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venerdì 22 marzo 2024

May December (2023)

E' uscito ieri in tutta Italia il film May December, diretto nel 2023 dal regista Todd Haynes.


Trama: un'attrice decide di partecipare a un film indipendente che porterà sul grande schermo la storia di Gracie, condannata anni prima per aver abusato di un minorenne che, nel frattempo, è diventato suo marito. 


May December
è uno di quei film che non so proprio come affrontare, perché, dal mio punto di vista, offre tantissimi spunti difficili ed interessanti, ma li approccia con una superficialità che, onestamente, non mi sarei aspettata dai coinvolti. La "base" della trama è la storia vera di Mary Kay Letourneau, insegnante di 34 anni che, nel 1997, avviò una relazione sessuale con Vili Fualaau, uno dei suoi allievi, all'epoca dodicenne; questa storia non viene esplicitamente citata nei credits e questo ha fatto abbastanza scalpore negli USA, visto che la Letourneau è morta ma Fualaau non è stato neppure interpellato e, pare, si sia detto disgustato dal film. Al di là di scalpori e offese, personalmente credo che una storia come questa vada trattata coi guanti e stando ben attenti a non trasformarla in un'opera di "exploitation". A costo di sembrare impopolare, però, dico anche che sicuramente la Letourneau aveva problemi psico-comportamentali di varia natura (io non mi eccito sessualmente guardando creature implumi come dei dodicenni, li riconosco come bambini e il solo pensiero mi repelle) ma comunque il bambino l'ha messa incinta due volte (la seconda quando la donna è uscita dal carcere con la condizionale) e un uomo funziona un po' diversamente da una donna, quindi aspetterei ad additare lei come unica strega della situazione, quando gli adulti che dovevano tutelare Fualaau e magari indirizzarlo meglio a livello psicologico hanno fallito nel loro lavoro. A prescindere da cosa possa pensarne io, c'è di buono che May December non pretende di trovare dei colpevoli, anzi, è molto chiaro nella sua volontà di inserire due dei protagonisti, Gracie e il giovanissimo marito Joe, in una zona di grigio ricca di sfumature; il presunto amore che legherebbe i due viene complicato dalla fragilità mentale di lei, bisognosa di essere curata come una bambina e di avere un modello di virilità gentile ed affascinante, un prince charming in grado di gestire la vita di entrambi, e dal fatto che lui sia stato costretto a crescere troppo in fretta, assumendosi tutte le responsabilità adulte di un marito e padre, senza essersi goduto le esperienze dei suoi coetanei. A rimestare nel torbido arriva Elizabeth, attrice famosa chiamata ad interpretare Gracie. Per approfondire il personaggio, Elizabeth decide di passare del tempo con Gracie, Joe e le loro famiglie, ma la sua presenza sconvolge gli equilibri della coppia, facendo sorgere domande scomode.


Quello che io contesto al film e che mi porta a parlare di "superficialità" è che la sceneggiatura, invece di concentrarsi sulle dinamiche tra Gracie e Joe, ci presenta la storia dal punto di vista di Elizabeth, personaggio a dir poco ambiguo. Fin dall'inizio, infatti, Elizabeth sembrerebbe quasi volersi sostituire a Gracie più che capirla per portare meglio su schermo il personaggio e, ancora peggio, viene mostrata l'attrazione subitanea nei confronti di Joe, altro elemento che farebbe di Elizabeth un personaggio non solo ambiguo, ma anche deplorevole. Joe, nonostante la sua paternità e l'atteggiamento adulto, è un ragazzo pieno di problemi, probabilmente invischiato in una relazione impossibile da troncare senza causare traumi psicologici ad entrambi i coinvolti, e io capisco il desiderio di Elizabeth di immedesimarsi al punto da voler riportare su schermo anche l'attrazione sessuale di Gracie verso l'allievo, ma la presenza di questo "terzo incomodo" complica inutilmente uno studio di personaggi già complesso di suo e svia l'attenzione dello spettatore verso... cosa? L'ennesima critica sull'establishment, sul desiderio di spettacolarizzazione a tutti i costi? Non saprei, giuro che non ho capito il punto del film. Sicuramente è un mio limite, per carità, ma così mi è risultato difficile godermi le interpretazioni degli attori, che pur sono parte integrante del fascino malato di May December. Le simpatie dello spettatore (e probabilmente di Todd Haynes) vanno inevitabilmente a Joe, interpretato alla perfezione da un Charles Melton malinconico e dimesso, divorato dalle personalità psicotiche delle donne che lo circondano, mentre l'aspetto grottesco del film poggia interamente sulle spalle di Natalie Portman e Julianne Moore, con un continuo ribaltamento di ruoli che rappresenta la parte più affascinante di May December: la natura dominatrice di Elizabeth e Gracie le porta ad affrontarsi in silenziosi scontri alimentati da disprezzo reciproco e una continua tendenza a sottovalutarsi a vicenda, il che porta a gustose sequenze in cui il dramma lascia il posto a una triste commedia. Aspetti positivi, che tuttavia non mi tolgono dalla testa la convinzione che May December sia una splendida confezione per il vuoto cosmico. 


