lunedì 28 febbraio 2011

Oscar 2011

La scorsa notte a Los Angeles sono stati assegnati i premi Oscar per l’anno 2010/2011, ed inevitabilmente il Bollalmanacco e la sua padrona hanno deciso di dedicare all’evento un post tutto suo. Anche perché quest’anno il trionfatore è stato Il discorso del re, film di cui ho ampiamente parlato due post orsono. Il film inglese, imperniato sugli sforzi di re Giorgio VI per superare i suoi problemi di balbuzie e riuscire a tenere discorsi ufficiali via radio, è stato premiato infatti come miglior film e ha ricevuto l’Oscar per la miglior sceneggiatura non originale. La statuetta di miglior regista è andata all’inglese Tom Hopper e quella di miglior attore protagonista a Colin Firth. Insomma, dovrei essere molto soddisfatta visto che speravo davvero che Il discorso del re portasse a casa quasi tutti i premi più importanti… però ci sono state anche delle delusioni. Innanzitutto, portiamo però il giusto tributo ai vincitori.

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Natalie Portman ha vinto la statuetta come miglior attrice protagonista per il film Il cigno nero, diretto da Darren Aronofsky. Se tutto va bene mercoledì andrò a vederlo, quindi potrò dare un giudizio più preciso sulla cosa, ma in generale sono contenta. L’attrice israeliana è una delle mie preferite, fin dai tempi in cui interpretava la piccola Mathilda nello splendido Léon di Luc Besson. Crescendo, per fortuna, la sua carriera non si è infognata in produzioni imbarazzanti come spesso accade alle piccole star (tranne per un paio di cadute di stile, come la partecipazione ai tremendi sequel di Star Wars…), anzi: ha partecipato ad alcuni dei più bei film degli ultimi anni come Heat – La sfida, V per Vendetta e Il treno per il Darjeeling. Tra i suoi progetti post – Oscar c’è la partecipazione all’ultima grande produzione Marvel, quel Thor la cui uscita è imminente, e ad un fantasy – comico dal titolo Your Highness, che dovrebbe uscire in America agli inizi di aprile.

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Christian Bale ha vinto invece l’Oscar come miglior autore non protagonista per il film The Fighter. Premetto di non averlo visto e premetto anche che io l’Oscar lo avrei dato a Jeremy Renner per l’interpretazione in The Town, ma Bale è un ottimo attore a prescindere. Il ruolo che lo ha fatto vincere quest’anno è quello di Dicky Eklund, fratello ed allenatore del pugile di origine irlandese Micky Ward (interpretato da Mark Wahlberg che, invece, non era stato nominato per nessun premio); non amo i film sul pugilato, probabilmente non andrò a vedere The Fighter, ma se volete vedere il buon Christian Bale al suo meglio vi consiglio di procurarvi uno dei suoi film d’esordio, Piccole donne, l’introvabile L’agente segreto (una gemma che io e Toto ancora ricerchiamo disperatamente…), Velvet Goldmine, American Psycho, Equilibrium e The Prestige. Presto dovremmo vederlo nuovamente sul grande schermo nel nuovo film di Zhang Yimou, 13 Flowers of Nanjing, nei panni dello scienziato Nikola Tesla in un film ancora privo di titolo, e ovviamente nel prossimo The Dark Knight Rises di Christopher Nolan.

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Come migliore attrice non protagonista ha vinto invece Melissa Leo, sempre per The Fighter. Altro amaro boccone, visto che io puntavo molto sulla piccola Hailee Steinfeld. Sinceramente, Melissa Leo è un’attrice che non conosco e della quale non immaginavo neppure il volto fino a stanotte, essendo parecchio attiva per la tv ma solo in serie che non rientrano tra quelle che seguo; in The Fighter interpreta la madre dei due fratelli Eklund, e tra i suoi film quelli più famosi (che pur non ho visto, ahimé), sono 21 grammi – Il peso dell’anima, Nascosto nel buio e il più recente Stanno tutti bene. Tra i suoi progetti futuri, un film che parla del FALN (il movimento indipendentista portoricano), Seven Days in Utopia con Robert Duvall (film che parla della crisi di un golfista), una commedia musicale dal titolo The Brooklin Brothers Beat the Best, e un film che già dalla trama si preannuncia un odiosissimo drammone su un tizio affetto da paralisi cerebrale che lavora ad una stazione di servizio ed accudisce il padre malato di AIDS (!!!). Titolo del probabile mattone: Truckstop. Mi spiace per la signora Leo ma la sua carriera credo continuerà ad essere un mistero, almeno per me…

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In definitiva, questa edizione degli Oscar è stata meglio di altre, e ha rispettato i (giusti) pronostici. Tuttavia sono davvero dispiaciuta che Il Grinta dei Fratelli Coen non abbia portato a casa nemmeno una statuetta (meritava “almeno” quella per la miglior sceneggiatura non originale, che invece è andata a The Social Network che, sulla carta, doveva sbancare la Academy e invece ha vinto solo questo Oscar, quello per il miglior montaggio e quello per la miglior colonna sonora originale, che da finalmente il giusto tributo anche a quel genio di Trent Reznor), e anche che Inception abbia vinto solo premi “tecnici” per la migliore fotografia, sonoro ed effetti speciali. Abbastanza scandaloso per un film così bello. Voto 10 invece all’ovvio e meritatissimo Oscar per il miglior lungometraggio animato, che ha visto premiato lo splendido Toy Story 3, e anche ai premi consegnati per le scenografie ed i costumi di Alice in Wonderland, effettivamente gli aspetti migliori di una pellicola altrimenti deludente. Tra i vincitori spunta anche un The Wolfman per il miglior make – up: non posso che essere felicissima dell’ennesimo traguardo raggiunto dal dio Rick Baker, che aveva già vinto l’Oscar per il make – up de Il Grinch, Men in Black, Il professore matto, Ed Wood, Bigfoot e i suoi amici e, ovviamente, Un lupo mannaro americano a Londra. E per quest’anno è tutto… ci si risente nel 2012 (sempre che il mondo non finisca prima, ovvio…)!  Nel frattempo vi lascio con lo sketch iniziale girato assieme ai due conduttori della serata, James Franco ed Anne Hathaway. ENJOY!!

venerdì 25 febbraio 2011

Il Grinta (2011)

Andando a rivedere i post dell’anno scorso, mi rendo conto che a febbraio i film proiettati nei cinema sono qualitativamente migliori rispetto al resto dell’anno. Sarà perché gli Oscar sono imminenti, probabilmente, comunque sia se il risultato è la possibilità di vedere dei bei film come Il Grinta (True Grit) dei fratelli Coen non posso davvero lamentarmi.

