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martedì 3 agosto 2021

Gunpowder Milkshake (2021)

Certe volte meglio non sapere le cose. Certe volte, meglio guardare film come Gunpowder Milkshake, diretto e co-sceneggiato dal regista Navot Papushado, disponibile su Amazon Prime Video, lasciandosi ispirare dalle locandine viste su Letterboxd e dalle attrici coinvolte, e più non dimandare.


Trama: una killer a pagamento scazza gli ultimi due lavori e viene condannata a morte dall'organizzazione per cui lavora...


Perché certe volte è meglio non sapere le cose, oltre ad avere la memoria di un criceto? Perché a me, per esempio, il nome Navot Papushado non diceva nulla e mi sono guardata Gunpowder Milkshake come fosse una parodia al femminile di John Wick diretta da qualche russo rincoglionito. Purtroppo poi tocca documentarsi prima di scrivere il post e si viene a scoprire che Papushado non solo non è russo, ma era uno dei registi e sceneggiatori di quel trionfo di Big Bad Wolves, rimanendoci conseguentemente male e aggiungendo punti di ignominia a una pellicola altrimenti innocua. Gunpowder Milkshake altro non è che un mix di tutte quelle pellicole "di menare" (mi perdonino i giovini de I400calci per il prestito linguistico) tamarre che vanno per la maggiore in questi ultimi anni; l'ispirazione principale è il già citato John Wick col suo world building fatto di assassini dotati di particolari rifugi/punti di rifornimento armi (là è la catena di hotel Continental, qui c'è una biblioteca) ma si possono aggiungere anche Atomica Bionda, Hotel Artemis, l'umorismo grossolano di Guns Akimbo, un po' di Léon, persino Charlie's Angels e Baby Driver, quest'ultimo citato in un paio di "vorrei ma non posso" fatto di morti in macchina e canzoni utilizzate come elementi costruttivi della trama più che come mero sfondo. Protagonista del film è una killer che ha seguito le orme della madre scomparsa e che, un giorno, si ritrova nel mirino della sua organizzazione dopo avere sbagliato ben due lavori; una simile situazione porta con sé tutto un codazzo di sparatorie, scontri corpo a corpo, rivelazioni e personaggi tra il cazzuto e l'assurdo, insomma tutti elementi che, normalmente, mi porterebbero a leccarmi le dita, ché sapete quanto adori le storie di killer al femminile che menano come fabbri ferrai (e qui ce ne sono ben quattro), ma che stavolta mi hanno lasciata spesso perplessa e annoiata.


Nonostante un paio di sequenze invero pregevoli, nella fattispecie quella all'interno dello studio medico, il combattimento multiplo in biblioteca e il piano sequenza al ralenti finale, i tempi morti di Gunpowder Milkshake sono infatti troppi, soprattutto all'inizio, quando gli sceneggiatori si preoccupano di mettere quintali di carne di seconda mano al fuoco e lasciarla lì, a friggere per "dopo". Di fatto, il film ingrana solo con la prima sequenza meritevole, la prima ad avermi portata a sorridere di approvazione anche dopo un paio di scene più splatter del normale (il vampiro che finisce impalato è notevole), dopodiché diventa poco più di un divertissement piacevole, se si riesce ad ignorare una generale aria di scopiazzatura che rende Gunpowder Milkshake un frullato insipido sia a livello di sceneggiatura che di regia che, nonostante il cast stellare, di attori, punto assai dolente. Io non so se il personaggio di Sam è stato volutamente scritto per essere inespressivo e distaccato, ma Baby e Léon avevano un contesto che li rendeva adorabili, mentre Sam spesso sembra solo vittima della svogliatezza di Karen Gillan e nemmeno affiancandole una bambina vivace ed espressiva la situazione migliora; addirittura, i nemici maschili non sono proprio pervenuti, in particolare i "boss di fine livello", tanto che l'unico a rimanere impresso è il sempre valido Michael Smiley, mentre va un po' meglio dalla parte femminile, dove, a parte Angela Basset che fa a gara di inespressività con la Gillan, ci sono Lena Headey, Michelle Yeoh e, soprattutto, la splendida Carla Cugino a tirare su la baracca. Visti i film precedenti di Papushado, Gunpowder Milkshake mi risulta una caduta di stile proprio perché vorrebbe credersela e averne a pacchi; certo, ho visto di molto peggio e non posso sconsigliarvi la visione del film, però è proprio a "lasciar correre" simili pellicole che tentano di dissimulare la mancanza di idee con un paio di trovate esagerate che lo stile di questo genere di film si appiattisce fino ad intristire gli appassionati. E io ora sono molto, molto triste. 


Del regista e co-sceneggiatore Navot Papushado ho già parlato QUI. Karen Gillan (Sam), Lena Headey (Scarlett), Paul Giamatti (Nathan), Ralph Ineson (Jim McAlester), Carla Cugino (Madeleine), Angela Bassett (Anna May), Michelle Yeoh (Florence) e Michael Smiley (Dr. Ricky) li trovate invece ai rispettivi link.


