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mercoledì 25 gennaio 2023

Babylon (2022)

Invogliata da un trailer favoloso, domenica sono corsa al cinema a vedere Babylon, diretto e sceneggiato nel 2022 dal regista Damien Chazelle. Con oggi comincia ufficialmente la Road to the Oscar, visto che Babylon è candidato a tre statuette (Miglior Scenografia, Colonna Sonora e Costumi).


Trama: nella Hollywood di fine anni '20, grandi star e semplici mestieranti devono fare i conti con una nuova era inaugurata dall'avvento del sonoro...


Dopo l'esordio strepitoso con Whiplash avevo un po' litigato con Chazelle. Il suo La La Land, osannato da chiunque, mi aveva lasciata abbastanza tiepida nonostante l'indubbia bellezza formale, mentre di First Man non ricordo nemmeno un fotogramma. Ciò nonostante, il trailer di Babylon, dal montaggio forsennato e accompagnato da una splendida colonna sonora, mi ha attirata fin dalla prima volta che l'ho visto e lo stesso vale per il cast all star che si è piano piano svelato agli occhi dei futuri spettatori. A dimostrazione di quante speranze riponessi in Babylon, non mi sono fatta sviare né dalle stroncature praticamente unanimi di critica e pubblico, né dalla durata elefantiaca della pellicola e, a posteriori, devo dire che sono strafelice di essermelo goduto al cinema (l'unica pecca, come sempre, doppiaggio e adattamento, ma che cosa ci posso fare se a Savona è già un lusso che i film escano?) perché Babylon è diventata la mia prima folgorazione per questo 2023. Ovviamente, capisco perché possa non piacere, e per questo chiedo scusa ai miei due compagni di visione, che verranno testé tirati in ballo: nonostante entrambi abbiano dichiarato di essersi divertiti e abbiano apprezzato molti aspetti del film, il Bolluomo lo ha definito una pellicola "riservata" agli addetti ai lavori, a gente che ama il cinema e ne conosce un po' la storia, la nostra compare invece non ha saputo bene come prenderlo, in quanto troppo strano e sbilanciato nei toni della commedia o della tragedia. In effetti, Babylon è un film sul cinema, scritto e diretto da un autore che il cinema lo ama e lo vive, e tratta un periodo storico ben preciso con riferimenti a fatti ben noti e persone realmente esistite. Le vicende narrate nascono non solo dall'avvento del sonoro, che aveva fatto piazza pulita di molte star del cinema muto (inadeguate per via di una voce inadatta, in totale contrasto con l'aspetto fisico, come nel caso di John Gilbert, che ha ispirato il personaggio di Jack Conrad), ma anche dal ben più "castrante" avvento del Codice Hayes, un compendio di regole severissime atte non solo a regolare regie e sceneggiature (soprattutto per quanto riguardava sesso e violenza ma si andavano a toccare anche mille questioni morali e di "decoro", così che nulla potesse anche solo indurre in tentazione lo spettatore), ma anche la vita degli attori fuori dal set dopo anni di eccessi che il folgorante inizio di Babylon, uno schizofrenico mix di piani sequenza e raccordi di montaggio ad hoc, sbatte in faccia allo spettatore tenendo perfettamente fede al titolo. Hollywood come una Babilonia delirante fatta di orge e morti accidentali, sacrificati all'altare dello spettacolo o del piacere, completamente priva dell'aura di magia che ogni film acquista agli occhi dello spettatore facendolo sognare eppure, lo stesso, affascinante, glamour e desiderabile, come se ogni cosa orribile o scatologica facesse comunque parte dello spettacolo e, dunque, non potesse fare troppo male perché "finta". 


Passando alla critica mossa dalla mia compare, Babylon è certamente un film strano ed atipico ma, a mio avviso, rispecchia in pieno la mancanza di regole dell'epoca del muto nel momento in cui i toni della commedia grottesca la fanno da padrone, perché nella prima parte i protagonisti sono o troppo innocenti o troppo addentro agli ingranaggi del sistema per poter anche solo pensare di offrire il fianco alla disperazione (sempre presente nelle vite dei quattro personaggi principali, basti pensare alla madre di Nelly, alla famiglia perduta di Manny, al razzismo subito da Sidney, ai mille vizi e follie di Jack); con l'arrivo dei grandi cambiamenti nell'industria cinematografica muta anche il tono del film, che diventa sempre più malinconico e tragico, più lento, se vogliamo, perché "il tempo passa quando ci si diverte", ma quando cominciano i problemi inizia a pesare come piombo. La struttura di Babylon, in questo, somiglia molto a quella di capolavori Scorsesiani come Quei bravi ragazzi, Casinò o The Wolf of Wall Street, dove lo spettatore subisce il "fascino dello schifo" e viene talmente distratto dall'abbondanza di dettagli da arrivare a parteggiare persino per personaggi deprecabili e autodistruttivi come Jack o Nelly, la cui vita fatta di eccessi corre, inesorabilmente, incontro al destino di chi non è in grado di gestirsi e, soprattutto nel caso di Nelly, rovina l'esistenza di chiunque abbia la (s)fortuna di incontrarli. Anche in questo caso, giusto per continuare il parallelo con Scorsese, ci sono personaggi con un piede appena fuori dall'illusoria bellezza di Hollywood che fungono da occhio esterno pur non essendo totalmente estranei all'influsso della "Babilonia" e anche il loro destino (abbandonare il carro dei vincitori con la dignità ancora intatta o venire buttati giù a calci perché ancora non sono riusciti a capire le regole del gioco) dipende dal grado di coinvolgimento o di distacco coi quali si rapportano alla sirena del successo; in particolare, l'occhio dello spettatore viene rappresentato da quello di Manny che, in un cerchio (im)perfetto, parte come sognatore appassionato di film, si spoglia di ogni illusione nel momento in cui diventa parte integrante del business, e torna a sognare dopo anni di rifiuto quando si rende conto che, nonostante tutte le delusioni e le esperienze negative, il Cinema è una magia che si rinnova in eterno. 


