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venerdì 30 settembre 2022

Don't Worry Darling (2022)

Si è fatto aspettare un po' ma finalmente mercoledì sono riuscita a vedere Don't Worry Darling, diretto dalla regista Olivia Wilde. Niente spoiler, tranquilli!


Trama: Alice vive una vita idilliaca da casalinga assieme al marito Jack finché, un giorno, non scopre delle crepe nel suo mondo perfetto...


Don't Worry Darling è un film che, tra qualche mese, verrà ricordato più per tutti i gossip che ne hanno accompagnato l'uscita veneziana che per le sue qualità, questo nonostante sia un'opera assolutamente godibile, con qualche difettuccio qua e là. Purtroppo, il primo di questi difetti (che probabilmente allo spettatore "casuale" interesserà poco ma che rende inevitabilmente l'appassionato come la sottoscritta una bella pigna in c**o) è la sua natura di collage di opere che già prima, in maniera più concisa, originale e profonda, hanno trattato argomenti simili sfruttando topoi distopici o fantascientifici quasi identici; poco danno, mi direte, ormai il cinema è un copia-incolla di idee già sviscerate, l'importante è copiaincollare bene e rielaborare con originalità. Il problema di Don't Worry Darling è che, a livello di messa in scena (poi ci torniamo) è uno spettacolo, tuttavia risulta un po' superficiale a livello non solo di temi, ma anche di utilizzo dei topoi citati in precedenza. L'intera operazione è, palesemente, una critica al patriarcato tossico, ma le implicazioni del film potrebbero andare ben oltre questa critica, se solo fosse stata data voce a tutte le varie anime che abitano nel mondo perfetto di Alice e se solo si fosse insistito maggiormente su quello che si nasconde fuori da quell'universo idilliaco, di cui possiamo scorgere giusto pochi sprazzi e che, onestamente, mi ha messo addosso un orrore indicibile (SPOILER: Jack ha fatto una cosa orribile alla moglie, quest'ultima "pensa ai bambini", d'accordo, ma da quanto mi è parso di capire ci sarebbe anche la possibilità di vivere nella realtà virtuale costruita da Frank con persone che non siano nostre compagne, o comunque dotate di altri avatar, il che è anche peggio). Altro appunto, il film si concentra, come del resto i suoi protagonisti, più sull'apparenza che sulla sostanza, indugiando in sequenze infinite che poco aggiungono alla trama e sembrano messe lì solo per allungare il metraggio. Va bene mostrare le feste interminabili, le scopate di Jack e Alice e le abilità di ballerino di Harry Styles, tuttavia, a mio avviso, sarebbe stato meglio fornire motivazioni un po' più consistenti al villain Frank, connotato giusto da un paio di deliri psicotici che rendono la popolazione maschile descritta nel film ancora più triste e inconsistente. 


Ciò che invece Don't Worry Darling fa benissimo è essere un balsamo per gli occhi. La messa in scena è sopraffina, curata in ogni minimo dettaglio. Gli anni '50, colorati e nostalgici, sono ricreati come se l'American Dream che li ha consegnati alla memoria degli spettatori non fosse mai finito, tra casette arredate con gusto e dotate di ogni comfort, auto d'epoca tirate a lucido, abiti vezzosi che mi hanno fatto palpitare il cuore in più di un'occasione, make up e unghie perfetti, e cocktail preparati ad arte. La quotidianità di Alice e Frank è dapprima baciata e poi bruciata dal sole, immortalata in una fotografia nitida e coloratissima che si incupisce nelle sequenze più oniriche, conferendo ulteriore inquietudine alle visioni di Alice, caratterizzate anche da una simmetria perfetta che mette ancora più ansia, e se all'inizio le feste immortalate con sfarzo dalla Wilde fanno simpatia per la loro grandeur Gatsbyana (e per la bellissima colonna sonora zeppa di oldies), verso la fine diventano soffocanti e pacchiane, assecondando lo sguardo di una Florence Pugh sempre più terrorizzata. Quest'ultima, ovviamente, è la punta di diamante del cast e regge da sola l'intero film con la sua bellezza non convenzionale e bravura indiscutibile, anche perché le controparti maschili, in tutta sincerità, sono equiparabili a due bietole piazzate lì. A onor del vero, inaspettatamente Harry Styles è meglio di Chris Pine, almeno nella versione doppiata che ho visto io, anche perché quest'ultimo non ha il carisma necessario per interpretare una machiavellica eminenza grigia, mentre il primo è abbastanza calzante nel ruolo di minchietta tutto mogliettina e lavoro (poi vabbé, quando la cosa si fa un po' più seria sembra più un ragazzino strillante... cosa ci ha visto la Wilde rispetto a Sudeikis lo sa soltanto lei), mentre il resto del cast non è affatto male. In definitiva, mi sarei aspettata qualcosa di più da Don't Worry Darling, ma non è affatto il film orribile che molti dipingono e ritengo che la Wilde debba ancora un po' trovare la sua strada persa nel glamour e ritentare con qualcosa di più "centrato". Aspetto con fiducia!


Della regista Olivia Wilde, che interpreta anche Bunny, ho già parlato QUI. Florence Pugh (Alice), Chris Pine (Frank), Gemma Chan (Shelley), Nick Kroll (Dean) e Douglas Smith (Bill) li trovate invece ai rispettivi link.

Harry Styles interpreta Jack. Inglese, ex membro degli One Direction nonché attuale compagno di Olivia Wilde, ha partecipato a film come Dunkirk ed Eternals. Anche compositore, produttore, regista e sceneggiatore, ha 28 anni. 


Kiki Layne interpreta Margaret. Americana, ha partecipato a film come Se la strada potesse parlare e Il principe cerca figlio. Ha 31 anni e un film in uscita. 


Kiki Layne ha sostituito Dakota Johnson, impegnata nelle riprese de La figlia oscura, mentre ormai è risaputa la "querelle LaBeouf"; l'attore avrebbe dovuto interpretare Jack ma ancora non si capisce se è stata la regista a cacciarlo dal set vista la fama di viscido che si è conquistato nel corso degli anni, oppure se se n'è andato via per i fatti suoi, costringendo la Wilde a pregarlo di tornare, invano. Ciò detto, se Don't Worry Darling vi è piaciuto recuperate La fabbrica delle mogli (e La donna perfetta), Vivarium e Midsommar. ENJOY!

mercoledì 28 settembre 2022

Frailty - Nessuno è al sicuro (2001)

Oggi parliamo di uno dei miei film preferiti, Frailty - Nessuno è al sicuro (Frailty), diretto nel 2001 dal regista Bill Paxton.


Trama: in una notte piovosa, un uomo si presenta a un agente dell'FBI dichiarando di conoscere l'identità del serial killer Mano di Dio, dietro cui si nasconderebbe il fratello col quale ha condiviso una terribile infanzia...