Se Gunpowder Milkshake vi fosse piaciuto aggiungete anche i due Kingsman oltre ai film citati nel post. ENJOY!  

mercoledì 1 aprile 2020

Come to Daddy (2019)

Giorni in cui i cinema sono chiusi ma siccome c'è tanta roba da recuperare è bello anche stare a casa *rosic*. Così, in questi giorni ho guardato Come to Daddy, diretto nel 2019 dal regista Ant Timpson.


Trama: un ultratrentenne riceve una lettera dal padre che non vede dall'età di cinque anni e decide di accettare l'invito a raggiungerlo. Purtroppo, papà si rivela uno stronzo di prim'ordine...



Per riuscire a raggiungere le righe minime affinché questo risulti un post "normale", mi toccherà fare i salti mortali visto che il punto di forza di Come to Daddy è il non sapere. Quello che posso dire, per quanto riguarda la trama, è che il film di Ant Timpson è una commedia nerissima o una tragedia comica, all'interno della quale personaggi che non si vedono da decenni cominciano a sbroccare male. Il figlio dal nome improponibile, Norval, ha la faccetta stralunata di Elijah Wood, perfetta per un uomo che vive nella speranza che il padre fedifrago sia una brava persona, che magari possa aiutarlo a fare i conti con un passato di alcolismo, depressione e tentati suicidi, ma viene purtroppo accolto dal genitore con una cattiveria che ha dell'inverosimile, da un uomo rozzo, alcolizzato fin dal mattino e privo di parole che non siano di biasimo costante; Norval, poverello, lì per lì cercherebbe di sopportare, di abbozzare, di darsi un tono nonostante il suo lavoro di "artista" che se la crede, poi a un bel momento sbrocca anche lui, comprensibilmente. Da qui, lascio alla vostra immaginazione. Come to Daddy è un film che gioca molto di attesa e punta tutto su dialoghi e confronti, soprattutto nella prima parte, mentre nella seconda arriva a mescolare i registri, appropriandosi persino di elementi tipici del thriller horror, giusto per confondere un po' lo spettatore, scodellando inoltre una riga di personaggi talmente sopra le righe che al confronto il Windom Earle di Twin Peaks è un signorino posato.


Fior di caratteristi come Martin Donovan e Michael Smiley, soprattutto quest'ultimo, dominano la scena abbracciando con gioia l'atmosfera grottesca di Come to Daddy e il desiderio di "strano" che pare avere avvinto l'ex Frodo Baggins sia come attore che come produttore e verso la fine c'è anche la possibilità di godere di qualche scena pulp. D'altronde, benché sia al suo primo film come regista, Ant Timpson non è estraneo alle splatterate (ve ne accorgerete leggendo più sotto il suo excursus nel campo della produzione), ma oltre a questo ha un occhio non malvagio per la costruzione delle inquadrature e l'utilizzo delle luci artificiali e naturali e lo dimostra la bellezza di alcune sequenze, arricchite dalla scelta di un setting assai particolare, ovvero una casa a pianta rotonda montata su alte palafitte, a strapiombo su un lago (con buona pace dello smartphone d'oro di Lorde), che nasconde nei suoi meandri un sacco di luoghi misteriosi. Onestamente, aggiungere altro sarebbe un vero delitto, vi consiglio di recuperare Come to Daddy senza porvi troppe domande e godervelo per il film interessante e divertente che è, ringraziando il cielo che continuano ad esistere matti come Elijah Wood.


Di Elijah Wood (Norval Greenwood), Martin Donovan (Brian) e Michael Smiley (Jethro) ho già parlato ai rispettivi link.

Ant Timpson è il regista della pellicola. Neozelandese, è alla sua prima prova dietro la macchina da presa ed è conosciuto soprattutto come produttore (il suo nome è legato a film come The ABCs of Death e seguiti, Turbo Kid e Deathgasm). Anche sceneggiatore e attore, ha 54 anni.


Stephen McHattie interpreta Gordon. Canadese, ha partecipato a film come Beverly Hills Cop III, A History of Violence, 300, Watchmen, Pay the Ghost, Madre!, Il giustiziere della notte, Rabid e a serie quali Starsky & Hutch, Il tenente Kojak, Miami Vice, Ai confini della realtà, X-Files, Oltre i limiti, The Hunger, Walker Texas Ranger, Nikita, Detective Monk, The 4400 e The Strain. Anche regista e produttore, ha 73 anni e un film in uscita.


domenica 30 settembre 2018

The Nun: La vocazione del male (2018)

Mercoledì sono finita al cinema in una sala zeppa di ragazzetti imbelli a vedere The Nun: La vocazione del male (The Nun), diretto dal regista Colin Hardy.


Trama: dopo il suicidio di un suora, un prete e una novizia vengono mandati in un convento di clausura in Romania ad indagare. Scopriranno che il convento è infestato dalle forze del male...