In tal senso, l'unica critica vera che posso muovere a Chazelle è, forse, l'eccessiva indulgenza nei confronti dell'industria cinematografica. Nonostante venga spesso sottolineato l'orrore nascosto dietro la patina luccicante, il regista e sceneggiatore si mostra anche troppo innamorato dei suoi personaggi e li ammanta di un'aura malinconica e poetica, rendendoli rappresentanti di "bei tempi che non torneranno più" quando, razionalmente, sia Nelly che Jack hanno ben pochi aspetti positivi, salvo l'essere delle vivaci schegge impazzite che vanno contro ogni convenzione. Eppure, magia del cinema o di attori talmente in parte da essere perfetti (sì, Brad Pitt sembra quasi il doppelganger di Di Caprio in C'era una volta... Hollywood ma è comunque intensissimo, la Robbie, con quel vestitino rosso che può portare solo lei, è una dea scesa in terra a prescindere da quanto sia sfatta, il semi-esordiente Diego Calva si porta a casa un primo piano finale da applausi e un'interpretazione degna di un veterano, Jovan Adepo fa una tenerezza infinita e persino Flea è bello, ma mai quanto un P.J. Byrne che vorrei al lavoro ad urlare e bestemmiare ogni volta che qualcuno scazza), quando il film si è avviato verso la sua china tragica e triste non ho potuto fare altro che emozionarmi e piangere, passando attraverso quell'unico momento di ansia e disgusto vero che mi ha fatto pensare a un Chazelle come possibile regista horror e mi ha scosso i nervi più di quanto credessi possibile, alla faccia della bellezza barocca e della grandeur di tutto il resto di Babylon. Il film, per inciso, conferma la bravura di Chazelle come regista, sempre più a suo agio dietro la macchina da presa, con riprese ed inquadrature che annullano ogni confine tra finzione e realtà e si fanno metacinema di alto livello, fonte di interesse per gli spettatori curiosi, affiancate ad altre quasi oniriche, Felliniane, per non parlare di quel finale che sembra quasi un testamento, più che un atto d'amore. E siccome le citazioni e i rimandi non bastano mai, Chazelle omaggia se stesso con la colonna sonora jazzissima del fido Justin Hurwitz, che in qualche modo rievoca quella di La La Land soprattutto nel pezzo strappacuore intitolato Manny and Nellie's Theme (ripresa di Call Me Manny), riproposto più volte a mo' di leitmotiv, il mio preferito assieme a quella splendida Voodoo Mama che si sente già nei trailer. Mi rendo conto di avere scritto un post lungo, raffazzonato e pesante come un macigno, quindi mi taccio e vi dico l'unica cosa importante, ovvero "correte a vedere Babylon", ovviamente al cinema, perché val la pena di passare tre ore (che sembrano una) in quel magico luogo che, da sempre, veicola mille emozioni!


Del regista e sceneggiatore Damien Chazelle ho già parlato QUI. Margot Robbie (Nelly La Roy), Flea (Bob Levine), Brad Pitt (Jack Conrad), Olivia Wilde (Ina Conrad), Joe Dallesandro (Charlie/Fotografo), Lukas Haas (George Munn), Patrik Fugit (Agente Elwood), Eric Roberts (Robert Roy), P.J. Byrne (Max), Max Minghella (Irving Thalberg), Samara Weaving (Costance Moore), Katherine Waterston (Estelle), Ethan Suplee (Wilson), Tobey Maguire (James McKay) e Spike Jonze (Otto) li trovate invece ai rispettivi link.

Jovan Adepo interpreta Sidney Palmer. Inglese, ha partecipato a film come Barriere, Madre!, Overlord e a serie quali L'ombra dello scorpione. Ha 35 anni e un film in uscita. 


Jean Smart, che interpreta Elinor St. John, era la Melanie della serie Legion mentre del carismatico Diego Calva, che interpreta Manny ed è stato persino nominato al Globe, non ho mai visto nulla. Tra gli altri attori più o meno conosciuti segnalo Kaia Gerber (già nel cast di American Horror Story/Stories, qui interpreta un'attricetta), Li Jun Li (la Rose della serie L'esorcista, qui nei panni di Lady Fay Zhu) e Olivia Hamilton (interpreta Ruth Adler e, oltre ad essere la moglie di Chazelle, ha partecipato a La La Land e First Man). Emma Stone era stata scelta per il ruolo principale quando il film doveva essere una sorta di biografia della diva del muto Clara Bow ma ha dovuto rinunciare a causa dei ritardi della produzione e, quando è stata ingaggiata Margot Robbie, il suo personaggio si è distaccato maggiormente dalla fonte di ispirazione iniziale. Se Babylon vi fosse piaciuto recuperate C'era una volta a... Hollywood, La La Land, Viale del tramonto e Cantando sotto la pioggia. ENJOY!


venerdì 30 settembre 2022

Don't Worry Darling (2022)

Si è fatto aspettare un po' ma finalmente mercoledì sono riuscita a vedere Don't Worry Darling, diretto dalla regista Olivia Wilde. Niente spoiler, tranquilli!


Trama: Alice vive una vita idilliaca da casalinga assieme al marito Jack finché, un giorno, non scopre delle crepe nel suo mondo perfetto...


Don't Worry Darling è un film che, tra qualche mese, verrà ricordato più per tutti i gossip che ne hanno accompagnato l'uscita veneziana che per le sue qualità, questo nonostante sia un'opera assolutamente godibile, con qualche difettuccio qua e là. Purtroppo, il primo di questi difetti (che probabilmente allo spettatore "casuale" interesserà poco ma che rende inevitabilmente l'appassionato come la sottoscritta una bella pigna in c**o) è la sua natura di collage di opere che già prima, in maniera più concisa, originale e profonda, hanno trattato argomenti simili sfruttando topoi distopici o fantascientifici quasi identici; poco danno, mi direte, ormai il cinema è un copia-incolla di idee già sviscerate, l'importante è copiaincollare bene e rielaborare con originalità. Il problema di Don't Worry Darling è che, a livello di messa in scena (poi ci torniamo) è uno spettacolo, tuttavia risulta un po' superficiale a livello non solo di temi, ma anche di utilizzo dei topoi citati in precedenza. L'intera operazione è, palesemente, una critica al patriarcato tossico, ma le implicazioni del film potrebbero andare ben oltre questa critica, se solo fosse stata data voce a tutte le varie anime che abitano nel mondo perfetto di Alice e se solo si fosse insistito maggiormente su quello che si nasconde fuori da quell'universo idilliaco, di cui possiamo scorgere giusto pochi sprazzi e che, onestamente, mi ha messo addosso un orrore indicibile (SPOILER: Jack ha fatto una cosa orribile alla moglie, quest'ultima "pensa ai bambini", d'accordo, ma da quanto mi è parso di capire ci sarebbe anche la possibilità di vivere nella realtà virtuale costruita da Frank con persone che non siano nostre compagne, o comunque dotate di altri avatar, il che è anche peggio). Altro appunto, il film si concentra, come del resto i suoi protagonisti, più sull'apparenza che sulla sostanza, indugiando in sequenze infinite che poco aggiungono alla trama e sembrano messe lì solo per allungare il metraggio. Va bene mostrare le feste interminabili, le scopate di Jack e Alice e le abilità di ballerino di Harry Styles, tuttavia, a mio avviso, sarebbe stato meglio fornire motivazioni un po' più consistenti al villain Frank, connotato giusto da un paio di deliri psicotici che rendono la popolazione maschile descritta nel film ancora più triste e inconsistente. 