Avevo visto Frailty al cinema nel lontano 2002 e ricordo ancora oggi quanto mi fosse piaciuto. Tuttavia, non sono mai più riuscita a ritrovarlo, perso in passaggi televisivi probabilmente tardivi, raro da scovare in DVD o Bluray, completamente assente dal circuito dello streaming. Ultimamente mi sono incaponita e ho deciso di cercarlo e rivederlo, con somma soddisfazione, perché anche vent'anni dopo Frailty si è riconfermato uno dei film più intriganti, nel suo genere, che mi sia capitato di vedere. Cercherò di non fare spoiler, anche se spero che i miei pochissimi lettori conoscano già l'opera. Frailty è figlio dei thriller di fine anni '90 e delle contaminazioni di inizio secolo con l'horror sovrannaturale, che hanno dato parecchi frutti buoni (che trovate in fondo al post) e altri meno buoni e incasinati. A mio modesto parere, questo è uno dei migliori, anche perché la sua storia ha un sapore estremamente Kinghiano, e parrebbe uscita dritta dalla penna del Re. Abbiamo, infatti, un uomo che racconta a un agente dell'FBI la sua orribile infanzia, passata senza una madre e con un padre che, in breve tempo, è passato dall'essere un genitore amorevole a un folle ossessionato da una missione divina; papà Meiks, una sera, riceve la visita di un angelo che gli affida l'ingrato compito di scovare e uccidere demoni, nascosti dietro al sembiante di normalissime persone, e coinvolge nella missione anche i suoi due figli, il piccolo Adam e Fenton, il maggiore, che è poi la voce narrante dell'intera storia. L'orrore reale di Frailty è vedere andare in pezzi il mondo sicuro di Fenton, costretto a subire la ferma convinzione del padre e a perdere anche il fratellino, totalmente soggiogato dalle idee del genitore, ritrovandosi lacerato tra l'affetto per i familiari e la consapevolezza dell'orrore delle loro azioni in un'età in cui è difficile capire al 100% cosa sia giusto e cosa sia sbagliato.


Il punto di vista di Fenton diventa totale all'interno del film. Non solo pendiamo dalle sue labbra, annichiliti dall'orrore di quello che due bambini sono costretti a subire (il padre è convinto di uccidere demoni e non capisce perché Fenton non veda oltre la loro apparenza di persone, mentre il bambino vede esseri umani massacrati con l'accetta, e questa è solo la punta dell'iceberg), al punto da riscuoterci perplessi quando la narrazione torna a concentrarsi sul dialogo tra un Fenton ormai adulto e l'agente dell'FBI, ma Bill Paxton si impegna a mettere su schermo il punto di vista di un bambino anche grazie alle inquadrature: tutto, nei flashback che sono il cuore della vicenda, viene reso a misura di ragazzino, con gli adulti ripresi dal basso verso l'alto, ad incombere da ambienti sempre meno familiari e sempre più ristretti e cupi, con ben poche concessioni a quelli che dovrebbero essere i luoghi frequentati da Fenton, come la scuola, il parco, le case degli amici, ecc. In tutto questo, sebbene il disagio e l'orrore derivanti dalle vicende di Fenton siano tangibili e anche troppo reali, c'è un orrore ancora più grande a pendere come una spada di Damocle sulla testa dello spettatore, ovvero il dubbio che il padre dei due bambini possa avere ragione. La narrazione è interamente filtrata dal punto di vista di Fenton, come ho detto, tuttavia alcuni elementi visivi e alcune inquadrature, pur rimanendo strettamente legate a un registro realistico (salvo la scena in cui un angelo visita effettivamente papà Meiks, l'unica davvero surreale presente in tutto il film) insinuano qualche dubbio nella mente dello spettatore, che viene costretto a rimanere attento e coinvolto fino al finale, del quale, ovviamente, non parlerò, e che da anni divide. Da par mio, dico che l'ho sempre apprezzato molto, perché rende il tutto ancora più tragico ed inquietante (SPOILER: il destino di Fenton, spinto alla psicosi proprio dal padre che voleva salvare l'umanità per mano di Dio, segna il fallimento sia del genitore sia di quel fratello che ha scelto di ereditarne la crociata e sottolinea ancor più come il "bene" predicato da Meiks valesse ben poco rispetto alla tortura fisica e psicologica subita dal figlio maggiore. Adam, da par suo, che si scopre essere il vero narratore, nonostante emerga come "vincitore" di una vicenda realmente sovrannaturale, è difficile da percepire come angelo salvatore, e risulta l'ennesimo strumento, cieco e folle, di una divinità che non guarda in faccia a nessuno pur di perseguire i suoi scopi). Se non vi è mai capitato di guardare Frailty fatelo subito, per gli altri potrebbe essere il gradito ripescaggio di uno dei titoli più interessanti e gradevoli dell'epoca. 


Del regista Bill Paxton, che interpreta anche papà Meiks, ho già parlato QUI. Matthew McConaughey (Fenton Meiks), Powers Boothe (Agente Wesley Doyle) e Matt O'Leary (Fenton bambino) li trovate invece ai rispettivi link.


John Paxton, padre di Bill, compare nei panni di un uomo delle pulizie. Se Frailty vi fosse piaciuto recuperate anche The Gift e Identità. ENJOY!  

martedì 27 settembre 2022

Goodnight Mommy (2022)

Consapevole di andare incontro a una delusione, ho recuperato comunque Goodnight Mommy, remake del film omonimo, appena approdato su Amazon Prime Video e diretto dal regista Matt Sobel. Seguono SPOILER del Goodnight Mommy originale, quindi se lo avete già visto continuate pure a leggere (tanto gli snodi principali della trama rimangono gli stessi anche qui), altrimenti fermatevi, guardatelo ed evitate pure di recuperare il remake.


Trama: i gemellini Elias e Lukas vanno in campagna dalla madre e cominciano a sospettare che qualcuno si sia sostituito a lei...