Del regista Todd Haynes ho già parlato QUI. Natalie Portman (Elizabeth) e Julianne Moore (Gracie) le trovate invece ai rispettivi link. 



martedì 25 febbraio 2020

Cattive acque (2019)

Messo di fronte ad una scelta, per il cinema della domenica il Bolluomo ha optato per Cattive acque (Dark Waters) diretto nel 2019 dal regista Todd Haynes.



Trama: Un giovane avvocato si ritrova dover intentare una causa milionaria all'azienda chimica DuPont, rea di aver inquinato le acque di svariate cittadine del West Virginia.



Se devo essere onesta, stavolta devo ringraziare il Bolluomo per aver proposto di guardare Cattive acque, perché non ero granché ispirata. Dal trailer, nel quale spiccava un Mark Ruffalo particolarmente bolso, si evinceva la solita mattonata americana di denuncia, tratta da una storia vera, a base di avvocati ed indagini, ma guardando il film si può capire che questi aspetti sono solo la punta dell'iceberg di una pellicola molto umana, costruita più come un thriller che come legal drama, ancor più angosciante di questi tempi in cui la gente ha perso la testa per il Coronavirus. La vicenda è tratta dall'articolo The Lawyer Who Became DuPont's Worst Nightmare di Nathaniel Rich e il titolo del pezzo in questione dà proprio l'idea di come il fulcro di tutto sia la testardaggine di Rob Bilott, avvocato che, benché all'inizio riluttante, non si è mai tirato indietro una volta addentata la carne nera di un'azienda chimica tra le più potenti in America, restando tenacemente attaccato alla preda non tanto per la gloria (anzi, ha rischiato più volte vita, carriera e famiglia) quanto piuttosto per l'indignazione e il desiderio di impedire che l'azienda continuasse ad avvelenare gli ignari americani e il resto degli ancor più ignari abitanti del pianeta Terra. L'"incubo" per la DuPont consiste tuttora in una lotta di nervi e soldi, in cui a fronte di scappatoie legali, tentativi di corruzione e di far perdere tempo, Billot non si è mai arreso e ha trovato, a sua volta, vie traverse per impedire che la DuPont uscisse pulita dall'intera faccenda, a costo di prendere le migliaia di persone ammalatesi di cancro a seguito dell'inquinamento delle falde acquifere e aiutarle a far causa, una per una, all'azienda. L'intera vicenda è poi costruita come un incubo, ma per Billot e persone come Wilbur Tennant, allevatore di mucche che ha progressivamente visto il suo bestiame mutare e marcire dentro, una sorte orribile toccata nel tempo a lui e a molti altri abitanti della zona e lavoratori; guardando Cattive acque si ha infatti la netta sensazione del tempo che scorre inesorabile, di un morbo che minaccia di divorare ogni cosa, di una corsa per evitare non solo che la DuPont la scampi ma soprattutto per far sì che la scampino i poveri abitanti delle zone inquinate.


