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venerdì 5 luglio 2024

A Quiet Place - Giorno 1 (2024)

Martedì sono andata a vedere A Quiet Place - Giorno 1 (A Quiet Place: Day One), diretto e co-sceneggiato dal regista Michael Sarnoski e ne sono uscita distrutta.


Trama: Samira, afflitta da un tumore in stadio avanzato, cerca di raggiungere un luogo a lei caro quando un'invasione aliena condanna l'umanità al silenzio e ad una potenziale estinzione...


Michael Sarnoski
, io ti denuncio, maledetto. Già i primi due A Quiet Place non erano stati una passeggiata, per me. Probabilmente, qualcosa a livello inconscio mi porta a stare particolarmente al gioco orchestrato da Krasinski e compagnia fin dal 2018, perché quel silenzio necessario alla sopravvivenza dei personaggi mi spinge a non respirare, per paura di emettere un suono che possa allertare le terribili creature aliene che li cacciano, e quando queste ultime compaiono perdo ogni volta dieci anni di vita. A peggiorare la situazione ci pensavano personaggi ben caratterizzati, assai uniti a livello familiare, verso i quali era impossibile non investire una gran quantità di empatia, anche perché Millicent Simmonds ha un volto di una dolcezza incredibile. A queste mie debolezze si è aggiunto stavolta un trigger molto personale che, probabilmente, è l'anticamera di un disagio psicologico più profondo, ne sono consapevole, un complicato mix di tristezza sedimentata da quando è mancata per colpa di un tumore una carissima zia, di ipocondria e di terrore all'idea che, presto o tardi, dovrò affrontare un lutto ancora più grave e vicino. Il magone non mi viene solo davanti alla rappresentazione dei malati, ma anche davanti a quella del dolore di chi sta loro vicino, ed è per questo che ho cominciato a piangere dopo un minuto di film e sono arrivata alla fine ridotta come uno straccio. A Quiet Place - Giorno 1 racconta, infatti, la progressiva accettazione di un destino infausto ed ineluttabile, davanti al quale rimane solo un piccolissimo desiderio da esaudire. A molti potrà sembrare una sceneggiatura inverosimile, a me risulta solo difficile da accettare, pur non trovandola criticabile, e compie un ulteriore step verso la rappresentazione di un'umanità normale, dove non esistono più (super)eroi. Mi spiego meglio. I protagonisti di A Quiet Place erano più "cinematografici", perché le loro azioni erano atte alla sopravvivenza del nucleo familiare, quindi da un punto di vista "culturale" esse mi risultavano più accettabili, pur consapevole che io, al posto loro, sarei morta dopo mezzo minuto. Samira, invece, rinuncia alla sopravvivenza, si accontenta di tirare avanti fino ad arrivare in un luogo ben preciso, poi sia quel che sia. Questa forma mentis non ce l'ho (ancora?) per ovvi motivi, ma il desiderio di spegnersi con dignità, di scegliere liberamente e coraggiosamente come affrontare la morte o godersi gli ultimi giorni di vita è una cosa splendida e merita di essere raccontata, anzi, merita di diventare il fulcro di un thriller horror al punto da far passare le creature aliene in secondo piano.


