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martedì 30 settembre 2025

Una battaglia dopo l'altra (2025)

Non ero granché convinta ma, siccome ne stavano parlando tutti bene, ho deciso di andare al cinema a vedere Una battaglia dopo l'altra (One Battle After Another), diretto e sceneggiato dal regista Paul Thomas Anderson, ispirato al romanzo Vineland di Thomas Pynchon.


Trama: "Ghetto" Pat Calhoun, ex un rivoluzionario esperto di esplosivi, è costretto a darsi alla fuga e andare a vivere in una cittadina sperduta assieme alla figlia quando la sua ex compagna, Perfidia Beverly Hills, viene catturata dal governo. Anni dopo, il passato di Pat, ora Bob, torna a mettere in pericolo lui e la figlia ormai sedicenne...


Come ho scritto su, non ero molto convinta di andare a vedere Una battaglia dopo l'altra. Il motivo è che, all'epoca, la premiata ditta Paul Thomas Anderson/Thomas Pynchon mi aveva fatto venire il latte alle ginocchia con Vizio di forma, e l'ultimo film del regista, Licorice Pizza, mi aveva entusiasmata poco. Complice la durata di quasi tre ore, temevo sarei stata uccisa dal Bolluomo, trascinato allo spettacolo delle 21, dopo pochi minuti dall'inizio e, soprattutto, che avrei accolto la morte con gioia, invece Una battaglia dopo l'altra si è rivelato inaspettatamente gradevole. Girato per la maggior parte in Vista Vision, cosa che purtroppo qui in Italia conta quanto il due di coppe a briscola, Una battaglia dopo l'altra è un esempio di magnifica regia, di intelligentissimo montaggio, di splendida fotografia, di attenzione ai costumi (ci sono alcuni capi di vestiario che si ripropongono di personaggio in personaggio, con diverse valenze) ed è uno dei rari film recenti in cui la colonna sonora è fondamentale per definire il ritmo del racconto. Che, fin dalla prima scena, inanella appunto "una battaglia dopo l'altra", come da citazione presa da una dichiarazione del 1969 e attribuita al gruppo rivoluzionario The Weather Underground. Non c'è mai un istante di stasi all'interno del film, che inizia come se ci trovassimo davanti la scena madre di un film action e da lì non diminuisce né in tensione né in movimento, visto che la cinepresa non sta ferma un secondo e, attraverso lunghi piani sequenza, segue personaggi perennemente in agitazione, anche quando stanno immobili a stordirsi di droga sul divano. Persino quest'immobilità, infatti, è la facciata di animi tormentati, di un nervosismo che precede o segue un'azione importante per il destino del personaggio stesso, che sia o meno volontaria; il risultato è che lo spettatore non sa mai cosa aspettarsi da Una battaglia dopo l'altra, e si trova sempre sul chi va là, che si parli di Bob, Willa e Perfidia, oppure della misteriosa "agenda" del terribile colonnello Lockjaw. Nel primo caso, la cinepresa segue i personaggi nel corso dei frenetici ingressi all'interno di luoghi chiave per la riuscita della loro rivoluzione e poi nella loro precipitosa fuga dalle autorità (culminante in un inseguimento in macchina allucinante, che dà l'illusione di trovarsi davvero sull'auto guidata da Willa); nel secondo caso, Anderson indugia sul volto indurito di un Sean Penn disgustoso, sul tormento di un uomo deprecabile, diviso tra la brama sessuale verso Perfidia, rivoluzionaria di colore, e il desiderio di entrare a far parte dell'imbarazzante élite di uomini bianchi, eterosessuali, potenti, razzisti e misogini che rispondono al nome di "Pionieri del Natale". Come ho scritto sopra, questo movimento frenetico, di persone sballottate e tormentate, si riflette sulla colonna sonora. Salvo alcune canzoni il cui testo richiama la situazione contingente, buona parte dello score di Jonny Greenwood è composto da accordi di piano dissonanti (non me ne intendo ma mi è sembrato che venisse ripetuta spesso la stessa nota), con qualche altro strumento che interviene sporadicamente a creare delle fughe ansiogene. 


A fronte di un comparto tecnico di prim'ordine, ciò che mi impedisce di definire "capolavoro" Una battaglia dopo l'altra è che la trama, un mix di action, commedia nera e dramma, è piuttosto semplice, se posso permettermi di usare un termine simile. Anderson si ispira a Pynchon e, pur trasportando la storia di Vineland ai giorni nostri (non è troppo difficile scorgere richiami a MAGA e Antifa), da ad intendere che le battaglie per la libertà, contrapposte allo schifo di valori che vanno contro ogni idea di democrazia, sono radicati da sempre all'interno della storia americana. E il messaggio di Anderson è chiaro, ovvero che nessuno dei due estremi è una via auspicabile, quello di destra per ovvi motivi, quello di sinistra perché porta a risoluzioni violente che rischiano di distruggere quanto di buono esiste in un messaggio di libertà, condivisione e apertura mentale. Perfidia, in primis, è un personaggio borderline, che farebbe qualunque cosa per la sua causa, ed è egoisticamente drogata dell'adrenalina che deriva dalla sua furiosa lotta per la rivoluzione; quasi di rimando, dopo essere stato abbandonato, Bob drogato lo diventa davvero, ed acuisce in questo modo la paranoia instillatagli in decenni di "indottrinamento" contrario alla sua natura di uomo "statico". Forse per questo il personaggio migliore di tutti è il Sensei di Benicio Del Toro, impegnato ma equilibrato, consapevole della necessità di una mente sana che organizzi con rigore una ribellione votata innanzitutto al bene delle persone, non al terrorismo. Poiché, a parer mio, i concetti e il canovaccio di base sono molto semplici ed immediati, quello che mi ha fatta un po' storcere il naso è l'impressione che Anderson abbia voluto "complicare" le cose, intrecciando vicende e inserendo innumerevoli personaggi che compaiono pochi minuti, giusto per allungare un brodo che avrebbe potuto durare una mezz'oretta in meno. Nonostante questo, le quasi tre ore passano in un lampo e il film è leggero come una piuma, soprattutto grazie alle interpretazioni di Sean Penn, della cazzutissima virago Teyana Taylor, che si mangia la maggior parte delle eroine action degli ultimi anni, e dell'adorabile Leonardo DiCaprio. Sapete che da ragazzina non lo sopportavo, segaligno ed efebico com'era, ma ora che ha smesso di curare l'aspetto fisico e ha accettato di diventare la versione moderna di Jack Nicholson nel finale de Le streghe di Eastwick, con una punta di fattanza alla Drugo Lebowski, lo trovo adorabile, e ogni sua interpretazione mi strappa l'applauso, come in questo caso. Una battaglia dopo l'altra è dunque l'ennesima conferma di come Paul Thomas Anderson sia uno dei pochi Autori completi rimasti a combattere una disperata guerra cinematografica contro remake, reboot, revival, seguiti ed opere mastodontiche che finiscono dritte nel tritacarne dello streaming, e anche solo per questo Una battaglia dopo l'altra merita di essere visto in sala (possibilmente una con le palle). Ne vale davvero la pena!


Del regista e sceneggiatore Paul Thomas Anderson ho già parlato QUI. Leonardo DiCaprio (Bob), Sean Penn (Col. Steven J. Lockjaw), Benicio Del Toro (Sensei Sergio St. Carlos), Tony Goldwyn (Virgil Throckmorton) e Jena Malone (voce al telefono) li trovate invece ai rispettivi link.