Dopo essersi palesata in The Conjuring - Il caso Enfield in tutta la sua Marilynmansonica bruttezza, la suora demoniaca ha finalmente ottenuto un film tutto suo. Film che, nonostante l'abbondanza di momenti perplimenti, protagonisti mosci e jump scare prevedibilissimi, non è nemmeno male come avrei pensato, soprattutto in virtù di un setting molto affascinante che non si limita alle mere location esterne ma anche e soprattutto agli ambienti in cui si ritrovano a soffrire e fuggire i personaggi principali. Ma partiamo dai difetti, suvvia, anche perché essi sono concentrati essenzialmente a livello di trama e caratterizzazione dei personaggi, al punto che, forse, di tutti i film derivanti dall'universo creato da James Wan, The Nun è il più debole ed involontariamente ridicolo in questo senso. Padre Burke e Sorella Irene sono, infatti, la summa degli stereotipi dell'horror a tema religioso, partendo da L'esorcista fino ad arrivare a robette recenti come, che so, qualsiasi pellicola che nell'adattamento italiano si sia vista affibbiare un "del male" all'interno del titolo. Lui è l'esorcista top del Vaticano, colui che viene mandato dagli alti prelati a risolvere le beghe della Chiesa benché porti dentro di sé il dolore di non essere riuscito a salvare un pargolo dalla possessione demoniaca (pargolo che riciccerà fuori più volte nel corso della pellicola) mentre lei, nonostante sia ancora postulante e nemmeno novizia, viene scelta dal Vaticano perché dotata del dono della "vedenza". In pratica, i due dovrebbero essere, almeno sulla carta, il Superman e la Wonder Woman della Chiesa, peccato che il demone faccia fare ad entrambi (soprattutto al primo) delle figure da cioccolatai talmente grandi che spesso mi sono ritrovata vittima di facepalm compulsivi. Ad accompagnare i due allegri fringuelli, un ragazzotto francese dotato della funzione di spalla comica, l'occhio "esterno" e laico di cui in effetti non si sentiva il bisogno. Questo trio, all'erta e pieno di brio, si destreggia tra uno jump scare e l'altro, vagando per conventi, boschi e cimiteri infestati da suore malvagie e demoni assortiti prendendo ogni scelta sbagliata possibile ed immaginabile (si separano, seguono creature che sono palesemente demoni per poi lamentarsi se questi ultimi fanno brutte cose, ficcano il naso dove non devono, ecc. ecc.) fino all'inevitabile risoluzione finale che arriva a citare, attenzione, persino Il cavaliere del male, l'unica cosa che mi ha fatto saltare il cuore in petto, sì, ma di pura gioia.


Se i protagonisti sono sull'imbecille andante, la suora demoniaca non è da meno o, meglio, è un po' indecisa. Di base, se è vero che al demone serve un corpo per incarnarsi, non sarebbe opportuno possedere Irene invece di star tanto lì a menarsela con visioni e preticelli? Invece, il demone Valak adora sbattere gente contro i muri e spaventarla, lasciando alle sue vittime tutto il tempo di fare ricerche, conversare, visitare conventi, gingillarsi con fantasmi o demoni minori e persino farsi pisolini tra un buco di sceneggiatura (solo la storia della chiave all'inizio e dei bombardamenti che svegliano il Male sono dei maccosa grossi come una casa) e l'altro. Però, in tutto questo, c'è da dire che The Nun è assai evocativo e dotato di un'interessante e piacevole atmosfera gotica. Gli ambienti, interamente ricostruiti in studio, ché in Romania (dov'è stato girato il film) è vietato riprendere l'interno degli edifici religiosi, sono davvero molto belli e, come giustamente suggeriva il mio esaltatissimo compagno di visioni, a tratti evocano le atmosfere de La Chiesa di Michele Soavi; regia e fotografia sono molto raffinate per una pellicola simile, fanno grande uso di nebbie rarefatte e di una pazzesca illuminazione che rende corridoi, stanze e boschi molto inquietanti e peccato che questo senso di inquietudine venga spezzato dalla banalità della suora che ciccia fuori nell'ombra, giusto dietro le spalle dei protagonisti oppure veloce veloce davanti alla cinepresa, perché se i realizzatori avessero scelto di lasciare l'orrore sottopelle, ispirandosi interamente al compianto Bava e appoggiandosi un po' di più ad alcune suggestioni fulciane gettate qui e là, probabilmente avremmo avuto un capolavoro. Bravo quindi il regista Corin Hardy, costretto ahimé a piegarsi alle regole dell'horror commerciale, un po' meno bravi gli sceneggiatori, adagiati sugli allori di una storia banale che svilisce di rimando anche la bellezza di regia e fotografia. Insomma, non proprio un diludendo ma nemmeno un film memorabile o particolarmente spaventoso. Aspettiamo ora i prossimi, inevitabili capitoli del franchise, tanto dubito di essermi liberata definitivamente della  terribile Nun!


Di Demián Bichir (Padre Burke), Taissa Farmiga (Sorella Irene) e Michael Smiley (Vescovo Pasquale) ho già parlato ai rispettivi link.

Corin Hardy è il regista della pellicola. Inglese, ha diretto il film The Hallow. Anche sceneggiatore, animatore e produttore, ha 43 anni.