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Trama: la quattordicenne Mattie Ross arriva nella città dov’è stato ucciso suo padre, decisa a cercare vendetta contro il suo assassino, il bandito Tom Chaney. Per riuscire nell’intento ingaggia il vecchio sceriffo Cogburn, un ubriacone dalla fama di duro, e alla strana coppia si unisce il ranger texano LaBoeuf. Comincia così una caccia all’uomo che metterà alla prova la “grinta” di tutti i coinvolti…

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Tra i generi cinematografici, quello western è probabilmente quello che conosco di meno. Mi è capitato di guardare il bellissimo Un dollaro d’onore e l’altrettanto bello Il buono, il brutto e il cattivo (anche se quest’ultimo rientra già nel campo degli spaghetti western se non sbaglio), e come tutti i bambini degli anni ’80 sono stata cresciuta da Trinità, ma non vado oltre a questo. Quindi, non conosco nemmeno Il grinta originale, diretto nel 1969 dal regista Henry Hathaway, che ha fatto vincere l’Oscar a John Wayne proprio grazie al ruolo di Cogburn. Proprio per questo non posso fare un confronto tra l’originale ed il remake dei Coen, né parlare dall’alto di una conoscenza del genere: posso solo dire che Il Grinta è uno splendido film, che supera qualsiasi “etichetta”.

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Guardandolo, mi sono resa conto che probabilmente il “vecchio west” è qualcosa di talmente connaturato ormai nei nostri miti e nel nostro immaginario che un film simile risulta quasi rilassante, amichevole, “accogliente”. Le praterie sconfinate, le stellette sul petto, gli abiti polverosi quasi tutti sui toni del nero, dell’ocra, del marrone, i volti sporchi dei banditi, gli speroni, i cavalli, sono tutti elementi che risultano familiari a qualunque spettatore, e anche la storia è universale, con il protagonista che desidera vendetta nei confronti di chi ha fatto del male ad un suo caro. Però fin dall’inizio Il grinta si mostra come qualcosa di particolare, e lo fa non tanto per il protagonista che da il titolo al film, quanto per la piccola e tostissima presenza femminile. Mattie Ross è un’adorabile, insopportabile so-tutto-io dalla faccia tosta, una quattordicenne che da dei punti sia al vecchio sceriffo ubriacone che al ranger texano, e lo fa mantenendo sempre e comunque un’aria credibile. Non è una supereroina, una ninja prodigio o qualsiasi altra idiozia del genere, ma una ragazzina dalla salda educazione scolastica , dalla fede incrollabile e dai saldi principi morali. E i Coen di tanto in tanto ci ricordano l’età di Mattie, mostrandocela colma di pietà per il giovane bandito, capricciosa, impaurita dai serpenti, legata all’amatissimo cavallo Tuttomatto (SPOILER: Ho preso in giro Toto per anni sapendo che si era disperato per la morte del cavallo di Atreiu ne La storia infinita… ora posso dire di avere pianto anche io per un cavallo. La morte di Tuttomatto è semplicemente straziante e un pezzo di cinema d’autore.) e anche, secondo me, un po’ cotta di LaBoeuf.

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Il resto è pura magia Coen, con dialoghi allo stesso tempo profondi e divertenti, quel pizzico di violenza che squarcia la calma apparente, e quella spolverata di neve, che mi riporta alla mente Fargo e che sempre mi meraviglia in un western: non fa sempre caldo in quei posti? Un western “invernale” è doppiamente affascinante, a mio avviso. La regia poi è semplicemente emozionante (bellissima la sequenza della corsa notturna del Grinta in sella a Tuttomatto, cavaliere e cavalcatura che si stagliano neri contro un cielo color indaco mentre, a poco a poco, appare il primo piano col profilo del cavallo sfiancato, ma anche l’epico scontro finale dove lo sceriffo tira fuori finalmente le palle e la sfida al ranger per decretare chi dei due è il tiratore più abile sono momenti indimenticabili e perfettamente girati) e splendidamente accompagnata da una colonna sonora azzeccatissima, che tocca il suo apice sul finale, dolce e amaro allo stesso tempo, una conclusione coerente e nostalgica che riesce a dire ancora qualcosa sui personaggi e sui rapporti che li legava. Voto dieci, ovviamente, a tutti gli attori coinvolti. Jeff Bridges era già uno dei miei miti da tempo, ma qui a tratti sembra posseduto dallo spirito di John Wayne ed il risultato è un personaggio discutibile, rozzo, insopportabile e allo stesso tempo irresistibile, reso vivo e reale dalle migliori caratteristiche di questi due grandi interpreti; stupenda, ovviamente, la piccola Hailee Steinfeld alla quale auguro la migliore delle carriere, e interessante anche Matt Damon, che ho amato soprattutto nei battibecchi con lo sceriffo. Josh Brolin, nonostante il suo personaggio sia il motore del film, si vede poco e conferisce al bandito un alone di miseria, squallore e pochezza tali che verrebbe voglia di mandare a quel paese la bambina per essersi impegnata tanto ad ucciderlo. Ma d’altronde, non erano così sfigati anche i rapitori di Fargo? Spesso l’Empio, come viene scritto a inizio film, non solo fugge sempre anche quando nessuno lo insegue, ma è meno affascinante e scafato di quel che ci si aspetti… quasi banale, e anche goffo. Non certo come i film dei Coen.