L'efficacia di una simile scelta di sceneggiatura, ardita anche per la saga in questione, poggia tantissimo sulle spalle di Lupita Nyong'o. Un giorno forse capirò perché l'horror, se non è stra-elevated e mascherato da altri generi, non venga riconosciuto come merita, ma non scherzo quando dico che Lupita Nyong'o dovrebbe essere candidata come protagonista per gli Oscar 2025 e portarsi a casa la seconda statuetta (già avrebbero dovuto nominarla per Noi. Vabbé.). Sguardi, espressività, mimica corporea, la capacità di veicolare infinite emozioni senza aprire bocca: l'interpretazione della Nyong'o è semplicemente favolosa, entra sottopelle e spezza il cuore. Certo, non è sola. Un irriconoscibile Joseph Quinn le fa da tenera spalla, e pazienza se le sue motivazioni non sono forti come quelle della protagonista e se alcune sequenze che lo vedono protagonista sembrano costruite apposta per aumentare l'effetto "lacrima" (come se ce ne fosse bisogno) oppure accontentare chi voleva un po' di azione in più, perché gli ho voluto bene dall'inizio alla fine. E poi c'è il gattone Frodo, una bestiola morbidosa, espressiva e piena di personalità, terzo protagonista assoluto nonché fonte dei peggiori momenti di ansia, ché pazienza se muoiono male i bambini, ma i gatti no, questo mai nella vita. Per chi si chiede, invece, come sia il film a livello di regia ed effetti speciali, per quanto mi riguarda Sarnoski ha fatto un ottimo lavoro, trasformando le strade di Londra in una New York desolata che, a tratti, mi ha ricordato un altro mirabile esempio di angoscia cinematografica, il The Mist di Frank Darabont, e riempendole di orrori alieni di cui sembra quasi di sentire il peso mentre ti saltano addosso urlando. Quindi sì, tensione a pacchi. Ma, come ho scritto prima, magari ciò vale solo per me, visto che il sonoro dei vari A Quiet Place mi agghiaccia. E potrebbe anche essere che il mio amore verso Giorno 1 dipenda da tutta una serie di fattori che nulla hanno a che vedere col film, quindi capirò se a voi è sembrato una gran sòla invece di una delle pellicole migliori dell'anno. Per inciso, ho adorato il film ma non lo riguarderò nemmeno se mi pagassero, perché fa troppo, troppo male. 


Di Lupita Nyong'o (Samira), Alex Wolff (Reuben) e Djimon Hounsou (Henri) ho già parlato ai rispettivi link.

Michael Sarnoski è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Americano, ha diretto il film Pig. E' anche montatore, produttore e attore.


Joseph Quinn
interpreta Eric. Famoso per il ruolo di Eddie nell'ultima stagione di Stranger Things, ha partecipato ad altre serie come Il trono di spade e film come Overlord. Ha due film in uscita, Il Gladiatore II e l'ennesimo reboot dei Fantastici Quattro, dove interpreterà la Torcia umana. Inglese, ha 30 anni. 


Il film è fruibile senza avere visto A Quiet Place - Un posto tranquillo e A Quiet Place II (anche se il personaggio di Henri compare per la prima volta nel secondo capitolo) ma se A Quiet Place - Giorno 1 vi fosse piaciuto, recuperateli! ENJOY! 

mercoledì 18 agosto 2021

Old (2021)

E' uscito il 21 luglio. Con la lacrima nell'occhio (grazie, autostrade liguri maledette, grazie!) ho dovuto aspettare fino al 12 agosto per vedere uno dei film che mi fomentavano di più quest'anno, ovvero Old di M. Night Shyamalan. A sapere che era così mi sarei risparmiata una notevole dose di bestemmie d'attesa...


Trama: durante una vacanza in un resort, un gruppo di persone finisce su una spiaggia dove il tempo scorre a una velocità maggiore, condannando tutti a una vecchiaia precoce o peggio...


