Pagine

venerdì 29 marzo 2024

Lisa Frankenstein (2024)

E' il film che ha fatto tornare Lucia a scrivere, come potevo perdermelo? Oggi parliamo di Lisa Frankenstein, diretto dalla regista Zelda Williams.


Trama: Lisa è una ragazza che, dopo la morte della madre e il matrimonio del padre con un'altra donna, fatica ad integrarsi. I momenti migliori, per lei, sono quelli passati in solitudine nel cimitero degli scapoli, dove in particolare l'attrae la tomba di un un suo coetaneo morto centinaia di anni prima. Proprio questo stesso giovane, dopo una violenta tempesta, torna come zombie e va a cercare Lisa...


Quando Lucia mi ha detto di mettere da parte tutti gli altri recuperi e guardare Lisa Frankenstein, aveva proprio ragione. Il film di Zelda Williams (sceneggiato da Diablo Cody) è la perfetta dimostrazione che si possono prendere a prestito tanti stili, idee e suggestioni già utilizzate in passato, dare loro una rinfrescata e sfornare un prodotto piacevolissimo dove la nostalgia e l'omaggio non sono fine a loro stessi ma diventano parte integrante della storia narrata. Per essere più precisi, Lisa Frankenstein è il film che Tim Burton avrebbe potuto e dovuto girare se non fosse ormai completamente bollito e asservito ai voleri delle majors, un perfetto e gioioso mix di creepiness e sentimenti d'amore (anche fraterno), immerso in un contesto che più camp non si può e, soprattutto, filtrato dal punto di vista distorto di una protagonista adorabilmente insopportabile. Senza fare troppi spoiler, Lisa Frankenstein è il grottesco coming of age di una ragazza segnata da una terribile tragedia, troppo compresa nel suo dolore e nell'ennui per aprire gli occhi e guardare oltre un rassegnato, patetico egoismo, che si evolve in una feroce voglia di rivalsa nel momento in cui le sue mani si macchiano di sangue per la prima volta. A farne le spese, oltre a varie vittime, è la povera "creatura" uscita dalla tomba dopo una tempesta e attirata dalle promesse sognanti della solitaria Lisa la quale, aspettandosi probabilmente un elegante fantasma vittoriano di bell'aspetto, non è molto felice (almeno all'inizio) di trovarsi davanti un puzzolente cadavere sordomuto e monco. La sceneggiatura di Diablo Cody è coinvolgente sia per la scelta vincente di non raccontare la tipica storia d'amore tra umano e mostro, definizione peraltro intercambiabile, sia per quella di sovvertire parecchi cliché del genere horror e teen, grazie a dei personaggi che vanno in una direzione diametralmente opposta rispetto a quello che ci si aspetterebbe da loro (si veda la deliziosa sorellastra Taffy, la negazione di ogni school bitch mai apparsa sugli schermi) e a risoluzioni che sfidano la rigida morale che solitamente accompagna questo tipo di narrazioni. 


A livello di immagini, Lisa Frankenstein è una gioia per gli occhi, già a partire dalle bellissime animazioni dei titoli di testa. Gli echi Burtoniani, come dicevo, sono fortissimi: Lisa vive in una suburbia di casette pastello, dove le matrigne (interpretate da Carla Gugino, elegantissima e vajassa come non mai) collezionano fragili oggettini incredibilmente kitsch, in quartieri tra lo squallido e il lezioso dove, però, cimiteri dai nomi evocativi si nascondono a un metro dalla "civiltà". Mano a mano che il film prosegue e Lisa scopre la sua vera natura, fotografia e regia evolvono in un florilegio di colori al neon e anni '80 filtrati da pubblicità, film, canzoni e telefilm (anche a livello di dialoghi, il film è un'esilarante e continua citazione, mentre la colonna sonora calzantissima ha uno score originale che richiama, a tratti, qualcosa composto da Danny Elfman), specchio di ciò che si smuove, finalmente, dentro la protagonista. A proposito di quest'ultima, tolto che Kathryn Newton è ormai una garanzia, parliamo del make-up e degli abiti spettacolari di Lisa. La fanciulla esordisce come la wannabe sfigata di Madonna, in un profluvio di lacca, piastre per frisé e un trucco talmente cheap che non donerebbe nemmeno alla Ciccone in persona; nel momento in cui Lisa incontra la creatura, cambia anche il suo modo di truccarsi e vestire, non più la pallida imitazione delle sue coetanee o degli idoli dell'epoca, ma una dark lady sexy e sfrontata, tutta guanti neri, fibbie, pizzi e labbra scarlatte, con più di una strizzata d'occhio alla Helena Bonham Carter dei bei tempi andati. E se la Newton fa propria l'"aura" della Bonham Carter, la creatura di Cole Sprouse ricorda un Johnny Depp ancora giovane e dotato di neuroni, un mix tra la malinconia di Edward mani di forbice e la ferocia grottesca di Sweeney Todd, un essere adorabile nella sua goffa (e talvolta disgustosa) imperfezione e dotato non solo di sentimenti elevati ma anche di voglie terrene, affrontate con piglio esilarante dalla scrittura di Diablo Cody. Attenzione anche alla favolosa Taffy di Liza Soverano, personaggio che cresce e si evolve in maniera inaspettata e realistica, diventando il cuore "sano" di un film che vi consiglio spassionatamente di recuperare, nell'attesa (spero probabile ed imminente!) di un'illuminata distribuzione italiana. 


Kathryn Newton
(Lisa) e Carla Gugino (Janet) le trovate ai rispettivi link. 

Zelda Williams è la regista della pellicola. Americana, figlia del compianto Robin Williams, ha diretto altri due lungometraggi, Shrimp e Kappa Kappa Die. Anche attrice, produttrice e sceneggiatrice, ha 35 anni.


Per la serie "ma santo Cielo come crescono!", Cole Sprouse, che interpreta la creatura, è stato il Cody Martin di Hannah Montana e Zack e Cody al Grand Hotel (se vogliamo andare ancora più indietro era il figlio di Ross in Friends, Ben); Joe Chrest, che interpreta Dale, è  invece il padre di Mike e Nancy nella serie Stranger Things. Se Lisa Frankenstein vi fosse piaciuto recuperate Schegge di follia, Tragedy Girls, Jennifer's Body, Freaky, Edward mani di forbice e Beetlejuice. ENJOY!


mercoledì 27 marzo 2024

Rustin (2023)

Tornano i rimasugli della Road to the Oscars, con un altro biopic! Oggi tocca a Rustin, diretto nel 2023 dal regista George C. Wolfe, candidato a un Oscar per il miglior attore protagonista.


Trama: Bayard Rustin, attivista di colore, deve affrontare i suoi demoni personali e l'ostracismo dei capi dei movimenti per i diritti civili, ed organizzare la marcia di protesta pacifica più grande della storia degli USA...