Colpisce, di Cattive acque, una fotografia per l'appunto acquosa e putrida, di luoghi immersi in un inverno perenne, dove però l'aria stessa è cattiva, e colpisce la precisione chirurgica di una regia che si priva di ogni orpello e ogni distrazione che potrebbe accattivarsi il pubblico; l'unica concessione è la vista della famiglia di Billot, che sullo sfondo cresce e muta, scandendo il tempo che scorre e anche raccontando qualcosa di più di un uomo allevato con valori cristiani e in cerca di un posto da chiamare davvero casa, senza trasformarlo né in un santo né in un martire ma sottolineando la sua natura di persona semplice, di uomo comune dai saldi principi. Semplice non sarà, ma anche i principi di Mark Ruffalo parrebbero ben saldi, tanto che, oltre ad offrire un'ottima performance come attore, il nostro si è impegnato anche come produttore, affermando ancora una volta la sua natura di "star" impegnata in battaglie sociali, ambientali e persino politiche (lo stesso vale per Tim Robbins, ovviamente). Per il resto, ovviamente, fa molto la vostra predisposizione d'animo verso questo genere di film "d'inchiesta". Personalmente, nel corso della visione ho rasentato più volte quel magone "da frustrazione" che mi accompagna quando guardo pellicole di denuncia particolarmente sentite e riuscite, anche perché Cattive acque non lesina i colpi bassi pur senza risultare mai stucchevole o volutamente patetico; detto questo, sapere che in ognuno di noi c'è un po' di DuPont è davvero angosciante e non posso che augurare ogni bene al vero Rob Billot, pur tristemente consapevole di come il pover'uomo, a differenza di Bruce Banner, morirà ben prima di aver debellato la spaventosa Idra delle multinazionali che hanno irrimediabilmente corrotto la Terra e la nostra salute, un mostro innominabile di cui la DuPont forse non è nemmeno la propaggine peggiore.


Del regista Todd Haynes ho già parlato QUI. Mark Ruffalo (Rob Bilott), Anne Hathaway (Sarah Barlage Bilott), Tim Robbins (Tom Terp), Bill Pullman (Harry Dietzler), Bill Camp (Wilbur Tennant) e Victor Garber (Phil Donnelly) li trovate invece ai rispettivi link.

Mare Winningham interpreta Darlene Kiger. Americana, ha partecipato a film come Turner e il casinaro, Biancaneve e a serie quali Starsky & Hutch, Uccelli di rovo, Ai confini della realtà, Innamorati pazzi, E.R. Medici in prima linea, Six Feet Under, Grey's Anatomy, CSI:NY, Cold Case, 24, Criminal Minds, Under the Dome, American Horror Story e The Outsider. Ha 61 anni.


Se Cattive acque vi fosse piaciuto recuperate A Civil Action. ENJOY!

domenica 17 giugno 2018

La stanza delle meraviglie (2017)

Questa settimana il film per me più atteso era La stanza delle meraviglie (Wonderstruck), diretto nel 2017 dal regista Todd Haynes e tratto dal libro omonimo di Brian Selznick, anche sceneggiatore della pellicola.


Trama: negli anni '70, dopo la morte della madre, il piccolo Ben decide di scappare di casa andando in cerca del papà mai conosciuto; in parallelo, negli anni '20, la sordomuta Rose cerca il suo posto nel mondo cominciando da New York, dove vive il fratello Albert.



