il film voglia essere in primis una critica agli artisti pieni di sé, all'arte volutamente criptica e onanistica, al vuoto che si nasconde dietro una parvenza di cultura. Il fatto che Stones racconti le sue sventure con una voce fuoricampo che parla in greco, a mio avviso, sottolinea l'incomunicabilità che parrebbe essere un po' il fil rouge del film, all'interno del quale tutti sono più o meno egoisti e focalizzati solo sulla loro visione delle cose, oppure impegnati a mostrare chi ce l'ha più grosso artisticamente parlando; Stones, coi suoi problemi intestinali e la sua conseguente tendenza a tenersi in disparte, sembra proprio incarnare l'uomo comune che ha gatte ben più grosse da pelare, legate a questioni che non toccano minimamente l'artista, almeno finché quest'ultimo non può farle proprie ed "elevarle", decontestualizzandole per il divertimento, il piacere o lo shock del pubblico. D'altra parte, Strickland suggerisce che l'arte, se ben utilizzata, possa anche essere spunto per riflessioni interessanti e discussioni, e lo stesso vale anche per il cibo (si pensi alla visione patriarcale della cucina, luogo riservato esclusivamente alla donna che deve compiacere l'uomo dietro ai fornelli, oppure alla natura talvolta discriminatoria delle abitudini alimentari, da quelle volute a quelle imposte, e al disagio che esse possono creare durante le occasioni conviviali), a fronte ovviamente di interlocutori interessati ed aperti di mente, altrimenti si rischia di avere davanti un Dr. Glock che asfalta chi dimostra di non possedere cultura accademica, e allora non c'è confronto.


A dirla tutta, però, Flux Gourmet mi è parso molto simile a ciò che dovrebbe criticare, cioè un criptico esercizio di stile zeppo di immagini particolarmente intriganti. Quello che non manca a Strickland, infatti, sono lo stile e il gusto per gli attori particolari. A partire dalle mise assurde di Jan Stevens, interpretata da una Gwendoline Christie elegante e bellissima, col suo modo di parlare cortese ed affettato, passando alla realizzazione delle performance del collettivo (un tripudio di suoni distorti e inquadrature ad effetto, con una sequenza in particolare difficile da sopportare senza farsi venire conati di vomito), per arrivare alle inquadrature teatrali non solo delle estemporanee del terzetto (adoro vedere la mimica caricata dei personaggi, immersi nella luce blu del palcoscenico) ma anche delle sveglie mattutine, seguite dalle passeggiate accompagnate dal brano più evocativo e barocco della colonna sonora, tutto in Flux Gourmet è curato fino all'ultimo dettaglio, tanto che il film è un piacere per gli occhi. Inoltre, l'interpretazione misurata di Makis Papadimitriou, così umanamente imbarazzato e riservato, si fonde alla perfezione con quelle degli altri attori, spesso assai caricate e grottesche, in particolare quella di Richard Bremmer, che continua ad essere uno dei vecchi più inquietanti del cinema recente, e ovviamente di Fatma Mohamed, la quale unisce la fisicità elegante di una ballerina a una trivialità a malapena tenuta a bada. In conclusione, non posso dire che Flux Gourmet non sia un film interessante e ben realizzato, tuttavia rischia di non essere, stavolta è il caso di dirlo, cibo per tutti i palati, quindi vi suggerirei di approcciarvi con molta cautela. 


Del regista e sceneggiatore Peter Strickland ho già parlato QUI. Asa Butterfield (Billy Rubin) e Gwendoline Christie (Jan Stevens) li trovate invece ai rispettivi link.


Fatma Mohamed, che interpreta Elle di Elle, è collaboratrice assidua di Strickland, col quale ha lavorato in Berberian Sound Studio e In Fabric. Se Flux Gourmet vi fosse piaciuto o se volete prepararvi ad affrontarlo, recuperate In Fabric (l'unico altro film di Strickland che ho visto, volendo potete tentare anche Berberian Sound Studio e The Duke of Burgundy ma non posso darvi un parere in merito) e Climax. ENJOY!

mercoledì 7 febbraio 2024

The Warrior - The Iron Claw (2023)

Domenica sera ho convinto il Bolluomo ad andare al cinema a vedere The Warrior - The Iron Claw (The Iron Claw), diretto nel 2023 dal regista Sean Durkin.


Trama: ascesa e caduta della famiglia di wrestler Von Erich, vista attraverso gli occhi del fratello maggiore, Kevin.