Ormai da parecchi anni, tra i film che partecipano alla Notte degli Oscar, ci dev'essere l'inevitabile quota di biopic dedicati a figure più o meno conosciute della cultura afroamericana. Questo, in particolare, punta i riflettori su Bayard Rustin, attivista di colore nell'America degli anni '60 nonché organizzatore della famosissima, storica marcia su Washington dove Martin Luther King ha pronunciato il suo discorso "I Have a Dream". Il buon reverendo King compare spesso nel film, ma il suo ruolo, benché importante, è secondario, tanto è vero che al discorso si accenna en passant, mentre la trama si focalizza interamente sul perché Bayard Rustin fosse considerato un paria tra i paria: (trigger warning: umorismo da Drive In in arrivo) non solo era di colore, ma persino comunista e financo gay, gli mancava solo di essere alieno poi le aveva tutte, insomma. Una persona così sfaccettata, diciamo, aveva già una vita non facile, eppure ha deciso di imbarcarsi comunque nella missione pressoché impossibile di annullare le differenze tra le innumerevoli realtà che componevano il movimento per i diritti civili e unirle per un obiettivo comune, quello della marcia su Washington. Il film dunque racconta la lunga strada verso l'evento, tra entusiasmi iniziali e compromessi necessari, pochi amici diffidenti e tantissimi nemici pronti a mettere i bastoni tra le ruote a Bayard, dirigenti di colore più stronzi dei bianchi e bianchi di imbarazzante razzismo, il tutto affrontato con piglio deciso e una discreta cazzimma da parte del protagonista. Tra una lotta e l'altra, la sceneggiatura ha anche il tempo di dare qualche pennellata di melò, inserendo struggenti storie di amore proibito tra Bayard e un paio di protetti, con la minaccia della buoncostume (o peggio) sempre a pendere sul capo di un uomo che proprio non riusciva a tenere temporaneamente a bada il suo desiderio d'amore onde evitare di danneggiare l'importante causa in cui era impegnato.


Colman Domingo,
in tutto questo, ci sguazza. Ennesima perdita per il genere femminile, ché 'sto pezzo di marcantonio è gay anche fuori dal personaggio, l'attore offre una performance convincente nei panni di un uomo orgoglioso della propria diversità e pronto a combattere l'inevitabile scoramento causato da una vita passata a combattere e giustificarsi, tra momenti di esilaranti confronti e terribile disperazione. Poiché vengono sfruttate anche le sue doti canore, Colman Domingo è l'elemento migliore del film assieme alla colonna sonora jazz, ma non basta a salvare Rustin dall'impressione di trovarsi davanti un compitino ben eseguito nella sua banalità. Il cast di supporto è "sufficiente" (salvo per Chris Rock, quello mi strappa gli schiaffi dalle mani sempre e comunque) e la storia scorre senza troppi entusiasmi o emozioni; la regia è nella media per quanto riguarda le riprese in interno ma diventa imbarazzante nelle sequenze ambientate a Washington, dove si cerca di sopperire ad un budget probabilmente insufficiente con video di repertorio e un green screen talmente posticcio che, al confronto, l'ultimo Ant-Man sembrava un capolavoro di effetti speciali. Rustin, prodotto dalla prestigiosa Higher Ground di Barack e Michelle Obama, lo trovate comodamente su Netflix quindi è facilissimo da recuperare, se vi va di conoscere un importante protagonista della storia americana che magari qui in Italia (ma secondo me anche in America) non viene mai neppure nominato, ma se cercate un'opera di alto valore cinematografico il mio consiglio è quello di rivolgervi altrove.   


Del regista George C. Wolfe avevo già parlato QUIColman Domingo (Bayard Rustin), Glynn Turman (A. Philip Randolph), Chris Rock (Roy Wilkins), CCH Pounder (Dr. Anna Hedgeman), Jeffrey Wright (Rep. Adam Clayton Powell) e Da'Vine Joy Randolph (Mahalia Jackson) li trovate invece ai rispettivi link.





martedì 26 marzo 2024

Imaginary (2024)

Nonostante l'enorme sòla che è stato Night Swim, ho deciso di dare ugualmente una possibilità alla nuova produzione Blumhouse, Imaginary, diretto e co-sceneggiato dal regista Jeff Wadlow.


Trama: Jessica torna nella sua casa natale con il marito e le due figliastre, la più piccola delle quali comincia ad interagire con un orsetto di peluche trovato nello scantinato...
 

Imaginary
è un horror "tranquillo" senza guizzi né sorprese, la tipica pellicola un tanto al chilo per riempire le sale e fare cassa in attesa di qualcosa di più sostanzioso. La storia è un pastiche di cliché e citazioni tratti da altre opere di genere, in primis Poltergeist, e vede un'illustratrice in crisi d'ispirazione tornare nella sua casa natale assieme al marito e alle due figliastre. Il rapporto con queste ultime, soprattutto con la più grande, è complicato dal ricordo di una madre mentalmente disturbata, ma Jessica ce la mette tutta per essere una buona matrigna e sembrerebbe riuscire, almeno con la piccola Alice, finché la bambina non trova un orsacchiotto nello scantinato. L'orsetto Teddy non è solo un peluche, ma diventa per Alice un inseparabile amico a tutti gli effetti, e da lì cominciano guai ampiamente prevedibili dal trailer e condensati nel claim dello stesso: "lui non è immaginario e non è tuo amico". A livello di sceneggiatura, tolti un paio di "maccosa" legati principalmente alla dimensione degli amici immaginari, il film è abbastanza equilibrato nel raccontare una storia destinata principalmente a un pubblico di teenager in cerca di spaventi molto blandi, e per buona parte riesce a rendere interessante un canovaccio ampiamente sfruttato e prevedibile. Nella seconda parte, quando necessariamente bisogna andare oltre la presenza di un orsetto spaventevole che minaccia la vita della sua amichetta umana, il tutto viene appesantito da un paio di personaggi aggiunti apposta per ricoprire il ruolo di "signore spiegoni"; tanto quanto, la psichiatra infantile offre un gancio alla protagonista per ricordare il proprio passato, mentre la vecchia vicina di casa viene sfruttata per spiegare con dovizia di particolari ogni singola cosa, persino quello che lo spettatore può tranquillamente vedere da sé sullo schermo, ed è l'elemento più imbarazzante del film assieme al tentativo di virare, in un paio di dialoghi isterici che vengono presto inghiottiti da una generale atmosfera di tesa serietà, verso l'umorismo Marvel da quattro soldi.