Avevo molte aspettative per questo La stanza delle meraviglie, soprattutto a seguito del bellissimo trailer, affascinante e già di suo commovente. La sensazione di avere davanti un film che mantenesse le promesse del trailer è rimasta intatta più o meno fino a metà, paradossalmente fino al punto in cui la ricerca di Ben comincia a dare i suoi frutti. Fino a quel momento, lo ammetto, non mi era pesato il fatto che buona parte della pellicola si fissasse sui pellegrinaggi a vuoto di un ragazzino che a un certo punto si ritrova a "vivere" all'interno di un museo con un suo coetaneo, mettendo assieme tessere di un puzzle che diventa sempre più tirato per i capelli; soprattutto, non mi era pesata (anche perché adoro Millicent Simmonds e il suo viso dai lineamenti ottocenteschi) la parte di trama relativa ai problemi familiari ed esistenziali di Rose, ragazza sordomuta circondata da persone arrabbiate, egoiste e quasi imbarazzate dalla sua condizione disgraziata. Soprattutto, ho trovato apprezzabile il modo in cui La stanza delle meraviglie mette in scena i problemi di una persona affetta da sordità o mutismo (o entrambi), raccontando un'Odissea viziata da problemi di comunicazione in due epoche in cui la conoscenza del linguaggio dei segni non era diffusa. Ben pochi si accorgono del fatto che Rose è sorda e si limitano a strillarle addosso pensando che sia stupida o timida benché il suo sguardo spaesato palesi tutta la sua frustrazione e, ancora peggio, i suoi stessi genitori non vanno minimamente incontro ai suoi bisogni, alimentando un disagio risalente agli anni dell'infanzia; non va meglio a Ben, diventato sordo all'improvviso a causa di un incidente e conseguentemente impegnato ad affrontare non solo una città pericolosa e sconosciuta come New York ma soprattutto i disagi connaturati alla sua nuova condizione, ritrovandosi costretto a dipendere dalla sensibilità e dalla bontà altrui. A onore del vero, i pregi di La stanza delle meraviglie sono solo questi, la già citata interpretazione di Millicent Simmonds (peraltro già apprezzatissima in A Quiet Place) e la commistione tra fotografia "bruciata" tipica degli anni '70 e bianco e nero con tanto di musica ed effetti sonori che rievocano gli anni del muto, resa ancora più interessante da un ottimo montaggio. E il resto?


Il resto, almeno per quel che mi riguarda, lascia l'amaro in bocca come già accaduto ai tempi di Hugo Cabret, tratto sempre da un'opera di Brian Selznick. Entrambi i film infatti sono visivamente molto affascinanti e hanno un potenziale emotivo enorme ma inciampano per strada dilatando enormemente i tempi all'inizio e facendo una corsa incredibile per tirare tutti i fili in sospeso sul finale, lasciando lo spettatore con un palmo di naso a domandarsi... oddio, è tutto qui? Nel caso de La stanza delle meraviglie tutto si sgonfia quando la giovane Rose scompare, con un anticlimax da martellata nelle gonadi in cui tutti i segreti e i legami tra passato e presente vengono letti dalla voce di un bambino; benché rappresentata da un'interessante tecnica che unisce animazione a foto statiche, con tanto di diorami e disegni, la rivelazione finale è frettolosa e priva lo spettatore di tutte le lacrime che avrebbe dovuto versare, condensandosi in un diludendo di proporzioni epiche. Tra l'altro, sarò forse tarda io ma non comprendo molto bene il motivo di tutti i richiami allo spazio presenti a inizio film. Se l'idea era quella di unire l'immagine di astronauti, stelle cadenti e meteore alla natura di space oddities di Rose e Ben, diciamo che non è un collegamento così immediato (e sono ancora gentile), mentre se tutto ciò è stato inserito perché funzionale alla trama allora probabilmente io e Selznick abbiamo visto due film diversi, non c'è altra spiegazione. Peccato davvero perché guardando La stanza delle meraviglie mi sono sentita wonderstruck, come da titolo originale, solo per quel che riguarda la bellezza della regia di Haynes, sempre raffinato e particolare, ma tanta "meraviglia" si è trasformata in un'emozione effimera, priva di qualcosa che l'aiutasse a mantenere il ricordo di sé. Non so nemmeno se consigliare o sconsigliare questo film visto che non è per nulla brutto ma mi ha lasciata fondamentalmente insoddisfatta. Fate vobis, insomma. Per me, già vedere Millicent Simmonds all'opera vale il prezzo del biglietto!


