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venerdì 25 luglio 2025

2025 Horror Challenge: The Burning (1981)

La challenge chiedeva di guardare un horror uscito nel mio stesso anno di nascita, e io ho scelto The Burning, diretto e co-sceneggiato nel 1981 dal regista Tony Maylam (so che non interessa a nessuno ma il prompt era della settimana scorsa. Pubblico il post oggi, approfittando di un "buco" lasciato dai corti horror, perché nei giorni scorsi volevo parlare di un paio di film usciti di recente in Italia!).  


Trama: a causa di una burla finita male, il custode di un campeggio rimane orribilmente sfigurato in un incendio. Cinque anni dopo, l'uomo esce dall'ospedale e cerca vendetta...


A volte è brutto guardare per la prima volta i film dopo 40 e fischia anni dalla loro uscita, perché nel frattempo sono successe un sacco di cose non proprio bellissime nel mondo dell'entertainment, e uno ha difficoltà a tenere fuori pensieri intrusivi durante la visione. Per esempio, The Burning nasce da un'idea di Harvey Weinstein, ed è stato sceneggiato dal fratello Bob assieme a Peter Lawrence; guardando il film, non riuscivo a smettere di chiedermi se le varie scene in cui le ragazze vengono pesantemente approcciate da teenager in fregola che non riescono ad accettare un "no" come risposta fossero un "omaggio" di Bob al fratellino, in particolare quella in cui Eddy riduce in lacrime la ragazzotta (un po' scema, fatemelo dire) rea di avere accettato una nuotata nudi ma di avere comunque rifiutato di fare sesso con lui. Probabilmente sono io che penso troppo, ma quelle scenette di ordinario arrapamento adolescenziale mi hanno messo i brividi più del killer armato di forbici da potatura che fa scempio di campeggiatori, ed è un peccato perché Bob Weinstein e Peter Lawrence, a differenza di tanti altri loro colleghi, hanno dato vita a dinamiche e personaggi abbastanza verosimili e tridimensionali. Sì, come in Venerdì 13 c'è un killer vendicativo che torna dopo anni sul luogo dell'incidente che gli ha rovinato l'esistenza e comincia ad uccidere adolescenti, ma non tutte le vittime sono carne da macello, anzi, alcuni hanno una personalità interessante, e non è facilissimo capire chi di loro sarà il final boy o la final girl. Dopo un inizio cupissimo, che offrirebbe potenziale per altri due film d'orrore (uno dei quali ambientato in un ospedale) The Burning ci introduce infatti alle atmosfere di un tipico campeggio estivo, dove accanto ai soliti manzetti e manzette tanto amati dagli slasher, ci sono anche ragazze incerte sui loro sentimenti, adolescenti allegri che fanno gruppo e tentano di coinvolgere anche gli outsider, capigruppo protettivi e sinceramente preoccupati per i ragazzi che sono stati loro affidati, momenti di cameratismo e la goffaggine imbarazzante tipica di quell'età, quando comportamenti bizzarri vengono esasperati fino a diventare disgustosi, sprofondando nella disperazione più nera chi ancora non riesce a trovare il suo posto nel mondo. Insomma, c'è un po' di investimento emotivo in The Burning (anche perché lo scherzo iniziale ai danni del custode del campeggio è qualcosa di tremendo, nonostante la vittima fosse una persona orribile), e molti dei personaggi si muovono all'interno di zone morali più o meno grigie, senza essere totalmente buoni o cattivi.  


The Burning
è particolare anche perché molte delle scene più gore sono baciate dalla luce del sole, in primis quella che lo ha reso giustamente famoso, che si svolge in un ambiente acquatico, il fiume, dove la luminosità viene ulteriormente enfatizzata da riflessi e riverberi. Il make-up di Tom Savini è eccelso e non risparmia nulla alle povere vittime della furia del killer. Proprio nella sequenza della zattera, dopo un'iconica ripresa dal basso del maniaco e una carrellata di terrificanti ferite mortali, il colore vivido del sangue riempie tutto lo schermo, prima che il montaggio passi alla scena successiva; il volto sfigurato del killer (realizzato in soli tre giorni), poi, è talmente disgustoso che viene da ringraziare il fatto di poterlo vedere solo per pochi secondi, e le lame fanno il loro dovere, che siano quelle delle cesoie che tagliano dita e gole, o che siano quelle di un'ascia che sfonda teste come angurie mature. Anche lo showdown finale ambientato in un'evocativa miniera abbandonata è interessante, grazie a carrellate ravvicinate dei protagonisti, che trasformano l'ambiente in un vero e proprio labirinto senza via d'uscita e rendono palpabile il terrore derivante da un mortale nascondino. Nota di merito, infine, per la colonna sonora di Rick Wakeman, che mi ha ricordato parecchio lo stile di alcuni lavori di Fabio Frizzi e gli conferisce un sapore adorabilmente fulciano. Sapete bene che non vado matta per gli slasher, quindi trovare così tanti meriti in un prodotto anni '80 mi ha piacevolmente stupita; perciò, non posso fare altro che consigliarvi il recupero di quello che, a ragione, tanti appassionati considerano superiore a Venerdì 13, pur essendo meno famoso. Io stessa non lo avevo mai visto prima d'oggi, e ne avevo sentito parlare solo sporadicamente! 