Dopo tutti questi anni, è incredibile che io riesca ancora a stupirmi di quanto gli americani abbiano bisogno di prodotti masticati e digeriti, adattati al gusto "piatto" di chi riesce a seguire solo cose lineari e banali. Goodnight Mommy, l'angosciante film di esordio di Veronika Franz e Severin Fiala, non ha ancora compiuto 10 anni, è abbastanza conosciuto e, soprattutto, non è una di quelle opere prime sciatte e rozze che necessiterebbero di una ripulita per poter essere apprezzate di più, eppure ha subito comunque la pialla USA dell'adattamento a uso e consumo del mercato beota; purtroppo, ho fatto l'errore di riguardare il Goodnight Mommy austriaco qualche giorno fa, e il confronto è risultato ancora più impietoso. La trama dei due film è pressoché identica: ci sono sempre due gemellini, Elias e Lukas, che si ritrovano ad avere a che fare con una mamma reduce da qualche misterioso intervento chirurgico che la costringe a tenere il volto bendato, e c'è la crescente convinzione dei due di avere a che fare con un'estranea, con qualcuno che si è sostituito all'amata mamma. La differenza sta nell'approccio al materiale di base. Là dove la Franz e Fiala giocavano sul filo della paranoia innescata da immagini perturbanti ed eventi taciuti, alternando per tutto il film il punto di vista dei personaggi in modo da alimentare l'incertezza e l'angoscia dello spettatore (e posso assicurare che le sensazioni permangono, anzi, si acuiscono anche conoscendo il twist), i realizzatori del remake si prodigano in spiegazioni su ciò che si nasconde nel tragico passato della famigliola e per buona parte del film rendono "mamma" un personaggio umorale e scioccamente violento, per poi giocarsi la carta del "gemello malvagio"  poco prima del finale, tra l'altro preso paro paro, a livello di ambientazioni ed inquadrature, dal recente The Twin.


In realtà, il Goodnight Mommy originale non permetteva di empatizzare né coi gemelli, inquietanti nonostante molte loro attività "da bambini", né con la mamma che, attraverso i loro occhi, percepivamo come estranea, mentre il remake si impegna a connotare Elias e Lukas come due vittime di abusi inspiegabili. La scelta potrebbe forse funzionare con chi non avesse mai visto non solo l'originale ma nemmeno un horror in vita sua, mentre gli altri si ritroveranno a guardare una pellicola piatta, fatta di sequenze in cui Elias e Lukas spiano la mamma temendo di essere scoperti e Naomi Watts che sbrocca male senza motivo, nell'attesa di una risoluzione finale altrettanto banale. Sobel e soci, infatti, non osano inoltrarsi nei territori malati e disgustosi all'interno dei quali i due registi austriaci sembravano trovarsi così a loro agio e questo nuovo Goodnight Mommy prosegue col freno tirato anche nei momenti in cui avrebbe potuto dare un nuovo significato alla parola "bambino malvagio"; per fortuna non ci sono gatti annegati né blatte, per carità di Dio, che ho gli incubi a ripensarci, ma i sogni in cui la Watts diventa un Visitor sono dei blandissimi sostituti di momenti di orrore dolorosissimo e reale, a tratti insostenibile, durante i quali si riusciva a provare pena, disgusto e pietà per tutti i coinvolti, sia madre che bambini. L'unica nota positiva del film di Sobel è l'ottima interpretazione dei gemelli Crovetti, per il resto è un film dimenticabile e un'occasione sprecata che rischia di allontanare potenziali spettatori dalla pellicola originale, perché persino la Watts qui ha lavorato col pilota automatico. Che spreco, mannaggia!


Di Naomi Watts, che interpreta la madre, ho già parlato QUI.

Matt Sobel è il regista della pellicola, al suo secondo lungometraggio. Americano, anche produttore e sceneggiatore, ha diretto episodi della serie Al nuovo gusto di ciliegia


Cameron Crovetti (Elias) ha partecipato alla serie The Boys nei panni Ryan, mentre il fratello Nicholas (Lukas) è accreditato come Danny Glick in quello sfortunato Salem's Lot che, visti i casini alla Warner, pur essendo stato completato non vedrà probabilmente mai la luce. Se il film vi fosse piaciuto recuperate ovviamente l'originale e aggiungete Two Sisters. ENJOY!

venerdì 23 settembre 2022

The Call (2020)

Oh, non può essere sempre oro tutto quel che luccica, e talvolta anche Shudder prende sonore cantonate, come nel caso di The Call, diretto dal regista Timothy Woodward Jr.


Trama: a causa degli insulti e degli attacchi continui di quattro ragazzi, una donna si toglie la vita. Dopo qualche giorno, il marito di lei convoca tutti e quattro per un terribile gioco...


La scorsa Summer of Chills di Shudder ha regalato parecchie gioie ma purtroppo uno dei film che ne hanno fatto parte, The Call, è davvero una schifezza coi fiocchi che è riuscita a sprecare un interessante punto di partenza per farsi moscio emulo di tutti quei film che sfruttano le paure dei protagonisti per ucciderli. The Call, per certi versi, segna un po' anche un ritorno al primo decennio del 2000, nel quale abbondavano i film straight to video che schiaffavano in copertina nomi altisonanti del genere horror (o, nel caso di Danny Trejo, anche dell'action) e poi seppellivano quegli stessi nomi sotto almeno un'ora di sofferente camurrìa, senza riuscire a dar modo allo spettatore di salvarsi dal disgusto aggrappandosi alla gioia di vedere i propri beniamini su schermo. Anche in questo caso, infatti, i poveri Lin Shaye e Tobin Bell, nonostante l'estrema professionalità, l'innegabile fascino e quella bravura tipica dell'attore ormai "consumato", non riescono ad elevare il film da una mediocrità che mai mi sarei aspettata da una piattaforma sulla cresta dell'onda quale Shudder; la Shaye mette i brividi, abbonata com'è ormai ai ruoli di vecchietta demoniaca che non si risparmia vomitate di sangue nero sui malcapitati, mentre Tobin Bell è il solito signore elegante che ti intorta senza nemmeno che tu te ne accorga, purtroppo per loro però sono costretti ad avere a che fare con un branco di minchiette di mare coinvolte in una trama noiosissima e derivativa, dove non c'è un minuto di suspense che sia uno e dove persino i non pochi twist che cicciano fuori di tanto in tanto ottengono come reazione poco più di uno scazzato "ma che daVero?".


Timothy Woodward Jr.
 (la cui filmografia, a onor del vero, avrebbe dovuto mettermi in guardia fin da subito) e soci cercano di attirare gonzi non solo grazie alla Shaye e a Bell, ma anche utilizzando come cornice una pretestuosa ambientazione anni '80 che, di fatto, serve solo ad impedire che i ragazzi protagonisti dispongano di cellulare e a sottolineare la presenza del cretinetti lentigginoso che nelle prime due stagioni di Stranger Things interpretava l'amichetto stronzo di Steve, "punta di diamante" di un cast di attorucoli costretti ad interpretare personaggi odiosissimi, del cui destino lo spettatore arriva a disinteressarsi dopo pochi minuti. A peggiorare le cose ci si mette una regia ballonzolina, zeppa di grandangoli e distorsioni atte a dare l'impressione di una dimensione demoniaca che, come se non bastasse la tremenda somiglianza con un parco divertimenti, è virata il 90% del tempo sui colori del rosso e del giallo, uno schiaffone itterico sui miei occhi già provati, che ha aumentato ancora di più il mio già alto livello di disgusto e malsopportazione. Quindi, in soldoni, consiglierei di evitare questa inutile schifezzuola anche se siete fan all'ultimo stadio delle due icone horror coinvolte, che sarebbe meglio ricordare per altre pellicole. 