Ciò che invece Don't Worry Darling fa benissimo è essere un balsamo per gli occhi. La messa in scena è sopraffina, curata in ogni minimo dettaglio. Gli anni '50, colorati e nostalgici, sono ricreati come se l'American Dream che li ha consegnati alla memoria degli spettatori non fosse mai finito, tra casette arredate con gusto e dotate di ogni comfort, auto d'epoca tirate a lucido, abiti vezzosi che mi hanno fatto palpitare il cuore in più di un'occasione, make up e unghie perfetti, e cocktail preparati ad arte. La quotidianità di Alice e Frank è dapprima baciata e poi bruciata dal sole, immortalata in una fotografia nitida e coloratissima che si incupisce nelle sequenze più oniriche, conferendo ulteriore inquietudine alle visioni di Alice, caratterizzate anche da una simmetria perfetta che mette ancora più ansia, e se all'inizio le feste immortalate con sfarzo dalla Wilde fanno simpatia per la loro grandeur Gatsbyana (e per la bellissima colonna sonora zeppa di oldies), verso la fine diventano soffocanti e pacchiane, assecondando lo sguardo di una Florence Pugh sempre più terrorizzata. Quest'ultima, ovviamente, è la punta di diamante del cast e regge da sola l'intero film con la sua bellezza non convenzionale e bravura indiscutibile, anche perché le controparti maschili, in tutta sincerità, sono equiparabili a due bietole piazzate lì. A onor del vero, inaspettatamente Harry Styles è meglio di Chris Pine, almeno nella versione doppiata che ho visto io, anche perché quest'ultimo non ha il carisma necessario per interpretare una machiavellica eminenza grigia, mentre il primo è abbastanza calzante nel ruolo di minchietta tutto mogliettina e lavoro (poi vabbé, quando la cosa si fa un po' più seria sembra più un ragazzino strillante... cosa ci ha visto la Wilde rispetto a Sudeikis lo sa soltanto lei), mentre il resto del cast non è affatto male. In definitiva, mi sarei aspettata qualcosa di più da Don't Worry Darling, ma non è affatto il film orribile che molti dipingono e ritengo che la Wilde debba ancora un po' trovare la sua strada persa nel glamour e ritentare con qualcosa di più "centrato". Aspetto con fiducia!


Della regista Olivia Wilde, che interpreta anche Bunny, ho già parlato QUI. Florence Pugh (Alice), Chris Pine (Frank), Gemma Chan (Shelley), Nick Kroll (Dean) e Douglas Smith (Bill) li trovate invece ai rispettivi link.

Harry Styles interpreta Jack. Inglese, ex membro degli One Direction nonché attuale compagno di Olivia Wilde, ha partecipato a film come Dunkirk ed Eternals. Anche compositore, produttore, regista e sceneggiatore, ha 28 anni. 


Kiki Layne interpreta Margaret. Americana, ha partecipato a film come Se la strada potesse parlare e Il principe cerca figlio. Ha 31 anni e un film in uscita. 


Kiki Layne ha sostituito Dakota Johnson, impegnata nelle riprese de La figlia oscura, mentre ormai è risaputa la "querelle LaBeouf"; l'attore avrebbe dovuto interpretare Jack ma ancora non si capisce se è stata la regista a cacciarlo dal set vista la fama di viscido che si è conquistato nel corso degli anni, oppure se se n'è andato via per i fatti suoi, costringendo la Wilde a pregarlo di tornare, invano. Ciò detto, se Don't Worry Darling vi è piaciuto recuperate La fabbrica delle mogli (e La donna perfetta), Vivarium e Midsommar. ENJOY!

martedì 9 agosto 2022

How it Ends (2021)

Questo sarà un post di servizio per mettere in guardia chiunque si facesse venire voglia, come purtroppo è accaduto a me, di guardare How it Ends, scritto e diretto nel 2021 da Zoe Lister-Jones e Daryl Wein e approdato la settimana scorsa su Amazon Prime Video.


Trama: il giorno della fine del mondo Liza, accompagnata dal suo io più giovane, si mette in cammino per risolvere tutte le questioni lasciate in sospeso, prima di concludere la sua esistenza a un party.


Vi è mai capitato che un film vi stesse antipatico a pelle, un po' come succede con le persone? Di solito, con queste ultime mi succede nel momento esatto in cui mi rendo conto che chi ho davanti è un* quaquaraqua, un* che se la crede, un* fint* compagnon* che in realtà ti sta giudicando e pensando "ma guarda te st* sfigat*, sono molto più intelligente e fig* io, diamo corda solo perché mi fa pena". Ecco, le stesse sensazioni le ho provate guardando How it Ends, il film sulla fine del mondo che si crede molto più acuto degli altri film sulla fine del mondo e te lo sbatte in faccia in maniera simpatica, mettendo assieme un mucchio di attori che si sono divertiti un casino a girarlo, tanto che sicuramente buona parte dei dialoghi (come si evince dai "simpaticissimi" titoli di coda) sono stati improvvisati, anche perché trattasi di siparietti pseudo-comici ed arguti che nascondono solo un enorme cumulo di aria fritta derivante dalla necessità di aggiungere qualcosa alla trama semplicissima e derivativa: protagonista (che è anche co-regista e co-sceneggiatrice) deve andare da punto A a punto B, il giorno della fine del mondo, per rimettere a posto tutti gli errori commessi nel corso della vita. Per rendere la cosa più frizzante e alternativa, alla protagonista viene affiancata la sua versione più giovane, una sorta di avatar che dovremmo avere tutti e che solitamente vediamo solo noi, tuttavia con l'arrivo della fine del mondo questo essere immaginario diventa capace di interagire e di essere visto da quasi tutti e molti di quelli che Liza incontra ne hanno una loro versione accanto. In realtà, questo "younger self" serve non tanto per dare un'aura surreale alla vicenda, quanto piuttosto per veicolare il METAFORONE che accompagna il messaggio principale del film, ovvero "tu conti, sei importante, e per vivere bene devi imparare ad amare ed accettare te stesso e a metterti in cima alle priorità". Mi verrebbe da citare Martellone di Boris, guarda. 


