venerdì 28 gennaio 2011

Qualunquemente (2011)

Dopo anni ed anni di onorata carriera televisiva, proprio nel momento in cui le vicende italiane stanno abbondantemente superando il ridicolo involontario, Antonio Albanese ha deciso di portare al cinema una delle sue migliori creature, il rozzo politico Cetto La Qualunque, e lo fa con il film Qualunquemente, diretto dal regista Giulio Manfredonia.

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La trama: Cetto La Qualunque torna al suo paese dopo quattro anni passati in Sudamerica, con moglie e presunta figlia al seguito. Accolto con gioia da amici e figlio, un po’ meno dalla prima moglie, il nostro si imbarca in un’impresa che sembra fatta apposta per lui: candidarsi a sindaco, onde impedire che il morigerato De Santis (abbastasu e aacaino!) porti la legalità nella ridente cittadina calabra.

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Nonostante l’attesa che lo accompagnava, nonostante, puntualmente, alla fine di ogni discorso di Cetto partisse l’immancabile applauso, bisogna dire che Qualunquemente è un film riuscito a metà. Albanese rinuncia al tentativo di fare una satira attuale e graffiante, più legata alla situazione attuale e alla realtà in cui viviamo, e si limita ad allungare all’inverosimile gli sketch che hanno portato al successo il suo personaggio. Il risultato, purtroppo, da l’impressione di una cosa già vista mille volte a Zelig e da Fazio tirata troppo per le lunghe, dove anche la cattiveria e l’insensibilità del personaggio, assolutamente pungenti per dieci minuti, si annacquano e perdono di forza se spalmate in un’ora e mezza di film.  

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Nonostante questo, diamo a Cetto quel che è di Cetto. Il film tocca picchi di genialità quando mostra, per la prima volta, tutto l’ambiente che circonda il personaggio, cosa che gli sketch televisivi di Albanese potevano solo farci immaginare; in questo, il lavoro di costumisti e scenografi risulta a dir poco indispensabile. Innanzitutto la magione di Cetto è un barocco trionfo di kitsch e pacchianate, tutta oro, stucchi e marmi (probabilmente rubati…) e fa a pugni sia con il buon gusto comune sia con lo squallore del villaggio turistico (ParaDAIS Village), della pizzeria sul mare e della cittadina stessa; seconda cosa, gli abiti indossati da Cetto, dalla moglie e dal fidato braccio destro sono delle rare pacchianate dai colori sgargianti, ricoperte d’oro, paillette e lustrini. Bellissime e molto divertenti anche le musiche, composte e dirette dalla fantasiosa Banda Osiris, che spaziano dalla parodia degli score western, a melodie più caraibiche o calabresi.

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Per quanto riguarda i personaggi ricorrenti dell’universo “qualunquiano”, il figlio Melo vince come quello meglio riuscito. Il casting ha trovato un ragazzetto orrendo e sufficientemente timidino e mollo, e le scene in cui padre e figlio cementano il rapporto sono da antologia: la morte del cane, con Cetto che lo paragona ad un orologio, l’esame della fidanzatina priva di “minne” con coseguente delusione del padre, l’escamotage per salvarsi dalle indagini della finanza sono i momenti più divertenti del film. Invece e purtroppamente è molto deludente il personaggio di De Santis (abbastasu e aacaino!), l’avversario storico di Cetto, interpretato da un omino affatto carismatico a cui vengono riservate pochissime battute in tutto il film, mentre sarebbe stato molto più interessante renderlo carismatico e in grado di tenere testa al dirompente protagonista. Anche la figura di Carmen, la moglie di Cetto, non mi è piaciuta, e mi chiedo quanto possa essere gratificante per un’attrice interpretare un personaggio che per tutto il film dice solo “Puttanazza, zoccolazza, troiazza” e altre simili amenità. Carina invece l’idea di introdurre la figura del “life coach” interpretato da Sergio Rubini, un incrocio tra Léon, il cumenda milanese e Lino Banfi. In definitiva, Qualunquemente merita la sufficienza ma, come si dice a scuola, poteva impegnarsi un po’ di più: carino, divertente a tratti, ma alla lunga stancante, incapace di mantenere le promesse del trailer… un po’ come i migliori politici, ecco!

Giulio Manfredonia è il regista della pellicola. Nipote del ben più famoso Luigi Comencini, ha già collaborato con Albanese dirigendo il remake italiano del bellissimo Ricomincio da capo, E’ già ieri. Romano, ha 44 anni.

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Antonio Albanese interpreta Cetto La Qualunque. Sicuramente uno dei miei comici preferiti, al cinema si è sempre destreggiato benissimo anche in ruoli drammatici e tra le sue pellicole ricordo Uomo d’acqua dolce e La seconda notte di nozze. Ha prestato inoltre la voce al capo dei ratti in La gabbianella e il gatto. Lombardo, ha 47 anni.