Di Lin Shaye (Edith Cranston) e Tobin Bell (Edward Cranston) ho già parlato ai rispettivi link.

Timothy Woodward Jr. è il regista della pellicola. Americano, ha diretto film come Il buono, il brutto e il morto e The Final Wish. Anche produttore, attore e sceneggiatore, ha 37 anni.


Chester Rushing
interpreta Chris. Americano, ha partecipato a film come Logan - The Wolverine, Jeepers Creepers 3, Monster Party e a serie quali Stranger Things. Ha 29 anni.



mercoledì 21 settembre 2022

Pinocchio (2022)

Qualche sera fa ho guardato su Disney + il live action Pinocchio, diretto e co-sceneggiato dal regista Robert Zemeckis.



Trama: il falegname Geppetto costruisce un burattino di legno per superare la morte del figlio e, una notte, esprime il desiderio di farlo diventare un bambino vero. Udito il desiderio, la Fata Turchina dà vita al burattino, ribattezzato Pinocchio, e, dopo avergli affiancato il Grillo Parlante a mo' di coscienza, gli comunica che per diventare un bambino vero dovrà superare diverse prove...  


Ormai ho la memoria che fa cilecca, me ne rendo conto. Guardavo questa nuova versione di Pinocchio e intanto cercavo di ricordare come fosse quello Disney del 1940, dopo averne visto passare su schermo altre tre versioni italiane, e ovviamente ho cominciato a fare un po' di casino. Quindi, mi posto un memento per l'eventuale prossima versione: il Mangiafuoco della Disney è un maledetto (quello "vero" piange e libera Pinocchio), il Gatto e la Volpe dei cartoni sono meno machiavellici di quelli reali, Pinocchio non diventa un ciuchino completo e, soprattutto, il burattino creato dagli americani è un pisquano, non un monellaccio cattivo. Per non turbare i bimbi buoni, il Pinocchio riveduto e corretto della Disney è semplicemente un candido che presta orecchio ai consigli sbagliati e tale rimane anche in questo adattamento live action; addirittura, nel Pinocchio di Zemeckis il burattino viene cacciato da scuola perché "lì possono andare solo dei bambini veri" e viene dapprima rapito da Postiglione e solo in seguito convinto, sfruttando la peer pressure, a recarsi nel Paese di Bengodi per non rovinare il divertimento agli altri bambini. Una volta arrivato lì, poi, Pinocchio beve giusto un sorso di birra (di radice, non sia mai!), per il resto non si comporta male come tutti gli altri suoi compagni di sventura. Insomma, Pinocchio ha solo tanta sfortuna e poca esperienza, quindi va da sé che la "coscienza" incarnata dal Grillo Parlante ha più la funzione di un espediente per cavare il burattino d'impiccio e salvarlo fisicamente alla bisogna, oltre a fungere da narratore. Di più, in questa versione della storia la natura di burattino fa sì che Pinocchio sia una sorta di Astroboy dalle mille risorse, un piccolo supereroe le cui abilità, sul finale, trascinano la storia verso un twist inaspettato e, a mio parere, fuori luogo. Questo Pinocchio non insegna ai bambini ad essere bravi, coraggiosi e disinteressati, ma parrebbe puntare su un elogio dell'unicità e dell'umanità "là dove conta davvero", diventando l'ennesimo invito a seguire i propri sogni a prescindere dalle circostanze e, a mio avviso, ci sono altre storie migliori per veicolare questo messaggio, non certo una vicenda da sempre moralista come quella di Pinocchio.


Soprattutto, non era il caso di allungare così tanto il brodo di un classico Disney già stra-conosciuto, aggiungendo quasi mezz'ora di personaggi nuovi (sì, la marionettista ex ballerina è l'ennesimo simbolo del "se vuoi, puoi, e nessuno cancellerà mai quel che sei dentro". Tra l'altro, tutti a rompere le palle con la Fata nera e calva e ovviamente nessuno si è accorto che la "vera" storia di Pinocchio l'ha vissuta proprio la ballerina in questione, femmina e di colore pure lei, ma poiché l'ha liquidata con un "la mia storia non è importante" ce ne saremo accorti in 6. Beccatevi questa, broflakes!) e, per la gioia del mio compagno di visione, di nuovi momenti musicarelli. Se pensavate che il vero problema di Pinocchio fosse la Fata Turchina di colore, vi farà piacere sapere che detta Fata viene calcioruotata fuori dalla storia dopo 5 minuti, quindi potete anche fingere che non sia mai comparsa... purtroppo, non è altrettanto facile ignorare la natura cheap della CGI in moltissime scene. L'aria d'insieme del live action è quella posticcia di un mondo quasi interamente ricreato al computer, e questo me l'aspettavo. Quello che non mi sarei mai aspettata dall'uomo che nel 1989 è riuscito a convincermi dell'esistenza di Cartoonia è il modo in cui i pochi attori veri non riescono mai ad interagire in modo realistico con le animazioni; ogni volta che Geppetto è costretto a tenere per mano Pinocchio o accarezzare Figaro salta agli occhi la finzione di un arto che è sempre un pochino staccato rispetto all'oggetto con cui dovrebbe interagire, ma l'apice lo tocca la rocambolesca fuga da Monstruo (altro orrore grafico al cui confronto gli squali di Sharknado sono un capolavoro), con un Pinocchio che sembra attaccato con lo sputo su uno sfondo che non c'entra nulla con lui, né a livello di ombre né di colori. Me ne imbelino che un film come questo sia approdato dritto in streaming, perché penso ci sarebbe stato da cavarsi i bulbi oculari su uno schermo grande. Aggiungo che l'interpretazione di Tom Hanks è una delle peggiori dopo quelle di Robert Langdon e che l'unico motivo per godere un minimo di Pinocchio (oltre agli spettacolari orologi di Geppetto, pieni di citazioni disneyane) è quello di guardarlo in lingua originale per spanciarsi di fronte all'accento italo-americano usato da buona parte dei coinvolti e al "Pinoke!" strillato a gran voce dal Grillo di Joseph Gordon-Levitt. Per il resto, potete anche evitare.  


Del regista e co-sceneggiatore Robert Zemeckis ho già parlato QUI. Joseph Gordon-Levitt (Grillo Parlante), Tom Hanks (Geppetto), Cynthia Erivo (Fata Turchina), Lorraine Bracco (Sofia), Keegan-Michael Key (la Volpe), Giuseppe Battiston (Mangiafuoco) e Luke Evans (Postiglione) li trovate invece ai rispettivi link.