L'enorme problema di How it Ends, film girato in pandemia tra amici e con un budget risicato probabilmente utilizzato per appiccicare con lo sputo un asteroide in CGI sullo sfondo che ciccia fuori verso il finale, è che il messaggio finale sarà anche condivisibile e giusto, ma il percorso per arrivarci è una martellata sulle gonadi. Gli incontri che fa Liza nel mezzo del cammin verso la festa di fine mondo vanno dal MEH con velleità hipster (la comica e la cantante) all'orrore di persone che, per la maggior parte, sono la versione moderna e tiratissima per i capelli di Dharma (ve lo ricordate Dharma e Greg?), impegnate in dialoghi che vorrebbero essere simpatici e divertenti, o comunque legati al modo di parlare dei 30/40something di oggi (aggiungo una parentesi: la protagonista ha la mia età e sogna un aldilà dove scoparsi Chalamet. Ma mi tiri il belino??? Che orrore, quell'essere implume che potrebbe essere tuo figlio!!!), ma risultano solo imbarazzanti, nemmeno cringe, diciamo le cose in italiano per non abbassarci ai livelli di How it Ends. Ve lo giuro, il film dura un'ora e 22 e sono riuscita ad addormentarmi almeno sette volte prima di arrivare alla fine; testardamente, ogni volta mandavo indietro e dopo nemmeno un quarto d'ora stavo a occhi rivoltati e con la bava alla bocca, in catalessi, pregando che 'sta tortura a base di dialoghi sul nulla e confronti inutili finisse e maledicendo tutti quelli che si lamentano del mumblegore o degli horror in cui "non succede nulla". Sulle guest star presenti nel film non mi pronuncio, spero che abbiano partecipato o per amicizia o perché ben pagati, non certo perché convinti di poter portare una ventata di freschezza e divertimento alla settima arte. Comunque, c'è da dire che Zoe Lister-Jones e Daryl Wein un traguardo lo hanno raggiunto, ovvero quello di girare un film che finirà quasi sicuramente al primo posto della mia Worst 5 di fine anno. Oh, sempre meglio di nulla!


Di Finn Wolfhard (Ezra), Logan Marshall-Green (Nate), Nick Kroll (Gary), Bradley Whitford (Kenny), Olivia Wilde (Alay), Paul Scheer (Dave), Helen Hunt (Lucinda), Colin Hanks (Charlie) e Charlie Day (Lonny) ho già parlato ai rispettivi link. 

Zoe Lister-Jones è la co-regista e co-sceneggiatrice della pellicola, inoltre interpreta Liza. Americana, ha diretto altri due film, Band Aid e Il rito delle streghe, ovvero il remake di Giovani streghe. Anche produttrice, ha 40 anni ed è l'ex moglie di Daryl Wein.


Daryl Wein è il co-regista e co-sceneggiatore della pellicola. Americano, ha diretto film come Lola Versus. Anche attore e produttore, ha 39 anni ed è l'ex marito di Zoe Lister-Jones.


Le guest star del film sono molteplici, anche fuori dal cast di It's Always Sunny in Philadelphia, di cui fanno parte Glenn Howerton (John) e Mary Elizabeth Ellis (Krista): Cailee Spaeny, che interpreta la giovane Liza, era nel cast de Il rito delle streghe, sempre diretto da Zoe Lister-Jones, Whitney Cummings (Mandy) è una famosa comica americana, vista di recente in Studio 666 mentre Fred Armisen è un altro comico comparso anche in The Anchorman. Ciò detto, se cercate un bel film a tema fine del mondo, recuperate These Final Hours e Don't Look Up. ENJOY!

martedì 23 novembre 2021

Ghostbusters: Legacy (2021)

E' stata una tortura resistere fino a domenica per guardare Ghostbusters: Legacy (Ghostbusters: Afterlife), diretto e co-sceneggiato da Jason Reitman, ma chissà se ne è valsa la pena? Niente spoiler salvo nell'ultimo paragrafo!


Trama: una donna con due figli a carico e parecchi problemi economici eredita dal padre praticamente sconosciuto una fatiscente magione nelle campagne dell'Oklahoma. Lì saranno costretti a fronteggiare i fantasmi e ad evitare un'apocalisse...


Santo cielo, da dove cominciare? Eh già, con questo esordio avrete capito che, a differenza di tutti quelli che hanno versato lacrime di commozione, gioia e nostalgia davanti a Ghostbusters: Legacy, io mi sono ritrovata a guardare lo schermo con lo stesso trasporto emotivo di Natolia, la bella compagna dei Bulgari di Aldo, Giovanni e Giacomo. Ma andiamo con ordine. Ghostbusters: Legacy, l'"affare di famiglia" firmato Jason Reitman che ha educatamente ringraziato Paul Feig per aver "aperto la strada" col dimenticabile Ghostbusters del 2016 e poi, immagino, di nascosto gli ha mostrato il dito medio perculandolo, è una pellicola dotata di due anime, una anche assai apprezzabile, l'altra da prendere a calci nel culo come ha minacciato di fare un padre, in sala, stufo di vedere i figli litigare per i posti a sedere (per inciso, fratello, ti ho stimato tantissimo). La parte apprezzabile è quella dedicata ai 300 pargoli che infest...ehm, affollavano la sala, testimonianza vivente del passaggio generazionale inculcato da orde di genitori nerd cresciuti nel mito del primo Ghostbusters i quali, giustamente, hanno educato i figli alla stessa adorazione; nella prima parte di Legacy, o Afterlife che dir si voglia, si respira un'aria freschissima di film d'avventura, coi ragazzini protagonisti costretti a cambiare vita e a scoprire cosa si nasconde nel passato sepolto della loro famiglia decisamente poco "normale". Le strizzate d'occhio ai Ghostbusters anni '80 non si contano, ma è giusto così, anche perché sono lievi e simpatiche, necessarie alla trama. Phoebe e Trevor percorrono a piccoli passi una strada lastricata di aggeggi fantascientifici e di leggenda, in grado di fargli aprire gli occhi su un pezzo di storia americana dimenticato dai più e anche di far emergere i loro lati migliori, di portarli a comprendere quale potrebbe essere il loro posto nel mondo se solo riuscissero a conoscere meglio se stessi e il loro passato, di brillare come le stelle che meritano di essere alla faccia di una madre triste, vinta da quello stesso passato. In particolare Phoebe (e non poteva essere altrimenti visto che McKenna Grace è una spanna sopra molti suoi giovani coetanei) è tratteggiata magnificamente, è di una tenerezza infinita ed è bello vederla scoprire a poco a poco cosa si cela nella magione ereditata dal nonno e farsi nuovi, strani amici. Si potrebbe definire la prima parte di Ghosbusters: Legacy un coming of age dalle atmosfere vicinissime a quelle dei film di avventura "adulta" a base di ragazzini che ci piacevano tanto negli anni '80? Sì, e pensate che non hanno nemmeno dovuto scomodare delle biciclette per riuscirci. Peccato che poi arrivi la seconda parte. 


