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martedì 31 agosto 2021

Lo sciame (2020)

Causa ferie estive, caldo, problemi di salute, la ormai cronica mancanza di tempo e un po' di depressione galoppante, ho perso di vista le ultime uscite Netflix/Prime, così ho chiesto lumi a chi è un po' più informato di me e mi è stata consigliata la visione di Lo sciame (La nuée), diretto nel 2020 dal regista Just Philippot.


Trama: una donna con due figli a carico, sull'orlo della bancarotta, scopre l'ingrediente segreto per far prosperare il suo allevamento di cavallette, ovvero il sangue.


Ho sentimenti contrastanti verso Lo sciame e credo che parte di essi dipendano dalle aspettative che avevo. Mi sarei aspettata infatti di vedere un b-movie a base di insetti carnivori, come quei film catastrofici anni '70 zeppi di guest star che passavano in TV quando ero bambina e che mi incollavano alla sedia dall'ansia e, in parte, Lo sciame asseconda questo cliché: ci sono le cavallette, le cavallette assaggiano il sangue, le cavallette si moltiplicano a dismisura e continuano a volerne sempre di più, le cavallette fuggono dai confini del loro allevamento e attaccano gli esseri viventi, come da copione. Peccato che la "ciccia", se così si può chiamare, o diciamo pure l'aspetto più superficiale e divertente de Lo sciame, si concentri negli ultimi dieci minuti, con una piccola parentesi che diventa anticlimax nel giro di pochi secondi (SPOILER: quando le cavallette scappano la prima volta, a rimetterci è la povera Huguette, ma poi le bestie mordaci dove diamine finiscono? E sì che non erano poche...), mentre il resto della trama si concentra sul dramma familiare e umano di Virginie, madre con due figli a carico che decide di affidare le sorti economiche della famiglia a un allevamento di locuste. A essere onesti, per un attimo avevo pensato che Lo sciame fosse ambientato in un futuro prossimo dove l'umanità era condannata alla mancanza di cibo, da qui la scelta di un allevamento così inusuale, ma questa illusione è durata il tempo di capire che Virginie ha scelto consapevolmente di puntare i suoi soldi sul cavallo sbagliato, cosa che non aiuta particolarmente con l'empatia nei confronti del personaggio.


Hai voglia, infatti, a provare pena per la condizione economica di Virginie, quando la donna, testardamente e alla faccia di due figli già provati dalla morte del padre, decide di ignorare tutti i consigli di amici e vicini e abbraccia l'ossessione folle per quell'allevamento di bestiacce orride, arrivando al punto di perdere ogni briciolo di umanità e, di conseguenza, di dimenticare l'obiettivo iniziale del business. Quando l'ossessione di Virginie sfocia nell'autolesionismo, dando vita, per la cronaca, alle scene più difficili da sopportare, il film abbraccia l'horror psicologico "perverso" in cui i francesi sono maestri, e volendo guardare Lo sciame da questo punto di vista, ignorando tutti i preconcetti precedenti, non posso negarne il valore e l'originalità, ma purtroppo c'è sempre l'enorme scoglio da superare di quanto arduo sia sopportare Virginie (benché interpretata da una bravissima attrice) e tutti i momenti di drama isterico che coinvolgono lei e la figlia adolescente, la quale potrebbe essere il personaggio più intelligente del mucchio dopo il vignaiolo Karim, ciò nonostante per lo shock (?) decide di chiudere gli occhi davanti alla palese discesa negli abissi della follia da parte di mammà. Quindi de Lo sciame cosa rimane, tolta la bella fotografia e alcuni momenti di sanguinolento disagio capaci di indurre i conati di vomito? Bella domanda, probabilmente solo un film molto lento a carburare e zeppo di momenti perplimenti che rischia di tenere distante ben più di uno spettatore occasionale e di lasciare perplessa e non troppo soddisfatta un'altra bella fetta di pubblico, ma sono certa che Lo sciame potrebbe rivelarsi la cup of tea di qualche lettore. Basta solo armarsi di pazienza e avere una minima idea della natura del film, che è molto lontana da quella di un b-movie da guardare col cervello staccato in una calda sera d'estate. 

Just Philippot è il regista della pellicola, al suo primo lungometraggio. Francese, anche sceneggiatore, ha 39 anni.




venerdì 27 agosto 2021

Kandisha (2020)

La Summer of Chills di Shudder ha riportato in auge due vecchie conoscenze degli appassionati di horror, Alexandre Bustillo e Julien Maury, che nel 2020 hanno diretto e sceneggiato Kandisha.


Trama: dopo essere quasi stata violentata dal suo ex, una ragazza evoca un djinn vendicativo di nome Kandisha, che non si limita però alla vittima designata...


Avevo lasciato Bustillo e Maury nel profondo Texas, alle prese con un Leatherface che non mi aveva lasciata granché entusiasta, e avrei tanto voluto inabissarmi con loro nel lago infestato del loro ultimo film, La casa in fondo al lago, ahimé snobbato dal multisala che gli ha preferito i dannatissimi Me contro te, ma ho dovuto "accontentarmi" di fare un giro nelle periferie multietniche di Kandisha, bestiola ibrida molto lenta ad ingranare ma foriera di parecchie soddisfazioni. La trama somiglia moltissimo a un incrocio tra Candyman (il djinn viene evocato ripetendo il nome più volte) e qualsiasi altro thriller horror a base di presenze incautamente disturbate da adolescenti che alla fine non riescono più a liberarsene e, come ho detto, si perde in una prima parte che, orrore degli orrori!, sembrerebbe quasi dribblare il gore che ha reso giustamente famosi Bustillo e Maury, preferendo omicidi fuori campo, sussurri spettrali e turbe adolescenziali a qualcosa di più tangibile e godereccio, poi fortunatamente scatta qualcosa che rende Kandisha superiore a molti horror recenti. Innanzitutto, il film si fa apprezzare per la natura multietnica delle protagoniste, assai realistiche per il modo in cui sono state scritte ed interpretate, con i loro molti difetti (spesso mutuati da una realtà dove povertà, droga, menefreghismo dei genitori e problemi legati a un colore della pelle diverso la fanno da padroni) e quell'enorme pregio che è l'amicizia che le tiene unite nonostante le colpe imperdonabili di una di loro, il desiderio soverchiante di non perdere nessun membro del terzetto, ognuno importante quanto e a volte più della famiglia di sangue; vedere la giusta vendetta di Amélie trasformarsi in un'ordalia opprimente, una corsa contro il tempo per salvare quante più persone innocenti possibili alimenta l'ansia e un senso di claustrofobia crescente, come se non ci fosse assolutamente modo, per le tre ragazze, di rinchiudere quel terrificante vaso di Pandora.