A livello di regia, devo dire di avere apprezzato la dimensione "immaginaria", un palese omaggio al regno del Re degli Gnomi di Labyrinth ma anche a quello del Boogeyman di The Real Ghostbusters, e mi spiace non sia stato sfruttato maggiormente questo Paese delle Meraviglie, assieme magari alle potenzialità espresse dal trovarsi in un mondo dove non c'è limite a ciò che si può ottenere con l'immaginazione. Il design dell'orsetto, nella sua semplicità, è altrettanto gradevole, ed è intelligente il modo in cui il peluche cambia impercettibilmente l'espressione del muso, facendosi sempre più inquietante, ma quel paio di schifezze in CGI nelle scene clou le ho trovate abbastanza sciatte, così come la riproposizione di un paio di pattern che non definirei citazionisti, quanto piuttosto pigri. Al di là delle strizzate d'occhio alle "luci" negli occhi di Pennywise sul finale di It, al già nominato Poltergeist, a quello "Springwood" che si può leggere sulle lettere indirizzate al padre di Jessica, preludio a tutta una serie di scelte di regia e montaggio che rimandano, per l'appunto, a Nightmare (soprattutto al terzo capitolo), ho anche notato come sia molto di moda abbigliare di giallo le final girl "materne" dalla pelle scura, non so se perché è un colore che sta molto bene col loro incarnato o perché richiama un senso di solare positività. Sta di fatto che, da Little Monsters, ad Unwelcome, a questo Imaginary, c'è una sorta di continuità in tal senso. Niente di male, ma mi piacerebbe sapere se è un caso o se la cosa ha un significato particolare. Comunque, se mi sono ritrovata a ragionare su questo, è perché Imaginary in sé non è nulla di che, ed è un film che potete tranquillamente aspettare in streaming per dedicarvi magari ad altre pellicole più interessanti da vedere in sala. 


Del regista e co-sceneggiatore Jeff Wadlow ho già parlato QUI mentre Betty Buckley, che interpreta Gloria, la trovate QUA.


Tom Payne
, che interpreta Max, era quel gran figo di Jesus nella serie The Walking Dead. Se Imaginary vi fosse piaciuto recuperate Poltergeist, la saga di Nightmare, quella di Insidious, i vari Annabelle e, ovviamente, l'adorato Benny Loves You! ENJOY!

venerdì 22 marzo 2024

May December (2023)

E' uscito ieri in tutta Italia il film May December, diretto nel 2023 dal regista Todd Haynes.


Trama: un'attrice decide di partecipare a un film indipendente che porterà sul grande schermo la storia di Gracie, condannata anni prima per aver abusato di un minorenne che, nel frattempo, è diventato suo marito. 


May December
è uno di quei film che non so proprio come affrontare, perché, dal mio punto di vista, offre tantissimi spunti difficili ed interessanti, ma li approccia con una superficialità che, onestamente, non mi sarei aspettata dai coinvolti. La "base" della trama è la storia vera di Mary Kay Letourneau, insegnante di 34 anni che, nel 1997, avviò una relazione sessuale con Vili Fualaau, uno dei suoi allievi, all'epoca dodicenne; questa storia non viene esplicitamente citata nei credits e questo ha fatto abbastanza scalpore negli USA, visto che la Letourneau è morta ma Fualaau non è stato neppure interpellato e, pare, si sia detto disgustato dal film. Al di là di scalpori e offese, personalmente credo che una storia come questa vada trattata coi guanti e stando ben attenti a non trasformarla in un'opera di "exploitation". A costo di sembrare impopolare, però, dico anche che sicuramente la Letourneau aveva problemi psico-comportamentali di varia natura (io non mi eccito sessualmente guardando creature implumi come dei dodicenni, li riconosco come bambini e il solo pensiero mi repelle) ma comunque il bambino l'ha messa incinta due volte (la seconda quando la donna è uscita dal carcere con la condizionale) e un uomo funziona un po' diversamente da una donna, quindi aspetterei ad additare lei come unica strega della situazione, quando gli adulti che dovevano tutelare Fualaau e magari indirizzarlo meglio a livello psicologico hanno fallito nel loro lavoro. A prescindere da cosa possa pensarne io, c'è di buono che May December non pretende di trovare dei colpevoli, anzi, è molto chiaro nella sua volontà di inserire due dei protagonisti, Gracie e il giovanissimo marito Joe, in una zona di grigio ricca di sfumature; il presunto amore che legherebbe i due viene complicato dalla fragilità mentale di lei, bisognosa di essere curata come una bambina e di avere un modello di virilità gentile ed affascinante, un prince charming in grado di gestire la vita di entrambi, e dal fatto che lui sia stato costretto a crescere troppo in fretta, assumendosi tutte le responsabilità adulte di un marito e padre, senza essersi goduto le esperienze dei suoi coetanei. A rimestare nel torbido arriva Elizabeth, attrice famosa chiamata ad interpretare Gracie. Per approfondire il personaggio, Elizabeth decide di passare del tempo con Gracie, Joe e le loro famiglie, ma la sua presenza sconvolge gli equilibri della coppia, facendo sorgere domande scomode.


Quello che io contesto al film e che mi porta a parlare di "superficialità" è che la sceneggiatura, invece di concentrarsi sulle dinamiche tra Gracie e Joe, ci presenta la storia dal punto di vista di Elizabeth, personaggio a dir poco ambiguo. Fin dall'inizio, infatti, Elizabeth sembrerebbe quasi volersi sostituire a Gracie più che capirla per portare meglio su schermo il personaggio e, ancora peggio, viene mostrata l'attrazione subitanea nei confronti di Joe, altro elemento che farebbe di Elizabeth un personaggio non solo ambiguo, ma anche deplorevole. Joe, nonostante la sua paternità e l'atteggiamento adulto, è un ragazzo pieno di problemi, probabilmente invischiato in una relazione impossibile da troncare senza causare traumi psicologici ad entrambi i coinvolti, e io capisco il desiderio di Elizabeth di immedesimarsi al punto da voler riportare su schermo anche l'attrazione sessuale di Gracie verso l'allievo, ma la presenza di questo "terzo incomodo" complica inutilmente uno studio di personaggi già complesso di suo e svia l'attenzione dello spettatore verso... cosa? L'ennesima critica sull'establishment, sul desiderio di spettacolarizzazione a tutti i costi? Non saprei, giuro che non ho capito il punto del film. Sicuramente è un mio limite, per carità, ma così mi è risultato difficile godermi le interpretazioni degli attori, che pur sono parte integrante del fascino malato di May December. Le simpatie dello spettatore (e probabilmente di Todd Haynes) vanno inevitabilmente a Joe, interpretato alla perfezione da un Charles Melton malinconico e dimesso, divorato dalle personalità psicotiche delle donne che lo circondano, mentre l'aspetto grottesco del film poggia interamente sulle spalle di Natalie Portman e Julianne Moore, con un continuo ribaltamento di ruoli che rappresenta la parte più affascinante di May December: la natura dominatrice di Elizabeth e Gracie le porta ad affrontarsi in silenziosi scontri alimentati da disprezzo reciproco e una continua tendenza a sottovalutarsi a vicenda, il che porta a gustose sequenze in cui il dramma lascia il posto a una triste commedia. Aspetti positivi, che tuttavia non mi tolgono dalla testa la convinzione che May December sia una splendida confezione per il vuoto cosmico. 