Del regista Todd Haynes ho già parlato QUI. Julianne Moore (Lillian Mayhew/Rose), Michelle Williams (Elaine) e Tom Noonan (Walter) li trovate invece ai rispettivi link.

domenica 17 gennaio 2016

Carol (2015)

La prima settimana di "superlavoro" pre-Oscar si conclude con la visione di Carol, diretto nel 2015 dal regista Todd Haynes e tratto dal romanzo omonimo di Patricia Highsmith, già pubblicato sotto pseudonimo nel 1952 col titolo The Price of Salt. Prima di andare avanti vi invito a leggere le splendide recensioni di Lucia e Silvia, alle quali il mio post non sarà neppure degno di baciare i piedi.


Trama: nella New York degli anni '50 due donne si incontrano e a poco a poco s'innamorano. Therese è una giovane commessa che aspira a diventare fotografa, fidanzata con un uomo che vorrebbe sposarla, mentre Carol è già madre e in procinto di divorziare da un marito che non accetta il suo stile di vita. Le due partiranno per un viaggio alla scoperta di sé stesse e del loro legame...


Siccome i due post che vi ho linkato su contengono tutto ciò che dovete sapere per poter fruire al meglio di un film come Carol, compresi indispensabili chiarimenti su alcuni aspetti tecnici e alcuni retroscena legati al romanzo di Patricia Highsmith che, purtroppo e molto colpevolmente, non ho mai letto, qui mi limiterò a raccontarvi come mai il film di Haynes mi sia piaciuto molto e perché non lo ritenga affatto freddo come si legge praticamente ovunque in questi ultimi giorni. Di Carol ho adorato proprio il modo sussurrato, progressivo ma inequivocabile col quale il sentimento tra le due protagoniste nasce e si consolida dopo un incontro casuale durante il quale al regista basta inquadrare un gioco di sguardi per esprimere tutta la sorpresa e la curiosità di un sentimento improvviso e inaspettato ma anche inconfondibile. Carol e Therese si piacciono fin dall'inizio, è palese. Magari la prima è più consapevole del significato di questo "piacersi" mentre Therese, lo svagato "angelo caduto dallo spazio", accoglie la cosa più come una sorta di fascinazione legata alla sua natura di aspirante fotografa oppure all'insoddisfazione di frequentare un fidanzato e degli amici beoni e poco stimolanti, chissà. Nessuno può sapere come nasce un amore, forse neppure le persone che lo stanno vivendo: sta di fatto che Carol e Therese si cercano, si piacciono, si capiscono e scelgono di andare contro tutto e tutti pur di assecondare ciò che probabilmente nasce come un capriccio e finisce per diventare un sentimento reale e ovviamente non accettato da tutti. La storia di Carol e Therese segue ritmi lenti, quasi oziosi e perché non dovrebbe? Le relazioni omosessuali non vengono quasi accettate neppure nel 2016 nonostante chi le viva sia consapevole di avere tutti i diritti di farlo, immagino quindi che negli anni '50 fosse ancora più difficile superare non solo i preconcetti della società ma anche i propri, quelli inculcati dalla famiglia e dall'ambiente in cui si era cresciuti: avrei trovato MOLTO fastidioso guardare Carol e vedere le due protagoniste consumarsi nel fuoco della passione come se fosse la cosa più naturale del mondo, senza dubbi né timidezza, senza il desiderio di sondare l'altra persona prima di lasciarsi andare. Così invece tutto è verosimile, oltre che molto dolce e intenso.