Regina Hall interpreta Deandra. Americana, ha partecipato a film come Scary Movie, Scary Movie 2, Scary Movie 3, Scary Movie 4, Superhero - Il più dotato tra i supereroi e a serie quali Ally McBeal. Anche produttrice, ha 55 anni e tre film in uscita.


Teyana Taylor
, che interpreta Perfidia Beverly Hills, è una nota cantante R&B americana. Alana Haim, protagonista di Licorice Pizza, compare nel ruolo della rivoluzionaria bianca che mette l'esplosivo nella banca. ENJOY! 


venerdì 26 settembre 2025

2025 Horror Challenge: Cure (1997)

La challenge horror chiedeva, questa settimana, di guardare un film uscito negli anni '90. Ho scelto così Cure (キュア), scritto e diretto nel 1997 dal regista Kiyoshi Kurosawa.


Trama: un ispettore indaga su una serie di brutali omicidi, caratterizzati da una ferita a forma di X sul collo, compiuti da persone che ricordano il delitto ma non i motivi che le hanno spinte a compierlo.


Dopo Il guardiano di notte, la challenge mi ha portata a guardare a un altro thriller dalle pesanti sfumature horror, Cure, che sconfina spesso e volentieri nel territorio del perturbante, dell'horror psicologico, addirittura nel sovrannaturale, pur non avendo, in realtà, a che fare con quest'ultimo sottogenere. L'impressione, però, è quella, visto che Cure sembra un po' la versione ancora più oscura e pessimista de Il tocco del male. La trama, infatti, è imperniata su una serie di omicidi dai tratti comuni inquietanti. Gli assassini non avevano alcun motivo di uccidere e, di fatto, pur ricordando l'atto non rammentano perché lo abbiano compiuto, e ogni omicidio è seguito dalla mutilazione delle vittime con una raccapricciante X sul collo, come se fosse parte di un rito. L'ispettore Takabe, la cui moglie soffre di disturbi psichiatrici legati a una progressiva, invalidante perdita di memoria, si ritrova a dover cercare il comune denominatore di questi delitti e scopre che gli assassini avevano avuto a che fare, poco prima di impazzire, con un giovane afflitto da un pesante caso di perdita di memoria a breve termine. Il come e il perché questo ragazzo sia fondamentale alla risoluzione del caso, ve lo lascio scoprire se non avete mai visto Cure, preferirei quindi concentrarmi sul perché il film di Kurosawa sia visto come uno dei precursori del J-Horror. Di base, Cure è un'opera fortemente pessimista, dallo stile freddo e asciutto, dove ogni personaggio, anche quelli che hanno una famiglia o degli amici, si ritrova solo ad affrontare, in primis, se stesso e le proprie angosce. Le istituzioni non sono né utili né sicure e persino le persone al disopra di ogni sospetto, come medici, insegnanti o poliziotti, possono essere inghiottiti da un orrore senza nome o divorati dai demoni che li accompagnano quotidianamente, cedendo ad istinti brutali solitamente tenuti sotto controllo. Così, gli omicidi compiuti nel film sembrano frutto di un'epidemia di follia collettiva, da cui nessuno è al sicuro, una "maledizione" che si propaga senza un vero perché (come riportato nel dialogo tra Takabe e lo psicologo Sakuma), come sarebbe accaduto di lì a poco con i film "manifesto" del J-Horror, Ringu e Ju-On. Il mostro di Cure non è sovrannaturale, benché la sua conoscenza dell'animo umano venga percepita come tale, ma i suoi motivi sono imperscrutabili, mossi da una perversa volontà di mostrare la "verità" alle sue vittime, probabilmente di "liberarli" dai vincoli sociali per abbracciare la loro oscura essenza.


Kurosawa
, da regista, affronta questa storia terribile con una regia fredda e distaccata, incarnando uno sguardo esterno che non ha pietà delle vittime e le lascia in balia di un destino inevitabile; la cinepresa segue, con lunghe sequenze prive di stacchi, i personaggi su campo lungo, caricando le scene di tensione, in quanto Kurosawa costringe lo spettatore all'attesa di uno scoppio di violenza o follia all'interno di un quadro tutto sommato tranquillo. Il regista, inoltre, non lesina inquadrature raccapriccianti, e lo stile quasi documentaristico si fa, col proseguire della pellicola, più ermetico e onirico, specchio della progressiva perdita di calma e raziocinio di un protagonista costretto ad affrontare un'oscurità sconosciuta. Alcune sequenze sono, inoltre, debitrici dello stile occidentale dei più importanti thriller horror anni '90, quali Seven o Il silenzio degli innocenti; in particolare, alcune interazioni tra Takabe e Mamiya ricordano tantissimo quelle tra Clarice e il dottor Lecter, anche se personalmente ho trovato Mamiya molto più inquietante e bastardo dell'elegante cannibale. L'allora ventiseienne Masato Hagiwara rappresenta la banalità del male, infonde sottile inquietudine con le sue domande reiterate, monocordi, e un terrore reale quando la sua natura si svela senza possibilità di errore (la scena con la dottoressa, dolorosa ed umiliante, e il confronto con Takabe in cella sono da pelle d'oca); Koji Yakusho è un'inamovibile roccia che si erode nel tempo, rivelando, dietro la facciata di integerrimo ispettore, tutto il marcio racchiuso all'interno di un animo ormai stanco, ingabbiato da valori fondamentali quali amore, dovere, rispetto, che in una società come quella giapponese moderna, sono solo belle parole o poco più. Il finale di Cure è più angosciante di quello di tantissimi horror "puri" visti negli ultimi anni, e se riuscirete a dormire sereni, o a non sentirvi nemmeno un po' sporchi, dopo avere guardato questo capolavoro che persino il divin Scorsese ritiene tra i più terrificanti di tutti i tempi, avete il mio rispetto. Provare per credere! 


Di Koji Yakusho, che interpreta il Detective Kenichi Takabe, ho già parlato QUI.

Kiyoshi Kurosawa è il regista e sceneggiatore della pellicola. Giapponese, ha diretto film come Pulse - Kairo, Tokyo Sonata, Retribution e Journey to the Shore. Anche attore e compositore, ha 70 anni.


Se Cure vi fosse piaciuto recuperate Memorie di un assassino e I Saw the Devil. ENJOY!

mercoledì 24 settembre 2025

The Life of Chuck (2024)

Aspettavo da due anni e finalmente, lunedì, sono riuscita a vedere The Life of Chuck, diretto e co-sceneggiato nel 2024 dal regista Mike Flanagan, partendo dal racconto Vita di Chuck, contenuto nella raccolta Se scorre il sangue.


Trama: la vita del contabile Chuck Krantz viene raccontata, a ritroso, dalla sua fine all'infanzia...