Di Fisher Stevens, che interpreta Woodstock, ho già parlato QUI, mentre Holly Hunter, che interpreta Sophie, la trovate QUA.

Tony Maylam è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Inglese, ha diretto film come Detective Stone. Anche produttore, ha 82 anni.


Se vi sembra di conoscere Brian Baker, che interpreta Alfred, dai tempi della vostra infanzia, è perché l'attore era in Scuola di polizia 4 nei panni del teppistello Arnie; Jason Alexander, che interpreta Dave, era invece George Costanza, il co-protagonista della sit-com Seinfeld. The Burning è stato uno dei film inseriti nell'elenco dei Video Nasty britannici, a causa della scena della zattera. Se The Burning vi fosse piaciuto recuperate Venerdì 13. ENJOY!


martedì 12 novembre 2019

Motherless Brooklyn - I segreti di una città (2019)

Indecisa su cosa andare a vedere, alla fine sabato sono stata "pilotata" dagli orari del multisala, e sono finita così nella sala dove proiettavano Motherless Brooklyn - I segreti di una città (Motherless Brooklyn), diretto e co-sceneggiato dal regista Edward Norton a partire dal romanzo Brooklyn senza madre (tradotto la prima volta con Testadipazzo) di Jonathan Lethem.


Trama: dopo la morte del suo mentore, un investigatore affetto da sindrome di Tourette comincia ad indagare per capire chi lo abbia ucciso e perché.


Troppe cose per le mani, troppe cose. Edward Norton è sempre stato un attore eclettico e bravissimo. Nel 2000 aveva esordito dietro la macchina da presa con Tentazioni d'amore, una commedia romantica a base di preti e rabbini innamorati, in cui recitava accanto a Ben Stiller e Jenna Elfman, poi più nulla, è tornato a fare il regista dopo quasi 20 anni con questo Motherless Brooklyn, ritagliandosi anche il ruolo di sceneggiatore. Come ho scritto prima, troppe cose. Al solito, mi tocca confessare di non aver mai letto il romanzo di Jonathan Lethem, poliedrico scrittore e sceneggiatore in grado di spaziare dalla fantascienza, ai comics, al crime, quindi non farò confronti tra il testo scritto e quello cinematografico, ma sarei curiosa di leggere Brooklyn senza madre per capire se anche il romanzo è un giro intorno al mondo che alla fine lascia il lettore con un enorme "e quindi?" (per non dire "e sticazzi?") sulla capoccia. Che è purtroppo il risultato del film di Norton, tanto splendido e splendente nella realizzazione e nelle interpretazioni quanto sfilacciato e perplimente per quanto riguarda la sceneggiatura. Senza fare troppi spoiler, come nella migliore tradizione noir abbiamo un misterioso omicidio sul quale il protagonista deve indagare. La particolarità di Lionel, detto Brooklyn, è la malattia che lo affligge, quella sindrome di Tourette che lo condanna a spasmi incontrollabili e a parlare in modo buffo ma che gli ha reso anche il cervello "come un brillante", capace di ricordare qualunque conversazione, volto o dettaglio; la voce fuori campo di Lionel non balbetta e non sragiona, anzi, conduce lucidamente lo spettatore attraverso l'indagine che lo porterà a scoprire tutti gli scandalosi segreti di una New York anni '50 corrotta e razzista, nelle mani del visionario costruttore Moses Randolph, il quale per realizzare un futuro da sogno non si fa scrupoli a rendere un inferno il presente dei poveracci che vivono nei bassifondi della Grande Mela. Purtroppo, preso com'è dalla grande personalità di Brooklyn e dalla resa Trumpiana di Randolph, Norton si perde dei pezzi per strada (i colleghi dell'agenzia investigativa di Minna, il mentore di Brooklyn, che a un certo punto spariscono), riannoda fili fondamentalmente poco importanti e che lo spettatore aveva quasi dimenticato dopo un tempo infinito (SPOILER che Vermonte facesse il doppiogioco e si scopasse la moglie di Minna era palese al minuto due della pellicola, frega abbastanza una cippa di "scoprirlo" a dieci minuti dalla fine, visto che non aggiunge nulla alla risoluzione dell'inghippo FINE SPOILER), ed offre non solo una motivazione risibile per ben due omicidi, ma anche un "villain" fondamentalmente impunito (RI-SPOILER Sì, alla fine Lieberman se la prenderà nello stoppino, non sono scema, ma Randolph continuerà a farsi gli affari suoi dopo essere sbroccato solo per una figlia di colore? Siamo nei razzisti anni '50 ma tu sei anche pieno di soldi, figlio mio, paga quel che c'è da pagare e mollaci con la solfa del "sono potente, posso far quello che voglio" FINE RI-SPOILER).