Del regista Todd Haynes ho già parlato QUI. Natalie Portman (Elizabeth) e Julianne Moore (Gracie) le trovate invece ai rispettivi link. 



mercoledì 20 marzo 2024

Bolla Loves Bruno: Impatto imminente (1993)

Giuro che non mi sono dimenticata della rubrica Bolla Loves Bruno, ma tra una cosa e l'altra è una rassegna che va molto a rilento. Quest'anno cercherò di essere più regolare, anche se siamo già a marzo (e, come una cretina, mi accorgo solo ora che ieri era il compleanno di Willis. Auguri in ritardo, patatone mio!)! Ma bando alle ciance, oggi tocca a Impatto imminente (Striking Distance), diretto e co-sceneggiato nel 1993 dal regista Rowdy Herrington.


Trama: dopo la morte del padre durante l'inseguimento di un serial killer, Tom Hardy viene trasferito alla polizia fluviale. L'assassino, tuttavia, torna a mietere vittime...


Per citare René Ferretti: "Mamma mia, la monnezza che ho fatto!" E' questo che avrà pensato in retrospettiva Bruce Willis ricordando film come Impatto imminente, la prima delle tante scelte sbagliate del nostro eroe. Sapete che amo Bruno (d'altronde, il titolo della rubrica è chiaro) ma non sono così ipocrita da giustificare tutta la fuffa a cui ha partecipato nel corso degli anni, soprattutto quando, come in questo caso, i film sono l'ennesima dimostrazione della mania di protagonismo di Bruce, degli one man show vittime di pesantissime riscritture e reshooting a seguito di disastrose proiezioni di test durante le quali il nostro "non è stato capito". Impatto imminente, nell'anno del Signore 2024, non è giustificabile nemmeno come film per la TV da vedere durante i pomeriggi di malattia. Intanto, è il bignami di ogni action con Bruce Willis, conseguentemente prevedibile dall'inizio alla fine. Sembra una lista della spesa: tragedia iniziale, check, conseguente rifugio nell'alcool che trasforma Willis da rispettabile ma poco affascinante uomo della strada a sfattone überfigo, check, situazione terribile in cui Willis ha palesemente ragione ma tutti gli remano contro perché alcolizzato, check, figa di turno che è l'unica a capirlo e che immancabilmente rischierà di farsi malissimo perché finirà nel mirino del villain, check, confronto col boss finale, check, happy ending con riabilitazione definitiva della reputazione di Willis, check. Impatto imminente è però anche ibridato con quei thriller cupi che andavano di moda negli anni '90, perché c'è un tizio che uccide donne a caso dopo averle torturate e che, a seguito di una spiegazione troppo cretina per essere vera, comincia ad essere più specifico e ad ammazzare le ex fidanzate del protagonista. Queste due anime, vuoi per le riscritture, vuoi per l'incapacità del regista, cozzano senza mai amalgamarsi, con una vicenda che si trascina moscia da un cadavere all'altro e riduce, fin dalla prima inquadratura, la rosa dei sospetti a tre persone facilmente intercambiabili (in realtà dicono ci sia un particolare che chiarisce da subito l'identità del killer, ma non lo riguarderò per vedere se è vero!), mentre Willis si profonde in numeri da superpoliziotto e si strugge per un dramma umano fatto di disonore, poliziotti incazzati e panni sporchi che non vengono lavati in famiglia.


Il finale, in particolare, ha un plot twist con retroscena tra il ridicolo e l'aberrante, che è un po' la stessa definizione che darei ai capelli di Robert Pastorelli, costretto ad andare in giro con un nido di chiurlo in testa per sottolineare la natura nevrotica del suo personaggio di poliziotto violento. A proposito di acconciature, i reshooting sono talmente evidenti e mal raccordati che la pettinatura e la lunghezza dei capelli di Willis cambiano da una sequenza all'altra (la cosa colpisce in particolare dopo il suo ultimo bagno nel fiume, lì mi è scappata una risata incontrollata), un indice di sciatteria che fa il paio con la poca voglia dei coinvolti di impegnarsi più di tanto. Visto il cast, con un regista e dei produttori più centrati (e meno disposti a lasciare carta bianca all'impegnatissimo Bruce) la possibilità di realizzare qualcosa di dignitoso c'era: abbiamo Bruce Willis all'apice della carriera, un caratterista valido come Dennis Farina, un Tom Sizemore giovane, bellissimo e sottoutilizzato, una Sarah Jessica Parker che... no, scusate, non ho mai capito come abbia fatto la Parker ad ottenere il rango di carismatico sex symbol visto che qui ha la stessa carica sessuale di un Twinkie e l'alchimia con Bruce Willis è pari a zero (esilarante la scena in cui lui CERCA di cacciarla fuori dalla roulotte ma niente, lei è talmente fissata di doverselo fare che lo ferma con un bacetto a fior di labbra, tentennante, efficace solo perché lui non ne becca da anni). Comunque, dicevo, per un filmaccio simile il cast è di alto livello e spezza davvero il cuore pensare a quanto talento sia andato sprecato. Forse l'unico aspetto positivo di Impatto imminente, tolto il fatto che Willis è sempre un bel vedere, soprattutto quando "fa Bruce Willis", è l'idea di ambientare parte del film sul fiume, con un paio di divertenti momenti di azione subacquea e un inseguimento abbastanza adrenalinico. Per il resto, potete anche evitare.  


Di Bruce Willis (Tom Hardy), Sarah Jessica Parker (Jo Christman / Det. Emily Harper), Tom Sizemore (Danny Detillo), Brion James (Det. Eddie Eiler) e Tom Atkins (zio Fred) ho parlato ai rispettivi link.

Rowdy Herrington è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Americano, ha diretto film come Il duro del Road House ed episodi di serie come I racconti della cripta. Anche attore e produttore, ha 73 anni.


Dennis Farina
interpreta Nick Detillo. Americano, ha partecipato a film come Manhunter - Frammenti di un omicidio, Get Shorty, Out of Sight, Salvate il soldato Ryan, Snatch - Lo strappo e a serie come Hunter, Miami Vice e I racconti della cripta; come doppiatore ha lavorato ne I Griffin. Anche produttore, è morto nel 2013 all'età di 69 anni.




martedì 19 marzo 2024

Revealer (2022)

Attirata dalla trama particolare, ho recuperato Revealer, diretto e co-sceneggiato dal regista Luke Boyce


Trama: una spogliarellista e un'attivista religiosa si ritrovano bloccate all'interno di un locale per peep show proprio il giorno dell'Apocalisse e devono tentare di sopravvivere all'invasione di demoni...