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Dei registi e sceneggiatori del film, Joel ed Ethan Coen, ho parlato in questo post. Di Jeff Bridges, che interpreta Rooster Cogburn, ho già parlato qui. Quest’anno è candidato all’Oscar come miglior attore protagonista proprio per questo ruolo, dopo averne già vinto uno nel 2010 per il film Crazy Heart; per il 2011 speriamo che Colin Firth possa rubargli la statuetta, ma se dovesse rivincere Bridges sarei contenta lo stesso. Di Matt Damon, che interpreta il ranger texano Laboeuf ho parlato qui, mentre Josh Brolin, che recita nei panni di Tom Chaney, lo trovate qua. Anche Barry Pepper, qui irriconoscibile nel ruolo di Lucky Ned Pepper, ha già goduto del suo momento di gloria sul Bollalmanacco.

Hailee Steinfeld interpreta la piccola Mattie Ross. Prima di partecipare a Il Grinta ha lavorato per alcuni corti e alcune serie TV che non conosco. Americana, ha 15 anni e quest’anno è candidata all’Oscar come miglior attrice non protagonista proprio per questo film. Auguri!

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Tra gli altri interpreti, segnalo la presenza del già citato (in questo post) figlio di Brendan Gleeson, Domhnall, nei panni del giovane bandito chiacchierone che viene ucciso dal compare. Nell’originale, questo personaggio era interpretato nientemeno che da Dennis Hopper, mentre nei panni di Lucky Ned Pepper c’era Robert Duvall. Per quanto riguarda il “totoOscar”, Il Grinta quest’anno ha portato a casa ben 10 nominations, tra qui quelle importantissime di miglior film, miglior regia, miglior attore protagonista, migliore attrice non protagonista e miglior sceneggiatura non originale. Sinceramente, spero che Hailee Steinfeld si porti a casa la statuetta (con buona pace di Helena Bonham Carter) e lo stesso per i Coen: nonostante come film abbia apprezzato di più Il discorso del re e Inception, come regia i fratellini battono Tom Hopper, almeno quanto Colin Firth batte Jeff Bridges. Come premio di consolazione ci sta tutto anche l’Oscar per miglior sceneggiatura non originale, ovviamente! E ora vi lascio col trailer originale del vecchio Il Grinta con John Wayne! ENJOY!!


martedì 22 febbraio 2011

Il discorso del Re (2011)

Tutti gli anni arriva la notte degli Oscar e come ogni anno io arrivo alla fatidica data senza aver visto il 90% dei film in concorso. Quest’anno ho deciso di invertire la tendenza, soprattutto dopo aver sentito parlare benissimo de Il discorso del re (The King’s Speech), che nella mia città è stato passato in sordina per un paio di giorni. Il film, diretto dal regista Tom Hooper, è indubbiamente una piccola perla.

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La trama è basata sulla vera storia del re Giorgio VI, padre dell’attuale regina Elisabetta II, salito al trono negli anni della seconda guerra mondiale, dopo l’abdicazione del frivolo fratello. Affetto sin dall’infanzia da un’imbarazzante forma di balbuzie, il re deve fare i conti con i discorsi ufficiali da trasmettere via radio, e cerca così l’aiuto di un logopedista esperto, l’australiano Logue, con il quale intesse una difficile ed importante amicizia…

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Il discorso del re parte da un tema potenzialmente noioso e quasi ridicolo, la storia vera di un re balbuziente, e lo trasforma in un meraviglioso film capace di divertire, far riflettere e anche emozionare. Il “trucco”, se così si può chiamare, è quello di mostrarci un re assolutamente umano ed imperfetto, che soffre del suo difetto e che si sente schiacciato da doveri ed oneri assai difficili da sopportare per un uomo fondamentalmente semplice ed innamorato della sua patria . E il “trucco” funziona ancora di più per l’assoluto realismo con cui viene rappresentato Giorgio VI e la sua relazione con il particolare Logue. Il regista avrebbe potuto scegliere di dare un taglio più “comico” alla vicenda, calcando la mano sulle bizzarrie di Logue che ci vengono mostrate all’inizio; invece Hopper sceglie di focalizzare, e giustamente, l’attenzione su Giorgio VI e sullo strano legame che si crea tra i due, e che cambia quando Bertie, come viene confidenzialmente chiamato il monarca, diventa re. Quest’ultimo non è affatto un uomo simpatico, è complessato, compassato, inevitabilmente tradizionalista e persino diffidente, ciononostante lo spettatore si ritrova a tifare per lui, riconoscendone la fondamentale bontà e mettendosi nei suoi panni, arrivando a “temere” ciò che il regista subdolamente ci mostra con pochi fotogrammi ben mirati: l’occhio rosso e lampeggiante che segnala l’imminente messa in onda della trasmissione radiofonica, lo sguardo austero dei quadri che ritraggono gli antichi re, tradizionalmente fieri e carismatici, l’altro sguardo, quello perplesso e rassegnato, dei sudditi che si trovano davanti questo strano re balbuziente, schiacciato dalla guerra e dal confronto con i grandi del passato. Al momento del discorso finale, credetemi, sono rimasta con il fiato sospeso come non mi succedeva da tempo e sussurravo tra me “Vai, Bertie! Vai, cavolo!!”.