Più questo senso di ineluttabilità cresce, più le immagini di Kandisha si fanno difficili da sopportare. Non è uno spoiler, quanto piuttosto un avvertimento: se siete animalisti convinti o vi fa orrore qualsiasi tipo di violenza sugli animali, non provate neppure a guardare questo film perché c'è una scena talmente esplicita ed orribile che credo di essermi persa almeno un paio di minuti di ciò che è venuto dopo, da tanto avevo nausea all'idea di dover subire anche solo un altro fotogramma col povero coniglietto seviziato, e in alcune altre sequenze lo stomaco dello spettatore deve mantenersi comunque bello forte. Il djinn che dà il titolo al film, nato da una leggenda del folklore marocchino, si manifesta inizialmente attraverso suggestioni e sussurri, celando la sua reale natura dietro un burqua che mantiene l'aura di mistero mostrando solo due occhi splendidi, benché inquietanti, poi manifesta tutte le sue caratteristiche demoniache e persino bestiali, consentendo ai due registi di profondersi in alcune scene molto visionarie ed altre in cui, probabilmente, alle vittime non avrebbe fatto schifo una semplice, rapida morte all'arma bianca come quella toccata al coniglietto di cui sopra (rimanendo sempre in tema di sguardo distolto, la sequenza ambientata nella sauna è qualcosa di agghiacciante, probabilmente peggiore di un altro paio di immagini ben più esplicite). Certo, i fasti e l'orrore vero di A' l'interieur sono ormai un ricordo lontano (ma sempre maledettamente vivido, porco schifo), tuttavia una chance a questo penultimo lavoro di Bustillo e Maury la darei!  


Dei registi e sceneggiatori Alexandre Bustillo e Julien Maury ho già parlato QUI.


Se Kandisha vi fosse piaciuto recuperate Candyman. ENJOY!

martedì 24 agosto 2021

Evangelion: 3.0+1.01 Thrice Upon a Time (2021)

La sorpresa a tutti gli otaku d'Italia l'ha fatta Amazon Prime Video, che è riuscita ad accaparrarsi l'ultimo film della Rebuild of Evangelion, ovvero Evangelion: 3.0 + 1.01 Thrice Upon a Time (シン・エヴァンゲリオン劇場版), dei registi Hideaki Anno (ovviamente anche sceneggiatore), Mahiro Maeda, Katsuichi Nakayama e Kazuya Tsurumaki.


Trama: dopo che il Fourth Impact è stato scongiurato, Shinji, Asuka e Rei vengono salvati e condotti su Neo Tokyo 3, ma le macchinazioni di Gendo Ikari e della Nerv sono ben lontane dall'essersi concluse...


Vi rivelo un segreto, che è anche un po' una vergogna: ho guardato Evangelion: 3.0 + 1.01 Thrice Upon a Time senza aver fatto prima un ripasso generale degli altri tre film della Rebuild of Evangelion e, onestamente, ho rischiato che mi scoppiasse il cranio perché di essi, soprattutto del terzo, ricordavo davvero pochissimo. Ammetto di avere interrotto la visione più volte per andare a recuperare stralci di Wikipedia, soprattutto quando Asuka nominava cose come i Lilin e soprattutto quando hanno cominciato a spuntare fuori lance assortite dotate di svariati poteri. Miracolosamente, comunque, mi è parso di riuscire a capire tutto o quasi e, non vorrei sbagliare, ma mi è sembrato che Thrice Upon a Time fosse il capitolo più "semplice" dell'intera operazione, perlomeno quello più privo di pipponi filosofici. Certo, nonostante lo abbia trovato davvero bellissimo e molto emozionante, per godere appieno di Thrice Upon a Time bisogna superare una prima ora di Shinjitudine all'ennesima potenza, una roba che rischierebbe di far scappare la pazienza a un santo; se negli episodi precedenti Shinji era mollo come un'ameba, in questo lo ritroviamo direttamente catatonico, muto quando va bene, in lacrime ed isterico quando va male, affiancato da una sempre più "vitale" Rei la quale, caruccettissima eh, cerca di capire il senso della vita e dell'umanità, ma all'ennesima domanda pronunciata con quella vocetta fessa e monocorde il desiderio di impiccarmi si faceva sempre più pressante. Onestamente, se Anno rifacesse da capo Evangelion mettendo come protagoniste solo le deliziose, splendide, vivacissime Asuka e Mari, gli unici personaggi adolescenti del franchise dotati di spina dorsale e carisma, sarei molto più felice ma, che ci volete fare, tutto il cucuzzaro è nato come percorso di crescita sia per il vibrione Shinji che per il povero Anno, il quale nel frattempo è riuscito a liberarsi dalla depressione, e si vede.


Finalmente, infatti, nel quarto capitolo della serie si riesce a scorgere un afflato di speranza, la possibilità che la "normale", imperfetta umanità riesca a compiere un miracolo confidando in quella forza d'animo che spesso siamo tentati di ignorare, sopraffatti dalla paura, dall'incertezza, dall'odio e dall'egoismo; troppo facile desiderare di cancellare tutto, oppure di evitare il cambiamento perché "il passato era meglio", ancora più facile lasciarsi cullare dal dolore e sperare che qualcun altro possa fare il lavoro sporco per noi trincerandoci dietro la paura di crescere e assumerci le nostre responsabilità. Certo, amici e famiglia, ce lo dice lo stesso Anno, sono indispensabili, ma noi per primi dobbiamo costruire per loro un ambiente accogliente che li "convinca" a voler restare con noi e a darci una mano nei momenti di difficoltà, altrimenti il rischio è quello di rimanere per sempre soli, disperati e prede di un'oscurità che rischia di farci compiere errori ancora peggiori. Lungi da me apprezzare al 100% il finale deciso da Anno, ovviamente, nonostante la splendida idea di far confluire la realtà con la fantasia e "liberare", idealmente, i suoi bambini nel mondo (nella sua città natale, addirittura, se non ho inteso male). Il concetto di fondo è splendido quanto le animazioni e un paio di sequenze mozzafiato di cui parlerò tra poco, ma affidare tanto splendore e gioia di vivere a Shinji, che meritava soltanto sputi in faccia ed ignominia (ma mai, in effetti, quanto le due pazze isteriche Sakura e Midori, che nei panni di Misato avrei appeso all'arca lasciandole alla mercé di qualunque Eva pronto a sventrarle e mangiarle), mi è parso un po' esagerato nonché svilente per la povera Mari, la quale peraltro si porterà "nella tomba" parecchi misteri, mannaggia a lei.