Benjamin Evan Ainsworth, la voce originale di Pinocchio, era il piccolo Miles di The Haunting of Bly Manor. Il regista Sam Mendes doveva dirigere il film ma si è poi ritirato dal progetto. Pinocchio è ovviamente un remake dell'omonimo film del 1940, che vi consiglio di recuperare assieme alla versione di Garrone e a quella di Comencini... nell'attesa che arrivi quella di Guillermo del Toro! ENJOY!

martedì 20 settembre 2022

La finestra sul cortile (1954)

Qualche sera fa passavano in TV La finestra sul cortile (Rear Window), diretto nel 1954 dal regista Alfred Hitchcock, e siccome non lo riguardavo da anni ho deciso di godermelo e parlarne un po'.


Trama: il reporter L.B.Jefferies è bloccato nell'appartamento da una gamba ingessata e l'unico suo passatempo è spiare i vicini di casa. Un giorno si convince di aver visto uno dei suoi dirimpettai commettere un omicidio e comincia ad indagare...


De La finestra sul cortile hanno scritto fior di critici cinematografici, quindi non servo io a dirvi che il film è l'ennesimo capolavoro di Hitchcock, né starò ad illuminarvi con chissà quali retroscena, trattati tecnici oppure interpretazioni, perché basta aprire un qualsiasi libro monografico sul regista per venire inondati di informazioni sull'argomento. Da non competente amante del cinema, in questo post cercherò dunque di convogliare la meraviglia, inevitabile, che un film del genere mi suscita ancora oggi, dopo quasi 70 anni dalla sua uscita. La finestra sul cortile è, anche visto in TV, un'esperienza immersiva, molto meglio del 3D. Il regista ci fa vestire letteralmente i panni del protagonista, mostrandoci quello che vede lui. Jeff, bloccato da una gamba rotta, è spettatore delle vite degli altri, così come noi, seduti in poltrona e "bloccati" dalla magia del cinema, per almeno un paio d'ore ci ritroviamo costretti a condividere il suo sguardo. E' uno sguardo giocoso e pettegolo, quello di Jeff, almeno all'inizio. Costretto a ponderare sui suoi problemi di salute, di lavoro e di cuore, il protagonista cerca sollievo spiando le vite degli abitanti di un condominio, ognuno dotato di piccoli tic e storie che, filtrati dal suo punto di vista, diventano particolari ed importanti anche per noi, tanto che ogni "microvicenda" presentata nel film non viene percepita come mera cornice, ma diventa importante quanto la trama principale. La fascinazione provata da Jeff verso i suoi vicini è la stessa che proviamo noi guardando i film e i motivi che lo spingono a spiare derivano da un desiderio di smettere di pensare alla propria vita, in primis alla sua relazione con Lisa. La ricca fanciulla vorrebbe sposarlo ma Jeff ha paura di venire privato della propria libertà di reporter d'assalto e giramondo, e la perfezione della donna costituisce un ulteriore deterrente che lo spinge alla fuga (vi sfido, davanti alla grazia e alla bellezza di Grace Kelly, a non farvi venire voglia di prendere a ceffoni "Jeff", totalmente disinteressato da ciò che accade nel proprio appartamento e con gli occhi fissi, con una testardaggine degna di un mulo, sui suoi vicini).


Il comportamento pavido e "scorretto" di Jeff viene giustamente punito nel momento in cui l'uomo vede qualcosa che non avrebbe dovuto vedere o, meglio, pensa di vederlo. Né lui, né tantomeno noi abbiamo la certezza che uno dei suoi vicini abbia commesso un omicidio (mentre la macchina da presa vaga liberamente nell'appartamento del protagonista, ciò che vede Jeff è quasi sempre soggettivo, limitato e talvolta persino impedito da ostacoli alla visuale), eppure la nostra ansia cresce con quella di Jeff, che da quel momento entra in uno stato di paranoia totale e si imbarca in un'indagine pericolosa, a maggior ragione perché la sua condizione lo rende totalmente indifeso e dipendente dagli altri. Il piccolo mondo idilliaco della quotidianità diventa un enorme universo pieno di punti oscuri, dove nessuno pare vedere e sentire nulla, dove ottenere aiuto è molto difficile e potenziali criminali possono farla franca anche alla luce del sole o in mezzo alle persone; gli appartamenti diventano così luoghi violabili tanto quanto le strade notturne, soprattutto quando la finestra (sul cortile) rappresenta una fragilissima arma a doppio taglio che consente non solo di vedere, ma anche di venire colti nell'atto di spiare. L'arroganza di Jeff nasce dalla sua natura di reporter, di persona che, come del resto il regista, si sente legittimato a riprendere e guardare, tanto che i buoni consigli di chi si prende cura di lui cadono spesso nel vuoto, finché a un certo punto sia l'infermiera Stella che Lisa vengono coinvolte e, nel caso della seconda, messe in pericolo. La frustrazione, la paura e l'incertezza che si impadroniscono di Jeff non possono dunque essere confutate dallo spettatore, perché Hitchcock non apre mai alla possibilità di mostrarci cosa accade dietro a finestre chiuse o angoli nascosti, né tantomeno si allontana da una narrazione cronologica priva di flashback o sequenze che si svolgono in posti diversi nello stesso momento.


Sono questi accorgimenti geniali che rendono La finestra sul cortile un gioiello sorprendente e che mi riempie di meraviglia a pensarci. Quanto poteva essere avanti Hitchcock nel realizzare un film che utilizzasse quasi esclusivamente un sonoro diegetico, musica compresa, così da accentuare ancora di più il realismo di ciò che viene mostrato e la natura "chiusa" di quell'universo ridotto in cui un giramondo come Jeff è costretto temporaneamente a vivere? Quanto poteva essere perfezionista, al punto da far costruire dei veri appartamenti e arrivare persino a istruire "a distanza" gli attori che dovevano recitare lì dentro?  L'attenzione al dettaglio del Maestro era così acuta che a fissarsi nella mente dello spettatore non sono solo James Stewart e Grace Kelly (il primo affascinante persino in pigiama e nonostante il carattere obiettivamente insopportabile di Jeff, la seconda una dea scesa in terra, vestita con mise di una bellezza commovente) ma anche tutto il codazzo di vicini di casa, ognuno ben caratterizzato e distinto all'interno di un micromondo che va oltre ciò che viene mostrato; non è difficile immaginarsi la vita della povera Miss Cuore Solitario, di Miss Torso, dei padroni del cagnolino e del musicista, e non solo, viene addirittura voglia di saperne di più (probabilmente oggi realizzerebbero una miniserie imperniata sul background di ogni personaggio), tanto che sul finale un sorriso deliziato scappa per forza. Il mio sogno sarebbe quello di poter godere de La finestra sul cortile al cinema, prima o poi, ma nell'attesa mi faccio andare bene anche i miracolosi passaggi televisivi, una bella coperta di Linus che ci rammenta, se mai ce ne fosse bisogno, l'unicità di un Maestro come Hitchcock!