Revealer è un horrorino simpatico che parte dall'interessante premessa di cui sopra, grazie alla quale i realizzatori sono riusciti a superare gli evidenti limiti di budget e a rendere il film interessante proprio in virtù dei confronti tra le due protagoniste. Da una parte abbiamo Angie, spregiudicata spogliarellista tutta pose dark e volgarità, dall'altra c'è Sally, attivista religiosa delle peggiori, di quelle che non concepiscono una vita diversa da quella imposta da Dio e conoscono a menadito la Bibbia. Quando l'Apocalisse, quella vera, descritta proprio nel Libro, si abbatte sul mondo, le due si trovano a dover formare una scomoda ed inusuale alleanza per uscire vive dall'unico rifugio disponibile, ovvero il localaccio dove lavora Angie. Lasciando un attimo da parte l'Apocalisse, la relazione tempestosa tra le due nasce in primis dall'atteggiamento di Sally, la quale ovviamente non solo accusa Angie di essere una delle cause della fine del mondo in virtù del suo essere una tsoccola scostumata, ma si considera immune dalla minaccia dei demoni, a suo dire giunti solo per fare scempio dei peccatori, cosa che lei non è... apparentemente. E' chiaro fin dall'inizio, infatti, che i feroci mostri scatenati in Revealer sono, in quanto "rivelatori" per l'appunto, puntigliosi da morire e non fanno passare nemmeno un peccatuccio, soprattutto a chi mente persino a se stesso ed è pronto a puntare il dito sulle persone con una superficialità imbarazzante, e ciò porterà la nostra suorina mancata a farsi un bell'esame di coscienza. 


E' una fortuna, dunque, che le due attrici protagoniste siano brave, convinte e abbiano una bell'alchimia tra loro, anche perché il resto del film non è proprio un capolavoro ineccepibile. Per carità, col budget palesemente risicato che si è ritrovato tra le mani, Luke Boyce è riuscito comunque a sfruttare appieno le due location a disposizione del film e a renderlo claustrofobico e labirintico anche grazie al montaggio e al sapiente uso di luci che mi hanno ricordato parecchio i film di Begos, inoltre si è tenuto da parte qualcosina per l'interessante panoramica al computer che accompagna i titoli di coda, offrendo allo spettatore un'idea più chiara del destino delle due protagoniste. Chiudendo un'occhio, si riescono a trovare gradevoli anche i pochi momenti gore e le sparute creature demoniache, i quali denotano una discreta padronanza degli effetti speciali più artigianali e del make-up (mi è parso che di computer grafica ne sia stata usata poca ma è anche vero che dopo avere letto questo articolo non posso fidarmi più di nulla), anche se di vera paura non ne ho mai provata, per intenderci non siamo ai livelli del maledetto We Need to Do Something. L'unico, vero difetto di Revealer, in realtà, è la sua ambientazione anni '80, che non aggiunge NULLA alla storia, non è funzionale alla trama ed è arrivata già da un paio d'anni a saturarmi, soprattutto quando diventa mera strizzata d'occhio come in questo caso. Se a voi gli anni '80 "come li immaginano i Post-Millenials" non hanno ancora stufato e volete godervi un horror che riesce ad essere in qualche modo ottimista davanti ad una situazione da pessimismo cosmico, recuperate tranquilli Revealer!

Luke Boyce è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Americano, è al suo primo lungometraggio e lavora anche come produttore.


A luglio è stato annunciato che la Vault Comics pubblicherà un tie-in di Revealer, scritto dagli stessi sceneggiatori del film (Tim Seeley, Mark Moreci e Luke Boyce, con l'aggiunta di Aaron Koontz) e disegnato da Dean Kotz, e dico la verità non mi dispiacerebbe affatto leggerlo visto che qui non ci saranno limiti di budget. Se Revealer vi fosse piaciuto recuperate We Need to Do Something. ENJOY!

venerdì 15 marzo 2024

La sala professori (2023)

Pur essendo candidato come miglior film straniero, è uscito in ritardo rispetto alla serata degli Academy Awards, ma sono comunque andata al cinema a vedere La sala professori (Das Lehrerzimmer), diretto e co-sceneggiato nel 2023 dal regista Ilker Çatak.


Trama: dopo una serie di furti avvenuti all'interno della scuola in cui lavora, la giovane insegnante Carla decide di indagare a modo suo, dando il via ad una serie di eventi sempre più stressanti...


Sono andata a vedere La sala professori con, appunto, un professore. Alla fine del film, abbastanza demoralizzato dalla visione, mi ha confermato che, da anni, la scuola è l'inferno che viene rappresentato all'interno della pellicola e che porre rimedio alla situazione è praticamente impossibile. Nel film, tutto nasce da una serie di furti per i quali viene sospettato un bambino figlio di immigrati turchi. Nonostante il sospetto non venga mai formalizzato in un'accusa vera e propria, la vicenda apre una crepa all'interno del delicatissimo ingranaggio che regola i rapporti tra insegnanti, allievi e genitori. La giovane professoressa Carla (alla sua prima esperienza o quasi), onde trovare in modo incontrovertibile il colpevole e sanare così la crepa, decide di ricorrere a un metodo di "indagine" poco ortodosso e, così facendo, scatena una serie di eventi deflagranti che trasformerà un clima di inquieto fastidio, tutto sommato sopportabile, in un delirio di recriminazioni ansiose e vite rovinate. Per parlare dell'intelligenza e della verosimiglianza della sceneggiatura de La sala professori, mi tocca prendere in prestito le parole dell'amico Toto: "la scuola è diventata un'azienda". Ilker Çatak Johannes Duncker descrivono alla perfezione un'ambiente trasformatosi da "tempio del sapere" in un'azienda di servizi gestita da un dirigente scolastico deciso ad accontentare il cliente che ha sempre ragione, ovvero gli studenti presi nel complesso e, soprattutto, i genitori. I docenti si sono trasformati, nel tempo, in dipendenti costretti a mettere burocrazia e beghe legali davanti all'insegnamento, ad assumersi anche il ruolo di psicologo/psichiatra/assistente sociale senza averne le competenze e, soprattutto, senza essere troppo invasivi nell'esercizio di queste funzioni, perché le prime cose da tutelare non sono gli alunni in quanto individui, ma la scuola nella sua totalità, soggetta alla spada di Damocle di azioni legali ecc, quindi i problemi vanno risolti nel modo più rapido possibile. I bisogni dei singoli alunni vengono quindi sacrificati in primis al funzionamento dell'azienda, il dirigente scolastico (che sia competente oppure no) si fa portatore dell'unico verbo accettabile e gli insegnanti, privi di qualsivoglia tutela, devono sopravvivere in due modi: o fregandosene di tutto assimilandosi ad automi privi di passione, oppure cercare di proteggersi a scapito degli studenti. Persone entusiaste e sensibili come Carla fanno una brutta fine, perché se è vero che i ragazzi sono portati, naturalmente, a vedere l'insegnante come "nemico" asservito all'autorità, succede anche che i colleghi si mettano a fare muro e, ancor peggio, che i genitori partano dal presupposto che i loro "piccoli angeli" siano sempre e comunque maltrattati. 