All'interno di The Nun vengono riprese intere sequenze da The Conjuring - Il caso Enfield (nel prologo) e L'evocazione - The Conjuring (durante l'epilogo, benché le sequenze siano state ovviamente rimaneggiate nelle immagini e nei dialoghi), così da garantire la continuità con quello che è spin-off ma anche prequel della saga; per avere un quadro più completo dell'universo di The Conjuring recuperate quindi questi due film e aggiungete Annabelle e Annabelle: Creation, nell'attesa che arrivino The Conjuring 3 e The Crooked Man. ENJOY!


martedì 24 aprile 2018

Free Fire (2016)

Uno sfortunato incidente accorso nel periodo Natalizio è coinciso con la possibilità di passare del tempo bloccata in casa a guardare film... quindi, per cominciare, ho deciso di recuperare Free Fire, uscito in Italia (ma non a Savona) a inizio dicembre e diretto nel 2016 dal regista Ben Wheatley, anche co-sceneggiatore.


Trama: uno scambio di armi e denaro non va per il verso giusto e i coinvolti cominciano a spararsi, diffidenti l'uno dell'altro...



Immagino che tutti ricorderete il finale de Le Iene, uno stallo in cui i protagonisti, alla fine, si ritrovano l'uno contro l'altro e si sparano a vicenda. Fine. Ecco, Free Fire prende la sparatoria, l'allunga per un'ora e mezza e la trasforma in un film divertente, movimentato, angosciante e bellissimo. Merito di Ben Wheatley (e della moglie alla sceneggiatura), regista col quale ho un rapporto controverso ma che non si può dire abbia mai sbagliato un film o, meglio, che non sforni qualcosa di particolare e zeppo di personalità ogni volta. Free Fire, per esempio, poteva essere una tamarrata unica, perché la base è quanto di più action e banale ci sia al mondo: ci sono due gruppi di malviventi, un gruppo vuole i fucili, l'altro vuole i soldi, una persona fa l'intermediario. La fiducia reciproca è poca, già di partenza, e ovviamente succede qualcosa che innesca la miccia della tensione e trasforma una fabbrica abbandonata in un terreno di guerra dove tutti i protagonisti hanno come obiettivo la sopravvivenza e la morte di qualcun altro, vuoi per vendetta, vuoi per antipatia, vuoi per puro e semplice interesse personale. In un film banale (leggi: in un action USA) probabilmente la fabbrica ad un certo punto esploderebbe oppure ci sarebbe il macho man della situazione che, rimediando giusto una ferita sul finale, si ergerebbe su tutti i coinvolti scrollandosi di dosso le pallottole come acqua, qui la situazione è invece un po' diversa. Tanto per cominciare, i protagonisti di Free Fire sono uno più cretino dell'altro. Vanesi, innamorati della propria voce e al 90% ignoranti delle regole base di convivenza criminale se non addirittura pesci piccoli dal carattere rissoso, sembrano dei bambini impegnati in un gioco da adulti. Quando cominciano a volare le prime pallottole, una bellissima sequenza ce li mostra sconvolti, con un ralenti impietoso ad inquadrare corpi non tanto pronti ad armarsi a loro volta bensì desiderosi di allontanarsi dalla prima persona colpita, diretti verso qualunque riparo in grado di offrire salvezza perché consapevoli che la situazione sta per buttare molto, molto male. Da lì comincia un'ininterrotta sinfonia di pistole che sparano, gente che urla (di dolore ma anche per minacciare, chiamare i compagni, manifestare la propria disperazione o semplicemente rompere le palle al prossimo) e John Denver che canta, qualcosa che non solo non da tregua ai personaggi ma nemmeno allo spettatore.


Se l'idea di ambientare il tutto negli anni '70 è un raffinato tocco di classe che delizia gli occhi con costumi e pettinature a tema (e soprattutto impedisce ai protagonisti di avere un cellulare!), quella di utilizzare una fabbrica abbandonata è funzionale alla trama stessa. La scenografia, oltre a essere molto evocativa, è piena di nascondigli di fortuna ma anche di piccole cose in grado di far male e vedere i personaggi costretti a strisciare in mezzo ai vetri, le schegge di legno o i cocci di cemento crea un immediato senso di fastidio; ovviamente, la cinepresa di Ben Wheatley indugia su ogni espressione di dolore, su ogni ferita e persino sulle pallottole ma di tanto in tanto si allarga a mostrarci per intero il "campo da gioco" e le posizioni dei vari giocatori, rannicchiati dietro protezioni di fortuna, mentre un montaggio serratissimo porta quasi a voler chinare la testa per paura che una pallottola possa raggiungere persino noi spettatori. Gli attori, poi, sono perfetti. Assieme ad alcuni caratteristi che si imprimono a fuoco nella memoria pur senza avere un nome di richiamo, ci sono attori più conosciuti come Cillian Murphy, Armie Hammer e Brie Larson che interpretano alla perfezione i loro personaggi e soprattutto c'è Sharlto Copley. Ora, voi forse non avete idea di quanto fossi arrivata non sopportare Copley ma qui è decisamente il migliore del mazzo con quei baffoni assurdi e quell'accento caricatissimo (dal mio umile punto di vista Free Fire perde almeno cinque punti doppiato in italiano. Poi, fate voi) che lo rendono un personaggio esilarante ma, ovviamente, da non sottovalutare. L'inglesotto Ben Wheatley si riconferma dunque Autore a tutto tondo da tenere sottocchio. Magari non facile (anche se in questo caso fortunatamente non mi è esploso il cervello come con High Rise o Kill List) ma comunque originalissimo e pronto a sperimentare, oltre che dannatamente bravo. Di questi tempi è quasi un miracolo!