Amo Stephen King dall'età di 13 anni e adoro Mike Flanagan fin dal suo primo film, quindi forse sarò un po' (tanto) di parte parlando di Life of Chuck. King è Maestro d'orrore, ma quelle rare opere in cui il sovrannaturale sfiora appena i personaggi, e dove il Tessitore di Storie si concentra maggiormente a raccontare della vita, della morte, e di tutto ciò che sta nel mezzo, forse sono quelle che gli riescono meglio. E anche quando l'Orrore è preponderante, King, se è al massimo della propria forma, restituisce a tutto tondo sensazioni e verità universali, una quotidianità che non è mai straordinaria, bensì prosaica, spesso brutale ed ingiusta. In questo, Mike Flanagan è molto simile, e al centro delle sue opere, sia cinematografiche che televisive, mette sempre le persone, e il concetto di come il tempo che hanno da passare su questa terra sia più o meno limitato. Da quest'unione non poteva che uscire fuori un'opera leggera come un passo di danza e profonda come l'immensità dell'universo. The Life of Chuck racconta tre tappe dell'esistenza di Charles "Chuck" Krantz, un ordinario contabile che, a 39 anni, sta morendo per un tumore incurabile. Le tre tappe non vanno in ordine cronologico, ma partono dalla fine, dalla tremenda apocalisse personale che coincide con la morte di ognuno di noi. Nell'ormai stra-abusato "Io contengo moltitudini" si consuma la fine di un micro-universo che contiene il nostro bagaglio culturale, la nostra essenza più profonda, ricordi importanti e presenze durate un battito di ciglia; ogni morte è la fine di un mondo, ed ogni mondo è fondamentale per chi lo ha vissuto, a prescindere dalle carte che ci ha servito la vita, dalla spietata legge delle probabilità che ci hanno voluto banali contabili invece che famosissimi ballerini o cantanti. Che la morte sia ineluttabile e spesso ingiusta è un concetto che accomuna i due autori, la differenza è che King spesso lascia degli spiragli, la speranza che ci sia una luminosa mano esterna a guidarci e, forse, ad accoglierci alla fine; Flanagan è tranchant, e per nulla interessato a raccontarci ciò che verrà dopo, perché probabilmente il "dopo" è solo una nera dissolvenza, un buco nero che ci inghiotte. 


Però, c'è la vita. "The rest is confetti" va di pari passo con "I am wonderful. And I have a right to be wonderful". Siamo dei miracoli e, per quanto la vita faccia spesso schifo, c'è sempre qualcosa che, a un certo punto, ci ha resi meravigliosi, anche solo ai nostri occhi (e magari nemmeno ce ne siamo accorti). Può essere una passione che si riaccende all'improvviso, un ultimo guizzo di eccentricità all'interno di un'esistenza che credevamo ormai regolata da una piacevole, rassegnata routine, un ricordo che ci fa sorridere, una parola fondamentale, un atto di coraggio, quello che volete. E' un concetto semplice, che Flanagan e King rendono lapalissiano senza ricorrere ad enfasi strappalacrime, visto che The Life of Chuck riesce a strappare il cuore pur rimanendo trattenuto dall'inizio alla fine. Se la cosa peggiore è l'attesa (della morte, ma non solo), l'unica fortuna che abbiamo è di scegliere cosa fare di quest'attesa. Aspettare passivamente, schiacciati dal peso di un'idea orribile, oppure aggrapparci all'idea che sì, "l'universo è grande, e contiene moltitudini ma, vaffanculo, contiene anche me" e quindi tanto vale goderci il tempo che ci è stato concesso senza rovinarcelo da soli (ci pensa già il mondo. Il primo capitolo del film è angosciante e sembra uno scorcio di imminente futuro. Ho debellato, a fatica, il principio del primo attacco di panico mai avuto al cinema, a dieci minuti dall'inizio di The Life of Chuck, e non penso fosse dovuto solo alla stanchezza). E, ribadisco, The Life of Chuck non parla di un uomo con chissà quali qualità. Chuck è un uomo comune, un contabile che ha abbandonato i sogni di gloria della giovinezza, e noi non abbiamo idea di cosa sia successo, effettivamente, nei suoi 39 anni di vita, perché non è quella la cosa importante. Ciò che conta, ai fini di un discorso più grande, sono la sua morte, il desiderio di toccare nuovamente con mano la meraviglia, il potenziale inizio dell'attesa e il suo deciso rifiuto.


Siccome sto piangendo mentre scrivo (Romina, se mai leggerai queste righe sì, sono una sega. Beata te che hai il pelo sullo stomaco) è meglio che mi rifugi in un discorso più cinematografico. Flanagan omaggia l'origine letteraria del film ricorrendo a un narratore esterno onnisciente, che a mio avviso non stona all'interno di una struttura che conserva la divisione in tre capitoli del racconto originale. Anzi, contribuisce a tenere "distanti" gli spettatori (quelli normali, non certo quelli emotivi come me) da ciò che viene mostrato sullo schermo, fungendo da filtro talvolta ironico. Quanto ai tre capitoli, la prima parte è quella più horror, perché evoca un'atmosfera apocalittica da manuale e veicola un'angoscia tangibile, di cui sono la prova vivente. La seconda è quella più difficile da incasellare e a molti potrebbe sembrare completamente inutile. In realtà, oltre a contenere (come anche la terza parte) molti degli elementi presenti nel primo capitolo, come attori, melodie, dialoghi e luoghi, rappresenta l'ultimo, rabbioso guizzo di eccentricità di cui ho parlato sopra. Non c'è gioia, non c'è catarsi nel ballo a cui si abbandonano Chuck e Janice, non c'è il glamour di un musical, nonostante l'intera sequenza contenga tutti i cliché del genere. Non si tratta, insomma, dell'inizio di un cambiamento epocale, ma "solo" una parentesi sottolineata dal ritmo di una batteria. E' un momento piacevole condiviso con altre persone, una magia che dura il tempo di un numero musicale, che lascia l'amaro in bocca per tutte le possibilità passate e future sfumate ma che, comunque, non influisce in alcun modo sulla vita di Chuck, trasformandosi in un ricordo prezioso e nulla più, come spesso succede. L'ultima parte ha il sapore e il ritmo di una ghost story malinconica, e la bellezza di uno di quei coming of age di cui King è maestro (a tal proposito, in Se scorre il sangue c'è anche Il telefono del signor Harrigan, racconto molto bello che è stato adattato in maniera orribile per Netflix), oltre a contenere la chiave di volta del film e tante bellissime facce amate. Flanagan, con la sua solita, elegante maestria, è riuscito ad adattare alla perfezione il racconto del Re, smussando le differenze di stile tra i tre capitoli del film pur lasciando ad ognuno una personalità ben riconoscibile, e per quanto mi riguarda ha confezionato l'ennesima opera in grado di toccare in profondità le corde del mio animo e straziarlo, anche se forse non era questa la sua intenzione. Lo amo per questo, ma un po' anche lo odio, e mi farò presto di nuovo del male riguardando The Life of Chuck in lingua originale, ché di piantini non ce n'è mai abbastanza. 


Del regista e co-sceneggiatore Mike Flanagan, che compare nelle scene al cimitero, ho già parlato QUI. Tom Hiddleston (Charles 'Chuck' Krantz), Jacob Tremblay (Charles 'Chuck' Krantz), Chiwetel Ejiofor (Marty Anderson), Karen Gillan (Felicia Gordon), Carl Lumbly (Sam Yarborough), Mark Hamill (Albie Krantz), David Dastmalchian (Josh), Matthew Lillard (Gus), Violet McGraw (Iris), Annalise Basso (Janice Halliday), Kate Siegel (Miss Richards), Heather Langenkamp (Vera Stanley), Carla Gugino (voce del notiziario e delle pubblicità), Axelle Carolyn (voce della reporter francese) e Lauren LaVera (voce della reporter italiana) li trovate invece ai rispettivi link.

Nick Offerman è la voce narrante. Sposato con la mitica Megan Mullally, ha partecipato a film come City of Angels - La città degli angeli, Cursed - Il maleficio, Sin City, L'uomo che fissa le capre, Love & Secrets, 7 sconosciuti a El Royale, Civil War e serie quali E.R. Medici in prima linea, 24, Detective Monk, Una mamma per amica, CSI: NY, Parks & Recreation, Fargo, Will & Grace e Pam & Tommy; come doppiatore, ha lavorato in The Cleveland Show, I Simpson, The Lego MovieL'era glaciale 5 - In rotta di collisione, Sing e Sing 2 - Sempre più forte. Anche produttore, sceneggiatore e regista, ha 55 anni e due film in uscita.