Questo microcosmo angosciante viene reso sullo schermo con il ritmo di un thriller in grado di inchiodare lo spettatore alla poltrona. La sceneggiatura, granitica e priva di sbavature (salvo sul finale, che probabilmente voleva essere una di quelle conclusioni a effetto un po' "artistiche"e che, in realtà, lascia un po' a bocca asciutta, forse perché una vera risoluzione dei problemi della scuola non c'è e non ci sarà mai), è un campo minato di azioni, parole e atteggiamenti dettati dal buon senso che si scontrano col dominio assoluto della burocrazia e della diffidenza. Quest'ultima si concentra sugli sguardi, su ciò che gli occhi colgono o su quello che accade dietro a porte socchiuse o in stanze vuote; da un certo punto in poi, c'è addirittura un accumulo di sguardi, quando tutti gli occhi della scuola sembrano puntati su Carla, pronti a cogliere ogni suo errore, a sottolinearne l'inadeguatezza, e ci sono ben pochi rifugi in un edificio scolastico che, nonostante la quantità di finestre e l'architettura molto ariosa, sembra chiudersi sulla protagonista intrappolandola. Leonie Benesch, dal canto suo, è fantastica. Il suo personaggio compie un'involuzione che la porta dall'essere una fresca insegnante sicura di sé e dai metodi carinissimi (il ritmico battimani iniziale, che diventerà anch'esso fonte di biasimo, è delizioso e rappresenta perfettamente la personalità pratica e sicura di Carla, nonché il suo amore per i ragazzi) a una donna spaventata ed arrabbiata, piena di ansia eppure ancora convinta che i ragazzi possano e debbano essere compresi ed educati, come dimostra l'espressione risoluta sul finale. Sia che siate insegnanti, genitori, studenti un po' più grandini o persone che nulla più hanno a che fare con la scuola, La sala professori è un film che dovreste guardare, innanzitutto per aprire gli occhi su una realtà ancora vittima di pregiudizi e false convinzioni, e poi per riflettere sul fatto che ciò che accade a scuola è la versione in piccolo di un disagio sociale che minaccia di abbruttire tutti noi. 

Ilker Çatak è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Tedesco, ha diretto film come I Was, I Am, I Will Be. Anche produttore e attore, ha 40 anni.




mercoledì 13 marzo 2024

Maestro (2023)

Continua la corsa dietro ai titoli nominati per l'Oscar. Oggi tocca a Maestro, diretto e co-sceneggiato nel 2023 dal regista Bradley Cooper e candidato a 7 premi Oscar: Miglior film, Miglior attore protagonista, Miglior attrice protagonista, Miglior sceneggiatura originale, Miglior fotografia, Miglior trucco e Miglior sonoro.


Trama: vita del musicista Leonard Bernstein, dal suo primo lavoro come direttore d'orchestra al legame con la moglie Felicia, complicato dalle pulsioni omosessuali di lui...


Io quest'anno sto facendo una fatica incredibile a farmi trasportare dalle atmosfere dei film che guardo e, soprattutto, ad allinearmi ai giudizi dei cinefili che, oltre ad amarla, s'intendono della settima arte. Maestro è candidato a sette premi Oscar, di cui quattro tra i più importanti, e io riesco solo a pensare all'indicibile noia che mi ha avvinta per tutta sua durata. E d'accordo, io sono ignorante, non conoscevo Bernstein (e il film non mi ha aiutata a colmare la lacuna, beninteso), ma ho guardato Maestro con un appassionato conoscitore di musica classica, e anche lui è uscito sconfitto dalla visione. La cosa, da un lato mi consola, dall'altra mi abbatte. Maestro è uno splendido lavoro a livello di regia e montaggio, entrambi usati in modo estremamente raffinato per sottolineare non solo il passaggio delle epoche (la transizione dal bianco e nero degli inizi al colore), ma anche il rapporto profondo tra Bernstein e la sua musica, con la vita che si fa musical e viceversa, mentre i personaggi passano da un ambiente e una sequenza all'altra senza apparente soluzione di continuità, come se si trovassero su un palcoscenico. Le interpretazioni dei due protagonisti, poi, sono grandiose. Nascosto, ma neppure poi tanto, da un trucco che lo rende somigliantissimo al vero Bernstein e impegnato in un'interpretazione fisica e vocale che ha dell'incredibile, Bradley Cooper riporta in vita l'artista, con tutta la sua logorrea e il suo enorme ego, sottoponendo personaggi secondari e spettatori a un estenuante, continuo confronto con un protagonista che divora lo schermo. Esce vincitrice, da questo confronto, solo un'eterea Carey Mulligan, dotata di una dignità e un carisma delicato ma deciso, che si prende con naturalezza lo spazio che le compete, consentendo a dialoghi e sequenze di "respirare", fare una pausa e cambiare un po' il punto di vista di un film interamente imperniato sul dramma personale di Bernstein, su una storia d'amore "pilotata" dal musicista. E qui passiamo alle note, per me, dolenti.


Maestro
è imperniato per quasi tutta la durata sul rapporto tra Bernstein e Felicia, con la musica "usata" soprattutto come mezzo per enfatizzare la grandeur del protagonista e come plot device per sottolineare come dietro un grande uomo ci sia sempre una grande donna, paziente per la maggior parte del tempo, scanzonata e sognatrice, ma anche dotata di cazzimma alla bisogna, perché va bene l'amore ma Bernstein era filantropo (cit.), caro lui. Il film, in realtà, la fa anche troppo facile. Benché Felicia fosse consapevole dell'orientamento sessuale del marito e cercasse di non ostacolarlo per non renderlo infelice, Bernstein ha passato comunque anni in cura da psichiatri, alcuni dei quali praticavano l'orrida e sbagliatissima "terapia di conversione", e questo in Maestro non viene mai accennato. Al di là di questo dettaglio insignificante, ho trovato, comunque, che due ore e fischia di psicodramma amoroso fossero anche troppe, soprattutto perché, da un certo punto in poi, il film relega in secondo piano l'evoluzione della carriera di Bernstein per concentrarsi su una sequela infinita di ragazzetti piacenti ghermiti dalle grinfie del musicista sotto l'occhio sempre più critico della moglie. Il risultato è quello di avere un film né carne né pesce, indeciso se essere una travagliata storia d'amore, il dramma psicologico di un genio tormentato o il resoconto dei sensi di colpa di un uomo dalla sessualità aperta e, per l'epoca, "scomoda". Tre identità che, a mio parere, non riescono ad amalgamarsi e che mi hanno portata a non provare interesse per nessuna di esse, trasformando la visione di un film plurinominato in una sofferenza che eviterei volentieri di riprovare. Evidentemente, l'estate non canta più dentro di me, che vi devo dire. 