Del regista e co-sceneggiatore Ben Wheatley ho già parlato QUI. Sam Riley (Stevo), Michael Smiley (Frank), Brie Larson (Justine), Cillian Murphy (Chris), Armie Hammer (Ord), Sharlto Copley (Vernon), Noah Taylor (Gordon) e Jack Reynor (Harry) li trovate invece ai rispettivi link.

Enzo Cilenti interpreta Bernie. Inglese, ha partecipato a film come e a serie quali Kick-Ass 2, Guardiani della galassia, La teoria del tutto, Sopravvissuto - The Martian, High Rise e a serie come Il trono di spade. Anche produtore, ha 44 anni.



Babou Ceesay, che interpreta Martin, ha esordito al cinema con l'esilarante Tagli al personale. A Luke Evans era stato offerto il ruolo di Vernon ma l'attore ha dovuto rinunciare in quanto impegnato sul set de La bella e la bestia e anche Olivia Wilde ha declinato l'invito a partecipare al film. Se Free Fire vi fosse piaciuto recuperate Le iene, The Departed e Green Room. ENJOY!

martedì 14 febbraio 2017

The Lobster (2015)

L'avevo perso all'epoca, probabilmente a causa della mala distribución, ma in virtù della sua candidatura all'Oscar per la Miglior Sceneggiatura Originale ho deciso di recuperare The Lobster, diretto e co-sceneggiato nel 2015 dal regista Yorgos Lanthimos. Tra l'altro oggi è San Valentino, quindi casca proprio a fagIUolo!


Trama: in una società nella quale è obbligatorio avere un compagno di vita, David si ritrova all'improvviso solo e, per legge, viene rinchiuso in un hotel dove avrà solo quarantacinque giorni per trovare l'anima gemella, pena la trasformazione in animale.



Di The Lobster ne avevo leggiucchiate (non dico lette visto che non lo faccio mai con le recensioni di film che devo ancora vedere...) di cotte e di crude: chi lo salutava come un capolavoro, chi come un abominio, chi come una roba completamente fuori di testa. Personalmente, tendo a sposare l'ultimo giudizio, ché la distopia raccontata da Yorgos Lanthimos può tranquillamente battere il cinque alle sue "cugine" più famose, sia in termini di assurdità che in termini di angoscia per lo spettatore. La società descritta nel film prevede, come già accennato nella trama sopra, l'"accoppiamento" coatto, ovvero la totale interdipendenza tra due individui (non necessariamente uomo e donna, anche se le dimostrazioni date sul palco dell'hotel si riferiscono esclusivamente alle coppie eterosessuali) uniti non tanto in base ad interessi comuni e un sentimento costruito nel tempo quanto piuttosto in base a difetti fisici/mentali condivisi. Chi, nel corso della vita, non riesce a trovare un compagno, viene lasciato oppure rimane vedovo, è costretto a passare in un hotel quarantacinque giorni, alla fine dei quali il mancato fidanzamento con un'altra persona porta automaticamente a venire trasformato in un animale a scelta (e meno male, almeno scegliere che bestia essere!!). Se già questa costrizione seguita da una punizione è di per sé terribile e svilisce il sentimento d'amore, ciò che fa ancora più specie è l'idea che i "ribelli", ovvero i cosiddetti solitari che vivono nei boschi per evitare di venire trasformati in animali, rifuggano di conseguenza qualsiasi tipo di interazione sentimentale, infliggendo punizioni corporali terrificanti a chi è tanto "debole" da soccombere ad un sentimento libero e puro. Insomma, nel mondo di The Lobster non esiste libertà e, ancor peggio, non esistono emozioni, buone o cattive che siano, perché tutto viene inghiottito da una coltre di freddo autoritarismo, provocato ovviamente da due diversi tipi di terrore. Queste paure, per inciso, sono le stesse che ritroviamo nella nostra società e che qui vengono portate all'estremo: la paura di rimanere soli, che spesso porta ad unirsi a persone con le quali non si ha nulla a che spartire (e se ci sono problemi, mettiamo al mondo un figlio che li risolve, come ironicamente sottolineato nel film), contro la paura di rimanere "ingabbiati" o di perdere la propria individualità, che porta invece a rifiutare un impegno più "serio" con gli altri.