Poi, per carità, se tutti i giri intorno al mondo che approdano al nulla fossero così, salterei sul primo aereo disponibile. Edward Norton regista è di una finezza deliziosa, si ritaglia tocchi di pura poesia all'interno di una città che ne è priva e riesce persino, a un certo punto, a far vivere sulla pelle dello spettatore la sindrome di Lionel; c'è una sequenza in particolare, infatti, in cui regia, montaggio e colonna sonora trovano un equilibrio miracoloso e la forsennata partitura jazz suonata dal cosiddetto "trombettista" si ripercuote su ciò che sta accadendo al protagonista, rendendo così l'atmosfera ancora più concitata, tanto che mi sono accorta a un certo punto di avere la mascella contratta e di star battendo il piede nemmeno avessi un tic nervoso. La colonna sonora è per l'appunto bellissima. La musica è una delle poche cose capaci di calmare i tic nervosi di Lionel e giustamente Norton la sfrutta alla perfezione, tra il già citato jazz ed eleganti melodie realizzate da Thom Yorke e Flea, che arricchiscono ancor più le immagini mostrate da Norton e anche le interpretazioni degli attori. Ora, lo sapete che sono di parte. Sprecare Bruce Willis è un delitto imperdonabile, ma fortunatamente Norton si redime con lo strano personaggio di Lionel, che poteva essere caricato all'inverosimile e risultare ridicolo, invece è di una tenerezza incredibile, buffo e divertente; Baldwin, da par suo, è molto più borderline, e sembra davvero l'imitazione di Trump, forse anche troppo per essere davvero credibile, nonostante il suo personaggio si basi su una persona realmente esistente, mentre il resto del cast fa il suo lavoro, con menzione speciale alla Laura di Gugu Mbatha-Raw, dotata di uno spessore che fortunatamente va al di là dell'essere solo il love interest di Lionel. Motherless Brooklyn è dunque un film difficile da demolire, nonostante l'eccessiva lunghezza, perché ha tantissimi aspetti positivi, però non sono riuscita ad apprezzarlo quanto avrei voluto, a causa del senso di incompiutezza e "spreco" che ho provato quando hanno cominciato a scorrere i titoli di coda. A mio avviso, anche perderselo sarebbe un peccato ma con tutti i film belli in programmazione questa settimana forse è meglio aspettare una distribuzione su streaming o in home video.


Del regista e co-sceneggiatore Edward Norton, che interpreta anche Lionel Essrog, ho già parlato QUIGugu Mbatha-Raw (Laura Rose), Alec Baldwin (Moses Randolph), Bobby Cannavale (Tony Vermonte), Willem Dafoe (Paul), Bruce Willis (Frank Minna), Ethan Suplee (Gilbert Coney), Cherry Jones (Gabby Horowitz), Dallas Roberts (Danny Fantl), Fisher Stevens (Lou), Michael Kenneth Williams (il trombettista) e Leslie Mann (Julia Minna) li trovate invece ai rispettivi link.

Josh Pais interpreta William Lieberman. Americano, ha partecipato a film come Tartarughe Ninja alla riscossa, Scream 3, Denti, La famiglia Fang, Joker e a serie quali I Robinson, Sex and the City e I Soprano. Anche sceneggiatore e regista, ha 61 anni e due film in uscita.




venerdì 8 novembre 2013

Uomini di parola (2012)

Piano piano recupero anche quei film che avrei voluto vedere ma che non sono passati in sala dalle mie parti e questa volta è toccato a Uomini di parola (Stand Up Guys), diretto nel 2012 dal regista Fisher Stevens. Muze mi dava una buona affinità, quindi sono andata abbastanza sul sicuro!