Mia Sara
, che interpreta Sarah Krantz, ha avuto un breve ma intenso momento di fama nei primi anni '80, come protagonista dei film Legend e Una pazza giornata di vacanza. Nel film, a colloquio con Anderson, compare Harvey Guillén, visto nella serie What We Do in the Shadows e Companion, mentre i tra i collaboratori fissi o quasi di Flanagan segnalo Michael Trucco (il padre di Dylan), Rahul Kohli (Bri), Samantha Sloyan (Miss Rohrbacher), Molly C. Quinn (La madre di Chuck), Sauriyan Sapkota (Ram), Matt Biedel (Dottor Winston) e Hamish Linklater (voce del reporter americano), senza dimenticare Cody Flanagan, figlio di Mike e Kate Siegel, che interpreta Chuck da piccolino. ENJOY!

martedì 23 settembre 2025

2025 Horror Challenge: Il guardiano di notte (1994)

Ho traslato la horror challenge di qualche giorno per lasciare spazio a La valle dei sorrisi, e il risultato è che questa settimana ci saranno due post a tema. La scorsa settimana, la challenge proponeva di guardare un film in lingua non inglese. Ho dunque scelto il film danese Il guardiano di notte (Nattevagten), diretto e sceneggiato nel 1994 dal regista Ole Bornedal.


Trama: Martin, giovane studente di giurisprudenza, va a lavorare come guardiano di notte di un ospedale. Nei dintorni si aggira però un misterioso assassino di donne...


De Il guardiano di notte avevo visto solo il remake americano con Ewan McGregor, di cui non ricordo neppure un fotogramma, solo le parole della mia amica Nora che, ridendo dopo che ero tornata dalla pausa tra un tempo e l'altro con un minuto di ritardo, mi ha detto "Bolla, nel minuto che sei stata via è successo di tutto". E' quindi in stato di semi-ignoranza che ho guardato Il guardiano di notte, memore giusto di un paio di punti fermi, ovvero il lavoro del protagonista e il fatto che, a un certo punto, i cadaveri dell'ospedale assumevano un'importanza preponderante. Non ricordavo, invece (probabilmente perché nel remake non ci sono? Chissà) le sfide tra Martin e l'amico Jens, quest'ultimo insofferente all'idea di una vita "normale" e già tracciata, fatta di studio, lavoro, matrimonio, figli. In tutta onestà, alla fine del film non ho capito a cosa servissero questi inserti, che a me sono sembrati avulsi dalla struttura thriller-horror de Il guardiano di notte, ma potrebbero rappresentare una sorta di riflessione su come vita e morte vadano costantemente a braccetto, e la speranza di scuotere la quotidianità con dei colpi di testa atti a "rovinarla" sia solo un modo per evitare di pensare che, alla fine, ciò che ci aspetta è solo la morte. In realtà, una delle sfide, che coinvolge una prostituta, serve a Martin per capire di essere nelle mire di un serial killer, ma mentirei se non dicessi di avere trovato molto pesanti le interazioni tra il protagonista e l'insopportabile Jens. Assai diverso, invece, il clima che si "respira" all'interno dell'ospedale, e che consegna in toto un thriller come Il guardiano di notte alla sfera dell'horror. L'ospedale dove lavora Martin è l'equivalente di un tunnel degli orrori, un luogo claustrofobico di cui, ogni notte, il protagonista è costretto a percorrere i corridoi, trovando in ogni stanza e sala qualcosa di terrificante, che dà voce alle paure più ataviche dell'uomo. Le cose, ovviamente, peggiorano ulteriormente quando il serial killer comincerà a giocare con Martin, portando sia lui che il personale dell'ospedale a mettere in dubbio la sua sanità mentale.


Anche la regia de Il guardiano di notte richiama più l'horror che il thriller. Bornedal non lesina immagini scioccanti come quelle dei cadaveri della morgue, sia nascosti da un pietoso lenzuolo sia insanguinati o profanati da una mano sconosciuta, e le sequenze in cui Martin, da solo, si ritrova ad aver a che fare con ombre misteriose, luci che non si accendono, file di cadaveri tra cui passare in mezzo, morti che si muovono e resti umani messi in formaldeide, mettono un'angoscia terribile. Le paure di Martin sono un eco delle nostre e non è difficile immaginarsi nella stessa situazione, né partire per la tangente e pensare a qualcosa di sovrannaturale pronto a trascinare il poveretto nelle ombre o peggio. Non che la sequenza in cui Kalinka si trova a pochi passi dal serial killer sia una passeggiata di salute. Lì subentra anche un intelligente montaggio, che per un attimo ci convince che Kalinka farà un'inevitabile brutta fine, e un interessante uso della colonna sonora (utilizzata alla perfezione anche in tutto il resto del film, comunque), mutuato da un caposaldo del cinema di genere come M - Il mostro di Düsseldorf. Per i fan di Jaime Lannister, vedere un Nikolaj Coster-Waldau agli esordi, decisamente più implume e dall'immagine meno costruita rispetto a quella a cui siamo abituati oggi, potrebbe essere scioccante, ma l'attore è molto bravo ad interpretare Martin; probabilmente perché giovanissimo a sua volta, l'attore conferisce al personaggio una sfumatura sbruffona e ingenua, del bravo ragazzo di buona famiglia che vorrebbe fingersi più duro di quello che è, e fa quasi tenerezza vederlo coinvolto in una situazione terribile come quella descritta nel film. Se vi piacciono i thriller che vanno a stretto braccetto con l'horror, Il guardiano di notte è un ottimo film da recuperare, a patto di non lasciarvi scoraggiare dalla confezione un po' fredda e poco patinata, tipica delle produzioni danesi. 

 

Di Nikolaj Coster-Waldau, che interpreta Martin, ho già parlato QUI.

Ole Bornedal è il regista e sceneggiatore del film. Danese, ha diretto film come Nightwatch - Il guardiano di notte, The possession e Nightwatch - Demons are forever. Anche produttore e attore, ha 66 anni.


Sofie Gråbøl
, che interpreta Kalinka, era la madre della protagonista in Attachment. Kim Bodnia, che interpreta Jens, e Ulf Pilgaard, che interpreta Wormer, compaiono anche nel sequel Nightwatch - Demons are forever, che devo ancora vedere ma che vi consiglio di recuperare, se il film vi fosse piaciuto, assieme al remake Nightwatch - Il guardiano di notte. ENJOY!

venerdì 19 settembre 2025

La valle dei sorrisi (2025)

Miracolosamente, La valle dei sorrisi, diretto e co-sceneggiato dal regista Paolo Strippoli, è uscito anche qui, così mercoledì scorso sono andata a vederlo. C'è qualche piccolo SPOILER qui e là, occhio.


Trama: Sergio, ex campione di judo traumatizzato dalla morte del figlio, viene chiamato per una supplenza a Remis, "il paese dei sorrisi". Lì scopre che gli abitanti sono tutti felici, e che la loro condizione è legata a Matteo, un ragazzo misterioso...