Mi sono convinta ad andare a vedere The Iron Claw (ma perché The Warrior??) dopo un ottimo trailer e delle recensioni entusiaste, mettendo per una volta da parte il mio adorato Matthew Vaughn, uscito in contemporanea con Argylle. Mentirei se dicessi che non mi sono un po' pentita e, a questo punto, di non essere anche preoccupata, visto che non riesco più ad entusiasmarmi per i film adorati dalla critica. The Iron Claw racconta la storia vera (in parte. Poi ci torno) dei Von Erich, una famiglia di wrestler facente capo al patriarca Fritz che, a partire dagli anni '70, ha fatto salire i figli sui ring delle più importanti federazioni. Come viene detto nel trailer, Fritz Von Erich ha cercato di preservare i figli dai dolori del mondo facendo di loro degli atleti dal fisico inamovibile, mentre la madre Doris lo ha fatto attraverso la religione, ed entrambi hanno fatto un lavoro "egregio": il risultato, infatti, almeno da ciò che si evince dal film, è stato quello di allevare dei bietoloni soggiogati dal carisma del padre al punto da non riuscire a pensare ad altra strada se non quella decisa a tavolino da questo deprecabile soggetto. Mentre tutti i mali del mondo si riversano sui fratelli Von Erich a causa di una presunta maledizione che ne accompagnerebbe il cognome, non c'è allenamento o divinità che tenga, tanto Fritz se ne lava le mani lasciando che i figli se la vedano da soli, Doris fa altrettanto lasciando che ci pensi Dio (il quale ci pensa, in effetti, ma non nel modo che spererebbe la povera donna), e questi quattro marcantoni pompati di muscoli si ritrovano impreparati ad affrontare incidenti, menomazioni fisiche, fallimenti, senso d'insicurezza, depressione, droghe e chi più ne ha più ne metta. Se pensate che I Malavoglia fossero portatori sani di jella, ricordatevi sempre che l'adorabile famiglia verghiana era frutto di fantasia, mentre i Von Erich sono esistiti davvero. Purtroppo, la sceneggiatura di The Iron Claw non è stata scritta da Verga, e risulta difficile provare pena sincera per personaggi appena abbozzati dotati di emozioni abbastanza semplici e brevi archi narrativi che li caratterizzano con pochi tratti facilmente riassumibili.


Il punto di vista del narratore, tanto per cominciare, è quello di Kevin Von Erich. Kevin viene caratterizzato come "figlio maggiore", quello che il padre, sistematicamente e senza motivo alcuno, mortifica per l'intero film preferendogli, di volta in volta, i fratelli minori. Sarà la parrucchetta di Zac Efron o quella faccia da babbeo che non gli riesce di togliersi, ma non sono riuscita minimamente a farmi coinvolgere dal suo dramma umano né ho trovato credibile il suo continuo abbozzare e accettare a testa china ogni discutibile decisione paterna, così come, alla seconda tragedia, ho cominciato a trovare abbastanza ridicolo il modo di darle in pasto al pubblico: appena un fratello finisce sotto i riflettori, c'è una sequenza malinconica in cui quest'ultimo si confronta con Kevin e lo spettatore ha giusto il tempo di fare gli scongiuri, prima dell'inevitabile funerale o scena strappalacrime che decreta il destino ultimo del poveraccio. A tal proposito, fa un po' ridere la scelta del regista di omettere dal film la figura di Chris Von Erich perché morto in maniera simile a quella degli altri fratelli, per "non appesantire il ritmo del film e caricarlo di ulteriori tragedie" (tranquillo, ciccio, una più una meno... tanto al confronto di The Iron Claw Candy Candy è una passeggiata) ma ciò che ha definitivamente stroncato ogni possibile entusiasmo da parte mia è l'imbarazzante sequenza imperniata su un immaginario aldilà, totalmente avulsa dal registro dell'opera e messa lì appositamente per commuovere gli spettatori più sensibili, peraltro categoria nella quale credevo di rientrare in pieno. Peccato, perché la ricostruzione dell'ambiente cialtrone, caciarone e maschio del wrestling non mi è dispiaciuta affatto e Holt McCallany, Maura Tierney Jeremy Allen White ce la mettono tutta per dare un minimo di spessore ai loro personaggi, ma in definitiva The Iron Claw rappresenta uno di quei casi in cui il trailer è meglio dell'opera finita.


Di Holt McCallany (Fritz Von Erich), Maura Tierney (Doris Von Erich), Zac Efron (Kevin Von Erich), Harris Dickinson (David Von Erich) e Lily James (Pam) ho già parlato ai rispettivi link. 

Sean Durkin è il regista della pellicola. Canadese, ha diretto film come La fuga di Martha e The Nest - L'inganno ed episodi della serie Inseparabili. Anche produttore, sceneggiatore e attore, ha 43 anni. 


Jeremy Allen White
interpreta Kerry Von Erich. Star della serie The Bear, ha partecipato film come Comic Movie e The Rental. Anche sceneggiatore e produttore, ha 33 anni e un film in uscita.