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La maggior parte del merito va soprattutto agli splendidi attori. Colin Firth è perfetto, non ci sono altre parole per descriverlo. Non ho idea di come sia risultato il doppiaggio italiano e, francamente, non lo voglio nemmeno sapere, ma quest’uomo riesce a fare sentire il “click” della gola che si chiude e gli impedisce di parlare, lo sforzo di spremere due parole in croce… a vederlo provavo davvero pena. Non credo sia facile interpretare un personaggio così senza uscire dalle righe e trasformarlo in una macchietta, ma Firth ce la fa, grazie ad un’interpretazione quasi sottotono e modesta che, a tratti, esplode negli scatti d’ira ai quali è soggetto il collerico e frustrato Bertie. A fargli da degna “spalla” ci sono Geoffrey Rush ed Helena Bonham Carter. Se vogliamo parlare di interpretazioni sottotono, per come sono abituata io a vedere questi due grandissimi attori mangiarsi il resto dei personaggi anche quando non sono protagonisti, fa quasi effetto vedere la Bonham Carter trasformata in una robusta e sbrigativa donnina, dolce e pratico sostegno del marito, e Geoffrey Rush nei panni di un pacato e abile specialista, dotato della pazienza di un santo anche quando Bertie perde la calma. Le immagini finali, dove l’aplomb inglese e l’etichetta di Corte trionfano anche davanti alla gioia, all’amicizia e alla gratitudine, sono l’esempio più emblematico di queste tre meravigliose interpretazioni. In due parole, Il discorso del re è un film che sicuramente dovrete faticosamente cercare nei meandri dei cinema d’essai italiani, ma per una volta vale veramente la pena evitare i multisala incompetenti: non ve ne pentirete.

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Parecchi gli attori già nominati nel mio modestissimo blog. Di Colin Firth, che interpreta Giorgio VI, ho già parlato qui; Geoffrey Rush invece, che interpreta Lionel Logue, è stato nominato in questo vecchissimo post. Qua trovate parecchi post dedicati ad Helena Bonham Carter, ormai presenza fissa del Bollalmanacco, che nel film interpreta la Regina madre, moglie del Re Giorgio. Di Derek Jacobi, ossia l’Arcivescovo Lang, ho parlato qui, ed infine Timothy Spall, che per una volta recita nei panni di un personaggio “buono”, Winston Churchill (personaggio che ha anche “doppiato” in un cartone animato inedito in Italia, Jackboots on Whitehall, del 2010), lo trovate qui.

Tom Hooper è il regista del film. Ammetto che Il discorso del re è l’unico film che io abbia mai sentito nominare di questo regista inglese, che si è fatto le ossa soprattutto in serie televisive. Anche sceneggiatore e produttore, ha 39 anni.

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Michael Gambon interpreta il re Giorgio V. Attualmente sicuramente meglio conosciuto per il suo ruolo di Albus Silente a partire da Harry Potter e il Prigioniero di Azkaban (il terzo episodio della serie, prima ad interpretare il preside di Hogwards era Richard Harris), lo ricordo per altri film come Toys – Giocattoli, Mary Reilly, Il mistero di Sleepy Hollow, Gosford Park, Le avventure acquatiche di Steve Zissou, Harry Potter e il calice di fuoco, The Omen, Harry Potter e l’Ordine della Fenice, Harry Potter e il principe mezzosangue e Harry Potter e i doni della morte. Ha lavorato anche per la tv, in serie come Maigret, lo splendido Angels in America e Doctor Who. Irlandese, ha 71 anni e quattro film in uscita, tra cui, la seconda parte di Harry Potter e i doni della morte.

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Guy Pearce interpreta Edoardo VIII. Originario dell’Inghilterra ma naturalizzato Australiano (lo si può capire dalle partecipazioni alle “mitiche” soap della terra dei canguri, ovvero Home and Away  e Neighbours), lo ricordo per film come Priscilla la regina del deserto, il bellissimo L.A. Confidential e l’altrettanto bello L’insaziabile. Ha 44 anni e sei film in uscita.

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Il discorso del re ha ottenuto ben 12 nomination agli Oscar di quest’anno, tra cui le più importanti: miglior film, miglior attore protagonista, miglior attore non protagonista (Geoffrey Rush), migliore attrice non protagonista (Helena Bonham Carter), miglior regia, miglior sceneggiatura. Inutile dire che spero si porti a casa almeno uno di questi premi principali e che tifo spudoratamente per Colin Firth, mentre come miglior film mi andrebbe bene anche se vincesse il bellissimo Inception. Shame (nel senso di scemo…) on Paul Bettany, a cui era stato offerto il ruolo del protagonista e lo ha rifiutato. Immagino che ora si starà mangiando le mani, ma sono affari suoi. Nota di merito invece allo sceneggiatore del film, David Seidler, che ha rispettato il desiderio della Regina Madre e ha scritto la sceneggiatura dopo la sua morte, per non risvegliare in lei ricordi troppo dolorosi. E ora vi lascio al trailer originale... ascoltate bene, prima ancora di vedere!! ENJOY!

mercoledì 16 febbraio 2011

Il quinto elemento (1997)

Finalmente riesco a parlare di un film che adoro, qualcosa che volevo recensire da qualche tempo, ovvero Il quinto elemento (The Fifth Element), “favola” fantascientifica diretta nel 1997 dal regista Luc Besson.