La seconda parte è il REGALO di Jason Reitman a tutti i Ghostbros che, guardando il film di Paul Feig, avevano urlato all'orrore nemmeno si fossero trovati in camera Janosz nudo. Ora, a me il film di Feig non era piaciuto ma non perché era un'affronto al Ghostbusters dell'84, bensì semplicemente perché era eccessivamente stupido (ho ancora gli incubi per Chris Hemsworth), incapace di trovare una propria strada originale senza appoggiarsi alla stampella delle scene iconiche del suo predecessore, salvato in corner solo da una Kate McKinnon in stato di grazia. Mai, però, mi sarei aspettata che Legacy avrebbe fatto anche di peggio, mettendosi letteralmente a pecora, scusate la volgarità, e accontentando i Ghostbros... con un remake scena per scena, nota per nota, battuta per battuta di Ghostbusters - Acchiappafantasmi. Ma porca di quella miseria. Signori, ma scherziamo? Io sono la prima ad apprezzare omaggi, rimandi, chicche e guest appearance, ma a parte una goduriosissima scena d'azione che coinvolge la Ecto-1 e il muncher in giro a distruggere la città e un pre-finale che è la summa di tutti gli studi e la tecnologia degli acchiappafantasmi nel corso degli anni (rovinato, come vedrete negli spoiler, da UNA cosa soltanto), non c'è nulla nella seconda parte del film che non sia mutuato direttamente dal Ghostbusters del 1984. Roba che, davvero, fossi stata in Reitman avrei avuto vergogna a farmi pagare, in quanto è palese che il ragazzo avesse in mano nulla più che una checklist da spuntare. Ritengo, come spettatrice e fan, di meritare ancora un minimo di rispetto da chi vuole giocare coi miei sentimenti e un minimo di impegno in più da chi vuole cullarmi nell'effetto nostalgia, perché allora mi riguardo in loop i primi due Ghostbusters (a proposito, il secondo l'abbiamo tolto dal canon? Che vi ha fatto Vigo il carpatico, scusatemi?) e non sto a sprecare ulteriori soldi. Mi rendo conto che il post è venuto più duro di quanto avrei voluto, anche perché gli effetti speciali sono molto ben fatti e le scene d'azione abbastanza goderecce ma, giuro, più ci ripenso più i girano le palle, perché Legacy ha un potenziale enorme, ha un cuore che batte e che non coincide con l'omaggio a tutti i costi, eppure questo cuore è stato messo da parte senza remore, solo per accontentare i fan. Ohibò. Se avete già visto il film e volete capire perché sono tanto arrabbiata, continuate a leggere, altrimenti amici come prima!



SPOILER

Io non mi capacito. Sono la prima ad aver speso una lacrima davanti alle prime scene, davanti a quella presenza del vecchio Spengler sussurrata, mai sbandierata al 100 %, giustamente timida. Sono la prima ad essere saltata sulla sedia davanti a quella telefonata, perché certo, "ecchicchiamerai?". Le due scene post credit mi hanno fatta sorridere, la prima in particolare mi ha sciolto il cuore, ché è stato splendido vedere per la prima volta i coniugi Venkman uniti nell'idillio familiare (però, anche lì, era necessario proprio riciclare le carte? Ma su...) sebbene probabilmente il povero Oscar sia morto, e non nego di aver represso un brivido a rivedere gli Acchiappafantasmi uniti... però, siamo seri? Dal momento esatto in cui Paul Rudd diventa Rick Moranis, il film si trasforma in una copia anastatica del primo film, con un'importante aggravante, ovvero la stupidità delle poche novità aggiunte: mai, nemmeno nei miei incubi più perversi avrei pensato a Carrie Coon, in versione majokko malvagia, indossare magicamente lo stesso abito della Dana posseduta da Zuul (e vorrei davvero comprendere la portata dell'imbarazzo della Coon e di Rudd nel girare "quella" scena), oppure qualcuno raccontare le peggiori barzellette a Gozer, o trasformare Ivo Shandor nell'ennesima, inutile spunta della checklist, sprecando peraltro J.K. Simmons. Di più, MAI avrei pensato che avrebbero ricostruito al computer Harold Ramis, a cui il film è dedicato. Lì mi sono scese lacrime, sì, ma di rabbia e anche un po' di schifo, perché evidentemente Reitman non conosce la differenza che passa tra omaggio elegante e sfruttamento dei defunti per spremere i dotti lacrimali degli spettatori trattati alla stregua di beoti. Capisco Aykroyd, che da decenni non azzecca un film e venderebbe anche la madre per soldi, capisco Ernie Hudson, ma fossi stata in Bill Murray, davanti all'idea di dover recitare un'intera, lunga sequenza davanti a un green screen dove avrebbero poi appiccicato l'immagine ricreata di un mio collega defunto da anni, avrei abbandonato il progetto e mi sarei eclissata con la stessa grazia di Rick Moranis, al quale va invece il mio rispetto per l'eternità. Non posso che concludere il post delusa, e con la stessa delusione citare il film che tutti i Ghostbros del pianeta hanno evidentemente voluto dimenticare: "Tutto ciò che tu fa è male! Io voglio che tu sa ciò!" E quel Twinkie infilatevelo pure dove non batte il sole, dopo averlo fatto diventare lungo dodici metri e del peso approssimativo di trecento chili.