Partivo molto prevenuta con questo La valle dei sorrisi, perché Piove, nonostante qualche intuizione carina, mi aveva annoiata profondamente. Partivo anche stanchissima, vittima di una settimana abbastanza mortale, quindi temevo di addormentarmi nel bel mezzo del cinema. Stavolta, invece, Strippoli mi ha catturata fin dalle prime scene, coinvolgendomi nel mistero della città di Remis, dove tutti gli abitanti sorridono o, comunque, vivono sereni. Così non è per Sergio, che si trasferisce lì da Taranto per una supplenza di tre mesi. Sergio è un uomo distrutto da una tragedia familiare, che odia se stesso e il mondo intero, e cerca di procurarsi l'oblio da ricordi e sensi di colpa affogandoli nell'alcol. Una sera, stufa delle sue intemperanze, la barista Michela decide di aiutarlo e conduce Sergio da uno dei suoi studenti, Matteo, il quale è dotato di un potere miracoloso: basta abbracciarlo e ogni dolore scompare come se non fosse mai esistito. Dopo l'abbraccio, Sergio ricomincia a vivere, e ad interessarsi a Matteo come professore ed essere umano, a differenza dei cittadini che vedono il ragazzo solo come un santo da proteggere e riverire, in modo da garantirsi la possibilità di godere dell'indispensabile "miracolo". Il legame che si viene a creare tra i due porta Matteo a prendere coscienza di se stesso e delle sue reali capacità; da quel momento, il film diventa un inquietante coming of age con atmosfere che richiamano molto horror recenti come The Innocents o Thelma. Mi piacerebbe scrivere molte altre cose relativamente alla trama, ma non vorrei entrare ulteriormente nei dettagli, o rischierei di rovinare la visione a chi dovesse ancora vedere il film, per una volta graziato da un trailer ambiguo. Aggiungo solo che La valle dei sorrisi offre una riflessione non banale sul dolore e il senso di colpa, che ci rendono schiavi della nostra autocommiserazione, impedendoci di aprire gli occhi sugli altri; il film mette anche in guardia dalle soluzioni facili (la "devozione" degli abitanti di Remis è simile alla dipendenza dalla droga, soprattutto quando i benefici dell'abbraccio di Matteo, lentamente, scemano) e su quanto sia semplice lasciarsi manipolare da chi fa leva sulla disperazione, la fede e l'ignoranza per fini personali (il personaggio più deprecabile del mucchio è, non a caso, un prete).


Strippoli
, fin da subito, crea un'atmosfera straniante, sfruttando grandangoli e fish-eye, come se Remis si trovasse all'interno di una bolla separata dalla realtà, dove ogni tipo di percezione è distorta, confusa. Ciò contribuisce anche a connotare Sergio come un outsider, come se non bastasse l'ambiente montano del nord ad accogliere un uomo originario di Taranto, e a sottolineare la sua volontà di rinchiudersi in un mondo dove esistono solo dolore e colpa, con orribili visioni ad infestarlo. In seguito, questi stessi accorgimenti tecnici, accompagnati anche da suoni disturbanti (tra i quali spiccano un inquietante campanello e un altro rumore tristemente anticipatorio) e un alternarsi di punti di vista soggettivi, servono come espressione visiva del potere sempre più grande di Matteo. La valle dei sorrisi è inoltre un film che dà molta importanza alla composizione geometrica delle immagini e alle coreografie corali, soprattutto verso il finale, caratterizzato da un paio di sequenze di enorme impatto, tra le migliori e più originali viste quest'anno in campo horror (un genere nel quale l'ultima opera di Strippoli, benché presentata come thriller/drammatico, rientra in toto). Anche il casting, altra cosa che non mi aveva granché convinta in Piove, qui è praticamente perfetto, soprattutto per quanto riguarda i personaggi secondari, tra i quali spiccano le interpretazioni di Roberto Citran e Paolo Pierobon. Il sedicenne Giulio Feltri offre una prova attoriale di prim'ordine, perché Matteo non è un personaggio facile (tra l'altro, il nonno di Giulio è proprio Vittorio, non oso immaginare i commenti, se mai vedrà il film, sulla natura queer del personaggio); se la weirdness superficiale è ottenuta con un tocco di bianco tra i capelli e nelle ciglia, ci vuole dell'abilità per suscitare, nello spettatore, quel mix di emozioni contrastanti che impediscono di odiare o amare Matteo, e anche per dare al protagonista tutta una serie di sfumature contrastanti. Molto bravo anche Michele Riondino. E' rarissimo vedere uomini piangere nei film, e lui si abbandona a un pianto talmente angosciante e disperato, soprattutto nella prima sequenza in macchina, che mi è venuto un magone enorme. Spero che l'attore non abbia attinto a tragedie personali, ma nel caso spero anche che ci sia qualcuno che lo abbracci anche nella vita reale! Sproloqui a parte, non mi aspettavo nulla da La valle dei sorrisi, invece è un film splendido, un barlume di speranza per il cinema di genere italiano. Correte a vederlo e passate parola!


Del regista e co-sceneggiatore Paolo Strippoli ho già parlato QUI.

Michele Riondino interpreta Sergio Rossetti. Nato a Taranto, ha partecipato a film come Fortàpasc, Il giovane favoloso, Palazzina Laf e serie quali Distretto di polizia, Il giovane Montalbano, I Leoni di Sicilia e Il conte di Montecristo. Anche regista e sceneggiatore, ha 46 anni e un film in uscita. 


Roberto Citran
interpreta Don Attilio. Nato a Padova, ha partecipato a film come Il mandolino del capitano Corellli, Paz!, A cavallo della tigre, El Alamein, Il papa buono, Hotel Rwanda, Diabolik, Conclave e serie quali Distretto di polizia, Don Matteo e Il commissario Rex. Ha 70 anni. 


Paolo Pierobon
interpreta Mauro Corbin. Nato a Castelfranco Veneto, ha partecipato a film come Rapito, Palazzina Laf e serie quali Carabinieri, Camera Café, Distretto di polizia, I delitti del BarLume, 1993, 1994, Esterno notte e M- Il figlio del secolo. Ha 58 anni. 


Per la serie "dove l'ho già visto?": Romana Maggiora Vergano, che interpreta Michela, era la figlia della Cortellesi in C'è ancora domani. ENJOY!

mercoledì 17 settembre 2025

The Surrender (2025)

Di ritorno dalle ferie, uno dei film che mi premeva recuperare era The Surrender, scritto e diretto dalla regista Julia Max e distribuito da Shudder.


Trama: Alla morte del padre, Megan è costretta ad aiutare la madre con un pericoloso rituale atto a riportarlo in vita...


Ho messo The Surrender nella lista delle priorità perché, guardando la serie The Boys, mi sono innamorata di Colby Minifie, attrice dotata di una bellezza decisamente non canonica e capace di abbracciare diversi registri che spaziano dal comico, al grottesco, al drammatico. In particolare, ero curiosa di capire come se la sarebbe cavata con un horror serio e la risposta è stata "benissimo", soprattutto perché la prima parre di The Surrender è un dramma da camera molto umano e triste. Colby Minifie interpreta Megan, thirtysomething che da tempo ha abbandonato la famiglia, in primis per stare lontana dalla madre, con la quale non ha mai avuto un gran rapporto. Megan torna a casa a causa della malattia del padre, afflitto da un tumore in stadio avanzato; poco dopo il suo ritorno, a causa di un momento di disattenzione, l'uomo muore e la madre di Megan le rivela di avere avviato tutte le pratiche necessarie per compiere un rito che lo riporterà in vita. Il titolo inglese del film, The Surrender, ha un significato fisico, importantissimo per la riuscita del rito (ovvero la "rinuncia" a tutto ciò che è materiale e, nello specifico, a un paio di appendici), ma anche un significato più metaforico, di "resa" di fronte a tutto ciò contro cui la protagonista ha lottato per buona parte della vita. Nello specifico, Megan ha lottato contro la madre, rea di essere dura, testarda, prevaricatrice, mentre il padre era un alleato e un compagno di giochi, sempre pronto a offrirle un consiglio amico o a tenderle una mano. Con la morte del padre, gli equilibri tra Megan e la madre si spezzano, e la protagonista è costretta non solo ad assecondare e tutelare una donna anziana apparentemente impazzita, ma anche a guardare dentro di sé e nelle pieghe di una famiglia che credeva di conoscere, scoprendo molte verità celate o, forse, volutamente dimenticate. Il film racconta quindi, in primis, l'elaborazione del lutto attraverso il confronto tra due donne che covano un risentimento reciproco abbastanza importante, benché nascosto per amor del padre, ed è molto interessante in questo aspetto, meno in quello horror.