Ma chissene di Shinji, via. Alla fine Evangelion è, ed è sempre stato, una gioia per gli occhi e per il cuore, zeppo di scelte coraggiose a livello di animazioni e regia, e anche Thrice upon a time non delude sotto questi aspetti. Come già nei due capitoli precedenti, ogni battaglia di Mari è un capolavoro di azione e colori, accompagnata da una colonna sonora tra l'esaltante e il solenne, e i momenti visionari della seconda parte, con l'enorme (inquietantissima, porca miseria!) testa di Rei a spiccare su realtà completamente stravolte e incubi semoventi, si sprecano. Ciò detto, nel mio cuore probabilmente resterà il progressivo smantellamento dell'opera "Evangelion", nemmeno ci si trovasse dentro un set giunto infine all'ultima rappresentazione teatrale, con tutti gli ambienti più iconici dell'anime fatti a pezzi dalla battaglia tra i due Ikari, assieme, nemmeno a dirlo, agli innumerevoli guizzi horror di cui l'opera di Anno fortunatamente non è mai priva. Che io non sia una superfan della saga è innegabile, perché nonostante sia arrivata alla fine di Thrice Upon a Time provata ed emozionata, non si è mai formato in gola quel magone che avrei sperato davanti ai mille momenti drammatici e persino teneri di cui è infarcito quest'ultimo capitolo, ma sono grata ad Anno per aver creato questo capolavoro di animazione capace di sorprendere ancora oggi dopo 26 anni da quel primo episodio in cui "cane bastonato" Shinji si infilava nel terrificante Eva sotto l'ancor più terrificante sguardo di Gendo "Padre dell'anno" Ikari. Adesso auguro al buon Hideaki di guardare avanti, di crescere ed essere libero dalla sua creatura più famosa e complessa, abbracciando tutta la felicità che merita!


Del co-regista e sceneggiatore Hideaki Anno ho già parlato qui.



Il film è il completamento della Rebuild of Evangelion che comprende Evangelion: You are (not) alone, Evangelion: You can (not) advance ed Evangelion: 3.0 You Can (not) Redo , ai quali consiglierei di aggiungere, se non l'avete mai vista, la serie Neon Genesis Evangelion. ENJOY!!

 

venerdì 20 agosto 2021

Blood Red Sky (2021)

Anche l 'estate di Netflix, oltre a quella di Shudder, regala qualche gioia. Non siamo ovviamente ai livelli degli horror recenti di Netflix, ma Blood Red Sky, per esempio, diretto e co-sceneggiato dal regista Peter Thorwarth, non mi è dispiaciuto affatto.


Trama: una donna, in volo assieme a suo figlio perché diretta verso una clinica che potrà curarla da una rara malattia, si ritrova a dover gestire un attacco terroristico dalle diramazioni inaspettate...


Blood Red Sky
è uno di quei film che non bisognerebbe spoilerare ma che purtroppo viene spoilerato già da Netflix nelle anticipazioni fotografiche e testuali, quindi diciamo che proverò a non essere troppo esplicita, tanto si spera l'abbiate già visto. In caso, contrario, andate, guardatelo e tornate qui. Fatto? Occhei. Blood Red Sky è, in pratica, Snakes on a Plane con il 90% di motherfuckers e di umorismo trucido in meno e coi vampiri al posto dei serpenti, ovvero un thriller horror sufficientemente claustrofobico proprio in virtù del suo essere ambientato in una scatoletta di metallo (grande quanto volete ma pur sempre scatola è) sospesa in aria, all'interno della quale al primo accenno di problema subentrano grandissimi ca**i per i passeggeri. Il grandissimo ca**o, si capisce già dalle prime scene, per la protagonista è già rappresentato dal volo in sé: la malattia incurabile dalla quale deve essere guarita è infattamente il vampirismo, e non siamo tutti Cassidy in Preacher, il rischio di venire trasformati in cenere da una virata troppo esposta al sole è tangibile, ovviamente. In più, la protagonista ha anche un altro grandissimo problema, ovvero quello di fare sempre più fatica a tenere a bada la sua natura di non morta grazie a un siero recuperato non vi dico dove, che è un po' l'unico vero WTF del film (sì, c'è anche il momento in cui il figlio non viene risucchiato da un portellone aperto grande come una casa quando mezz'ora prima l'esplosione di un finestrino fa più danni che il colera, ma non starei a spaccare il capello), quindi anche un volo di otto/nove ore, per quanto diretto, non è proprio una passeggiata. Infine, come cinguetta da mesi Orietta Berti, "hai risolto un bel problema/e va bene così/ ma poi te ne restano mille" e il millesimo problema, in questo caso, sono terroristi che scelgono di dirottare l'aereo, uno dei quali è ovviamente uno psicopatico dal grilletto facilissimo che innescherà un delirio senza fine. 


Il primo punto di forza di Blood Red Sky è dunque questa trama sicuramente particolare, che i realizzatori riescono a non sfilacciare troppo nonostante l'incredibile durata del film (due ore e fischia, per un action horror, rischiano di essere illegali) sia pompata da flashback, dilemmi filosofici e una cornice fatta di increduli militari che minacciano di fare ancor più casino, e direi che anche il ritmo si mantiene alto dall'inizio alla fine: ovviamente, gli sceneggiatori giocano al rialzo e, ad ogni minuto che passa, alla situazione già complessa si aggiungono ulteriori elementi di disturbo/delirio e se si sceglie di stare al gioco il risultato è quello di guardare un film divertentissimo per una serata estiva. Altro punto di forza del film è un bel make-up vampirico, debitore di un look alla Nosferatu che priva i non morti di qualsivoglia tipo di fascino, rendendoli dei mostri senz'anima (o quasi) più animali che esseri umani, incarnazioni stesse del Male incontrollato e incontrollabile, e per fortuna ci sono un paio di attori tra quelli teutonici (la protagonista Peri Baumeister è dura e materna quanto basta e l'overacting di Alexander Scheer è molto gradevole anche se qualcuno dovrebbe ricordargli che no, non è Udo Kier e nemmeno Kinski) che riescono a non dare quella sensazione che spesso provo davanti ai film tedeschi, ovvero quella di stare guardando un episodio de Il commissario Rex o Squadra Speciale Cobra 11. Sicuramente, questa volta la Germania batte gli immigrati Dominic Purcell e Graham McTavish, che passano e vanno senza nemmeno lasciare un vago ricordo. Voi invece, se leggete questo post, ricordatevene e date una chance a Blood Red Sky, ché l'estate rimarrà ancora un po' con noi e per i filmoni in sala di metà settembre c'è ancora da aspettare. 


Di Dominic Purcell (Berg) e Graham McTavish (Colonnello Alan Drummond) ho già parlato ai rispettivi link.