Niente, Shyamalan non ce l'ha fatta. Dopo la bellezza di TRE film non dico splendidi ma comunque molto gradevoli, doveva per forza tornare alla pellicola pseudo-filosofica di alto concetto, perché accontentarsi di qualcosa di più terra terra faceva brutto. E così, il buon Shyamalan ci ha scodellato Old, ovvero un dito puntato contro lo spettatore e la società travestito da film "horror", dove non esistono personaggi profondi o interessanti bensì delle idee, dei concetti con sembianze umane ai quali vengono messi in bocca i dialoghi peggiori sentiti quest'anno. Chi mi conosce sa quanto io abbia odiato Lady in the Water e quell'altra cretinata con la natura frugnante di E venga il giorno; bene, Old è meno peggio di questi due orrori, ma purtroppo soffre della stessa antipatia congenita e degli stessi personaggi ai quali è impossibile affezionarsi perché, Cristo, non sono realistici, sono lì per mostrarci quanto intelligente è Shyamalan e quanto universali sono gli archetipi che essi incarnano. Prendete, per esempio, la famigliola protagonista. Il padre è buono ma freddo, l'incarnazione dell'umanità ormai troppo legata a numeri e statistiche, incapace di guardare al presente, sempre pronta a razionalizzare e controllare il futuro. Anche la mamma è buona ma fredda, però lei (ah-aH!!) si occupa di un museo ed è terrorizzata dall'idea di finire, un giorno, come i corpi senza nome che popolano le teche da lei curate, quindi di base è comunque impegnata a guardare al passato. E' giusto il contrappasso, per questa famigliola allo sfascio, all'interno della quale i genitori stanno per separarsi senza pensare ai figli, che papà e mamma vengano privati della gioia di vedere crescere i due pargoli, ritrovandoseli già oltre l'adolescenza e alle prese con i traumi più grandi della loro vita; è l'unico modo, ovviamente, per innescare una riflessione sul senso dell'esistenza, e sulla necessità di godersi il presente, ma fosse finita lì. Sull'isola si ritrovano (per un motivo che è un'ALTRA critica, però a qualcosa di più tangibile e terrificante) altre persone ognuna presa per incarnare un grande difetto dell'umanità odierna e sono sicura che, agli occhi di Shyamalan, vedere questi personaggi confrontarsi avrebbe dovuto essere un esercizio filosofico altissimo, mentre io so solo che, spesso, scoppiavo in risate incontrollabili.


Mettiamo da parte per un momento le sequenze più "cringesilaranti" dell'intera pellicola (tutte o quasi caricate sulle spalle di Alex Wolff, almeno finché non sopraggiunge quello che voleva sicuramente essere un commoventissimo pre-finale che però a me ha fatto l'effetto Pryor/Wilder, ma menzionerei anche, e con onore, le conseguenze della mancanza di calcio, che Cristo ma nemmeno Robert Englund alla fine di The Mangler, guarda) e soffermiamoci sul fatto che ogni maledetto ospite dell'isola sviscera i suoi problemi e si confronta coi compagni nemmeno si trovasse in uno studio psichiatrico, soffermiamoci sul fatto che, anche quando non hanno un interlocutore, questi trovano comunque il modo di fare dei monologhi sul senso (secondo loro) della vita, soffermiamoci sul fatto che, a un certo punto, la PSICOLOGA (ebbene sì, ce n'è una) chiede ESPLICITAMENTE di fare della terapia di gruppo e infine chiediamoci perché dovremmo prendere seriamente un film simile. Soprattutto, vorrei che qualcuno mi spiegasse perché ad affiancare la palese, didascalica serietà con cui Shyamalan ci scodella i suoi concetti enormi, il buon Manoj Nelliyattu ci piazzi sempre delle puttanate col botto (SPOILER: Ma sta cretinata del neonato che muore perché non è stato curato per 30 secondi? Allora, in quell'isola non c'è nessuno a cui venga la piorrea dopo anni passati a non curarsi i denti, nessuno deperisce per la mancanza di cibo, Prisca non muore per setticemia dopo un'operazione chirurgica effettuata in mezzo alla sabbia, con la ferita tenuta aperta da gente con le mani probabilmente ricoperte di invisibili granelli, i responsabili della struttura non hanno mai pensato di far saltare in aria la barriera corallina che è l'unico handicap del luogo, i bambini invecchiano mentalmente come se avessero vissuto anni di esperienze quando invece avrebbero dovuto rimanere infanti nel corpo di adulti e infine, restando in tema corpo, in mancanza di attività fisica i tessuti muscolari e polmonari avrebbero dovuto collassare invece Kara diventa Manolo mentre a Trent e Maddox crescono praticamente le branchie... e per trenta secondi del piffero il neonato muore? Ma per favore), tanto che persino gli attori a me sono sembrati molto spaesati e perplessi. Poi per carità, bella la regia, ottima la gestione della suspance, perfette alcune sequenze che mi hanno rivoltato lo stomaco, ma in definitiva Shyamalan ha di nuovo lasciato il posto a quell'antipatico spocchioso di Shyabadà e io non posso che augurargli di finire recantato in un'isola deserta finché non si sarà di nuovo deciso a rinsavire. 