Di Carrie Coon (Callie), Paul Rudd (Grooberson), Finn Wolfhard (Trevor), Mckenna Grace (Phoebe), Bill Murray (Peter Venkman), Dan Aykroyd (Ray Stantz), Ernie Hudson (Winston Zeddmore), Annie Potts (Janine Melnitz), Sigourney Weaver (Dana Barrett Venkman), Bob Gunton (agricoltore fantasma), J.K.Simmons (Ivo Shandor), Josh Gad (voce di Muncher) e Olivia Wilde (Gozer) ho già parlato ai rispettivi link.

Jason Reitman è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Canadese, figlio di Ivan Reitman, ha diretto film come Thank You for Smocking, Juno, Tra le nuvole e Tully. Anche attore, ha 44 anni. 



Celeste O'Connor, che interpreta Lucky, aveva già partecipato a Freaky, mentre nei panni dell'agente Medjuck c'è Stella Aykroyd, figlia di Dan. Ovviamente, per arrivare preparati a Ghostbusters Legacy converrebbe che guardaste Ghostbusters e Ghostbusters II, mentre potete anche evitare Ghostbusters del 2016. ENJOY!

venerdì 24 gennaio 2020

Richard Jewell (2019)

Non si può ignorare un film diretto da Clint Eastwood quando esce al cinema, soprattutto se, come questo Richard Jewell, è anche candidato all'Oscar per la migliore attrice non protagonista.


Trama: Richard Jewell, agente di sicurezza, trova una bomba durante una manifestazione al Centennial Park di Atlanta in occasione delle Olimpiadi ed evita così un conteggio delle vittime ancora più grave. L'FBI, tuttavia, lo accusa di essere l'attentatore...


Tutto il mondo è paese, e il paese, consentitemi di dirlo con volgarità, sta andando a puttane, lo ha sempre fatto. E' una cosa che il cinema ci sta mettendo sotto il naso da tanti anni, aprendoci gli occhi su come le istituzioni non sono poi così adamantine come dovrebbero essere e su come i media troppo spregiudicati facciano l'esatto contrario di quello che dovrebbe fare il buon giornalismo, ovvero informare, limitandosi al becero sensazionalismo quando va bene (sto pensando agli exploit del nostro adorato Capitone verde, che adesso s'è messo a molestare anche la gente al citofono) e a mettere in croce le persone quando va male. A Richard Jewell, guardia di sicurezza con qualche problemino a livello fisico e mentale ma convinto al 100% del funzionamento delle istituzioni, della polizia e del governo, è andata malissimo nel 1996, anno in cui ha scoperto che a farsi i fatti propri avrebbe potuto campare cent'anni, e pazienza se a rimetterci la vita sarebbero state 300 persone invece di un centinaio. Richard Jewell, ligio al dovere ed incredibilmente entusiasta, quell'anno ha scoperto una bomba al Centennial Park di Atlanta e ha giustamente dato l'allarme (cosa che ha ridotto sensibilmente il numero di vittime, che purtroppo ci sono state), per poi venire accusato dall'FBI e dai giornali americani di essere l'attentatore e vedersi così rovinata una vita già non facilissima. Il vecchio Clint, qui "solo" in veste di regista, non critica assolutamente la legittimità di un dubbio, ché Richard Jewell non è l'uomo più gradevole del mondo e nemmeno il più rassicurante: un po' megalomane, ligio al dovere e alla giustizia al punto da essere stato condannato per abuso di autorità, fanatico delle armi, ciccione, single, ancora in casa con mamma, dotato di atteggiamenti ambigui e già sotto consiglio di una bella valutazione psichiatrica, non è così scandaloso che l'FBI abbia potuto tracciare un profilo negativo a suo discapito. Quello che è scandaloso, invece, è che i media ci si siano buttati a pesce, cancellando con un colpo di spugna tutta la privacy e la dignità di quest'uomo e di sua madre, trasformandolo in tempo zero da "eroe" (altra bella esagerazione) a "mostro" da sbattere in prima pagina.


Non sono la più grande estimatrice di Clint Eastwood e non mi ritengo un'esperta né della sua poetica, né della sua cinematografia, diciamo che prendo ogni suo film come fosse un'opera a sé stante, per questo non mi addentro in confronti con altri film; tuttavia, la frustrazione provata guardando Richard Jewell è assai simile a quella che ho provato con Mystic River, un senso di rabbia impotente e di voglia di piangere causati da una sensazione di claustrofobia ed incredulità crescenti. Mi sono messa nei panni non tanto di Richard Jewell (come ho detto, empatizzare con il protagonista non è facilissimo, ci si ritrova spesso a guardarlo perplessi e sconsolati come la "voce della ragione" Sam Rockwell, con le mani che prudono dalla voglia di prenderlo a schiaffi) quanto della povera Bobi, la mamma magistralmente interpretata da Kathy Bates. Che cosa significa dover sopportare tutta quella pressione mediatica, venire additata come mamma di un mostro e non poter nemmeno andare in bagno senza timore di essere ascoltati dall'FBI, il tutto mantenendo intatta la fiducia verso un figlio che tutti vorrebbero vedere morto? Onestamente, non riesco nemmeno a pensarci. In questo periodo, lo ammetto, sono psicologicamente fragile ma il pianto di Kathy Bates mi ha spezzato il cuore e mi sono vergognata, perché con tutta probabilità se all'epoca avessi avuto interesse nella vicenda mi sarei schierata a favore di un'opinione pubblica impietosa, perché è troppo facile giudicare male chi è debole e disadattato come Richard Jewell. E' troppo facile assecondare il carisma di una giornalista spregiudicata, abbassare le orecchie davanti alla strafottenza degli agenti dell'FBI, farsi intortare, anche in senso buono, dalla parlantina di un avvocato che per fortuna ha saputo guardare oltre e che è quanto di più americano si poteva inserire all'interno di una sceneggiatura (dai, lo si perdona); è facile ma anche terribile perché, alla fine, anche se vorremmo essere dei granitici Bruce Willis, siamo tutti un po' Paul Walter Hauser e quello che è successo a Richard Jewell potrebbe succedere anche a noi. E chi sarà lì per raccontarlo con questo rigore senza sbavature, riuscendo ad emozionare senza suonare retorico, quando Clint Eastwood non ci sarà più?


Del regista Clint Eastwood ho già parlato QUI. Paul Walter Hauser (Richard Jewell), Sam Rockwell (Watson Bryant), Olivia Wilde (Kathy Scruggs), Jon Hamm (Tom Shaw) e Kathy Bates (Bobi Jewell) li trovate invece ai rispettivi link.