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Trama: in un futuro dominato dalla tecnologia, dove alleanze e guerre con esseri alieni sono all’ordine del giorno, compare nello spazio un’enorme palla di fuoco senziente che minaccia di distruggere ogni forma di vita sulla Terra. L’unico essere in grado di fermare la distruzione è il Quinto Elemento, alias Leeloo, un’aliena che riuscirà a coinvolgere nell’impresa anche Korben Dallas, un ex soldato ora tassista, decisamente attratto dalla bella rossa…

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Il quinto elemento, come ho detto, è una bella favola, che unisce elementi tipici della fantascienza all’ironia e all’azione caratteristici dei Die Hard di cui Bruce Willis è protagonista assoluto. Forse per questo mi è sempre piaciuto tanto questo film, oltre che per il suo essere un “fumettone” coloratissimo, a tratti kitsch nella sua assoluta innocenza, pieno di personaggi assurdi ed indimenticabili. Parlo di favola che potrebbe anche essere definita “ecologista”, in qualche modo, perché Il quinto elemento ha una morale ben precisa che tocca l’apice nel delizioso siparietto tra il cattivo Zorg e il prete Cornelius: è utile riempire il mondo di macchine che ci semplificano la vita.. ma se nel fare ciò ci dimenticassimo cosa sia veramente la vita, quella che conta? Besson ci mostra un mondo dove il progresso è palesemente un cane che si morde la coda, dove tutto viene creato per essere al servizio dell’uomo e nello stesso tempo lo aliena, inquina l’aria, lo indebolisce, e lo costringe a creare altre macchine per proteggere il corpo e svagare la mente. Una società ormai malata, allo sfascio, priva di valori, e la domanda che si pone Leeloo verso la fine del film, giustamente, è: ma perché devo salvare questo mondo? Cosa c’è di bello, ancora degno di essere preservato? La risposta è scontata, disneyana se vogliamo, ma in qualche modo sempre vera. L’amore. Soprattutto, aggiungo, se a darci aMMore è quel pezzo di figo di Bruce Willis. Ma sto divagando <asciuga la bava e riprende il filo del discorso>

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Passando agli aspetti più tecnici, la pellicola è un trionfo per gli occhi e le orecchie. Nonostante dopo più di dieci anni la realizzazione degli alieni risulti forse un po’ bruttina, soprattutto quando parliamo dei Mondoshawan all’inizio del film, questo piccolo difetto si annulla davanti all’inventiva del regista e al bestiario che ci viene proposto, sicuramente non ai livelli del mondo di Guerre Stellari, ma comunque coloratissimo e incredibile. E le bestie più “assurde” sono sicuramente gli esseri umani. Complice anche l’estro di Jean Paul Gaultier abbiamo una Leeloo con uno stilosissimo vestitino a bande, e delle kitschissime mise indossate dall’ambiguo Ruby, assieme a delle capigliature (soprattutto quella di Zorg) che farebbero accapponare la pelle al più trasgressivo degli emo: persino Bruce è stato fatto biondo per l’occasione, mentre il colore di capelli di Leeloo è decisamente indimenticabile, ma Milla Jovovich credo starebbe bene anche con un sacco di juta e calva. I dialoghi sono molto ironici e assai vivaci, la bella colonna sonora tocca il suo apice con il concerto della Diva Plavalaguna, che mescola canto lirico a ritmi decisamente più “truzzi” e ci regala un personaggio di rara eleganza e particolarità, nonostante l’aspetto goffo. Gli attori, nonostante il film sia “leggero”, sono comunque in stato di grazia; oltre ai già citati Bruce Willis e Milla Jovovich, praticamente perfetti nei due ruoli cuciti apposta su di loro (l’attrice ha persino imparato a parlare il linguaggio alieno inventato dal regista ed allora marito Luc Besson), c’è un Gary Oldman che si mangia letteralmente gli altri interpreti con la sua interpretazione molto sopra le righe e divertentissima: se ci si pensa bene, alla fine Zorg è uno dei villain più inutili e sfigati della storia del cinema, eppure Oldman riesce a renderlo semplicemente geniale. In poche parole, se non avete mai visto Il quinto elemento, guardatelo: non ve ne pentirete!

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Di Luc Besson, il regista del film, ho già parlato qui. Del divino Bruce Willis, alias Corben Dallas, trovate qui parecchie notizie, mentre Milla Jovovich, che interpreta Leeloo, è già stata nominata qua. Gary Oldman interpreta Zorg e di lui ho già parlato in questo post, mentre in quest’altro troverete notizie su Maiwenn Le Besco, irriconoscibile nei panni della cantante aliena Diva Plavalaguna.

Ian Holm interpreta il prete Vito Cornelius. Famosissimo e versatile attore inglese, che i più collegheranno alla figura di Bilbo Baggins de Il Signore degli Anelli di Peter Jackson, lo ricordo per altri film come Alien, Greystoke la leggenda di Tarzan il signore delle scimmie, Brazil, Il pasto nudo, Frankenstein di Mary Shelley, eXistenZ, From Hell - La vera storia di Jack lo squartatore e The Aviator; inoltre ha prestato la voce allo Skinner di Ratatouille. Ha 80 anni.

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Chris Tucker interpreta l’ambiguo dj Ruby Rhod. Non uno dei miei attori preferiti, decisamente, dell’attore americano ricordo una partecipazione nel Jackie Brown di Tarantino e la serie Rush Hour, dove il nostro fa coppia fissa con il divino Jackie Chan. Ha 39 anni.

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Luke Perry compare nell’introduzione iniziale, nei panni di Billy. Le ragazzine degli anni ’90 ricorderanno Beverly Hills 90210 e il “figo” del telefilm in questione, ovvero Dylan. Col tempo, oltre ad essere diventato un mostro, costui è anche un po’ sparito dalla circolazione; dopo aver recitato in film come Buffy l’ammazzavampiri si è infatti dedicato alla tv, partecipando a telefilm come Will & Grace, Law & Order, Criminal Minds e Oz. Ha inoltre doppiato alcuni episodi del cult Biker Mice from Mars. Americano, ha 46 anni e tre film in uscita.

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Tommy “Tiny” Lister interpreta nientemeno che il Presidente. Ex wrestler tutorato nientemeno che da Hulk Hogan, lo ricordo per film come Beverly Hills Cop 2, il bellissimo Cosa fare a Denver quando sei morto, Jackie Brown, Whismaster 2 – Il male non muore mai, Austin Powers in Goldmember e Il cavaliere oscuro, oltre che per aver partecipato a telefilm come Matlock, Willy il principe di Bel Air, Renegade, Walker Texas Ranger, L’ispettore Tibbs, E.R. e NYPD. Americano, ha 53 anni e dieci film in uscita.  