Del regista Alfred Hitchcock ho già parlato QUI mentre Grace Kelly, che interpreta Lisa Fremont, la trovate QUA.

James Stewart interpreta L.B. Jefferies. Americano, lo ricordo per film come Mr. Smith va a Washington, La vita è meravigliosa, Nodo alla gola, Harvey, Il più grande spettacolo del mondo, L'uomo che sapeva troppo, La donna che visse due volte, Una strega in paradiso, L'uomo che uccise Liberty Valance e Airport '77; come doppiatore ha lavorato in Fievel conquista il West. Anche regista e produttore, è morto nel 1997 all'età di 89 anni.


Raymond Burr, ovvero Lars Thorwald, in seguito avrebbe interpretato sia Perry Mason che Ironside. Nel 1998 è stato realizzato un remake televisivo del film, con Christopher Reeve e Daryl Hannah nel ruolo dei due protagonisti e Robert Forster in quello del detective. Non vi dico di recuperarlo perché non l'ho mai visto ma se La finestra sul cortile vi fosse piaciuto potete guardare Disturbia e, ovviamente, recuperare tutti gli altri film di Hitchcock! ENJOY! 


venerdì 16 settembre 2022

Il signore delle formiche (2022)

In settimana sono andata al cinema a vedere Il signore delle formiche, l'ultimo film di Gianni Amelio, presentato a Venezia.


Trama: verso la fine degli anni '60, l'intellettuale di sinistra Aldo Braibandi viene accusato di "plagio" ai danni di un suo giovane studente, finendo vittima di una gogna mediatica senza pari...


Pre-covid ero stata letteralmente uccisa da Hammamet, l'elegia a San Bettino girata da Gianni Amelio, e avevo giurato che mai più avrei riguardato un altro film del regista. Poi, da Venezia, sono arrivate le prime recensioni de Il signore delle formiche e i primi, interessanti trailer, quindi ho deciso di dare una chance alla vera storia del "Caso Braibanti", che ha visto l'intellettuale di sinistra Aldo Braibanti finire a processo per l'accusa di "plagio". Plagio non già inteso come auto attribuzione di opere riprese da altri, quanto piuttosto nell'accezione di riduzione in schiavitù, fisica o mentale che sia; in questo senso, il reato di plagio era stato introdotto durante il regime fascista ma è stato stato utilizzato per la prima volta per mandare a processo Braibanti nel 1965, in un disperato tentativo, da parte dei giudici, di trovare una scappatoia dall'impossibilità di condannare qualcuno per la sua omosessualità. Il signore delle formiche racconta quindi un'ingiustizia tutta italiana, accorsa negli anni '60 ma terribilmente attuale in questi tempi di regressione verso il fascismo e l'intolleranza (ciao, Giorgina, sto parlando di te!), e fotografa una pagina di storia che, personalmente, non conoscevo. La vicenda di Braibanti viene raccontata in ordine non cronologico e la prima parte del film verte principalmente sul legame tra l'intellettuale e il giovane Ettore, figlio di una famiglia di fascisti bigotti, che rimane affascinato dalla forte personalità del suo maestro, tanto da arrivare a ricambiarne l'amore e trasferirsi con lui a Roma; la seconda parte, invece, verte sul processo contro Braibanti ed introduce la figura di Ennio, giornalista dell'Unità attraverso il cui sguardo lo spettatore arriva a toccare con mano non solo l'ipocrisia dell'ambiente politico sia di destra che di sinistra ma anche la ferocia dell'omofobia imperante tra la gente comune. Mentre Braibanti, forse volutamente, viene reso quasi inavvicinabile e risulta troppo spesso antipatico nella sua reiterata natura di intellettuale tout court superiore a tutti coloro che lo circondano, Ettore ed Ennio rappresentano la "semplicità" di sentimenti, gli "uomini della strada" che, pur non finendo sotto i riflettori, risentono più di altri dell'ingiustizia di una società che condanna senza appello, forte della cieca ed arrogante convinzione di sapere cosa sia bene e cosa sia male, senza neppure ascoltare le parole di chi viene ritenuto vittima. 


Da questo punto di vista, a toccare il cuore dello spettatore sono le interpretazioni di Elio Germano e di Leonardo Maltese, al suo primo ruolo cinematografico. Luigi Lo Cascio è un Aldo Braibanti perfetto, dignitoso e tormentato, dotato di un'aura di fascino particolare e di un carisma che trasuda dalla sua figura anche nel silenzio, tuttavia ho trovato difficile empatizzare con un personaggio così arrogante e, talvolta, odioso nell'affermare la sua superiorità morale ed intellettuale. Diversa la situazione con Elio Germano e Leonardo Maltese, i quali stringono il cuore, ognuno a modo loro. Ettore, caratterizzato da Maltese con sguardi nervosi e un timido mezzo sorriso che nasconde la freschezza della gioventù, colpisce in quanto vittima sacrificale di una famiglia di pazzi bigotti, disposta a rovinare un ragazzo nel fiore degli anni nel tentativo folle di curarlo e liberarlo dall'influenza del Braibanti, e commuove per la caparbietà con la quale, in una delle scene a maggiore intensità emotiva, proclama la propria libertà riguardo la vita e l'amore. Anche Elio Germano, nei panni di Ennio, gioca di "sottrazione" e convoglia tutta la dignità e la sofferenza del proprio personaggio nei silenzi e negli sguardi di chi ogni giorno è costretto a sopportare ignoranza ed ipocrisia indossando la maschera del giornalista rozzo e spiccio per poter sopravvivere anche in mezzo ai "compagni", dipinti con toni non particolarmente lusinghieri (in realtà, l'amico Sauro dice che L'Unità ha seguito e dato risalto al processo). A queste belle interpretazioni si aggiungono quelle altrettanto intense di buona parte dei personaggi "secondari", che contribuiscono ad arricchire un film interessante e coinvolgente, al quale imputo giusto il difetto di rallentare parecchio nella seconda parte, tanto che dopo il processo di Braibanti mi sono ritrovata spesso a chiedermi "ma ancora? Ma quando finisce? Ma che c'è ancora da dire?". Un'inezia, visto che guardando Hammamet l'ho pensato dopo due minuti dall'inizio, mentre Il signore delle formiche è un film che vi consiglio di correre a vedere... anche perché dal 18 comincia la Festa del Cinema, e potete godervelo al prezzo di 3,50 Euro!