Riflettendo su questo, The Lobster diventa un film ancora più angosciante, che non offre consolazione alcuna allo spettatore, né prima né durante il finale, di una tristezza invereconda. Il disagio psicologico dato dal film viene ulteriormente accentuato dall'utilizzo di immagini particolarmente crude (cosa che mi porta a sconsigliare The Lobster a chiunque patisca la violenza sugli animali, per quanto off screen, anche perché il risultato della stessa, mi duole dirlo, si vede benissimo) legate a quelli che, in definitiva, non sono altro che omicidi: chi non è in grado di trovare l'anima gemella è costretto a perdere la capacità di provare esperienze "umane", come guardare film o leggere libri, e a diventare predatore quando va bene (a rischio però di finire in gabbia) o preda quando va male, possibile nutrimento di chi cammina ancora a due zampe. L'atmosfera cupa della pellicola viene sottolineata dall'uso di una fotografia scura e di scenografie claustrofobiche, con le vicende ambientate principalmente all'interno dell'hotel e dei boschi che circondano la città, mentre i tempi narrativi vengono dilatati all'infinito, al punto che il film forse funziona più nella prima parte che nella seconda, tirata per le lunghe e meno coerente dal punto di vista della sceneggiatura. Bravissimi gli attori coinvolti, a partire da un imbolsito Colin Farrell che sembra proprio un medioman privo di qualsiasi attrattiva, per arrivare alla bella e freddissima Léa Seydoux, cuore solitario se mai ce n'è stato uno e capace di decretare il destino dei suoi sottoposti con un unico, raggelante sguardo. The Lobster è il primo film di Yorgos Lanthimos che mi capita di vedere e mi è piaciuto molto, al punto che probabilmente ora recupererò altre pellicole del regista, eppure non è un film che mi sento di consigliare a cuor leggero, soprattutto a spettatori "occasionali", in quanto troppo autoriale e, diciamolo senza ipocrisia, deprimente. Detto questo, io al momento sono felicemente fidanzata ma se dovessi ritrovarmi single spero che qualcuno mi trasformi in gatto. O in un bradipo, altro che aragosta.


Di Colin Farrell (David), Olivia Colman (La manager dell'hotel), John C. Reilly (l'uomo con la zeppola), Léa Seydoux (Capo dei solitari), Michael Smiley (Solitario nuotatore), Rachel Weisz (Donna miope) e Ben Whishaw (Uomo zoppo) ho già parlato ai rispettivi link.

Yorgos Lanthimos è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Greco, ha diretto film come Kynodontas e Alps. Anche produttore e attore, ha 44 anni e tre film in uscita.


Se The Lobster vi fosse piaciuto recuperate The Eternal Sunshine of the Spotless Mind (il titolo italiano, lo sapete, non esiste) e Lei. ENJOY!

domenica 15 novembre 2015

Kill List (2011)

Ci ho messo un po' ma finalmente trovo il coraggio di parlare di Kill List, diretto e co-sceneggiato nel 2011 dal regista Ben Wheatley.


Trama: un ex soldato riciclatosi come sicario, in piena crisi coniugale e lavorativa, decide di accettare un incarico e uccidere delle persone inserite in una lista. Neanche a dirlo, sarà l'inizio di un incubo...



Quando aspetto giorni per scrivere un post (tolta la perenne mancanza di tempo, chevvelodicoaffare) è perché o il film non mi è piaciuto oppure perché ho avuto bisogno di rifletterci su. Il caso di Kill List rappresenta un misto di queste due possibilità perché, ammettiamolo, non è che la pellicola di Wheatley mi abbia appassionata più di tanto di primo acchito, complice anche l'ora tarda e un'altra serie di circostanze sfavorevoli accorse durante la visione. Anzi, diciamo pure che alla fine ero talmente perplessa da aver aperto una sorta di "simposio" via WhatsApp durante il quale la buona e paziente Silly ha dato risposta ad alcuni miei dubbi. Partendo da un suo paio di interpretazioni illuminate ho passato i giorni a rigirarmi nella mente Kill List e alla fine sono giunta alla conclusione che la pellicola di Ben Wheatley è una bomba proprio perché un film che da da pensare per così tanto tempo, di questi tempi così superficiali, è già di per sé un piccolo miracolo. E poi perché riesce ad essere uno splendido omaggio a The Wicker Man mantendendo contemporaneamente una sua spiccata personalità e anche questo non è poco, anzi. Se mai vi accingerete a guardare Kill List toglietevi innanzitutto dalla testa di trovarvi davanti un horror nel senso stretto della parola e, soprattutto, non crediate che la trama sia lineare ed univoca, in quanto la sceneggiatura scritta da Wheatley e dalla moglie Amy Jump si apre a mille interpretazioni diverse, tutte quante plausibili. D'altronde il protagonista è un ex militare afflitto palesemente da stress post traumatico, incapace sia di condurre una vita normale con la moglie e il figlio, sia di tornare a "lavorare", dove per lavorare si intende riprendere l'attività di sicario, condivisa con l'amico ed ex commilitone Gal: nel film si fa spesso cenno a "qualcosa" accaduto a Kiev, durante una missione omicida in cui probabilmente Jay ha perso il controllo, conseguentemente possiamo dire che la frammentazione del montaggio e la scarsità di informazioni fornite allo spettatore, che concorrono a rendere Kill List molto criptico, siano un modo di rappresentare la psiche fragile e torturata del protagonista, soggetto ad apatia e scoppi improvvisi di violenza.