Del regista e co-sceneggiatore Bradley Cooper, che interpreta anche Leonard Bernstein, ho già parlato QUI. Carey Mulligan (Felicia Montealegre), Matt Bomer (David Oppenheim), Sarah Silverman (Shirley Bernstein), Maya Hawke (Jamie Bernstein) e Josh Hamilton (John Gruen) li trovate invece ai rispettivi link.


Il film avrebbe dovuto essere diretto da Steven Spielberg, che ha lasciato il progetto a Cooper per dedicarsi a West Side Story, o da Martin Scorsese. Entrambi figurano come produttori. Se Maestro vi fosse piaciuto recuperate Tick, Tick... Boom!, The Danish Girl e Tár. ENJOY!


martedì 12 marzo 2024

Il labirinto del fauno (2006)

La Challenge HorrorX52 questa volta mi ha dà una gioia immensa. Seguendo la regola "HORRORx52 REWIND. A film someone watched from 2021's rules", oggi parlerò di Il labirinto del fauno (El laberinto del fauno), diretto e sceneggiato nel 2006 dal regista Guillermo del Toro e vincitore di tre premi Oscar: Migliore Fotografia, Miglior Scenografia e Miglior Trucco.


Trama: nella Spagna del 1944, Sofia e la madre Carmen si trasferiscono in una zona montuosa, nel quartier generale dello spietato colonnello Vidal, padre del bambino che la donna porta in grembo. Lì, Sofia viene avvicinata da un fauno, che le rivela di essere la reincarnazione di Moanna, figlia del Re del mondo sotterraneo, e la sottopone a tre difficili prove...


Non so dire perché fossi convinta di avere già visto Il labirinto del fauno ma, a mano a mano che il film andava avanti, mi sono resa conto che o avevo sognato o l'ho sempre confuso con qualche altro titolo. Poco danno, meglio tardi che mai: ci sono capolavori senza tempo e Il labirinto del fauno è uno di quelli, una pellicola splendida con tanti di quei livelli di lettura e capace di veicolare così tante emozioni che una visione non basterà di sicuro. Guillermo del Toro parte dalla rappresentazione di un periodo storico terribile (la guerra civile spagnola verso la fine della Seconda Guerra Mondiale) e la intreccia con una fiaba nera, utilizzando due registri apparentemente diversissimi che si uniscono sotto lo sguardo innocente e sognatore della piccola Sofia. Quest'ultima è una ragazzina che adora leggere, soprattutto fiabe e leggende, e nella sua giovane vita ha già dovuto subire l'orrore della morte del padre e lo shock di essere costretta ad andare a vivere con la madre incinta nel quartier generale del suo nuovo marito, il violento colonnello Vidal. Sul confine temporale che separa l'infanzia dall'adolescenza, Sofia viene a scoprire da una creatura fantastica, un Fauno, la propria natura di principessa perduta del mondo sotterraneo, e mentre attorno a lei la realtà si fa sempre più tragica e complessa (all'interno del quartier generale la domestica Mercedes affronta i pericoli di essere una spia della resistenza, la gravidanza di Carmen è difficile e rischia di compromettere irreparabilmente la salute della donna, Vidal non ha un briciolo di affetto per Sofia o per sua madre), le prove imposte dal Fauno perché Sofia possa tornare nel suo regno, per quanto difficili, sono fiabesche e lineari, per l'appunto. 


Sembrerebbe quasi che la protagonista si rifugi in un mondo di fantasia per venire a patti con le brutture che la circondano, ma in realtà Guillermo Del Toro sta molto attento a non prendere mai una posizione definitiva sulla questione, e a lasciare l'interpretazione allo spettatore, perché questo dualismo è solo la punta dell'iceberg de Il labirinto del fauno. Il film, infatti, parla soprattutto del coraggio necessario per fare la cosa giusta, per disobbedire di fronte ad imposizioni irragionevoli (Sofia, nel suo piccolo, disobbedisce alle chiare istruzioni del Fauno, una volta "egoisticamente", in virtù della natura ingiusta del divieto, la seconda volta per amore di chi non ha modo di difendersi) e dannose per gli altri, per affrontare persino la morte se l'alternativa è un'esistenza vissuta nella paura e nel disgusto di noi stessi; il commoventissimo finale, in particolare, sottolinea come il male e la tirannia possano essere cancellati con un colpo di spugna, condannati all'oblio perpetuo dopo tanta sofferenza, mentre un'esistenza coraggiosa e virtuosa assicura l'immortalità nel ricordo e nell'amore, con valori positivi portati avanti da chi resta, pur col cuore spezzato. In questo, Il labirinto del fauno è lapalissiano, oltre che assai più potente di altre pellicole che veicolano messaggi simili in maniera trattenuta. Benché la protagonista sia una bambina, infatti, Del Toro non nasconde allo spettatore la spietatezza della guerra e della tirannia. Allo stesso modo, il mondo di fantasia abitato dal Fauno è pieno di creature orribili e sanguinarie, in grado di rendere inospitale un regno "dove la bugia, il dolore, non hanno significato", e l'atmosfera del film risulta, pertanto, costantemente impregnata di inquietudine e un senso di tremenda ineluttabilità.