Del regista e co-sceneggiatore Gianni Amelio ho già parlato QUI. Luigi Lo Cascio (Aldo Baibranti) e Elio Germano (Ennio Scribani) li trovate invece ai rispettivi link.



mercoledì 14 settembre 2022

Bolla Loves Bruno: Il falò delle vanità (1990)

Pensavate che mi fossi dimenticata della rubrica dedicata a Bruce Willis? Nemmeno per sogno! Oggi parliamo de Il falò delle vanità (The Bonfire of the Vanities) diretto nel 1990 da Brian De Palma e tratto dal romanzo di Tom Wolfe.


Trama: un giornalista alcoolizzato ottiene soldi e successo raccontando lo scandalo che ha coinvolto un brocker di Wall Street, accusato di avere investito un ragazzo di colore e di essere fuggito, lasciandolo in coma...


Il falò delle vanità è stato uno dei film più odiati del 1990. Lo dimostrano non tanto le nomination a quasi tutte le categorie dei Razzie Award, quanto piuttosto il fatto che Tom Wolfe lo abbia praticamente disconosciuto, Hanks lo abbia definito il peggior film della sua carriera, Morgan Freeman non l'abbia mai guardato e De Palma ricordi l'esperienza come un incubo dentro e fuori dal set. Per quanto riguarda Bruce Willis, pare che se la tirasse un sacco in quanto attore sulla cresta dell'onda, tanto che sul set lo odiava persino Tom Hanks, irritato dal suo "sorrisetto mangiamerda". Insomma, un trionfo. Eppure, a me Il falò delle vanità era piaciuto sia la prima volta che l'avevo visto, tantissimi anni fa, che durante questo rewatch, pur riconoscendo che la trama è l'emblema del cerchiobottismo e si mantiene molto ambigua (però non ho mai letto il romanzo di Tom Wolfe, quindi non posso sapere se questa caratteristica si ritrova anche nell'opera cartacea). Per chi non avesse mai visto il film, Il falò delle vanità è la fiera dell'ipocrisia e dell'arrivismo ed è incentrato sulla caduta dall'Olimpo di Sherman McCoy, ricchissimo operatore di Wall Street il quale, dopo aver investito un ragazzo di colore assieme all'amante, diventa il mezzo attraverso cui una serie di personaggi deprecabili cercano di ottenere fama, denaro e successo (in primis il giornalista in disgrazia Peter Fallow) spacciando le loro azioni come spasmodica ricerca di giustizia. L'intenzione dell'opera è quella di essere una satira spietata verso personaggetti di varie etnie, con le mani in pasta nel settore economico, giudiziario e religioso, i quali apparentemente cercano di fare l'interesse delle classi più povere e disagiate (che escono a loro volta con le ossa rotte da una descrizione impietosa) ma, in realtà, perseguono semplicemente il loro tornaconto, travolgendo con la grazia di elefanti chiunque blocchi loro il passo. A trovarsi in mezzo, stavolta, è Sherman McCoy, che come protagonista è quasi peggio di chi cerca di trascinarlo nel fango; è difficile provare empatia per un paraculo razzista, pavido e bugiardo, ed è ancora più difficile accettare le parole finali con cui Peter Fallow, altro parassita con la coscienza a intermittenza, dichiara come McCoy abbia perso soldi e fama ma abbia ritrovato un'anima, gettando una luce positiva su un personaggio che, a ben vedere, non si redime mai.


Lo stile con cui De Palma cerca di rappresentare questo enorme esempio di pochezza umana è ironicamente pomposo e "teatrale", "ridicolo", se mi passate il termine, tanto quanto la convinzione di Sherman di essere un novello Don Giovanni; la macchina da presa del regista (coadiuvato, in quella che è una delle scene introduttive più belle mai viste, dall'esperto di steadycam Larry McConkey, un piano sequenza talmente immersivo che sembra di essere a fianco di Bruce Willis, ubriachi quanto il suo Peter Fallow) annulla il confine tra realtà e showbusiness, presentandoci alternativamente personaggi ripresi dal basso che incombono sia sullo spettatore che sul loro interlocutore, panoramiche su folle desiderose solo di spettacolo e totalmente noncuranti del vero dramma vissuto dall'oggetto dei loro sguardi e pochi momenti di intimità zeppa di bugie e ripicche, dove persino le persone integerrime arrivano a rinnegare i propri ideali per salvare la faccia. La mano dell'Autore, a mio avviso, si vede eccome, e onestamente non ho trovato male neppure il tanto criticato cast. Certo, se De Palma avesse potuto avere John Lithgow come Sherman McCoy avremmo probabilmente goduto di un capolavoro, ma la faccetta giovane e clueless di Tom Hanks aggiunge quella punta di dabbenaggine in grado di rendere il personaggio ancora più fastidioso e biasimevole e lo stesso vale per "il sorrisetto mangiamerda" di Bruce Willis; Peter Fallow è viscido quanto basta, il finto amico che venderebbe la madre per la fama, e non faccio fatica a credere che l'atteggiamento sul set di Willis abbia contribuito ad arricchire la personalità del giornalista alcoolizzato di interessanti, benché sgradevoli, sfumature. Probabilmente, l'unico vero difetto de Il falò delle vanità è quello di essere uscito in un periodo in cui l'America non era ancora pronta a criticare quell'ipocrisia che è il fondamento dell'utopica idea del self made man, mentre nel 2022 la sua satira risulta ambigua e all'acqua di rose (lo speech finale di Freeman, detestato dallo stesso De Palma, e la chiosa di Willis sono davvero imbarazzanti, bisogna ammetterlo), ma nella sua imperfezione l'ho trovato comunque molto interessante e ben realizzato, così come lo ricordavo. Se vi capitasse sottomano, dategli una chance!


Del regista Brian De Palma (che compare come guardia di sicurezza nella scena iniziale) ho già parlato QUI. Tom Hanks (Sherman McCoy), Bruce Willis (Peter Fallow), Melanie Griffith (Maria Ruskin), Kim Cattrall (Judy McCoy), Morgan Freeman (Giudice Leonard White), Donald Moffat (Mr. McCoy), Kurt Fuller (Pollard Browning), Kirsten Dunst (Campbell McCoy) e  F. Murray Abraham (P.D. Abe Weiss) li trovate invece ai rispettivi link.

Saul Rubinek interpreta Jed Kramer. Tedesco, ha partecipato a film come L'ospedale più pazzo del mondo, Wall Street, Gli spietati, Una vita al massimo, Gli intrighi del potere - Nixon, La ballata di Buster Scruggs e a serie quali Oltre i limiti, Frasier, Lost, Masters of Horror, Grey's Anatomy e Hunters. Anche regista, sceneggiatore, produttore e compositore, ha 74 anni e tre film in uscita. 