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Sergio Rubini interpreta il lifecoach Jerry. Un professionista che spicca in mezzo a tanti, troppi attori nostrani incapaci, versatile ed eccentrico, lo ricordo per film italiani ed internazionali come Nirvana, Il viaggio della sposa, Il conte di Montecristo, Il talento di Mr. Ripley, l’inquietantissimo Denti e La passione di Cristo. Pugliese, ha 52 anni.

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Se il film vi fosse piaciuto, io consiglierei di recuperare Uomo d’acqua dolce e La fame e la sete, i primi lavori di Albanese. O guardarvi Zelig e Che tempo che fa. Intanto vi lascio con la geniale canzone Onda Calabra, che accompagna i titoli di coda del film. ENJOY!!
 

venerdì 21 gennaio 2011

Un Chien Andalou (1929)

Ci provo. Non ridete, non leggete se avete in animo di insultarmi ma… io ci provo. Toto chiede, e io faccio. Cosa, direte voi? La “recensione” (e qui le virgolette sono d’obbligo…) di Un chien andalou, manifesto del surrealismo diretto nel 1929 dal regista Luis Buñuel e scritto nientemeno che da Salvador Dalì, di cui sono andata a vedere la mostra qualche giorno fa, a Milano. Proprio all’interno della mostra era possibile vedere i due film di Buñuel ai quali ha collaborato l’artista, questo Chien andalou, nato dalla combinazione di due sogni degli autori, e L’age d’or (che non ho avuto la forza di vedere…) oltre ad uno splendido corto a cartoni animati, elaborato con la Disney, dal titolo Destino.

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Premesso quindi il mio essere Capra con la C maiuscola, la cui unica esperienza “tecnica” di approccio alla cinematografia è stato l’aver dato due esami di Storia del Cinema all’università, rinuncio completamente a tracciare un giudizio tecnico, critico, storico e vi paleserò invece il mio approccio “cazzone”, per così dire, alla pellicola, e sono certa che il buon Dalì almeno si farebbe delle grasse risate ed apprezzerebbe, come hanno apprezzato gli avventori della mostra i quali, all’interno della saletta buia, preferivano guardare me e la mia compagna di sventure profonderci in buffissime espressioni di incredulità, perplessità, disgusto e quant’altro. Non andate avanti con la lettura se non avete mai visto il film in questione, perché qui ne descriverò parecchie scene, quindi la “recensione” conterrà parecchi SPOILER.

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L’esperienza con Un chien andalou comincia nel modo più traumatico, con la famosa scena dell’occhio tagliato. Un uomo si avvicina ad una donna brandendo un bisturi, le tiene ben aperto l’occhio e… zack! glielo taglia in orizzontale, mentre una nuvola fa la stessa cosa con la luna, passandole davanti. Un’immagine splendida, di una violenza inaudita sicuramente per l’epoca e impressionante ancora oggi, perché si riflette direttamente sull’occhio dello spettatore, che vedrà, da quel momento in poi, solo quello che il regista e lo sceneggiatore vogliono mostrargli. Questa scena è il preludio a quella che io ho percepito come una strana e malata storia d’amore, dove un inquietante uomo cerca di approcciarsi ad una donna. Nel mezzo, ci sono tutte le fisime di lui, rappresentate da parecchie immagini emblematiche: innanzitutto compare in maniera ossessiva una piccola scatola che, probabilmente (così me lo immagino io…), contiene tutti i suoi ricordi d’infanzia; secondariamente, costui è un uomo fatto di formiche, visto che appena si ferisce una mano ne escono a profusione dal buco nella carne (e questo invece è un tema ricorrente di Dalì, presente anche nei suoi quadri), mi immagino quindi che sia fondamentalmente perverso, se non cattivo. Lo dimostra il fatto che, a un certo punto, parrebbe quasi che cerchi di violentare la donna (e anche qui, le palpate del seno con lui che arriva persino a sbavare mi fanno pensare a quale shock dev’essere stato allora un film simile..); purtroppo per lui viene impedito nell’intento dal ritrovarsi improvvisamente delle funi attaccate al corpo, che lo costringono a trainarsi appresso dei preti e dei pianoforti con sopra i cadaveri di alcuni asini, quindi immagino che un paio di remore “religiose” e morali ancora gli rimangano a frenarlo.

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Dopodichè il film diventa ancora più complicato. L’uomo si ritrova davanti un suo doppio, che cerca di distruggergli tutti i ricordi d’infanzia (la scatoletta appunto…); alla fine riesce ad eliminarlo sparandogli, solo per poi ritrovarsi senza bocca. Incredibile come “effetto speciale”, decisamente inaspettato in un film del ’29. Mi ha meravigliato inoltre vedere che, mentre la donna si da il rossetto, la bocca dell’uomo si ricostruisce come se fosse uno scarabocchio, fatto con del rossetto dato malissimo, appunto. Ed è lì che la donna se ne va… solo per ritrovarsi al mare con lo stesso uomo. Un appuntamento felice, che però si conclude con i due amanti separati ed immersi nella sabbia fino alle spalle, impossibilitati a toccarsi, ad abbracciarsi, a muoversi. Un finale triste, come triste è tutto il cortometraggio, costellato di immagini che richiamano la morte (ad un certo punto si vede persino la farfalla testa di morto ripresa poi ne Il silenzio degli innocenti), la follia, la solitudine, l’incapacità di comprendere sé stessi. Se dovessi dargli un significato generale, a mio avviso il film vuole mostrare allo spettatore il caos e i timori dell’era moderna, dove anche i valori più solidi come l’amore, la religione, la famiglia, l’istruzione non riescono ad aiutare l’uomo a capire il suo posto nel mondo. Ma potrei anche sbagliarmi, of course.