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E ora una curiosità. Il teppista che, quasi all’inizio del film, tenta di rapinare Bruce Willis, non è altri che il regista Matthieu Kassovitz, autore di film come L’Odio, I fiumi di porpora e Gothika, nonché interprete del dolcissimo Nino de Il favoloso mondo di Amélie. Se vi fosse piaciuto il film, io vi consiglio di vedere, o rivedere, Avatar, leggermente simile per temi e genere. E ora vi lascio con il trailer decisamente poco spettacolare, ahimé! ENJOY!!

domenica 13 febbraio 2011

Acolytes (2008)

Eh, l’Australia. Tutto ciò che riguarda quel misterioso paese mi interessa ed incuriosisce, e ogni volta che mi capita per le mani un film australiano lo guardo con attenzione doppia. Purtroppo Acolytes, thriller diretto nel 2008 dal regista Jon Hewitt, non meritava così tanto impegno.


Trama: tre studentelli trovano per puro caso un cadavere sepolto in un bosco. Sempre per puro caso riescono a scoprire l’autore dell’omicidio, quindi cominciano a ricattarlo affinché faccia sommaria giustizia di un bulletto che li perseguita sin dall’infanzia…


Acolytes è un thriller dove, letteralmente, niente è quello che appare. Formalmente è molto ben girato, anche troppo per un film simile, ed assai curato nei dettagli. L’inizio, in particolare, sfrutta bene “l’occhio” dello spettatore, facendoci vedere una ragazzina in fuga da qualcosa nel bosco, che si ferma per toccare una farfalla, prima di essere brutalmente investita da una macchina. L’inquadratura successiva è quella del copriruota di un fuoristrada, su cui è disegnata proprio una farfalla; un modo per ingannare chi guarda il film, perché qualcosa stona in questa scena, ma lo si arriverà a capire solo alla fine. Intelligentemente la sequenza della fuga nel bosco viene ripresa identica, con un’altra ragazza, verso metà del film, così da creare nello spettatore un senso di inquietudine ed attesa per un eventuale altro scioccante colpo di scena. Un altro escamotage che mi è piaciuto molto è quello di rendere percepibile la sordità della moglie di Ian, eliminando ogni suono da molte delle scene dove è presente questo personaggio, oppure l’idea di fare sentire agli spettatori quello che ascolta Chasely sull’Ipod.


Insomma, per quanto riguarda l’aspetto “tecnico” Acolytes è superiore a molte altre pellicole simili, però l’ “essenza” del film è un po’ inconsistente. Innanzitutto è lentissimo fino a metà della durata, a causa dell’introduzione lunghissima che ci mostra le vite (ma quali…?) dei tre ragazzetti che, diciamocela tutta, oltre ad essere interpretati, almeno i maschietti, da attorucoli maffi, sono irritanti da morire: il moretto dovrebbe essere lo sfigatino del triangolo, innamorato non ricambiato della ragazzina vacca (ma con un dolce animo di artista, non scordiamolo…), tuttavia il casting lo ha pescato fin troppo carino e poco credibile nella parte; il biondino è semplicemente un cretino, odioso con la fidanzata, stronzo col migliore amico e in generale un mezzo teppistello senza arte né parte; la ragazzina si barcamena alla grande con entrambi, facendosi il biondino e lasciando intendere al moretto che si farebbe anche lui, tanto qui ‘ndo cojo cojo. Le sequenze che riguardano il legame tra i tre vanno dall’inutile (perché sti tre deficienti a un certo punto si mettano a distruggere la macchina della mamma di lei tanto per fare qualcosa ha dell’incomprensibile…) al trash (la ragazzina infoiata che si sbatte il biondino intento a leggere mentre, a casa, il moretto si trastulla da sé, valido esempio del detto: chi ha il pane non ha i denti, chi ha i denti non ha il pane…), quindi è automatico ritrovarsi a sperare che uno dei due antagonisti del trio li elimini dalla faccia della terra. Un'altra cosa un po’ tirata per i capelli, in effetti, è la trama che riguarda, per l’appunto, il killer e il teppista che perseguita i tre mocciosi. Adesso, mi va bene che gli sceneggiatori abbiano cercato di creare mille colpi di scena, però quando si mette troppa carne al fuoco l’effetto che si ottiene è quello di fare dire allo spettatore “Sì, vabbé.. e poi..?”. Altro non dico per non rovinare la sorpresa in caso voleste vederlo, un’occhiata non fa male, dico solo che il film si conclude nella solita macellata finale condita da una leggera botta di fortuna, che rende Acolytes più banale di quanto non si voglia far sembrare. Appassionati, se vi capita guardatelo, gli altri si astengano.

Jon Hewitt è il regista del film. Australiano, Acolytes è il quarto film da lui girato, ed è in uscita una quinta pellicola, X. Ha 52 anni.


Joel Edgerton interpreta l’inquietante Ian Wright. Australiano, ha partecipato a film come Star Wars episodio II – l’attacco dei cloni, King Arthur, Star Wars: Episodio III – La vendetta dei Sith e Il regno di Ga’Hoole – La leggenda dei guardiani come doppiatore. Ha 37 anni e quattro film in uscita, tra cui il prequel dello storico La cosa.


E ora, un paio di curiosità. I due ragazzetti che interpretano rispettivamente Chasely e James sono tornati a collaborare col regista, assieme all’attrice che veste i panni della moglie di Ian, per un film dal titolo assai semplice, X, un thriller ambientato nel mondo a luci rosse, che dovrebbe uscire quest’anno.Vi fosse piaciuto il genere, proverei a dare un’occhiata a Funny Games, l’originale del 1997: decisamente molto più cattivo, particolare e ben fatto di questo Acolytes, ma simile per tematiche. E ora vi lascio con il trailer originale del film.. ENJOY!!

lunedì 7 febbraio 2011

Frankenstein Junior (1974)

Ogni tanto i gestori italiani di sale cinematografiche ne azzeccano qualcuna, e anche l’orrido multisala della mia zona si conforma alle (poche) iniziative degne di nota. In questo caso, la riproposta, in occasione dell’uscita in Blu-Ray, di un classico della demenzialità come Frankenstein Junior, diretto nel 1974 dal regista Mel Brooks.