Peter Thorwarth è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Tedesco, come regista non conosco nemmeno uno dei suoi altri film ma come sceneggiatore ha scritto L'onda. Anche attore e produttore, ha 50 anni. 



mercoledì 18 agosto 2021

Old (2021)

E' uscito il 21 luglio. Con la lacrima nell'occhio (grazie, autostrade liguri maledette, grazie!) ho dovuto aspettare fino al 12 agosto per vedere uno dei film che mi fomentavano di più quest'anno, ovvero Old di M. Night Shyamalan. A sapere che era così mi sarei risparmiata una notevole dose di bestemmie d'attesa...


Trama: durante una vacanza in un resort, un gruppo di persone finisce su una spiaggia dove il tempo scorre a una velocità maggiore, condannando tutti a una vecchiaia precoce o peggio...


Niente, Shyamalan non ce l'ha fatta. Dopo la bellezza di TRE film non dico splendidi ma comunque molto gradevoli, doveva per forza tornare alla pellicola pseudo-filosofica di alto concetto, perché accontentarsi di qualcosa di più terra terra faceva brutto. E così, il buon Shyamalan ci ha scodellato Old, ovvero un dito puntato contro lo spettatore e la società travestito da film "horror", dove non esistono personaggi profondi o interessanti bensì delle idee, dei concetti con sembianze umane ai quali vengono messi in bocca i dialoghi peggiori sentiti quest'anno. Chi mi conosce sa quanto io abbia odiato Lady in the Water e quell'altra cretinata con la natura frugnante di E venga il giorno; bene, Old è meno peggio di questi due orrori, ma purtroppo soffre della stessa antipatia congenita e degli stessi personaggi ai quali è impossibile affezionarsi perché, Cristo, non sono realistici, sono lì per mostrarci quanto intelligente è Shyamalan e quanto universali sono gli archetipi che essi incarnano. Prendete, per esempio, la famigliola protagonista. Il padre è buono ma freddo, l'incarnazione dell'umanità ormai troppo legata a numeri e statistiche, incapace di guardare al presente, sempre pronta a razionalizzare e controllare il futuro. Anche la mamma è buona ma fredda, però lei (ah-aH!!) si occupa di un museo ed è terrorizzata dall'idea di finire, un giorno, come i corpi senza nome che popolano le teche da lei curate, quindi di base è comunque impegnata a guardare al passato. E' giusto il contrappasso, per questa famigliola allo sfascio, all'interno della quale i genitori stanno per separarsi senza pensare ai figli, che papà e mamma vengano privati della gioia di vedere crescere i due pargoli, ritrovandoseli già oltre l'adolescenza e alle prese con i traumi più grandi della loro vita; è l'unico modo, ovviamente, per innescare una riflessione sul senso dell'esistenza, e sulla necessità di godersi il presente, ma fosse finita lì. Sull'isola si ritrovano (per un motivo che è un'ALTRA critica, però a qualcosa di più tangibile e terrificante) altre persone ognuna presa per incarnare un grande difetto dell'umanità odierna e sono sicura che, agli occhi di Shyamalan, vedere questi personaggi confrontarsi avrebbe dovuto essere un esercizio filosofico altissimo, mentre io so solo che, spesso, scoppiavo in risate incontrollabili.


Mettiamo da parte per un momento le sequenze più "cringesilaranti" dell'intera pellicola (tutte o quasi caricate sulle spalle di Alex Wolff, almeno finché non sopraggiunge quello che voleva sicuramente essere un commoventissimo pre-finale che però a me ha fatto l'effetto Pryor/Wilder, ma menzionerei anche, e con onore, le conseguenze della mancanza di calcio, che Cristo ma nemmeno Robert Englund alla fine di The Mangler, guarda) e soffermiamoci sul fatto che ogni maledetto ospite dell'isola sviscera i suoi problemi e si confronta coi compagni nemmeno si trovasse in uno studio psichiatrico, soffermiamoci sul fatto che, anche quando non hanno un interlocutore, questi trovano comunque il modo di fare dei monologhi sul senso (secondo loro) della vita, soffermiamoci sul fatto che, a un certo punto, la PSICOLOGA (ebbene sì, ce n'è una) chiede ESPLICITAMENTE di fare della terapia di gruppo e infine chiediamoci perché dovremmo prendere seriamente un film simile. Soprattutto, vorrei che qualcuno mi spiegasse perché ad affiancare la palese, didascalica serietà con cui Shyamalan ci scodella i suoi concetti enormi, il buon Manoj Nelliyattu ci piazzi sempre delle puttanate col botto (SPOILER: Ma sta cretinata del neonato che muore perché non è stato curato per 30 secondi? Allora, in quell'isola non c'è nessuno a cui venga la piorrea dopo anni passati a non curarsi i denti, nessuno deperisce per la mancanza di cibo, Prisca non muore per setticemia dopo un'operazione chirurgica effettuata in mezzo alla sabbia, con la ferita tenuta aperta da gente con le mani probabilmente ricoperte di invisibili granelli, i responsabili della struttura non hanno mai pensato di far saltare in aria la barriera corallina che è l'unico handicap del luogo, i bambini invecchiano mentalmente come se avessero vissuto anni di esperienze quando invece avrebbero dovuto rimanere infanti nel corpo di adulti e infine, restando in tema corpo, in mancanza di attività fisica i tessuti muscolari e polmonari avrebbero dovuto collassare invece Kara diventa Manolo mentre a Trent e Maddox crescono praticamente le branchie... e per trenta secondi del piffero il neonato muore? Ma per favore), tanto che persino gli attori a me sono sembrati molto spaesati e perplessi. Poi per carità, bella la regia, ottima la gestione della suspance, perfette alcune sequenze che mi hanno rivoltato lo stomaco, ma in definitiva Shyamalan ha di nuovo lasciato il posto a quell'antipatico spocchioso di Shyabadà e io non posso che augurargli di finire recantato in un'isola deserta finché non si sarà di nuovo deciso a rinsavire. 


Del regista e co-sceneggiatore M.Night Shyamalan, che interpreta anche l'autista dell'hotel, ho già parlato QUI. Gael Garcia Bernal (Guy), Vicky Krieps (Prisca), Rufus Sewell (Charles), Alex Wolff (Trent a 15 anni), Abbey Lee (Chrystal), Ken Leung (Jarin), Embeth Davidtz (Maddox adulta) e Francesca Eastwood (Madrid) li trovate invece ai rispettivi link. 

Eliza Scanlen interpreta Kara a 15 anni. Australiana, la ricordo per film come Piccole donne e Le strade del male, inoltre ha partecipato a serie come Home & Away. Anche regista e sceneggiatrice, ha 22 anni. 