Non è che la parte horror, quella legata al rito e a tutto quello che accade dopo, non sia efficace, ma percorre sentieri già battuti in film più originali, come per esempio A Dark Song (con il quale ha in comune l'attenzione a riti esoterici molto verosimili, oltre che umilianti e pericolosi), ed offre una visione dell'aldilà simile a quella di tante altre pellicole. C'è di buono che il focus, anche quando il film vira nell'horror, è sempre il legame tra Megan e la madre, e un altro aspetto positivo è che Julia Max riesce agevolmente ad aggirare i limiti di budget senza mai mostrare il fianco alla sciatteria di eventuali effetti speciali da cartoleria o CGI farlocca. La regista, infatti, cerca per quanto possibile di limitare i dettagli degli ambienti in cui i personaggi interagiscono tra loro, arrivando a un minimalismo totale nell'ultima parte del film, ed offre scorci di un orrore che veste, letteralmente, la pelle delle persone più care per ingannare chi è vinto da un dolore vivo e recente. La cosa che più ho apprezzato del film, però, oltre all'ottimo setting e a un utilizzo coinvolgente della fotografia, è proprio l'alchimia che si viene a creare tra Colby Minifie e Kate Burton, le quali danno vita a scambi vivaci e plausibili, arricchendo una sceneggiatura fatta di dialoghi intensi e solenni, ma anche triviali, divertenti, talvolta ridicoli, tipici degli attimi che precedono e seguono un evento traumatico come la morte di una persona amata. Personalmente, mi sono commossa più di una volta guardando The Surrender, e ho provato simpatia (ma anche un inevitabile, temporaneo fastidio) per entrambe le umanissime donne protagoniste. Shudder ha dunque aggiunto l'ennesima uscita interessante al suo già vasto catalogo; augurandomi che, prima o poi, qualcuno faccia arrivare il film anche in Italia, vi consiglio la visione di The Surrender, magari non se siete reduci dalla morte di qualcuno a cui volevate bene o, anche se è passato del tempo, state ancora soffrendo molto. 

Julia Max è la regista e sceneggiatrice del film, al suo primo lungometraggio. E' anche produttrice e attrice. 


Colby Minifie
interpreta Megan. Americana, ha partecipato a serie quali Jessica Jones, Fear the Walking Dead, The Boys e Gen V. Ha 33 anni.



martedì 16 settembre 2025

La guerra dei Roses (1989)

Ho lasciato passare qualche giorno causa The Conjuring e challenge horror, ma dopo il remake tocca all'originale! Oggi parliamo infatti di La guerra dei Roses (The War of the roses), diretto nel 1989 da Danny DeVito e tratto dal romanzo omonimo di Warren Adler.


Trama: dopo aver messo su famiglia e una casa principesca, Oliver e Barbara Rose scoprono di non amarsi più. Comincia così una lotta senza esclusione di colpi per ottenere la casa voluta da entrambi...


La guerra dei Roses
è sempre stato uno dei miei film preferiti, fin da quando lo vidi per la prima volta in TV. Non poteva essere altrimenti, visto l'amore smisurato che provavo, all'epoca, per il trio Douglas/Turner/DeVito, protagonisti di due film che adoravo, All'inseguimento della pietra verde e Il gioiello del Nilo. Facendo due conti, avrò avuto 10 o 11 anni, e sicuramente non avrò capito tutto ciò che è passato sullo schermo, però La guerra dei Roses era un'opera che mi faceva lo stesso effetto di Fantozzi; mi divertiva molto, ma mi metteva anche tristezza, non solo per il finale scioccante che, lì per lì, non avevo creduto nemmeno essere così definitivo, alla prima visione. Non riguardavo La guerra dei Roses da almeno vent'anni e quando il film è cominciato è stato come rivedere un vecchio, amatissimo amico, con il quale è scattata una sintonia subitanea che, probabilmente, ha inficiato la visione del remake I Roses. A differenza del logorroico film di Jay Roach, l'adattamento di DeVito è molto semplice nella struttura e nei dialoghi, e la "ciccia" sta tutta negli atteggiamenti dei due protagonisti, che intessono la naturale morte di un amore, all'interno della cornice di un cautionary tale raccontato dall'avvocato Gavin al suo ultimo cliente, pronto a divorziare dalla moglie. E' una morte naturale, inevitabile e grottesca, che si innesca a causa della cultura yuppie anni '80 e di quell'atteggiamento retrogrado tipico di una società profondamente patriarcale. Oliver e Barbara "si scontrano e si incontrano", in un giorno di pioggia come Mirco e Licia, grazie a un'asta dove lei "ruba" a lui una preziosa statuetta orientale; si piacciono, fanno l'amore (lei si scopre multiorgasmica, con sommo orgoglio di lui) e da lì mettono su famiglia. L'idillio dei Roses viene eroso nel corso del tempo, in modo molto verosimile, dalle tante piccole disattenzioni di un uomo che valorizza la famiglia in base al proprio potere di acquisto e al prestigio lavorativo, e che si sente sempre su un gradino più alto rispetto alla moglie, valutata come un trofeo, o come una creatura scioccherella, bisognosa di una guida costante. Il menefreghismo di Oliver, per il quale l'amore è un diritto scontato che va vissuto in maniera melodrammatica, come nei film, apre progressivamente gli occhi a Barbara, la quale si accorge di aver sposato un uomo bravissimo nel suo lavoro, ma mediocre in tutto il resto, un peso morto di cui non ha bisogno per realizzarsi come donna indipendente. 


La voce narrante di Gavin, avvocato e migliore amico di Oliver, potrebbe trarre in inganno ed incasellare il film come misogino. Spesso il cliente muto di Gavin viene ammonito a prestare attenzione alle sue azioni nel corso di un eventuale divorzio, perché le donne sono terribili, vendicative e malvagie, degli idoli da placare con offerte in denaro e remissione. In realtà, il film contraddice le parole di Gavin; Barbara non è mai connotata come una gold digger, e il suo attaccamento alla casa deriva dal fatto di aver instaurato un legame quasi simbiotico con l'edificio, che per molti anni è stato la sua sola occupazione e la realizzazione faticosa di un'idea (maschile) di perfezione casalinga. Sono la testardaggine di Oliver e il suo orgoglio di maschio ferito a rendere "cattiva" Barbara, la quale viene portata dall'atteggiamento del marito a dibattersi e graffiare come un animale costretto in gabbia. Le ripicche progressivamente sempre più gravi tra moglie e marito vanno a toccare oggetti materiali e lavoro, perché sono le uniche due cose che Oliver riconosce come valori fondamentali; è Barbara, per prima, che pensa all'omicidio, messa talmente alle strette che la morte diventa l'unica via di fuga possibile da un marito convinto di rappresentare l'intero universo (economico, affettivo e sessuale) di una donna, a parer suo, semplicemente un po' stressata. La tristezza che percepivo da bambina, nascosta da abbondanti pennellate di humor nero e situazioni grottesche, esilaranti, è interamente di Barbara, soffocata e sminuita a partire dall'imbarazzante vigilia di Natale in cui le viene contestata persino una semplice stella da appendere all'albero, in quanto "dozzinale".