Del regista e co-sceneggiatore M.Night Shyamalan, che interpreta anche l'autista dell'hotel, ho già parlato QUI. Gael Garcia Bernal (Guy), Vicky Krieps (Prisca), Rufus Sewell (Charles), Alex Wolff (Trent a 15 anni), Abbey Lee (Chrystal), Ken Leung (Jarin), Embeth Davidtz (Maddox adulta) e Francesca Eastwood (Madrid) li trovate invece ai rispettivi link. 

Eliza Scanlen interpreta Kara a 15 anni. Australiana, la ricordo per film come Piccole donne e Le strade del male, inoltre ha partecipato a serie come Home & Away. Anche regista e sceneggiatrice, ha 22 anni. 


Old
è tratto dal graphic novel Castello di sabbia di Frederik Peeters e Pierre Oscar Lévy, ovviamente privo della maggior parte degli spiegoni e delle cretinate che inficiano il film di Shyamalan, quindi forse sarebbe meglio recuperare quello invece che andare al cinema. ENJOY! 


mercoledì 1 agosto 2018

Hereditary: Le radici del male (2018)

Era uno degli horror più attesi dell'anno e finalmente è arrivato. Parlo di Hereditary: Le radici del male (Hereditary), diretto e sceneggiato dal regista Ari Aster. Ovviamente, NIENTE SPOILER, tranquilli!


Trama: dopo la morte della madre, Annie si ritrova non solo a gestire il lutto ma anche la figlia, tredicenne disadattata, e il figlio maggiore, alle prese con le prime ribellioni dell'adolescenza. Il tutto mentre accadono cose sempre più strane...



Siccome una splendida recensione del film la trovate QUI e siccome la pellicola di Ari Aster abbisognerebbe di qualcuno che se ne capisca davvero di horror, regia e sceneggiatura per venire omaggiato al meglio, comincerò buttandola in caciara. Hereditary risponde perfettamente alla definizione di "film bastardo dentro", in tutti i modi possibili ed immaginabili, a partire dalla campagna promozionale che l'ha accompagnato, la quale rischia di scontentare più di uno spettatore. Paragonarlo a L'esorcista è infatti improprio, per temi trattati, impatto culturale e terrore cieco provocato nel pubblico dal caposaldo di Friedkin; se vogliamo fare dei confronti, Hereditary è più vicino a Babadook e The Witch, non a caso due degli horror più belli degli ultimi anni. Intanto, cominciamo col dire che il film di Aster, così come quello della Kent, è innanzitutto un dramma famigliare avente come fulcro una donna. Annie, moglie e mamma di due figli, è segnata da un passato in cui la freddezza della madre si è aggiunta al trauma di aver perso il padre e il fratello. Il film si apre col funerale dell'ormai anziana madre di Annie e e immerge subito lo spettatore in un'atmosfera fatta di disagio, rimpianto, dolore che non riesce a sfogarsi, misteri irrisolti; solo l'omelia funebre pronunciata da Annie basterebbe a far sentire puzza di bruciato lontano un chilometro oltre ad essere il primo esempio di una scrittura intelligentissima, fatta di dialoghi quasi più angoscianti delle singole sequenze, dei distillati di amarezza, fallimento e brutalità tali da far rimanere a bocca aperta lo spettatore sconvolto. Oltre ad avere un pessimo rapporto con la madre ormai defunta, Annie ha anche svariati problemi con i figli. La piccola, Charlie, era legatissima alla nonna e ha palesi problemi comportamentali che la rendono più che inquietante, mentre il grande, Peter, ha i tipici scatti di ribellione di un adolescente e un rapporto tempestoso con Annie; l'unico "sostegno" di quest'ultima è il marito ma anche lì il legame è piuttosto freddino, al punto che il povero Steve pare avere più la funzione di "paciere" oltre a fungere da sprone per spingere la moglie a continuare nel suo lavoro, quello di miniaturista.