Questa dolcezza, questa calma voluta nasce da un profondo rispetto per l'opera di Patricia Highsmith, dall'alchimia perfetta delle due attrici protagoniste e dalla perfetta unione tra la perizia tecnica di Todd Haynes e la sua grande sensibilità, insieme all'utilizzo di una bellissima e commovente colonna sonora. Le immagini di Carol sono di una bellezza struggente, "sgranate" quasi come se l'Amore permeasse davvero l'aria nella quale sono immerse le protagoniste, come se la realtà circostante sparisse lasciandole sole, a viversi e cercarsi. La capacità del regista di "creare" il sentimento l'ho avvertita palpabile durante la ripetizione della stessa sequenza all'inizio e alla fine del film, che mi ha suscitato emozioni completamente differenti; quando Carol appoggia la mano sulla spalla di Therese durante un frettoloso ed imbarazzante congedo l'impressione che ho avuto era quella di un legame esistente ma non consolidato, mentre sul finale il gesto si carica di così tanti significati che ho fatto fatica a ricacciare indietro le lacrime. Quindi, ben venga il tanto vituperato lieto fine, per una volta. Quanto alle attrici, due meraviglie. Cate Blanchett è elegantissima, quasi divina, il suo sguardo e l'atteggiamento delle sue labbra dicono da soli più di mille, inutili righe di dialogo ma la vera rivelazione è una dolcissima Rooney Mara che a tratti mi è sembrata l'incarnazione di Audrey Hepburn. Rooney Mara vivacizza il film col suo atteggiamento da folletto curioso, agghindato con gli abiti più adorabili e belli mai visti in un film, e nel corso della pellicola il suo personaggio cresce, diventando più forte e meno inconsapevole ma non per questo meno amabile, tanto che a tratti verrebbe voglia di abbracciarla; non stupisce che anche quella stupenda megera di Sarah Paulson alla fine se ne innamori, almeno un pochino. Carol e Therese io me le voglio immaginare così, belle e felici fino alla fine dei loro giorni, chiuse nel loro piccolo appartamentino newyorkese o pronte per partire per l'ennesimo road trip, in barba alle convenzioni, agli avvocati, agli investigatori privati e ai musoni rompiscatole. D'altronde, il Cinema è fatto soprattutto per sognare, no?


Di Cate Blanchett (Carol Aird), Rooney Mara (Therese Belivet), Kyle Chandler (Harge Aird), Sarah Paulson (Abby Gerhard) e John Magaro (Dannie McElroy) ho già parlato ai rispettivi link.

Todd Haynes è il regista della pellicola. Americano, ha diretto film come Velvet Goldmine e Lontano dal paradiso. Anche sceneggiatore, produttore e attore, ha 55 anni e un film in uscita.


A Rooney Mara era già stato offerto il ruolo di Therese alla fine delle riprese di Millenium - Uomini che odiano le donne ma aveva rifiutato a causa dell'eccessivo affaticamento; era subentrata così Mia Wasikowska che ha però rinunciato per partecipare a Crimson Peak, cosa che ha consentito ad una riposata e bravissima Rooney Mara di tornare in pista! Detto questo, se il film vi fosse piaciuto recuperate Lontano dal paradiso. ENJOY!

Update: leggete anche il bellissimo articolo di Hell, QUI!

domenica 25 maggio 2014

That's 70! - Velvet Goldmine (1998)

Da un'idea di Alessandra, la padrona del blog Director's Cult, torna oggi la potente unione dei soliti folli blogger per celebrare, come da titolo, gli anni '70. Non potevo ovviamente farmi sfuggire l'occasione per parlare di uno dei film che più ho amato durante l'adolescenza, ovvero Velvet Goldmine, diretto nel 1998 dal regista Todd Haynes.


Trama: la pellicola racconta l'ascesa e la caduta della rockstar Brian Slade, scomparso dalle scene all'apice del successo, dopo aver simulato la propria morte...