La regia di DeVito, che si ritaglia il ruolo di narratore, richiama i toni di una favola nera, con inquadrature sghembe ed insistenti primi piani degli oggetti materiali, e ha un gusto elegantissimo per la messa in scena e le geometrie, senza renderle preponderanti o invadenti; l'illusione è quella di avere di fronte una commedia americana tipica del periodo, ma sono questi dettagli e la colonna sonora di David Newman a dare a La guerra dei Roses la sua personalità spiccata e originale. E poi, ci sono gli attori. Ancora oggi è dura vedere il fascinoso Michael Douglas (all'epoca, poi, ero abituata a considerarlo alla stregua di Indiana Jones!) ridotto nei panni di una persona umanamente mediocre, ma l'attore è molto abile a non caricare eccessivamente la vena grottesca di Oliver, facendo del personaggio una figura a tutto tondo e tristemente realistica. Poiché la regia riprende spesso il punto di vista di Barbara, Oliver risulta disgustoso anche in circostanze normali, ancor più a causa del continuo professare comunque amore per la moglie perduta. Kathleen Turner, dal canto suo, è semplicemente meravigliosa. Il brillio di sfida che si legge nel suo sguardo fin dalle prime immagini diventa, nel corso del film, la fredda scintilla di chi ormai dentro di sé ha solo duro ghiaccio, e il disprezzo, la disillusione, l'odio che le si leggono in volto ogni volta che Oliver apre bocca farebbe scappare terrorizzato chiunque. Inutile dire che, anche nell'odio, l'alchimia tra i due attori è favolosa, ed entrambi eclissano il resto del pur valido cast, tranne per il solito Danny DeVito, in splendida forma. Se non avete mai visto La guerra dei Roses, o non lo ricordate, l'uscita de I Roses potrebbe essere un'ottima occasione di rinverdire un classico che rischia di venire dimenticato e che è attuale oggi come nel 1989.


Del regista Danny DeVito, che interpreta anche Gavin D'Amato, ho già parlato QUI. Michael Douglas
(Oliver Rose), Kathleen Turner (Barbara Rose) e Sean Astin (Josh a 17 anni) li trovate invece ai rispettivi link.


Dan Castellaneta
, voce storica di Homer Simpson, è l'uomo a cui Gavin racconta la storia dei Roses. Se La guerra dei Roses vi fosse piaciuto, oltre ad andare a vedere il remake I Roses, aggiungete Chi ha paura di Virginia Woolf? ENJOY!

venerdì 12 settembre 2025

2025 Horror Challenge: Humanoids from the Deep (1980)

Questa settimana la challenge horror prevedeva la visione di "un emulo di Alien". Nell'elenco c'era anche Humanoids from the Deep, diretto nel 1980 dalla regista Barbara Peeters.


Trama: in un villaggio di pescatori, le persone cominciano a morire per mano di anfibi mutanti dagli istinti pericolosi...


Cominciamo il post dicendo che, stavolta, l'elenco tra cui scegliere i film era un po' ingannevole in quanto, salvo per il finale che non spoilero, è ben difficile pensare ad Alien guardando Humanoids from the Deep. Al limite, ciò che mi è venuto in mente è una versione becera, pornografica e più gore de Il mostro della laguna nera, ma anche questa è una definizione sbagliata, in quanto viziata da un preconcetto che, ancora oggi, sicuramente fa male alla povera Barbara Peeters, regista del film. L'autrice, infatti, aveva in animo di girare (e ha, sicuramente, girato, almeno finché non è arrivato il produttore Roger Corman a metterci mano) un horror un po' più autoriale, privo di inutili inserti soft core, più concentrato sui personaggi e sulla vicenda ecologico-sociale che si intuisce guardando Humanoids from the Deep. Il problema, ovviamente, è che, davanti al film finito, Corman ha deciso che un'opera simile non sarebbe mai stata commercialmente appetibile per il pubblico che aveva in mente, quindi ha fatto girare ex novo scene di nudo, compresi alcuni stupri neppure tanto sottili, e li ha inseriti eliminando altre sequenze a suo parere inutili, senza dire nulla alla Peeters. La regista si è trovata davanti al fattaccio compiuto solo all'anteprima del film, ha chiesto che il suo nome venisse tolto dai credits, e Corman ha accettato a patto che fosse lei a coprire le spese della modifica dei suddetti, cosa che la Peeters ha rifiutato di fare. Quindi, ad oggi Humanoids from the Deep risulta, almeno nominalmente, l'ultimo film di una regista che è poi scomparsa nel limbo di oscure produzioni televisive, e, a fronte di un simile retroscena, è giusto giudicare la qualità del prodotto ignorando le starlette urlanti che sbattono le sise in faccia allo spettatore. E la qualità di Humanoids from the Deep, per quanto mi riguarda e per quanta poca esperienza possa avere relativamente all'exploitation dell'epoca, è superiore ad altri filmacci del genere. La regista cerca di costruire un racconto per immagini, in un efficace crescendo di tensione che parte da un esplosivo incidente in barca, passa per tremende (e tristissime) inquadrature di cani sventrati e, quando entra nel vivo, scatena artigli affilati di mostri orripilanti, che aprono i corpi come fossero di burro.


Sono notevoli non solo le sequenze buie, al crepuscolo oppure acquatiche, che sono tantissime e notoriamente difficili da realizzare, ma anche quelle in cui i mostri coinvolgono i personaggi in terribili corpo a corpo ravvicinati e, soprattutto, il massacro finale al festival del salmone. Quella sequenza in particolare ha dell'incredibile e rivela l'inventiva e l'abilità di Barbara Peeters. I mostri a disposizione della troupe, infatti, erano tre, e solo uno aveva tutte le carte in regola per venire ripreso da ogni angolazione; sfruttando inquadrature e montaggio, senza ricorrere a trucchetti cheap come sequenze ripetute o riciclate, la Peeters è riuscita a realizzare un'invasione cittadina in cui i mostri sembrano la metà di mille e dove la gente muore malissimo, trovando anche il tempo di alternare l'orrore "pubblico" a momenti ancora più ansiogeni ambientati in una claustrofobica casa isolata nel bosco. Indubbiamente, non c'era bisogno delle aggiunte di Corman (tra l'altro, in parte rimosse, perché persino il produttore ha capito che molte sembravano appiccicate con lo sputo, oltre al danno la beffa, povera Barbara!) per creare una profonda sensazione di disagio, in quanto la trama, tra mutazioni genetiche, razzismo, violenza e mostri che aggrediscono fanciulle con scopi palesemente riproduttivi, per di più con quel finale splatterosissimo, metteva già molta carne al fuoco. Per questo, le nudità gratuite di cui è infarcito Humanoids from the Deep danno ancora più fastidio, non tanto quelle in qualche modo direttamente collegate alla vicenda, quanto un paio di inserti aventi per protagonisti personaggi mai visti né nominati prima che mostrano tutte le loro grazie, o l'inevitabile "momento doccia" che fa molto film con Lino Banfi. Comunque, se queste aggiunte da vecchi rattusi non vi turbano (o magari vi interessano pure!) o non vi si rivolta lo stomaco all'idea di "umanoidi dal profondo" col pallino dell'accoppiamento e cercate un bell'horroraccio splatter,  Humanoids from the Deep è un film che vi consiglio. Lo trovate gratis su Tubi, se avete una VPN. 