Trama: Val esce di prigione dopo 28 anni e viene accolto dal suo migliore amico, Doc. Sul suo capo però pende già una condanna a morte...


Uomini di parola è un bel film. Vecchio stampo come i suoi protagonisti, con una sceneggiatura solida che alterna momenti divertenti ad altri più seri e riflessivi, una regia classica, una bella fotografia e un gruppetto di grandissimi attoroni, tutti molto affiatati tra loro. La recensione potrebbe finire qui perché Uomini di parola, sulla carta, non ha alcun difetto. Però, dire che la recensione è finita qui indica già che qualche difetto, sotto la superficie, invece c'è, ed è qualcosa di molto soggettivo: la pellicola, per quanto perfetta, non mi ha comunicato nulla. Mentre guardavo il film, e sorridevo davanti alle mattane di un istrionico Pacino, annuivo comprensiva davanti ai problemi familiari del povero Christopher Walken, applaudivo alle performance del ringalluzzitissimo Alan Arkin e, in generale, mi chiedevo come avrebbero fatto finire Uomini di parola, mi rendevo tristemente conto di una cosa, ovvero che tutte queste sensazioni erano molto all'acqua di rose, perché non ero coinvolta. E questo nonostante carne al fuoco ce ne fosse molta, a partire da una riflessione sulla vecchiaia e i tempi andati, sull'importanza di "fare la cosa giusta", essere uno stand up guy sia durante le attività criminali che nei normali rapporti di amicizia, ecc. ecc.


Il problema di Uomini di parola è che è tutto troppo facile. Non c'è un vero momento in cui lo spettatore possa "temere" per il destino dei protagonisti, perché loro, nonostante la vecchiaia, si portano dietro un'aura di invincibilità a dir poco palpabile e, nonostante qualche piccolo contrattempo, affrontano ogni problema come se si trovassero in una pista da ballo: si sbaglia un passetto ma poi si riparte. Diretta conseguenza di questo è che anche le interpretazioni dei grandissimi attori coinvolti sembrano meno incisive rispetto ad altre, come se fossero loro stessi a rendersi conto di essere delle macchiette all'interno di un semplice divertissement. L'unico a fare eccezione, almeno in un paio di sequenze, è Alan Arkin, che interpreta il personaggio più "umano" e commovente. Inoltre, l'unica altra cosa che ho davvero apprezzato e che mi ha "scossa", per così dire, è finale aperto che riprende la bellezza dei quadri dipinti da Doc. Il resto, come ho detto, rientra nella definizione di "buon film senza particolari guizzi", da vedere sicuramente almeno una volta nella vita ma non da elevare a cult. Ed è un vero peccato, perché bastava poco per avvicinare Uomini di parola ad un altra pellicola dai temi simili ma molto più interessante, Cosa fare a Denver quando sei morto. Che, per inciso, vi consiglio di recuperare se non l'avete ancora fatto.


 

Di Christopher Walken (Doc), Alan Arkin (Hirsh), Julianna Margulies (Nina Hirsh) e Vanessa Ferlito (Sylvia) ho già parlato ai rispettivi link.

Fisher Stevens (vero nome Steven Fisher) è il regista della pellicola. Americano, è solo al suo secondo film dietro la macchina da presa ma, come attore, ci aveva deliziati tutti negli anni ’80 interpretando l’indiano di Corto Circuito. Anche produttore e sceneggiatore, ha 50 anni e due film in uscita.


Al Pacino (vero nome Alfredo James Pacino) interpreta Val. Uno dei più grandi attori viventi e, paradossalmente, MAI apparso sul Bollalmanacco ma spesso nominato, lo ricordo per film come Il Padrino, Serpico, Il Padrino – parte II, Quel pomeriggio di un giorno da cani, Scarface, Dick Tracy, Il Padrino – Parte III, Scent of a Woman – Profumo di donna (che gli è valso l’Oscar come miglior attore protagonista), Carlito’s Way, Heat – La sfida, Donnie Brasco, L’avvocato del diavolo, Insomnia, S1m0ne e la meravigliosa miniserie Angels in America. Americano, anche regista, produttore e sceneggiatore, ha 73 anni e due film in uscita. 


Mark Margolis interpreta Claphands. Americano, ha partecipato a film come Scarface, Il segreto del mio successo, I delitti del gatto nero, Ace Ventura - L'acchiappanimali, Potere assoluto, Giorni contati, Hannibal, Daredevil, Il cigno nero e a serie come American Horror Story. Ha 74 anni e quattro film in uscita, tra cui Noé.

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