Jonah Hill avrebbe dovuto interpretare Richard Jewell ma alla fine è rimasto solo come produttore del film e lo stesso vale per Leonardo Di Caprio, a cui si pensava per il ruolo dell'avvocato. Se Richard Jewell vi fosse piaciuto recuperate il già citato Mystic River. ENJOY!


domenica 7 giugno 2015

The Lazarus Effect (2015)

Nonostante a Savona l'abbiano tenuto tipo tre giorni sono comunque riuscita a vedere The Lazarus Effect, diretto dal regista David Gelb.


Trama: un gruppo di scienziati sperimenta un siero che, nelle loro intenzioni, dovrebbe tenere vive più a lungo le funzioni cerebrali dei pazienti durante le operazioni particolarmente difficili. Il siero si rivela invece capace di resuscitare i morti ma quando toccherà ad una di loro tornare dall'aldilà scopriranno che questo "dono" ha un prezzo terribile...


Dopo tutte le critiche negative lette su The Lazarus Effect mi sono stupita quando, arrivata più o meno a metà film, mi sono resa conto di quanto la storia (tolte le inevitabili banalità) scorresse abbastanza e di quanto gli attori fossero, in effetti, più che dignitosi. Tolto Duplass e la sua faccia da caSSo (perdonatemi il francese) e dimenticata la limitante mini-comparsata di Ray Wise c'è davvero di che leccarsi le dita: Olivia Wilde (non a caso Presidentessa ad honorem dell'Antro) accetta di imbruttirsi, per quanto possibile, e offre un'interpretazione inquietante e sensuale al tempo stesso e tutti i giovinetti che le sono stati affiancati, in primis Sarah Bolger e il sempre gradito Evan Peters, riescono a rendere i loro personaggi abbastanza tridimensionali, senza limitarsi alle solite interpretazioni da "carne da macello" tipiche del genere. La trama ricorda poi un paio di "capisaldi" (almeno per me) anni '80/'90, a partire dal quasi dimenticato Link, che passava spesso in TV quando ero ragazzina, per arrivare al più conosciuto Linea mortale; l'idea di un gruppo di scienziati che gioca a sovvertire le regole della natura, ovviamente sempre cominciando con le migliori intenzioni, si porta appresso un fascino risalente già ai tempi dell'800 e anche il mistero che circonda le esperienze post-mortem ha sempre il suo perché. Se The Lazarus Effect si fosse limitato a bullarsi tronfio dei suoi attori e, soprattutto, a mescolare queste due componenti, cercando di concentrare la storia e, conseguentemente, l'orrore, sugli strani effetti del siero protagonista sul cervello dei resuscitati, non dico che ci saremmo trovati davanti un capolavoro ma perlomeno un film dignitoso sì. E invece gli sceneggiatori Luke Dawson (responsabile di quella mezza schifezza di Shutter - Ombre dal passato) e Jeremy Slater (al suo esordio quindi perdonabile ma se mi rovina Death Note lo aGGido) hanno pensato bene di sbragare.


Volevate mica che The Lazarus Effect si limitasse a propinare ai mocciosetti aMMeregani un noiosissimo e banale complesso della divinità oppure qualcosa che affondasse le basi esclusivamente su dei concetti scientifici? E il mostrone finale? E le possessioni demoniache che ci piacciono tanto? E il finale aperto che altrimenti l'anno prossimo non possiamo andare al cinema a vedere The Lazarus Effect 2 - Lazaruses Unleashed (titolo puramente inventato ma fattibilissimo)? Tranquilli piccoli consumatori americani, ché la Blumhouse pensa sempre a voi! Dopo lo sdegno dei cattolici benpensanti e un incidente che a definirlo idiota gli si fa un complimento, comincia a sentirsi puzza di zolfo e quello che cominciava come un horror "scientifico" diventa un horror sovrannaturale con tanto di esseri che rimangono immobili a fissare le vittime per ore (vi ricorda qualcosa Paranormal Activity?), effettacci al computer, sensi di colpa che diventano il veicolo per qualche demone sconosciuto e, ovviamente, un assurdo quanto sbrigativo finale che lascia lo spettatore perplesso a chiedersi "perché". La cosa divertente, infatti, è che mentre di solito questo genere di film propina spiegoni lunghi e complessi, The Lazarus Effect preferisce fare propria la lezione orientale del "taciuto" senza ovviamente esserne in grado e il risultato è che il cambio di registro fa soltanto l'effetto "Casa delle Libertà", ovvero "facciamo un po' quel caSSo che ci pare". Peccato perché, come ho detto all'inizio, The Lazarus Effect poteva essere molto gradevole e invece è stata solo l'ennesima occasione sprecata all'interno di un genere che ne è già zeppo. Guardatelo solo se non avete nulla di meglio da fare o se siete fan di Oliviona perché l'occhiolino rivolto al buon Evan Peters vi farà impazzire.


Di Mark Duplass (Frank), Olivia Wilde (Zoe), Evan Peters (Clay) e Ray Wise (Mr. Wallace) ho già parlato ai rispettivi link.

David Gelb è il regista della pellicola. Americano, al suo primo lungometraggio, è anche produttore, attore, sceneggiatore e animatore. Ha 32 anni e un film in uscita.


Sarah Bolger interpreta Eva. Irlandese, la ricordo innanzitutto per essere stata la Principessa Aurora nella serie C'era una volta, inoltre ha partecipato a film come Locke & Key e ad altre serie come I Tudors; come doppiatrice, ha lavorato nella versione inglese de La collina dei papaveri. Ha 24 anni e tre film in uscita.


Se The Lazarus Effect vi fosse piaciuto recuperate senza indugio i ben migliori Linea mortale, L'uomo senza ombra e magari anche Link o Monkey Shines - Esperimento nel terrore. ENJOY!

venerdì 21 marzo 2014

Lei (2013)

Martedì ho finalmente guardato il film visto ed apprezzato da (quasi) tutta la blogosfera, ovvero Lei (Her), diretto e sceneggiato nel 2013 da quel geniaccio di Spike Jonze e vincitore dell'Oscar per la migliore sceneggiatura originale.


Trama: Theodore è un uomo solitario, provato dalla fine di un lungo matrimonio. Un giorno, per curiosità, decide di acquistare un software in grado di "evolversi" in base alle necessità del padrone ed è così che, a poco a poco, intesse una relazione con questo programma, autodenominatosi Samantha...