Barbara Peeters è la regista del film. Americana, ha diretto film come The Dark Side of Tomorrow, Bury me an Angel e Le ragazze pon pon si scatenano. E' anche sceneggiatrice. 


Joe Dante
, da poco reduce dal successo di Piranha, ha declinato l'offerta di dirigere il film. Di Humanoids from the Deep esiste un omonimo remake televisivo del 1996, con  Robert Carradine e Clint Howard, che, pur riutilizzando buona parte delle scene girate al festival, ha livelli di sesso e violenza molto ridotti. Non l'ho mai visto, quindi non posso consigliarvi il recupero, ma se il genere vi piace buttatevi su Piranha e Slither. ENJOY!
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mercoledì 10 settembre 2025

The Conjuring - Il rito finale (2025)

Nel bene e nel male, è finita. Lunedì siono andata a vedere The Conjuring - Il rito finale (The Conjuring - Last Rites), diretto dal regista Michael Chaves.


Trama: i Warren si sono ritirati dal loro ruolo di esorcisti e cercano di pensare solo alla famiglia, ma un demone dal passato arriva a minacciare tutto ciò che i due hanno di più caro...


Come ho scritto nell'introduzione, è finita. Il cerchio che James Wan ha cominciato a tracciare con L'evocazione - The Conjuring, nel lontano 2013, si è chiuso per mano di chi ha ereditato il franchise, il regista Michael Chaves, seguendo fino in fondo il ciclo vitale dei Warren. Li abbiamo visti giovani, con una bambina piccola, nel primo film della saga, e oggi li vediamo più anziani e "appannati, persino fiaccati dalla malattia (Ed soffre i tremendi postumi dell'infarto avuto in Per ordine del diavolo) ma non meno innamorati. Anzi, l'amore è la loro ragion d'essere, dopo avere abbandonato la lotta al maligno, e la preoccupazione più grande è conoscere il fidanzato della figlia, ormai in età da marito ed erede dei poteri medianici di Lorraine. The Conjuring - Il rito finale indugia moltissimo, forse troppo, sui problemi familiari dei Warren, la cui felicità è direttamente legata a un passato abbandono, quando i giovani Ed e Lorraine sono fuggiti da un demone e dalle responsabilità legate alla loro professione, per salvaguardare la vita della neonata Judy. Adesso, giustamente, il demone è tornato alla carica, legandosi all'ennesima famiglia in pericolo e realmente esistita, in questo caso gli Smurl. The Conjuring - Il rito finale è "tutto qui". La sua struttura  horror è pressoché identica ai primi due capitoli (il terzo, con l'aggiunta di una strega e di un processo per omicidio istigato dal demonio, prendeva, seppur brevemente, altre strade): una famiglia numerosissima si ritrova bloccata all'interno di una casa infestata e vittima di fenomeni demoniaci sempre più invasivi, arrivano i Warren e, dopo aver fatto amicizia con tutti i membri della famiglia portando in primis conforto morale, ingaggiano una tremenda battaglia contro il demone di turno, uscendone più o meno invitti. L'unica differenza, in questo caso, è che i Warren e gli Smurl ci mettono molto ad entrare in contatto, e non viene a crearsi un legame simile a quello descritto nei film precedenti, il che inficia l'empatia provata verso le vittime. Un altro aspetto da considerare è che, all'interno di un metraggio molto lungo, l'aspetto drammatico della storia è preponderante rispetto all'elemento horror, il che scalda il cuore a chi, come me, vuole bene ai Warren cinematografici e starebbe ore a crogiolarsi nel loro idillio, ma potrebbe frantumare le gonadi a chi vuole solo spaventarsi.


Ci sarebbe da discutere anche su quest'ultimo punto. Gli spaventi messi in scena da Chaves sono meccanici, durano il tempo dello jump scare foriero di bestemmia, ma non lasciano un'inquietudine duratura; per dire, ho fatto più fatica a dormire per la scena post-credit e le registrazioni sui titoli di coda, che per il baraccone di esseri ghignanti e specchi semoventi messo in piedi dal regista. Anche la bambola Annabelle, mia nemica dal 2013 e affiancata da una maledettissima collega gattonante, ormai è messa a mo' di contentino per i fan, così come una serie di guest star"umane", ma non mette più angoscia come i primi tempi, e lo stesso vale per la "stanza degli orrori" dei Warren, a proposito della quale, avendo rivisto tutta la saga per prepararmi, a me è parso fossero ripetuti più o meno gli stessi dialoghi esplicativi. Ovviamente, potrei sbagliarmi, ma non credo. Purtroppo, Chaves non è un fuoriclasse come Wan, che sfruttava tagli di inquadratura e montaggio per fare ancor più paura, e il regista riesce ad azzeccare solo una sequenza veramente spaventosa e ben realizzata, quella che coinvolge Padre Gordon e che è non è stata ovviamente capita da parte dell'audience più giovane presente al cinema (i giovani d'oggi vogliono chiarezza, inquadrature esplicite, che sono queste suggestioni giocate sul montaggio??). Per fortuna, però, ci sono i Warren. Non la figlia, che mi ha detto poco come quel babbeotto del fidanzato, bensì Vera Farmiga e Patrick Wilson, che mettono ogni fibra del loro essere per mostrarci l'amore, la dedizione, l'essere uno l'ancora di salvezza dell'altro in un mondo non solo fatto di demoni, ma soprattutto di solitudine, incomprensioni, rifiuto verso il diverso. A me mette i brividi sentire la Farmiga urlare come una banshee il suo dolore o la sua rabbia, o mentre invoce i nomi dei familiari, mi viene voglia di abbracciarla e dirle che andrà tutto bene; quanto a Patrick Wilson, nella saga Insidious non mi smuove alcun sentimento, ma qui lo trovo umano e dolcissimo, il compagno di vita ideale dovesse mai venirmi in mente di sposarmi. La consapevolezza che The Conjuring - Il rito finale sarà l'ultimo film della saga con loro due come protagonisti mi ha lasciato un senso di perdita dolceamaro, per non dire un discreto magone (nella lunga sequenza introduttiva, quella del parto, ho pianto. Vorrà pur dir qualcosa) e anche se non smetterò di seguire sequel, spin-off, nuove generazioni (per quanto mosce) e chissà che altro, so che non sarà più la stessa cosa. Con buona pace di chi non li sopporta proprio questi adorabili baciapile.


Del regista Michael Chaves ho già parlato QUI. Vera Farmiga (Lorraine Warren), Patrick Wilson (Ed Warren) e Steve Coulter (Padre Gordon) li trovate invece ai rispettivi link.


Aguzzate bene la vista sul finale, durante il quale compaiono James Wan e alcuni protagonisti dei capitoli precedenti, come Carolyn e Cindy Perron (da L'evocazione - The Conjuring), Peggy e Janet Hodgson (The Conjuring - Il caso Enfield) e David Glatzel (The Conjuring - Per ordine del diavolo). Ovviamente, se The Conjuring - Il rito finale vi fosse piaciuto, il mio consiglio è guardare tutti e tre i film precedenti, aggiungere Annabelle, Annabelle: Creation, Annabelle 3, The Nun, The Nun 2 e La llorona - Le lacrime del male, e recuperare il film TV La casa delle anime perdute, che racconta la vicenda della famiglia Smurl. ENJOY!