Old
è tratto dal graphic novel Castello di sabbia di Frederik Peeters e Pierre Oscar Lévy, ovviamente privo della maggior parte degli spiegoni e delle cretinate che inficiano il film di Shyamalan, quindi forse sarebbe meglio recuperare quello invece che andare al cinema. ENJOY! 


martedì 17 agosto 2021

The Suicide Squad - Missione suicida (2021)

Quale modo migliore per festeggiare la riapertura del multisala di Savona se non andando a vedere The Suicide Squad - Missione suicida (The Suicide Squad), diretto e sceneggiato dal regista James Gunn?


Trama: il governo americano riunisce la squadra di antieroi nota come Suicide Squad per recuperare una pericolosissima arma da un piccolo paese del Sud America...


Suicide Squad
è il miglior esempio di quello che potrebbe succedere al cinema seriale se gli Autori venissero lasciati liberi di fare gli Autori e se coordinatori/produttori/deus ex machina assortiti non si mettessero in mezzo alle palle cercando di uniformare ogni cosa e modificarla per renderla più a misura di bambino. Messo accanto a quella cacca fumante che era Suicide Squad di Ayer diventa anche un meraviglioso esempio di come fare un film senza sbagliare casting, sceneggiatura, tempistiche ed inquadrature, ché se hai un branco di fuorilegge senza pietà non puoi buttare lì Will Smith che non ammazza perché poi la figlia piange, né fare del culo di Margot Robbie l'highlight di una storia noiosissima che nessuno mai ricorderà. Ma d'altronde, non è che tutti possono essere James Gunn, anche perché sarebbero buoni tutti a fare il film cazzone senza capo né coda, magari trasformando il tutto in un infinita serie di siparietti dedicati a personaggi che ammazzano male le persone e fanno a gara a chi è più sgradevole e pazzo. Ci vuole equilibrio anche nella follia, un minimo di cuore, la gioia di infilare in un prodotto di mero intrattenimento tutta una serie di cose palesemente amate dal regista e sceneggiatore amalgamandole alla perfezione col materiale di partenza, la lucidità di prendere tutto quello che non andava nel primo Suicide Squad (con tutto che Ayer è stato ringraziato nei titoli di coda) e di mandarlo al diavolo col sorriso sulle labbra, tirando delle croci rosse talmente evidenti che ad ogni stortura raddrizzata non potevo fare altro che ringraziare. E così, ecco che il film più divertente dell'estate è un Suicide Squad meets Slither (tanto la Troma l'avete già citata tutti, quindi ne faccio a meno) con "delicatissimi" tocchi di Quella casa nel bosco ed echi di Garth Ennis, all'interno del quale ogni cliché del cinema di supereroi viene smontato con una risata o ricoperto da laghi di sangue e dove non solo i personaggi principali, ma persino quelli secondari non fanno quello che ci si aspetterebbe da loro, col risultato di far perdere completamente la cognizione del tempo dello spettatore, perché non direste mai che il film duri più di due ore. 


Suicide Squad
sorprende fin dai primi dieci minuti, davanti ai quali vi sfido (ovvio, se siete come me che non guardo più i trailer) a non rimanere con la mascella slogata e anche un po' con la lacrima nell'occhio davanti a uno Shyamalan twist tra i più scioccanti della storia dei cinecomic "seri" e continua con l'asticella dell'assurdo e del sangue posta sempre più in alto, dribblando agilmente il sapore finto di alcuni momenti strappalacrime grazie alla presenza di personaggi comunque ben caratterizzati dei quali arriva ad importarci se finiranno morti malissimo o meno, anche nel caso in cui non abbiate idea di quali siano le loro controparti cartacee, com'è successo a me. A differenza di Ayer, Gunn riesce a ritagliare ad ognuno dei suoi antieroi lo spazio necessario per esprimere la propria personalità e per integrarsi nella trama generale del film, preferendo talvolta lasciare parlare solo i "fatti", senza ricorrere a imbarazzanti dialoghi, magari con personaggi secondari utilizzati solo per definire meglio quelli principali, e soprattutto li mette di fronte non solo a una minaccia schifosetta e terribile, ma anche al marciume presente all'interno dell'intelligence USA: in questo caso, non si tratta di diventare buoni perché gli avversari sono più cattivi, ma di procedere come schiacciasassi per raggiungere l'obiettivo che si è prefissati, anche se magari non coincide con quello di partenza, e di scrollarsi di dosso casualties innocenti come farebbe un'anatra con l'acqua, dando di gomito allo spettatore grazie ad abbondanti dosi di umorismo nero.


Ci sarebbero poi da scrivere righe intere sullo stile di Gunn, ovviamente, sul profumo di B-Movie che la patina glamour dei grandi nomi e dei bellissimi effetti speciali non riesce a nascondere del tutto, ma anche sulla raffinatezza con cui, per esempio, uno dei confronti più importanti del film viene mostrato riflesso su un lucidissimo elmo (abbandonato per un motivo ben preciso) invece che inquadrato direttamente. Eredi diretti dei b-movie sono in primis Starro, colorato ed esageratissimo eppure lo stesso capace di fare rabbrividire per il terribile destino riservato alle sue vittime, ma in generale tutto lo stuolo di "cattivi" lo è, popolato com'è di personaggi che non avrebbero affatto sfigurato in un action anni '80 fatto di militari spietati, ribelli sudaticci e Paesi dai nomi inventati; l'intera sequenza in cui Bloodsport e soci si addentrano nella giungla mentre lui e Peacemaker si sfidano con omicidi sempre più elaborati avrebbe fatto invidia sì a Schwarzenegger e Stallone ma soprattutto ai più trash Norris, Seagal e Van Damme, mentre il presidente belloccio "col mostro tra le gambe" è l'ennesimo sbeffeggiamento a quel genere di boss finali che nei vecchi film di cassetta avrebbe messo in scacco i nostri eroi nell'ultimo confronto prima di venire brutalmente sconfitto. E non vogliamo parlare dei membri della Suicide Squad? Uno più esilarante e interessante dell'altro, tutti in grado di non sfigurare davanti all'ormai "solita" Harley Queen, con Idris Elba che calcioruota fino allo spazio siderale quel mollusco di Will Smith e Polka-Dot Man che, assieme alla sua mamma, diventa il personaggio più adorabile di tutto il film, degnamente accompagnati dai "soliti" caratteristi che ormai Gunn si porta giustamente dietro ovunque e da un paio di new entries deliziose, tra le quali la carinissima Ratcatcher 2, lenta a rapire il cuore dello spettatore ma capacissima di non lasciarlo più andare. Voto dieci allo splatter esagerato e alla bella colonna sonora (la vittoria spetta alla nenia à la Rosemary's Baby che accompagna la visita all'acquario del meraviglioso King Shark e che, onestamente, avrei detto appartenere a qualche horror anni '70  mentre invece è stata composta per il film) mentre se dovessi per forza trovare un difetto segnerei un paio di forzatissimi e ridicoli dialoghi a base di volgarità assortite e poi SPOILER macheccazzovipareilcasodifaremorirecosìMichaelRookerlWeaselBoomermaddaiporcoddue! FINESPOILER Molto poco per non richiedere a gran voce James Gunn dietro ad ogni singolo film DC da ora e per sempre. 