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Dubito che qualcuno ancora non conosca la trama, ma comunque eccola: il dottor Frederick Frankenstein (si pronuncia franchenstin!) entra in possesso del diario del ben più famoso nonno e decide di recarsi nella sua antica dimora di famiglia in Transilvania. Lì, aiutato dal gobbo servo Igor (si pronuncia AIgor!), dalla procace assistente Inga e dalla misteriosa Frau Blucher, cerca di fare rivivere… la creatura.

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Non so spiegare la sensazione di vedere un simile classico, un simile capolavoro, restaurato e su schermo gigante, in una sala cinematografica. Dopo aver chiuso per un attimo gli occhi e superato lo scandaloso shock di trovare siffatta sala mezza vuota (ma quanto possiamo essere ignoranti e taccagni noi italiani…?), li ho riaperti per ritrovare dei vecchi amici che non vedevo da tempo: Frederick, Aigor, Inga, Frau Blucher, la Creatura, l’esilarante Elisabeth, sono personaggi ormai così incarnati nell’immaginario di ogni cinefilo che si rispetti che rivedere Frankenstein Junior è come avvolgersi ogni volta nella coperta preferita e rilassarsi, ridendo a crepapelle. Non importa che si conoscano a menadito ogni battuta, ogni gag, ogni gesto, ogni sguardo dei protagonisti e ogni nota della colonna sonora, perché ogni volta, comunque, il film raggiunge l’obiettivo e diverte.

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Detto questo, come posso anche solo pensare di essere obiettiva nel recensire Frankenstein Junior o di avere anche solo il diritto di scriverne? Non lo farò, quindi, mi limiterò a darvi un paio di motivi per vederlo assolutamente. Motivo numero 1: Aigor. Marty Feldman al suo meglio, uno dei personaggi più riusciti della storia del cinema, un servo bastardo dalla gobba semovente, dagli occhi pallati e dalla lingua tagliente. Motivo numero 2: il numero messo su da Frankenstein e dalla Creatura sulle note di Puttin’on the Ritz, con il mostro che ripete le parole finali della canzone ululandole e ballando cercando di stare dietro ad un Gene Wilder mai così in forma. Motivo numero 3: le gag ininterrotte, dalla storica “lupo ululà, castello ululì”, al nome Blucher che fa nitrire i cavalli ogni volta che viene pronunciato, all’enorme “swanstuck” della creatura, delizia della verginella fidanzata di Frederick, passando per mille altre deliziose “idiozie”. In due parole: un Mel Brooks in stato di grazia, la quintessenza della comicità inserita in un film talmente curato da poter competere con qualsiasi pellicola “seria”. Da vedere e rivedere, pena il ritrovarsi Frau Blucher in casa!!

Mel Brooks (vero nome Melvin Kaminsky) è il regista e sceneggiatore della pellicola. Storico autore delle migliori parodie cinematografiche e non solo, lo ricordo per film come Per favore non toccate le vecchiette (che gli è valso un Oscar per la miglior sceneggiatura), Mezzogiorno e mezzo di fuoco, L’ultima follia di Mel Brooks, Balle spaziali, Robin Hood: un uomo in calzamaglia e Dracula morto e contento. Americano, ha 85 anni.

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Gene Wilder (vero nome Jerome Silberman) interpreta il Dottor Frederick Frankenstein. Collaboratore storico di Mel Brooks ed elegante, malinconico comico particolarmente famoso negli anni ’70 – ’80 e particolarmente odiato, chissà perché, da mia madre, lo ricordo per film come Per favore non toccate le vecchiette, l’originale Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato, Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso ma non avete mai osato chiedere, Mezzogiorno e mezzo di fuoco, La signora in rosso, Non guardarmi: non ti sento, Non dirmelo… non ci credo e Alice nel paese delle meraviglie. Ha inoltre partecipato ad un paio di episodi di Will & Grace. Americano, ha 78 anni.

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Marty Feldman interpreta Igor. Comico inglese dalla faccia indimenticabile, frutto di disfunzioni alla tiroide e di un intervento andato male, oltre ad essere uno sceneggiatore prolifico e un regista, ha recitato in L’ultima follia di Mel Brooks. E’ morto nel 1982, all’età di 49 anni, per un avvelenamento da cibo, mentre girava il suo ultimo film, Barbagialla il terrore dei sette mari e mezzo. Come sempre, sono i migliori ad andarsene per primi.

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Peter Boyle interpreta la Creatura. Americano, lo ricordo per film come Taxi Driver, Danko, 4 pazzi in libertà, Malcom X, L’uomo ombra, Species II, Il Dottor Dolittle e Scooby – Doo 2: mostri scatenati, e per le partecipazioni ai telefilm NYPD ed X – Files. E’ morto nel 2006 all’età di 71 anni.

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Gene Hackman fa una comparsata nel ruolo del cieco. Famosissimo attore americano, lo ricordo per film come Il braccio violento della legge (che gli ha valso il primo Oscar come protagonista), Superman, Superman II (in entrambi i film interpretava Lex Luthor), Mississippi Burning - le radici dell’odio, Uccidete la colomba bianca, Il socio, Gli Spietati (secondo Oscar come miglior protagonista), Pronti a morire, Allarme rosso, Get Shorty, Piume di struzzo, Extreme Measures – Soluzioni estreme, Potere assoluto, Nemico pubblico, The Mexican, Heartbreakers – vizio di famiglia e I Tenenbaum; ha inoltre doppiato uno dei personaggi di Z la formica. Ha 81 anni.