Al legame profondo tra protagonista e realizzazione del film, il cui cammino verso il finale è scandito da capitoli come se ci trovassimo davanti a una tragedia greca o ad un impietoso countdown, si accompagna il modo sottile ed inquietante col quale Wheatley inserisce l'Orrore in questa storia di traumi, problemi familiari e criminali. Un Orrore perturbante che induce lo spettatore a riprendere Kill List per riguardarlo tutto da capo, cercando di cogliere i segni in grado di prefigurare il terrificante, angoscioso finale, per capire come si possa essere arrivati a quel punto. In effetti, io con quel finale (di cui non parlerò) ho avuto molti problemi e Silly lo sa, semplicemente non potevo accettarlo né capirlo, abituata come sono a guardare horror dotati di spiegazioni "razionali" e fondamentalmente univoche. Su questo finale mi sono incaponita, nonostante mi sia stato consigliato di non farlo, di accettarlo e lasciarmi trasportare, ho deciso di ripercorrere da capo ogni scena, anche la più insignificante, ed è stato così che a un certo punto la tragedia e il destino di Jay sono diventati lapalissiani e perfettamente plausibili. E' servita solo molta, moltissima attenzione ed è stato necessario rifocalizzare il cervello su un tipo di intrigo quasi "antiquato", centellinato e bastardo, affidato più alla sensibilità soggettiva dello spettatore che a qualcosa di oggettivo e universale. Quando anche l'ultima tessera del puzzle è andata a posto mi si è aperto un mondo e ho capito che Kill List è uno degli horror più intriganti che siano stati girati nell'ultimo decennio, nonché uno dei più crudeli ed impietosi e stupidissima io a non averlo capito subito e a non aver dato fiducia a Ben Wheatley, autore assolutamente non banale che già avevo apprezzato in The ABCs of Death e Killer in Viaggio. So bene che questo post non ha alcun senso ma è servito a me per scendere a patti con questo piccolo gioiellino, per ricordarmi che non è mai bene dar retta alla mia testa d'Ariete e buttare giù dei giudizi affrettati nati dall'errata convinzione di non capire. A volte basta solo rilassarsi e rifletterci un po'.


Del regista e co-sceneggiatore Ben Wheatley ho già parlato QUI mentre Michael Smiley, che interpreta Gal, lo trovate QUA.

Neil Maskell interpreta Jay. Inglese, ha partecipato a film come Basic Instinct 2, Doghouse, Pusher e The ABCs of Death. Anche regista e sceneggiatore, ha 39 anni e due film in uscita.


MyAnna Buring interpreta Shel. Svedese, ha partecipato a film come The Descent, Omen - Il presagio, Grindhouse, Doomsday - Il giorno del giudizio, Lesbian Vampire Killers, The Descent: part 2, The Twilight Saga: Breaking Dawn - Parte 1, The Twilight Saga: Breaking Dawn - Parte 2 e a serie come Downton Abbey. Ha 36 anni e tre film in uscita.


Se Kill List vi fosse piaciuto recuperate The Wicker Man. ENJOY!

martedì 21 aprile 2015

Black Sea (2014)

Nonostante il genere “suBBaquo” non faccia proprio al caso mio, qualche sera fa ho deciso di guardare Black Sea, diretto nel 2014 dal regista Kevin MacDonald.


Trama: abbandonato dalla moglie e licenziato dalla ditta per cui lavora, l’ex marinaio Robinson decide di riunire una ciurma per recuperare un’enorme quantità di lingotti d’oro che dovrebbero trovarsi all’interno di un sottomarino affondato nel corso della seconda guerra mondiale…