Del regista e sceneggiatore James Gunn ho già parlato QUI. Michael Rooker (Savant), Viola Davis (Amanda Waller), Nathan Fillion (T.D.K.), Sean Gunn (Weasel/Calendar Man), Margot Robbie (Harley Quinn), Idris Elba (Bloodsport), David Dastmalchian (Polka-Dot Man), Sylvester Stallone (voce originale di King Shark), Alice Braga (Sol Soria), Peter Capaldi (Thinker) e Taika Waititi (Ratcatcher) li trovate invece ai rispettivi link. 

Joel Kinnaman interpreta Rick Flag. Svedese, ha partecipato a film come Millenium - Uomini che odiano le donne e Suicide Squad. Ha 42 anni. 


John Cena
, star della WWE, tornerà nei panni di Peacemaker in una serie che dovrebbe uscire su HBO Max l'anno prossimo; tra l'altro, Gunn avrebbe voluto Bautista al suo posto, ma l'attore aveva già detto sì a Snyder e al "meraviglioso" Army of the Dead. Tra le guest star segnalo la "mantide" Pom Klementieff, che si vede ballare all'interno de La Gatita Amable, e il patron della Troma, il mitico Lloyd Kaufman, anche lui tra gli avventori de La Gatita Amable ma anche presente in un'altra scena. Se The Suicide Squad - Missione suicida vi fosse piaciuto vi Sconsiglio il recupero di Suicide Squad, piuttosto date una chance a Birds of Prey e la fantasmagorica rinascita di Harley Quinn e, ovviamente, anche a Guardiani della Galassia e Guardiani della Galassia vol. 2. ENJOY!

venerdì 13 agosto 2021

The Boy Behind the Door (2020)

L'avrei recuperato comunque per la Summer of Chills di Shudder ma poi Lucia ne ha parlato così bene che è schizzato in cima alla pole position delle visioni. Sto parlando di The Boy Behind the Door, diretto e sceneggiato nel 2020 dai registi David Charbonier e Justin Powell.


Trama: due bambini vengono rapiti e devono tentare di sopravvivere all'esperienza più orribile della loro vita.


Succede spesso, nell'horror ma in generale un po' in tutto il cinema per ragazzi, che i bambini protagonisti abbiano qualcosa che li rende speciali anche quando sono un po' sfigatelli, salvo quando i non sono proprio dei geni in erba o dei piccoli Chuck Norris, e ci sono ben poche eccezioni a questa regola. Esempio recente è Stranger Things, dove su sei protagonisti una ha i superpoteri, un altro poteri derivati dall'esperienza con il demogorgone, un altro sarà anche incredibilmente sfigato ma è comunque un maghetto della tecnologia. Sono pochi i film in cui i personaggi principali sono normalissimi ragazzini che potremmo incontrare per strada, non nerd e miserabili né splendidi ed infallibili, ancor meno sono le pellicole in cui, di fronte a situazioni pericolosissime e assurde, gli atteggiamenti di questi ragazzi sono realistici e comprensibili. In The Boy Behind the Door, invece, c'è una scena splendida, in cui uno dei due protagonisti piange dal trauma e dal disgusto dopo aver fatto quello che, in altri film, sarebbe stato semplicemente un normalissimo step per liberarsi da una situazione atroce; quello stesso bambino, spesso, piange per le implicazioni di orribili scoperte che lasciano agghiacciati noi spettatori e che, in una maniera incredibilmente raffinata, David Charbonier e Justin Powell non ci sbattono in faccia come farebbe qualunque regista desideroso di scioccare e sconvolgere. Non lo fanno perché non serve, ovviamente. La storia di Bobby e Kevin, due bambini normalissimi che, alla vigilia di una partita, vengono rapiti e portati in una casa (Bobby lasciato chiuso nel cofano di una macchina a morire, Kevin legato in una stanza), è già ansiogena e terribile senza dover indulgere in sequenze "pornografiche", provoca già ansia e sofferenza così com'è girata, con tutto ciò che di doloroso (fisicamente e mentalmente) viene gettato addosso ai due amici tenendo sempre ben presente un'asticella da non superare mai, per non indulgere in un inutile voyeurismo.


Ai registi bastano una brevissima introduzione per farci innamorare di Bobby e Kevin e convincerci della verosimiglianza di un legame di amicizia totalizzante e salvifico, così che quello che segue fa ancora più male: intere sequenze in cui Bobby, come un topolino, cerca di liberare Kevin e di sopravvivere stando ben attento a non farsi vedere (come ho detto su, non ci sono piccoli Rambo; quando la morte arriva, arriva quasi per caso) all'interno di una casa buia, piena di anfratti e porte chiuse da chiavi introvabili alimentano un odio crescente verso il rapitore, mentre le inquadrature "imprecise" che ci mostrano squarci del suo sembiante sono un altro esempio della raffinatezza di David Charbonier e Justin Powell, i quali "giocano" con le nostre convinzioni e percezioni, portandoci ancor più ad agitarci sulla poltrona. Quando, verso la metà, la rivelazione di The Boy Behind the Door deflagra, trascinando il film in territori ancora più horror (e citazionisti, perché no?) e inserendo un elemento quasi surreale, la tensione e il disgusto non vengono meno ma c'è anche tutto il tempo di commuoversi e di lasciare che il cuore venga rapito dalla bellezza e dalla dolcezza di Lonnie Chavis ed Ezra Dewey, due giovani attori di una bravura incredibile ai quali auguro una lunga e fulgida carriera. Altro non aggiungo perché The Boy Behind the Door è pieno di sorprese da scoprire. Cercatelo e guardatelo, perché al momento è il frutto più bello di questa estate horror!

David Charbonier e Justin Powell sono i registi e sceneggiatori della pellicola. Americani, anche produttori, hanno diretto The Djinn.