Nonostante questo, le immagini del film sono splendide. Le scenografie, giustamente premiate con un Oscar, arricchiscono la vicenda di personalità e ciò non vale solo per la bellezza del labirinto del titolo o dei dettagliatissimi ambienti del mondo sotterraneo (in primis l'antro del Pale Man), che sembrano usciti dritti da una fiaba, ma anche per la cantina in cui Vidal passa buona parte del suo tempo, in cui ogni aspetto, anche il più insignificante, è fondamentale per delineare la personalità dell'uomo. Inoltre, nonostante siano passati quasi vent'anni, le creature risultano non solo naturalissime, ma hanno un character design talmente iconico che è impossibile dimenticarle. Doug Jones, che interpreta sia il Fauno che il Pale Man, ci mette del suo grazie ad una fisicità e una mimica impareggiabili, ma buona parte del merito va agli artisti del make-up che hanno realizzato alla perfezione le fantasie di Del Toro (nel bene e nel male, ovvio. Il Pale Man è un incubo spaventosissimo!). Per quanto riguarda gli attori, Vidal è un personaggio talmente abietto che viene da chiedersi come abbia fatto Sergi López a non sentirsi male durante le riprese e a portare a casa una performance così agghiacciante; per contrasto, il mio cuore è volato non solo alla piccola, bravissima Ivana Baquero, ma soprattutto a chi cerca di arginare la malvagità del colonnello, come l'affascinante Maribel Verdù e il dolcissimo Dottor Ferreiro di Álex Angulo, un personaggio, quest'ultimo, che cresce mano a mano che la pellicola prosegue. Ci sarebbero altre mille cose da dire su Il labirinto del fauno ma è bene scoprirle guardando il film, tenendo ovviamente a portata di mano un pacchetto di fazzoletti perché, come succede con tutte le migliori pellicole di Del Toro, il vostro cuore verrà preso e fatto in tanti piccoli pezzetti. Per tanta bellezza ne vale la pena, ma che dolore!


Del regista e sceneggiatore Guillermo Del Toro ho già parlato QUI. Maribel Verdú (Mercedes), Doug Jones (Fauno / Pale Man) e Álex Angulo (Dottor Ferreiro) li trovate invece ai rispettivi link.


Se Il labirinto del fauno vi fosse piaciuto recuperate PinocchioLa forma dell'acqua, La spina del diavolo e Labyrinth. ENJOY!! 


lunedì 11 marzo 2024

Oscar 2024

Buon lunedì a tutti! Dopo due notti matte e disperatissime, gatta Sandy ha scelto proprio questa per dormire fino alle 5, facendomi perdere la serata degli Academy Awards. Poco danno. Quest'anno il mio tifo da stadio era ai minimi storici e le uniche due cose che m pento di non aver visto sono John Cena ignudo e l'esibizione di Ryan Gosling sulle note di I'm Just Ken, per il resto direi che questa sia stata una delle edizioni più "educate" e prevedibili di sempre, almeno a livello di premi. Sarà, infatti, molto facile scrivere il post visto che un film ha vinto praticamente tutto... ENJOY!


Come ampiamente previsto, Oppenheimer ha vinto la statuetta come miglior film e Christopher Nolan quella come miglior regista. L'esito era scontato fin dall'uscita della pellicola: stavolta il regista britannico ha unito la sua indiscutibile tecnica a una storia universale, perfetta per il periodo storico, realizzando un film evento che, diciamolo senza paura, ha sfruttato anche l'antagonismo verso Barbie, uscito ridimensionato e sconfitto con una cattiveria tale da chiedermi cos'abbia fatto di così male all'industria cinematografica. Oppenheimer si porta a casa altri cinque Oscar. Uno, scontatissimo, per Cillian Murphy come miglior attore protagonista (perfetto, non discuto assolutamente, ma posso comunque spendere una lacrima per Paul Giamatti?), uno per Robert Downey Jr. (avrei preferito il collega Mark Ruffalo ma ogni premio dato a Robertino è cosa buona e giusta) e tre premi "tecnici", il doveroso miglior colonna sonora e i più discutibili miglior fotografia e montaggio, che io avrei dato rispettivamente a El conde e Anatomia di una caduta


Altro Oscar ampiamente prevedibile e doverosissimo è stato quello ad Emma Stone come miglior attrice protagonista in Povere creature! A chi ha non ha dormito per giorni pensando a un colpo di mano di Lily Gladstone ricordo che Scorsese è stato snobbato per film molto migliori della sua ultima opera, quindi un po' di realismo ci stava, su. L'ultimo film di Lanthimos partiva stra-favorito ma, tolto l'oscar alla strepitosa Stone, alla fine si è "limitato" ad ottenere riconoscimenti per gli spettacolari costumi, l'interessantissimo trucco e parrucco e le altrettanto splendide scenografie (anche se avrei preferito che il premio andasse a Barbie, visto tutta la vernice rosa consumata).


Vince l'Oscar come miglior attrice non protagonista Da'Vine Joy Randolph. Quest'anno non c'era nessun'attrice che mi ispirasse per la categoria, quindi una vale abbastanza l'altra. Auguro alla vincitrice di non fare la fine di molte altre sue colleghe esordienti, finite nel dimenticatoio dopo la brillante carriera promessa dalla statuetta.

Comunque la prossima volta scegli un altro abito, please

Anatomia di una caduta
vince la miglior sceneggiatura originale lasciandomi molto soddisfatta. E' l'unico premio andato a un film partito favoritissimo, ma meglio che rimanere a bocca asciutta.


La miglior sceneggiatura non originale è andata a un film che, a me personalmente, ha detto proprio poco ma che ha fatto sfracelli in patria, American Fiction. Forse non era il mio genere, ma era quello che meno preferivo tra tutti i candidati. Meglio questo che altri premi per cui era in lizza, per carità.


Mi dispiace per i patrioti, ma sono molto contenta che l'Oscar per il miglior film straniero sia andato a La zona d'interesse, uno dei pochi film di quest'anno ad avermi convinta in toto, che giustamente porta a casa anche l'Oscar per il miglior sonoro, tratto distintivo e fondamentale della pellicola.


Travolge, giustamente, lo strapotere dell'animazione americana l'ultima opera di Miyazaki sensei, Il ragazzo e l'airone. Sono curiosissima di vedere Il mio amico robot ma, nel frattempo, gioisco per lo Studio Ghibli e il suo fondatore (che, conoscendolo, avrà gettato già la statuetta nel bidone della rumenta).

Siccome il sensei non era presente, è giusto postare della figaggine

Infine, riassumo quell'altro paio di premi "tecnici" andati ad altre pellicole. Godzilla -1.0, che purtroppo non ho visto, vince l'Oscar per i migliori effetti speciali. Barbie, alla fine, ha vinto solo la miglior canzone originale, purtroppo non I'm Just Ken come avrei voluto ma What Was I Made For? (oh, ma mai una gioia, eh). Aggiungo, come ogni anno, quelle categorie di cui non ho assolutamente conoscenza, tranne che per lo spettacolare La meravigliosa storia di Henry Sugar, giustamente vincitore del premio come miglior corto: 20 Days in Mariupol Miglior Documentario (mi è bastato il trailer per sentirmi male e piangere, vi credo sulla fiducia), The Last Repair Shop come Miglior Corto Documentario e War Is Over! come Miglior Corto Animato. Vi lascio con tre foto meravigliose e vi dico che da domani, per fortuna, torno a recuperare horror e affini, ma le recensioni a tema Oscar vi accompagneranno, ahivoi, per moltissimo tempo ancora!