Le miniature realizzate da Annie sono, per inciso, uno degli elementi più inquietanti del film. In esse, vengono cristallizzati momenti che noi spettatori non abbiamo visto né vissuto e che quindi ci vengono riportati dal punto di vista della donna (come il terribile diorama in cui qualcuno si staglia sulla soglia della camera da letto di Annie), inoltre si compenetrano alla storia narrata al punto che tutto ciò che accade nel film pare quasi frutto di predestinazione (ereditarietà?); a noi, come ai personaggi, è dato solo vedere e cercare di capire mentre una mano ignota posiziona i protagonisti e li fa muovere come pedine, per poi distruggere tutto con uno scatto di folle ira. Ma torniamo al dramma famigliare. Come già accadeva in Babadook, a un certo punto l'"armonia" della casa viene sconvolta da accadimenti sempre più inspiegabili ed assimilabili all'ambito del sovrannaturale. E' qui però che Hereditary ha cominciato a ricordami The Witch, soprattutto per il modo in cui Aster è riuscito a costruire un costante crescendo di tensione. Benché, apparentemente, "non succeda nulla", durante la visione di Hereditary si è in realtà subissati da un flusso continuo di elementi dissonanti, indizi che ci spingono a pensare ad eventuali risoluzioni disattese dubito dopo, cliché che si rivelano consapevoli prese in giro, al punto che ci si ritrova, quasi senza accorgercene, a stare seduti sulla poltrona con le dita affondate nei braccioli (quando non siamo impegnati a portarcele davanti alla faccia, ovvio), così che basta solo un piccolissimo suono, QUEL suono, per farci saltare i nervi. Hereditary è tutto così. "Sbagliato" fin dall'inizio, pessimista come non mai, zeppo di momenti sconvolgenti che vanno ben oltre l'inquietante bambina che campeggia nei trailer e nel poster e che, comparato a ciò che viene mostrato nel film, risulta un mero specchietto per le allodole.


Non che Milly Shapiro non sia una presenza fondamentale. Dotata di un volto particolarissimo, quasi quello di un adulto nel corpo di una ragazzina, vagamente androgino, la piccola "Charlie" colpisce l'occhio e la mente dello spettatore, costringendolo a stare sempre sul chi va là, in memoria di mille altre ragazzine malvagie viste miliardi di volte nei vari film di genere. Tuttavia, proprio in virtù di questo, se l'unico punto forte del cast fosse la Shapiro il film di Aster sarebbe ben poca cosa. Invece, ad affiancare una mocciosa che rischia di darvi gli incubi per mesi, ci sono Alex Wolff e Toni Collette, uno più strepitoso dell'altra. La Collette è sempre stata una delle mie attrici preferite ma qui è qualcosa di superlativo. La sua Annie è una donna distrutta già prima che subentri l'elemento sovrannaturale, una creatura spezzata da una storia di psicosi famigliari, lutti ininterrotti e segreti in suppurazione, colma di dubbi per il suo ruolo di madre; il volto scavato e nervoso della Collette, con i suoi occhi enormi e "sconfitti", è perfetto e la sua interpretazione mette i brividi, al punto che avrei già voglia di rivedere il film solo per godermela in lingua originale. Alex Wolff, da par suo, non è così d'impatto come le sue due comprimarie, almeno all'inizio. Dotato della stessa faccia da fesso del fratello Nat, il ragazzo si impone sulla scena a poco a poco, passando dall'essere la figura sullo sfondo di un tipico horror sovrannaturale (catalogato sotto l'etichetta "carne da macello") a personaggio a tutto tondo, dotato non solo di emozioni e profondità ma anche, e soprattutto, caratterizzato da una serie di legami non banali con gli altri protagonisti, ulteriori tessere del puzzle del terrore creato da Ari Aster. Se ne avessi le capacità vi parlerei ancora di Hereditary, sottolineando la particolarità della colonna sonora, l'efficacia di una regia che gioca al ribasso ottenendo risultati devastanti, la bellezza di una scenografia curatissima, all'interno della quale contano anche i più piccoli dettagli dei mille oggetti sparsi nella scena, l'eleganza di Gabriel Byrne, defilato ma fondamentale. Ma preferisco fermarmi qui e invitarvi a correre al cinema a vedere questa splendida opera prima, ennesima riprova che l'horror è vivo, vegeto e lotta con noi!


Di Alex Wolff (Peter), Toni Collette (Annie) e Gabriel Byrne (Steve) ho già parlato ai rispettivi link.