Quanta tristezza, quanta bellezza. Durante la visione di Lei sono stata colta da una malinconia talmente profonda che ho fatto fatica ad arrivare alla fine e non perché il film sia brutto, anzi. Solo che, verso la fine, alla malinconia si è aggiunta anche un po' d'inquietudine. La storia di Theodore, ambientata in un futuro prossimo dove le lettere d'amore vengono dettate da appositi impiegati ad un computer che poi le stamperà in bella calligrafia, sembrerebbe quasi la naturale evoluzione di questa società dove le persone sono sempre più isolate e chiuse all'interno di una rete globale in grado di alimentare disagio e solitudine. Il protagonista si trova davanti al suo primo, importante fallimento come essere umano (il matrimonio è andato a rotoli) e non ha più il coraggio di rapportarsi agli altri perché, che scoperta!, l'amore è un sentimento reciproco dove è bello ricevere ma bisogna anche dare... e lui non riesce più a darsi completamente, o forse non c'è mai riuscito, perso nella ricerca egoista di un ideale inesistente e ingiusto. L'unica soluzione è vivere una fantasia, per quanto assurda, con qualcuno che non potrà mai essere alla pari di un essere umano e che tuttavia, apparentemente, è la persona perfetta: Lei. Samantha. Il software che, attraverso l’interazione con Theodore, comincia a comprendere il mondo e sé stessa, ad evolversi e superarsi, a trascendere in modo imprevedibile. La mia inquietudine non deriva tanto dalla svolta vagamente distopica che il film prende verso il finale, quanto dalla consapevolezza che l’essere umano Theodore è, se così si può dire, il “personaggio negativo” del film, un uomo perso nel suo ideale di artistica perfezione che si ammanta di un’aura di sfiga e tenerezza che non lo rende però meno ottuso, debole o ridicolo (si veda la sequenza dell'appuntamento al buio con Olivia Wilde, scioccante in ogni suo aspetto!). E’ più facile empatizzare con Samantha che, poverina, sarà anche infallibile in quanto computer e a tratti istericamente provata dal suo desiderio di vivere accanto a Theodore e convincerlo della possibilità di una relazione, tuttavia palesa sentimenti di inadeguatezza, frustrazione, gelosia, tristezza e curiosità genuinamente e meravigliosamente umani.


Jonze racconta così la favola malinconica di un amore 2.0, di una ricerca disperata della felicità impossibile e anche di amicizia; lo fa con tocco delicato e poetico, regalando allo spettatore momenti divertenti, assurdi e commoventi che ci spingono a riflettere su noi stessi e sul nostro modo di rapportarci agli altri, magari identificandoci di volta in volta con Theodore o con Samantha, anche se la persona più “vera” (nel senso di plausibile) del film è la tenera e frustrata Amy, interpretata da una Amy Adams bravissima e stranamente dimessa. Le sfumature del passato si mescolano ad un presente fatto di note malinconiche, colori tenui e luci soffuse e a squarci di un incerto futuro perso negli sterminati neon di una città cosmopolita, che può offrire agli sperduti protagonisti la speranza e l’amore, come anche la disperazione e il perpetuarsi della solitudine. Joaquin Phoenix regge quasi da solo il film con la sua delicata e convincente interpretazione di un uomo qualunque, senza particolari pregi se non quello di saper mettere su carta i sentimenti altrui (e col fatale difetto di non riuscire a gestire i propri), ma la particolarità del film è la briosa, sensuale e tenera voce di Scarlett Johansson, in grado di rendere viva e reale Samantha e di emozionare lo spettatore anche se priva di un corpo. La cosa incredibile è che Jonze non usa mezzucci per dotarla di una presenza fisica, come un ologramma o un'immagine, ma gli basta semplicemente inquadrare l'inseparabile telefonino che Theodore porta sempre con sé e col quale ha una relazione simbiotica fin dalle prime immagini del film, prefigurazione veritiera di tutto quello che accadrà in seguito. Her è una pellicola lieve e particolare, che bisogna seguire con un po' di attenzione e una certa predisposizione alla malinconia; bisogna stare al gioco del regista e lasciarsi trasportare dai suoni e dalle parole, senza lasciarsi fuorviare dallo stile patinato delle immagini o dalla tematica fantascientifica perché questa, più che la storia di un amore impossibile tra un uomo e una macchina, è una storia sull'impossibilità di amare ed esprimere al meglio quello che proviamo, da vedere e rivedere.


Del regista e sceneggiatore Spike Jonze (che presta anche la voce al bimbetto alieno del videogame) ho già parlato qui. Di Joaquin Phoenix (Theodore), Chris Pratt (Paul), Rooney Mara (Catherine), Kristen Wiig (è la voce di SexyKitten), Scarlett Johansson (la voce di Samantha), Amy Adams (Amy) e Brian Cox (la voce di Alan Watts) ho già parlato ai rispettivi link.

Olivia Wilde (vero nome Olivia Jane Cockburn) interpreta la ragazza con cui Theodore ha l'appuntamento al buio. Americana, la ricordo per film come Turistas, Tron: Legacy, Cowboys & Aliens, In Time, The Words e Rush; inoltre, ha partecipato a serie come The O.C. e Dr House e, come doppiatrice, ha partecipato ad episodi di Robot Chicken e American Dad!. Anche produttrice, regista e sceneggiatrice, ha 30 anni e cinque film in uscita.


Portia Doubleday, che nel film interpreta il "doppio" umano di Samantha, Isabella, nell'imbarazzante Lo sguardo di Satana - Carrie era mora e rispondeva al nome di Chris Hargensen. Originariamente, a dare la voce a Samantha avrebbe dovuto essere l'attrice Samantha Morton, che è stata sul set ogni giorno e aveva già registrato tutti i dialoghi. In fase di montaggio, però, Jonze ha capito che qualcosa non funzionava e, col benestare dell'attrice, ha deciso di ingaggiare la Johansson e farle ri-recitare da capo tutti i dialoghi. Tra l'altro, anche Chris Cooper ha girato alcune scene ma il suo personaggio è stato tagliato completamente fuori dalla pellicola. Un'altra attrice che ha dovuto rinunciare a partecipare al film, sebbene semplicemente a causa di impegni pregressi, è stata Carey Mulligan, rimpiazzata da Rooney Mara. E con questo concludo.. ENJOY!

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