Ezra Dewey
, che interpreta Kevin, è tornato a collaborare coi due registi in The Djinn, che vorrei vedere a brevissimo. Nell'attesa, se The Boy Behind the Door vi fosse piaciuto, recuperate La casa nera. ENJOY!


martedì 10 agosto 2021

Till Death (2021)

La favolosa combinazione Letterboxd/Lucia colpisce ancora e mi ha portata a guardare Till Death, diretto dal regista S.K. Dale.


Trama: una donna si ritrova ammanettata al marito morto e deve sopravvivere non solo al gelo che circonda la loro casa ma anche a degli ospiti imprevisti...


Che sgnoccolona, Megan Fox. Non la rivedevo sullo schermo dai tempi di Jennifer's Body, quindi ormai sono passati più di 10 anni, eppure se riguardo le foto che ho fatto IO 10 anni fa, ora sembro una vecchia catananna, mentre lei è sempre uguale. Anzi, se vogliamo è ancora più gnocca di prima, soprattutto da metà film in poi, quando arriva ad indossare una camicia oversize insanguinata su pantaloni anch'essi oversize e a sembrare pronta per una sfilata di moda (non che a inizio film non sia gnocca, ma col trucco perfetto, l'abito da sera e le Louboutin FORSE sarei passabile persino io. Va detto che mi piacerebbe conoscere la marca dei cosmetici utilizzati visto che il suo personaggio, nonostante tutto, arriva a fine pellicola con sopracciglia definite, ciglia lunghissime, zigomi e tratti somatici scolpiti da bronzer, illuminante e blush e persino con le labbra pittate di gloss brillante, messo, per inciso, un istante prima di andare a dormire, così da svegliarsi già pronta al mattino). Ciò detto, Megan Fox fa venire il nervoso perché non solo è incredibilmente sgnacchera, ma lo scazzo e il (giusto) odio verso il genere umano che infonde nell'interpretazione di Emma la rende anche cazzutissima, una perfetta final girl capace di sopravvivere con la sola forza del disprezzo e a fare cose per cui io avrei già lasciato che mi uccidessero dopo due minuti, ché ci ha voglia di sbattersi al freddo e al gelo? Non io di sicuro.


Avrete già capito che è la signora Fox ad elevare il film, che già nasce come un dinamico esempio di thriller assai violento dove il protagonista è costretto a sopravvivere a una situazione incresciosa con un handicap non da poco, in questo caso una situazione di partenza che ricorda molto quella de Il gioco di Gerald. A differenza di Jessie Burlingame, Emma non è bloccata a letto quindi Till Death diventa un survival molto più fisico e dinamico, nel quale la protagonista non ha tempo di indulgere in allucinazioni e riflessioni, anche perché i pericoli sono molteplici e a un certo punto il fatto di essere bloccata in casa seminuda, senza cibo, riscaldamento e cellulare, con l'aggravante di non potersi allontanare se non a piedi (nudi) e nel bel mezzo della neve, diventa quasi un problema secondario davanti a questioni ben più pressanti. Come spesso accade per questo genere di film, alcune situazioni sono al limite dell'inverosimile, ovviamente, ma una volta accettato il tacito patto di "fede" tra realizzatori e spettatori si ha la possibilità di godersi uno spettacolo che intrattiene per tutta la sua breve durata, senza neppure un minuto morto, con dei bravi attori (c'è persino il figlio di Tim Roth!) e alcune sequenze davvero d'impatto e abbastanza ansiogene, il che rende Till Death perfetto per una calda serata estiva all'insegna del divertimento. A proposito, non guardatelo d'inverno se siete freddolosi come me, io vi ho avvertiti!


Di Megan Fox, che interpreta Emma, ho già parlato QUI.

S.K. Dale è il regista della pellicola, al suo primo lungometraggio. E' anche produttore e sceneggiatore. 


Callan Mulvey
interpreta Bobby Ray. Neozelandese, ha partecipato a film come The Hunter, Zero Dark Thirty, Captain America: The Winter Soldier, Avengers: Endgame,Shadow in the Cloud e a serie quali Home and Away. Anche stuntman, ha 46 anni.


Jack Roth
interpreta Jimmy. Inglese, figlio di Tim Roth, ha partecipato a film come Brimstone, Rogue One: A Star Wars Story, L'uomo di neve, Bohemian Rhapsody e a serie quali Il trono di spade. Ha 37 anni. 


Se Till Death vi fosse piaciuto recuperate Il gioco di Gerald e Run. ENJOY!

venerdì 6 agosto 2021

Son (2021)

Altro pezzo della Summer of Chills di Shudder, questo interessante Son, diretto e sceneggiato dal regista Ivan Kavanagh.



Trama: la vita di Laura e del figlioletto scorre serena finché, un giorno, il bambino non viene colpito da una malattia inspiegabile, legata al terribile passato della madre...


Nell'anno del Signore 2021 sono ben pochi gli argomenti non ancora trattati dagli horror, e ancora meno le opere che possano definirsi originali, quindi ultimamente valuto il valore dei singoli film in base al modo in cui "rimaneggiano" cliché ormai consolidati. Nel caso di Son, l'argomento trattato è tra i più abusati all'interno del genere, ovvero la nascita di un piccolo, simpaticissimo Anticristo. Solitamente, mi vengono in mente per esempio Rosemary oppure la signora Thorn, le mamme di detti pargoletti non sono proprio consapevoli di quello che hanno messo al mondo (sì, ok, Rosemary lo scopre non molto tempo dopo mentre la signora Thorn il suo lo ha adottato, quindi forse ho scelto dei cattivi esempi) e proseguono a vivere in lieta ignoranza finché il pikkolo anCielo non comincia a smattare o portare sfiga, mentre nel caso della protagonista di Son la questione è leggermente diversa; nonostante un pesante ciclo di cure psichiatriche che l'hanno portata a dimenticare, Laura sa cos'ha partorito, almeno inconsciamente, e vive aspettando la spada di Damocle che, prima o poi, le cadrà sulla testa, attesa dal momento in cui è fuggita dal culto che la teneva prigioniera. Questa consapevolezza si unisce ad una scelta particolare per quanto riguarda la manifestazione del "male" presente nel piccolo David, che non si esprime attraverso i soliti poteri atti a portare alla morte quanti sospettano della sua natura, bensì attraverso una malattia che rischia di uccidere il bambino, curabile in un solo, terrificante modo.