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Madeline Kahn interpreta Elisabeth. Già collaboratrice di Mel Brooks dai tempi di Mezzogiorno e mezzo di fuoco, la ricordo per film come Barbagialla il terrore dei sette mari e mezzo e Signori il delitto è servito, serie tv come Lucky Luke e per aver doppiato Fievel sbarca in America e A Bug’s Life. Americana, è morta nel 1999 per un cancro alle ovaie, all’età di 57 anni.

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E ora un paio di curiosità. A dimostrazione di quanto sia ben scritto, Frankenstein Junior ha “rischiato” di vincere l’Oscar per la miglior sceneggiatura non originale (scritta da Mel Brooks e Gene Wilder), ma la statuetta gli è stata strappata da un rivale eccelso come Il Padrino parte seconda; inoltre, anche in quanto a scenografie il buon Mel Brooks non ha scherzato visto che, come viene sottolineato nei titoli di testa, il laboratorio utilizzato nel film è lo stesso che si vede nello storico Frankenstein di James Whale. Infine, dovete sapere che di Frankenstein Junior esiste, oltre ad un musical di Broadway, anche un remake turco del 1975 dal titolo Sevimli Frankestayn. Una chicca da cercare, secondo me, ma se non doveste riuscire a trovarla (cosa probabile…), consolatevi con il già citato Frankenstein del 1931, per apprezzare meglio i riferimenti contenuti in questa splendida parodia, oppure con l’altro “affronto” fatto da Mel Brooks ad un classico dell’horror gotico, ovvero Dracula morto e contento. Meno riuscito, ma ugualmente godibile. Vi lascio ora con qualche spezzone del musical tratto dal film, con la geniale Megan Mullally (la Karen di Will & Grace) nei panni di Elisabeth... ENJOY!!!

giovedì 3 febbraio 2011

Whispering Corridors (1998)

E per la serie “di film orientali non ce n’è mai abbastanza”, oggi parlerò dell’ultimo horror coreano in cui sono incappata, Whispering Corridors (Yeogo Goedam), diretto nel 1998 dal regista Ki – hyeong Park.

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Trama: in una scuola femminile, accade che, una sera, una delle insegnanti muoia impiccata dopo aver telefonato ad una delle colleghe più giovani, asserendo che una delle allieve è decisamente morta… ma anche decisamente presente nell’edificio. Dopo il fattaccio, ne succedono parecchi altri, sotto gli occhi delle studentesse alle quali viene proibito di parlare di tutti i nefasti eventi, e del fantasma che infesterebbe la scuola.

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Whispering Corridors è una storia di fantasmi di quelle che più classiche non si può. Lo spirito rifiuta di abbandonare l’edificio poiché la sua morte è stata ingiusta, e saldamente legata alle fredde dinamiche che regolano il rapporto tra studenti e quello degli stessi con gli insegnanti, e ovviamente porta avanti una sorta di vendetta che non è propriamente costante, ma si scatena quando la sua (non) vita rischia di essere scoperta o messa in pericolo. Come film è parecchio triste, pur essendo troppo freddo e distante per commuovere: la ragazza fantasma fa una morte stupidissima ed orrenda a causa delle distorte convinzioni dei terribili insegnanti coreani, roba che al confronto l’allenatore Daimon di Mila & Shiro era un signore di rara gentilezza, e lo spettatore occidentale non si capacita del perché le studentesse vengano costantemente seviziate, pestate, incoraggiate a mettersi l’una contro l’altra e addirittura segregare fuori dal gruppo le compagne più “deboli”. Tutto ciò porta, da un lato, a parteggiare per il fantasma, dall’altro lato ad incuriosirsi per le dinamiche di un sistema scolastico che porta le studentesse a radunarsi attorno agli elementi più forti, amandole alla follia o odiandole con pari intensità, mentre altre poveracce praticamente si limitano ad occupare i banchi senza quasi nemmeno essere viste né ricordate (che è poi l’escamotage utilizzato dagli sceneggiatori per sviluppare la trama).

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Per quanto riguarda la realizzazione, anch’essa è abbastanza classica, ci sono infatti tutti i clichè del genere: sangue che gocciola, porte che si aprono e si chiudono da sole, finestre che esplodono o che offrono un rifugio decisamente poco sicuro per le spalle dell’incauta vittima (qui ricorda parecchio il Suspiria di Dario Argento), fantasmi che compaiono davanti agli sventurati appena svoltato l’angolo mentre prima si trovavano dietro di loro, ecc. ecc. I flashback si alternano alle scene legate al presente, spesso senza soluzione di continuità, quasi fossero delle visioni ad occhi aperti che hanno i protagonisti, e la musica che fa da colonna sonora al tutto è triste ed inquietante allo stesso tempo. Se devo trovare una pecca, a parte l’eccessiva lentezza della pellicola, è la reale difficoltà, per un occidentale, di seguire il film. Non perché la trama sia complessa, lo avete ben visto, ma perché più o meno i volti delle attrici che interpretano le studentesse sono tutti uguali e, complici anche i nomi assai simili e le divise spersonalizzanti, si rischia di non afferrare affatto la rivelazione finale con conseguente colpo di scena e, a tratti, nemmeno chi schiatta e chi rimane in vita. Insomma, avrete capito che Whispering Corridors non è un brutto film, ma nemmeno un capolavoro. Tempo due giorni e mi sarò già dimenticata il tutto, archiviandolo come l’ennesima prova di genere. Avanti il prossimo!!

Del regista Ki – Hyeong Park, anche sceneggiatore della pellicola, ho già parlato qui. Whispering Corridors ha dato il via ad una serie che, al momento, conta cinque film: Memento Mori (1999), Whispering Corridors 3: Whishing Stairs (2003), Voice (2005) e A Blood Pledge (2009). E ora vi lascio il trailer del DVD inglese del film... ENJOY!

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