Tra le guest star figurano Rita Wilson, la moglie di Tom Hanks, che interpreta la PR che accompagna Fallow nella scena iniziale, e Geraldo Rivera, ovvero il reporter che si occupa della storia di Lamb. La sceneggiatura originale prevedeva che, alla fine, la vittima dell'incidente uscisse dall'ospedale con le sue gambe, chiaro segno di frode, ma gli screen test hanno dimostrato che il pubblico non gradiva questa versione. Siccome nel libro il giudice è ebreo, De Palma avrebbe voluto Walther Matthau o Alan Arkin nel film, ma il ruolo è finito a Freeman quando il regista ha deciso che sarebbe stato più efficace un giudice di colore; per quanto riguarda Sherman, quando ancora il film doveva venire diretto da Mike Nichols, l'attore scelto era stato Steve Martin, mentre sia John Cleese che Jack Nicholson hanno rifiutato quello di Fallow. Per quanto riguarda le quote rose, Michelle Pfeiffer ha rifiutato il ruolo di Maria (tra le altre, Uma Thurman, Lena Olin e Robin Wright non hanno invece ottenuto la parte), mentre Kristin Scott Thomas ha dovuto rinunciare a quello di Judy perché, al momento di fare lo screen test con Tom Hanks, era in vacanza coi figli. Grandi rinunce infine anche tra i registi, con Steven Spielberg e Adrian Lyne in prima linea. ENJOY!

martedì 13 settembre 2022

Minions 2 - Come Gru diventa cattivissimo (2022)

Ho lasciato scemare un po' le orde di pargoli in vacanza, quindi ho recuperato con calma Minions 2 - Come Gru diventa cattivissimo (Minions: Rise of Gru), diretto dai registi Kyle Balda, Brad Ableson e Jonathan del Val.


Trama: un undicenne Gru tenta di entrare nei Malefici 6, la sua squadra di supercattivi preferita. Quando il piano va a rotoli, i Minions devono cercare di salvare il loro mini-boss.


Avevamo lasciato i Minions, alla fine del film a loro dedicato, pronti a seguire il piccolo ma già cattivissimo Gru, e Minions 2 comincia per l'appunto con gli omini gialli al servizio del giovane wannabe villain, segregati in una cantina casalinga non ancora trasformata in laboratorio segreto e pronti a combinare disastri. Come da titolo originale, Minions 2 non è dunque la storia di "come Gru diventa cattivissimo", ché la malvagità c'è ed è innegabile, bensì dell'"ascesa" di Gru da aspirante a supercattivo a tutti gli effetti, a partire dal legame con un mentore (per quanto involontario) fino ad arrivare all'accettazione dei suoi stranissimi e pasticcioni collaboratori, i quali questa volta, a differenza della precedente, condividono il titolo col loro boss. Ciò rende Minions 2 molto più legato alla trilogia da cui deriva e, di conseguenza, più articolato, a livello di trama, rispetto al suo predecessore, poiché diventa un altro tassello posto a formare la personalità di Gru, presentato nel primo Cattivissimo me come malvagio tout court ma, in realtà, dotato di saldi principi (im)morali: all'interno della pellicola viene data molta importanza alla lealtà verso i propri compagni o amici, si insegna a non guardare agli altri con superficialità e persino a fare tesoro di chi è dotato di maggiore esperienza, grazie all'introduzione di un nonno "sui generis" che si rivelerà importantissimo per il futuro del giovane protagonista. 


E i Minions, in tutto questo? I buffi omini gialli sono, come al solito, veicolo di gag infinite affidate al già collaudato trio composto da Stuart, Bob e Kevin, con le loro rispettive e strabordanti personalità, ai quali si aggiunge l'ancor più pasticcione e logorroico Otto, il vero portatore di caos della pellicola. L'allegro quartetto si ritrova ad avere a che fare con moltissimi topoi del cinema "di serie Z" anni '70 e di altrettanti titoli cult della Nuova Hollywood, il che offre allo spettatore adulto la possibilità di divertirsi parecchio con citazioni e parodie che, come al solito, rischiano di non arrivare ai bambini: i riferimenti a Easy Rider, L'aereo più pazzo del mondo e le pellicole di arti marziali che spopolavano all'epoca in cui il film è ambientato sono solo la punta dell'iceberg, perché, al di là della colonna sonora vintage, ogni fotogramma è zeppo di riferimenti ironici alle mode di quegli anni, per non parlare della mamma di Gru, in fissa con Tupperware e strani metodi di rilassamento psicofisico. Altro elemento parodico che, ahimé, è andato perduto nella versione italiana, risiede nel doppiaggio. Mezza squadra dei Malefici 6 è stata infatti affidata alle voci di durissimi eroi (spesso anti-eroi o direttamente malvagi) del cinema action internazionale, quali Jean-Claude Van Damme, Dolph Lundgren e Danny Trejo, cosa che mi porta a sottolineare come l'unico vero difetto del film sia l'avere sprecato il potenziale di un gruppo di supercattivi che, di fatto, non risultano particolarmente efficaci... ma siccome il pubblico va al cinema per vedere i Minions, è innegabile che, anche questa volta, i realizzatori abbiano centrato l'obiettivo con un film perfetto per una serata in famiglia.   


Del regista Kyle Balda ho già parlato QUI. Steve Carell (voce originale di Gru), Pierre Coffin (Minions), Alan Arkin (Willy Krudo), Taraji P. Henson (Belle Bottom), Michelle Yeoh (Maestra Chow), Julie Andrews (Mamma di Gru), Russell Brand (Nefario), Jean-Claude Van Damme (Claude-Chelà), Dolph Lundgren (Svendicator), Danny Trejo (Mano di Ferro), RZA (Motociclista), Will Arnett (Mr. Perkins) e Steve Coogan (Silas Caprachiappa) li trovate invece ai rispettivi link. 

Lucy Lawless è la voce originale di Monachacku. Neozelandese, indimenticabile Xena, la ricordo per film come Spider-Man, Boogeyman - L'uomo nero e per altre serie quali Hercules, X-Files, Tarzan, Due uomini e mezzo, Veronica Mars, CSI: Miami, Agents of S.H.I.E.L.D. Ash vs. Evil Dead; come doppiatrice, ha lavorato in I Simpson, Celebrity Deathmatch e American Dad!. Anche produttrice, ha 54 anni. 


Ad aiutare Kyle Balda come co-registi ci sono Brad Ableson, che aveva già diretto il corto Minions Holiday Special, e Jonathan del Val, che invece aveva co-diretto Pets 2 - Vita da animali. Il film segue Minions e, come quest'ultimo, è un prequel di Cattivissimo me, Cattivissimo me 2 e Cattivissimo me 3; ovviamente, e vi piace il genere, recuperateli tutti! ENJOY!