Ari Aster è il regista e sceneggiatore della pellicola. Americano, è al suo primo lungometraggio. Anche attore, ha 31 anni.


Ann Dowd interpreta Joan. Americana, ha partecipato a film come Green Card - Matrimonio di convenienza, L'olio di Lorenzo, Philadelphia, Può succedere anche a te, L'allievo, Io & Marley, St. Vincent, Chi è senza colpa, Big Driver, Captain Fantastic e a serie quali X-Files, Dr. House, True Detective e The Handsmaid's Tale. Ha 62 anni e un film in uscita.


Se Hereditary: le radici del male vi fosse piaciuto recuperate i già citati Babadook, The Witch e aggiungete Rosemary's Baby. ENJOY!




venerdì 27 aprile 2018

Jumanji - Benvenuti nella giungla (2017)

Tra una cosa e l'altra non ero riuscita ad andare al cinema a vedere Jumanji - Benvenuti nella giungla (Jumanji - Welcome to the Jungle), diretto nel 2017 dal regista Jake Kasdan e ispirato al libro Jumanji di Chris Van Allsburg, però appena si è reso disponibile (è uscito la settimana scorsa in DVD e Blu-Ray) l'ho recuperato, spinta dai giudizi positivi di tutti quelli che lo avevano visto!


Trama: quattro adolescenti vengono risucchiati nel videogame Jumanji e bloccati nel corpo di avatar ben diversi da loro. Per tornare alla realtà dovranno finire il gioco ma non sarà facile...



E' sempre facile parlare di come i remake/reboot odierni rovinino l'infanzia di chi, come la sottoscritta, ha vissuto quella fase della vita negli anni '80 o '90, però prima o poi bisogna scendere a patti con l'innegabile fatto che non tutti i prodotti che all'epoca ci sembravano meravigliosi sono riusciti a resistere all'usura del tempo e, insomma, visti oggi risultano davvero poca cosa. Dal mio umile punto di vista nell'elenco dei film da ridimensionare c'è il Jumanji del 1995, ancora oggi molto gradevole per la storia, per gli effetti speciali all'epoca eccelsi e ovviamente per la presenza dell'indimenticabile Robin Williams, ma non una di quelle pellicole che definirei "intoccabili" o impossibili da migliorare e rinfrescare a beneficio delle nuove generazioni. Lo dimostra il fatto che Jumanji - Benvenuti nella giungla, film al quale non avrei dato un euro non tanto per amore dell'originale ma proprio perché mi sembrava una cretinata fatta e finita, è invece un'opera divertentissima ed esaltante dall'inizio alla fine, un bel film D'AVVENTURA come non se ne realizzano più, popolato da personaggi ben definiti e ancor meglio assortiti. Vero è che in questa "versione" della storia si perde un po' il caos portato da un gioco in scatola in grado di modificare la realtà preferendo un videogame che risucchia le persone all'interno di sé stesso (come accadeva, se non ricordo male, nel cartone animato), però questo escamotage narrativo consente di avere per protagonisti dei ragazzi completamente distanti dall'immagine e dai pregi dei loro avatar, con risultati esilaranti, e di sfruttare i cliché dei videogame per creare situazioni estreme che nell'altro film avrebbero sicuramente decretato la morte dei personaggi, raggiungendo così un risultato ancora più spettacolare. L'unico difetto riscontrabile in fase di sceneggiatura è a mio parere la presenza di un villain schifido quanto si vuole ma poco presente e, ancor peggio, poco carismatico, ma se si guarda alla sua natura come a quella di un cattivo, per l'appunto, "da videogame", la cosa avrebbe anche senso, così come ha senso la palese suddivisione in livelli con prove da superare sempre più ardue, enigmi, insidie nascoste ed easter egg come nella miglior tradizione dei videogiochi d'avventura anni '80/'90.