Zeppo di momenti gore e dotato di alcune sequenze che mettono davvero paura, Son si prende comunque tutto il tempo di approfondire la psicologia di Laura e il suo tentativo di liberarsi da un passato di violenze, sopraffazioni e orribili misteri cercando di preservare un figlio inizialmente non voluto, creandogli attorno la migliore delle atmosfere possibili; Laura cerca in ogni modo di evitare il dolore a David, di consentirgli di vivere come un bambino normale, anche se questo significa rinunciare ogni volta a pezzi della propria anima, ed è per questo che lo spettatore (anche grazie alla bravura di Andi Matichak) arriva a volere bene a Laura e a tifare sia per lei che per il suo dannato pargolo, soprattutto in quel pre-finale che svela il 90% delle carte in tavola (un 10%  viene lasciato per l'ultimo, bastardissimo twist) e cancella una volta per tutte l'incertezza tra realtà e illusione, tra i deliri di una mente fragile e riti capaci di provocare davvero la fine del mondo. Tutti questi elementi, ne sono ben consapevole e lo ripeto, sono presenti in mille altri film simili a Son (ed è per questo che David non conquisterà mai un posto accanto a Damien e agli altri suoi fratellini cinematografici), ciò nonostante credo che Ivan Kavanagh li abbia rimaneggiati molto bene, realizzando una pellicola capace di intrattenere ed interessare lo spettatore dall'inizio alla fine e a mettergli anche qualche brivido. Se riuscite a recuperarlo, ne consiglio la visione!


Di Emile Hirsch, che interpreta Paul, ho già parlato QUI.

Ivan Kavanagh è il regista e sceneggiatore della pellicola. Irlandese, ha diretto film come The Canal e Gli ultimi fuorilegge. E' anche produttore e compositore.


Andi Matichak
, che interpreta Laura, è la nipote di Laurie Strode negli ultimi Halloween. Se Son vi fosse piaciuto recuperate Il presagio, L'angelo del male - Brightburn , The Prodigy - Il figlio del male e Eli. ENJOY!

martedì 3 agosto 2021

Gunpowder Milkshake (2021)

Certe volte meglio non sapere le cose. Certe volte, meglio guardare film come Gunpowder Milkshake, diretto e co-sceneggiato dal regista Navot Papushado, disponibile su Amazon Prime Video, lasciandosi ispirare dalle locandine viste su Letterboxd e dalle attrici coinvolte, e più non dimandare.


Trama: una killer a pagamento scazza gli ultimi due lavori e viene condannata a morte dall'organizzazione per cui lavora...


Perché certe volte è meglio non sapere le cose, oltre ad avere la memoria di un criceto? Perché a me, per esempio, il nome Navot Papushado non diceva nulla e mi sono guardata Gunpowder Milkshake come fosse una parodia al femminile di John Wick diretta da qualche russo rincoglionito. Purtroppo poi tocca documentarsi prima di scrivere il post e si viene a scoprire che Papushado non solo non è russo, ma era uno dei registi e sceneggiatori di quel trionfo di Big Bad Wolves, rimanendoci conseguentemente male e aggiungendo punti di ignominia a una pellicola altrimenti innocua. Gunpowder Milkshake altro non è che un mix di tutte quelle pellicole "di menare" (mi perdonino i giovini de I400calci per il prestito linguistico) tamarre che vanno per la maggiore in questi ultimi anni; l'ispirazione principale è il già citato John Wick col suo world building fatto di assassini dotati di particolari rifugi/punti di rifornimento armi (là è la catena di hotel Continental, qui c'è una biblioteca) ma si possono aggiungere anche Atomica Bionda, Hotel Artemis, l'umorismo grossolano di Guns Akimbo, un po' di Léon, persino Charlie's Angels e Baby Driver, quest'ultimo citato in un paio di "vorrei ma non posso" fatto di morti in macchina e canzoni utilizzate come elementi costruttivi della trama più che come mero sfondo. Protagonista del film è una killer che ha seguito le orme della madre scomparsa e che, un giorno, si ritrova nel mirino della sua organizzazione dopo avere sbagliato ben due lavori; una simile situazione porta con sé tutto un codazzo di sparatorie, scontri corpo a corpo, rivelazioni e personaggi tra il cazzuto e l'assurdo, insomma tutti elementi che, normalmente, mi porterebbero a leccarmi le dita, ché sapete quanto adori le storie di killer al femminile che menano come fabbri ferrai (e qui ce ne sono ben quattro), ma che stavolta mi hanno lasciata spesso perplessa e annoiata.


Nonostante un paio di sequenze invero pregevoli, nella fattispecie quella all'interno dello studio medico, il combattimento multiplo in biblioteca e il piano sequenza al ralenti finale, i tempi morti di Gunpowder Milkshake sono infatti troppi, soprattutto all'inizio, quando gli sceneggiatori si preoccupano di mettere quintali di carne di seconda mano al fuoco e lasciarla lì, a friggere per "dopo". Di fatto, il film ingrana solo con la prima sequenza meritevole, la prima ad avermi portata a sorridere di approvazione anche dopo un paio di scene più splatter del normale (il vampiro che finisce impalato è notevole), dopodiché diventa poco più di un divertissement piacevole, se si riesce ad ignorare una generale aria di scopiazzatura che rende Gunpowder Milkshake un frullato insipido sia a livello di sceneggiatura che di regia che, nonostante il cast stellare, di attori, punto assai dolente. Io non so se il personaggio di Sam è stato volutamente scritto per essere inespressivo e distaccato, ma Baby e Léon avevano un contesto che li rendeva adorabili, mentre Sam spesso sembra solo vittima della svogliatezza di Karen Gillan e nemmeno affiancandole una bambina vivace ed espressiva la situazione migliora; addirittura, i nemici maschili non sono proprio pervenuti, in particolare i "boss di fine livello", tanto che l'unico a rimanere impresso è il sempre valido Michael Smiley, mentre va un po' meglio dalla parte femminile, dove, a parte Angela Basset che fa a gara di inespressività con la Gillan, ci sono Lena Headey, Michelle Yeoh e, soprattutto, la splendida Carla Cugino a tirare su la baracca. Visti i film precedenti di Papushado, Gunpowder Milkshake mi risulta una caduta di stile proprio perché vorrebbe credersela e averne a pacchi; certo, ho visto di molto peggio e non posso sconsigliarvi la visione del film, però è proprio a "lasciar correre" simili pellicole che tentano di dissimulare la mancanza di idee con un paio di trovate esagerate che lo stile di questo genere di film si appiattisce fino ad intristire gli appassionati. E io ora sono molto, molto triste. 


Del regista e co-sceneggiatore Navot Papushado ho già parlato QUI. Karen Gillan (Sam), Lena Headey (Scarlett), Paul Giamatti (Nathan), Ralph Ineson (Jim McAlester), Carla Cugino (Madeleine), Angela Bassett (Anna May), Michelle Yeoh (Florence) e Michael Smiley (Dr. Ricky) li trovate invece ai rispettivi link.


Se Gunpowder Milkshake vi fosse piaciuto aggiungete anche i due Kingsman oltre ai film citati nel post. ENJOY!