Come saprete se seguite da qualche tempo il mio blog, riassumere i film in tre righe di trama non è il mio forte. Questo per dire che, rileggendo quello che ho scritto sopra, sembrerebbe che Black Sea sia un film d’avventura imperniato su un’allegra caccia al tesoro, magari una tamarreide con Nicolas Cage, invece non è affatto così. Black Sea è uno dei film più cupi, coinvolgenti, tesi e persino commoventi che mi sia capitato di vedere negli ultimi tempi e se è vero che quella raccontata nel film è un’avventura, bisogna considerare soprattutto i motivi che hanno spinto i protagonisti ad intraprenderla. Il film diretto da MacDonald è infatti un triste figlio della crisi globale e mette in scena dei personaggi ruvidi, segnati dalla vita, arrivati ad un età in cui un licenziamento si tradurrebbe in una ricerca ininterrotta di lavori svilenti (quando va bene) o in una perenne condizione di indigenza e solitudine. Accettare una missione potenzialmente mortale, finanziata da un riccone al quale ovviamente spetterebbe la parte più sostanziosa del bottino, è l’unico modo per tornare ad avere un po’ di respiro e tornare ad essere “umani” agli occhi di figli e mogli che li disprezzano o che a loro volta soffrono per la condizione disagiata di chi dovrebbe mantenerli ed assicurare loro un futuro; sperando per il meglio o spinti, come nel caso di Robinson, da un bruciante misto di rimpianti, desiderio di rivalsa e odio nei confronti della società, questo branco di derelitti si immerge nelle acque oscure del titolo. Da questa premessa si dipana una pellicola difficile da guardare serenamente, per più di un motivo. In primis, perché l’abilità con cui lo sceneggiatore definisce in pochi tratti le personalità dei coinvolti ci spinge ad immedesimarci maggiormente con questi esperti marinai, rendendo ancora più insostenibili i vari “inconvenienti” di navigazione; secondariamente, quegli stessi “inconvenienti” rischiano di uccidere uno spettatore mediamente claustrofobico come la sottoscritta. Black Sea, come ho detto sopra, è infatti un film molto teso, costruito in modo da non dare un attimo di tregua pur rimanendo credibile in ogni twist, anche il più inaspettato. Inoltre, all’isolamento creato dal sottomarino, dall’oscurità delle acque profonde e dalla necessità di rimanere in incognito si aggiungono l’imprevedibilità di tutti i membri dell'equipaggio (uno è psicopatico, uno ha un enfisema, uno è un ragazzino, uno è un ambiguo topo di scrivania e lo stesso Robinson è troppo coinvolto a livello personale per essere un capitano obiettivo) e l’ulteriore isolamento provocato dalla compresenza di metà equipaggio anglofono e metà formato da russi, cosa che, inevitabilmente, richiede mediatori in grado di capire entrambe le lingue, prima che le inevitabili differenze linguistiche e un malcelato razzismo facciano precipitare una situazione già molto delicata.


Essendo Black Sea un film che da molta importanza all’elemento umano, linguistico e culturale ma anche una pellicola fatta di sequenze concitate e claustrofobiche riprese sottomarine, lo spettatore italiano rischia di trovarsi in una bruttissima situazione di impasse. Da un lato, infatti, io ho amato alla follia i peculiari accenti degli attori (tutti bravissimi, non ce n’è uno che mi abbia fatto considerare il suo personaggio come una banale macchietta, neppure i russi), a partire da quello di Jude Law che parla con una pesantissima inflessione aberdoniana, un ulteriore “indizio” della mentalità chiusa, ruvida, tradizionalista e anche un po’ “ignorante” non solo del protagonista ma di tutto il resto della ciurma; in italiano quest’incredibile varietà linguistica è andata inevitabilmente perduta, col risultato che Black Sea già dal trailer convince davvero poco e da l’erronea impressione di essere l’ennesima copia di film come Caccia a ottobre rosso o simili (senza contare il fatto che ogni russo, come mi hanno detto, è stato doppiato con la cadenza tipica degli imitatori di Putin). Vi direi quindi di guardare Black Sea in lingua originale ma l’altro lato della medaglia è che sicuramente al cinema, con un grande schermo e un bel sonoro spacca timpani, la sensazione di trovarsi all’interno del sottomarino o a centinaia di metri dalla superficie del mare, immersi nell’oscurità e privi di ossigeno, dev’essere un’esperienza ancora più emozionante e terribile, nonché il modo migliore per apprezzare la bella regia di MacDonald. Se, a differenza mia, siete persone in grado di resistere ai fortissimi stimoli che potrebbe procurarvi la visione in sala di Black Sea, la cosa migliore da fare sarebbe probabilmente guardarlo due volte, prima al cinema in italiano e poi a casa in lingua originale (o viceversa), così da godere al meglio di entrambi gli aspetti della pellicola. In ogni caso, non lasciatevi fuorviare da pregiudizi o recensioni negative; nonostante l’impianto abbastanza tradizionale che mi impedisce di elevarlo a cult o capolavoro, Black Sea è un gran bel film che vi consiglierei di vedere senza indugio!


Di Jude Law (Robinson), Scoot McNairy (Daniels) e Ben Mendelsohn (Fraser) ho già parlato ai rispettivi link.

Kevin MacDonald è il regista della pellicola. Scozzese, ha diretto film come L'ultimo re di Scozia, State of Play, The Eagle e il documentario One Day in September, col quale ha vinto un premio Oscar. Anche produttore e sceneggiatore, ha 48 anni e sta dirigendo i primi episodi della miniserie 11/22/63, tratta dall'omonimo libro di Stephen King.


Michael Smiley interpreta Reynolds. Irlandese, ha partecipato a film come Shaun of the Dead, Profumo - Storia di un assassino, The ABCs of Death, La fine del mondo e a serie come Black Mirror e Doctor Who. Ha 52 anni e quattro film in uscita.


Se Black Sea vi fosse piaciuto recuperate Abissi, The Abyss e Leviathan, gli unici film "sottomarini" o acquatici che sono riuscita a vedere fino alla fine prima di passare a miglior vita per l'ansia! ENJOY!

Qui trovate la recensione de Il giorno degli zombi, che mi ha invogliata tantissimo nel recupero!

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