Detto questo, al di là della trama simpatica e degli effetti speciali bellissimi, soprattutto quando sono implicati gli animali (qui ci sono elefanti, ippopotami, rinoceronti, ghepardi, serpenti ed insetti assortiti) e i modi rocamboleschi in cui i nostri devono cercare di fuggire dalla loro minaccia, ciò che ho amato di questo Jumanji sono gli attori. Mai avrei creduto di dover tessere l'elogio di Dwayne Johnson su questo blog ma il vecchio "The Rock" ha trovato il modo perfetto di mettere al servizio del divertimento dello spettatore il suo fisico prendendosi in giro in maniera deliziosa, una cosa che era riuscita bene solo allo Schwarzenegger dei tempi d'oro: vedere il personaggio di Smolder Bravestone "smolderare" per davvero (se qualcuno sa com'è stato reso il gioco di parole in italiano me lo fa sapere, per cortesia? Thanks!) oppure strillare come una pazza alla vista di uno scoiattolo mi ha aperto gli occhi su quanto Dwayne Johnson sia un attore molto onesto e versatile anche se non arriverà mai a vincere l'Oscar e per questo non posso che volergli bene. Il migliore, neanche a dirlo, resta però sempre Jack Black negli inediti panni di ragazzina piena di sé intrappolata nel corpo di un ciccione, ruolo che molti comici avrebbero caricato fino a renderlo ridicolo mentre invece l'ottimo Jack scava nella psiche di Bethany, facendola maturare man mano che l'avventura in Jumanji prosegue, al punto che sinceramente sul finale mi si è spezzato il cuore per un motivo che non vi spoilero. Bravissimi anche l'atletica Karen Gillan (strepitosa nelle coreografie "danzerecce") e l'esilarante Kevin Hart, ognuno alle prese con personaggi difficili da delineare tenendo conto sia della loro natura umana che di quella videoludica e per questo ancora più apprezzabili. Jumanji - Benvenuti nella giungla non sarà il film dell'anno ma mette tranquillamente a tacere tutti i criticoni malcontenti dell'internet senza devastare l'infanzia a chicchessia e, soprattutto, fa venire voglia di veder tornare Smolder Bravestone e i suoi compari (senza dimenticare l'adorabile e britannico Nigel) per una nuova avventura scandita dal suono dei terribili tamburi di Jumanji!


Di Dwayne Johnson (Spencer), Kevin Hart (Fridge), Jack Black (Bethany), Karen Gillan (Martha), Rhys Darby (Nigel), Bobby Cannavale (Van Pelt), Missi Pyle (Coach Web) e Tim Matheson (Vecchio Vreeke), ho parlato già ai rispettivi link.

Jake Kasdan è il regista della pellicola. Americano, figlio di Lawrence Kasdan, ha diretto film come Orange County e Bad Teacher - Una cattiva maestra. Anche produttore, attore e sceneggiatore, ha 44 anni.


Alex Wolff interpreta il giovane Spencer. Fratello ancor più brutto ma decisamente più simpatico di Nat Wolff, ha partecipato a film come Lo spaventapassere, Il mio grosso grasso matrimonio greco 2, My Friend Dahmer e a serie quali Monk, inoltre ha lavorato come doppiatore per l'edizione USA de La collina dei papaveri. Americano, ha 21 anni e tre film in uscita.


Colin Hanks interpreta Alex da adulto. Americano, figlio di Tom Hanks, ha partecipato a film come Music Graffiti, Orange County, King Kong, Tenacious D e il destino del rock, Parkland e a serie quali Roswell, Band of Brothers, The O.C., Numb3rs, Dexter e Fargo, inoltre ha lavorato come doppiatore in serie come Robot Chicken. Anche regista e produttore, ha 41 anni.


Nick Jonas, che interpreta Alex, oltre ad essere un membro di quei Jonas Brothers di cui fortunatamente oggi non dovrebbe ricordarsi nessuno era anche il mitico Boone della prima serie di Scream Queens; il fanciullo ha funto da ripiego per Tom Holland, scelto per il ruolo ma impegnato sul set di Spider-Man: Homecoming. Ovviamente, se Jumanji - Benvenuti nella giungla vi fosse piaciuto dovete recuperare il suo "prequel" Jumanji e aspettare un terzo capitolo della saga, visto che pochi mesi fa sono stati riconfermati sceneggiatori e cast al gran completo! ENJOY!

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