Prima di cominciare a parlare di Velvet Goldmine, diciamo le cose come stanno: io di musica non so una benemerita cippa. Non era certamente grazie alla passione per David Bowie (ispirazione per il personaggio Brian Slade) o Iggy Pop (ispirazione per il personaggio Curt Wild) che, all'età di 17 anni, mi ero fiondata al cinema d'élite assieme alle mie migliori amiche per vedere questa pellicola nostalgica che dipingeva un'Inghilterra fatta di lustrini, paillettes ed eccessi, figuriamoci. Era piuttosto l'idea di vedere in un unico film quel gran figo di Ewan McGregor, già ampiamente apprezzato grazie a Trainspotting, altro cult dell'epoca, e le allora new entries Jonathan Rhys Meyers e Christian Bale; come sovrappiù, nel corso del film comparivano anche i quotatissimi Placebo e lo swanstuck del già citato Ewan McGregor quindi immaginate come saremo uscite da quella sala, con gli ormoni i superfibrillazione e una voglia matta di riguardare Velvet Goldmine (perlomeno un paio di scene, via) e ascoltare la stupenda colonna sonora fino a non poterne più. Nel frattempo, sono passati 16 anni (Cristo, quanto sono vecchia!!!), la mia conoscenza della musica non è aumentata e riguardando Velvet Goldmine mi sono accorta che l'ormone davanti a certe scene non smette di dimenarsi, che ormai canto le canzoni a memoria facendo anche degli inquietanti ballettini nella stanza e anche che, diciamo le cose come stanno, questo film sarà stato un mio cult adolescenziale ma non è proprio un capolavoro. Grandissimi attori, grandissima musica, grandissimi costumi ma un canovaccino esile, pretestuoso e confuso, effettivamente vuoto come l'epoca gloriosa che voleva dipingere.


Le affascinanti star Brian Slade, Curt Wild e Jack Fairy, amanti dell'eccesso e portatori di una libertà di costumi sessuali impensabile per la rigida e monarchica Inghilterra coccolata dai più "normali" Beatles, sono tre uragani che sconvolgono la mente dello spettatore, tre creature benedette e maledette da un destino proveniente letteralmente da un altro mondo, infusi della luce delle stelle: come divinità capricciose influenzano la vita di chi si ritrova ad avere a che fare con loro, che siano amici e amanti o semplici fan, come per esempio il povero Arthur Stuart, il giornalista costretto, negli anni '80, a riesumare vecchi ricordi, amori ed umiliazioni. Arthur è la componente umana della pellicola, il personaggio a cui ci si può rapportare grazie alla disperazione e al senso di inferiorità che lo muovono almeno all'inizio, spingendolo a diventare "altro". Tra un videoclip e l'altro, infatti, assistiamo attraverso i ricordi e le ricerche del giornalista allo squallido passaggio da un'epoca superficiale ma in qualche modo ricca di cambiamenti e gioiosa ai tristissimi anni '80 votati allo Yuppismo e ormai conformati alla vile logica del denaro, anni nei quali non riesce a trovare posto quel verde scintillìo di ribellione e novità. Velvet Goldmine, costruito un po' come un finto documentario, un po' come una storia d'amore e un po' come un musical, procede nella sua apologia del glam facendosi ricordare più per l'impatto visivo ed uditivo che per la satira di costume o la blanda critica mossa a chi ha lasciato che il sogno morisse, persa in citazioni da diario scolastico e dialoghi vuoti messi in bocca a persone che, col senno di poi, risultano decisamente odiose. Sicuramente, parliamo di un film adattissimo ad un pubblico di adolescenti che tuttavia rischia ormai di risultare vetusto agli occhi delle nuove generazioni, specchio di un'epoca lontana che ai nostri tempi non va neppure più di moda ma che, a fine anni '90, aveva conosciuto una certa sorta di revival (si vedano anche Boogie Nights, Studio 54 e persino Austin Powers). Personalmente, nonostante tutto, è un film che consiglierei di vedere se non vi è mai capitato di farlo e, soprattutto, è degno di celebrare alla grande gli anni '70!!


Di seguito, troverete l'elenco dei blog che partecipano a questa simpatica e scopadelica iniziativa (sto scrivendo questo post con una decina di giorni di anticipo causa vacanza quindi non riuscirò a mettere i link esatti ai vari post, mi spiace!), dategli un'occhiata e... ENJOY!

Dantès: Boogie Nights
Alfonso Maiorino: Romanzo criminale
Beatrix Kiddo: American Hustle
Jean Jeacques: Garage Olimpo
Kris Kelvin: I primi della lista
James Ford: Buongiorno notte
Denny B.: The Dreamers
Lisa Costa: Les Amants Regulier
Elisa Pavan: Quasi famosi
Marco Goi: Blood Ties
Obsidian Mirror: The Doors
Director's cult: Larry Flint - Oltre lo scandalo
Poison: Toni Manero





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