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Insomma, Un Chien Andalou è uno dei capisaldi della storia del cinema, e ora capisco perché: è breve, sì, ma innovativo, curatissimo, assolutamente ipnotico con le sue immagini in bianco e nero che rimangono in mente come se fossero fatte d’inchiostro e s’imprimessero nel cervello. Ovviamente andrebbe guardato nel contesto di una mostra, come ho fatto io, perché all’interno si ritrovano parecchi elementi presenti nei quadri di Dalì e nella sua personalissima, assurda poetica, ed essere già immersi in questa particolare atmosfera aiuta molto a godersi il film. I cinefili non possono assolutamente esimersi.

Luis Buñuel è il regista del film. L’autore spagnolo è uno dei più innovativi pionieri della storia del Cinema, regista di alcuni tra i capolavori più conosciuti e apprezzati dai cinefili, come L’âge d’or (sempre scritto assieme a Dalì), Bella di giorno, Il fascino discreto della borghesia e Quell’oscuro oggetto del desiderio. E’ morto di cancro all’età di 83 anni.

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E ora un paio di curiosità: pare che negli anni ’70, prima di ogni concerto, David Bowie proiettasse il film per il pubblico. Non oso immaginare l’effetto che avrà fatto a una folla di gente che probabilmente non lo aveva mai visto, soprattutto per la prima scena. Del film, inoltre, esistono altre due versioni, entrambe accompagnate da una colonna sonora, una del 1960 e una del 1983, leggermente modificata anche nel montaggio. E ora vi lascio direttamente con il film intero, così, in caso vogliate vederlo. Questa volta, più che mai... ENJOY!!


 

martedì 18 gennaio 2011

Acacia (2003)

La produzione di horror asiatici degli ultimi anni, decisamente sterminata, si può dividere grossolanamente in tre grandi filoni: splatter – cyberpunk, filone “fantasmi inquietantissimi dai capelli lunghi e neri” e horror psicologico, che è sicuramente il meno inquietante ma anche quello che preferisco. Rientra in quest’ultima categoria il particolare Acacia (Akasia), diretto nel 2003 dal coreano Ki – Hyeong Park.


La trama: una coppia che non riesce ad avere figli decide, su suggerimento del padre di lui, di adottare un bimbo. La scelta ricade su Jin – seong, un silenzioso pargoletto amante dei disegni e degli alberi, che a poco a poco comincia ad affezionarsi alla nuova famiglia, almeno finché la mamma non rimane incinta. Una volta nato il nuovo bimbo, dopo l’ennesimo litigio con la madre adottiva Jin – seong decide di scappare di casa per andare a trovare la vera madre, morta anni prima…


Premetto una cosa. Acacia è un film lento. Anzi, non lento: di più. Quindi mettetevi l’animo in pace e preparatevi a guardare un film dove l’aspetto horror è assai marginale, il sangue è praticamente assente, gli spaventi quasi nulli. E allora, direte, cos’ha di bello questo Acacia? E’ un’opinione personale, ovviamente, ma io ho ne adorato l’atmosfera. Dolce e triste all’inizio, sempre pervasa da una sottile inquietudine, a mano a mano che il film prosegue si aggiunge anche una componente thriller – horror mentre le immagini e i dialoghi diventano sempre più violenti e stridenti. La trama si sviluppa piano piano, tassello dopo tassello, ed avvolge lentamente lo spettatore che non può fare a meno di affezionarsi a Jin – Seong, a temerlo, a chiedersi quindi che fine abbia fatto e quale sia il suo legame con l’acacia del giardino, che dopo la sua scomparsa comincia a diventare sempre più rigogliosa. E mentre l’albero torna alla vita, la famiglia si sgretola e muore: privi del particolare equilibrio incarnato da quello strano figlio adottivo i suoi membri si allontanano sempre più gli uni dagli altri, divisi da reciproco sospetto, paranoia, odio e infine follia. Il bello di Acacia è proprio cercare di capire che fine abbia fatto Jin – Seong e lasciarsi trasportare da tutto quello che accade dal momento della sua scomparsa. Come per tutte le produzioni asiatiche, non aspettatevi una soluzione rapida o lineare, anzi. L’ultimo tassello del puzzle lo troverete persino nei titoli di coda.


Registicamente parlando, Acacia è una piccola opera d’arte. Il film mescola presente, flashback ed incubi quasi senza soluzione di continuità, virando il passato in un particolare color seppia e riempiendo gli incubi del colore rosso del sangue (per esempio quando il padre adottivo, ginecologo, sogna di portare alla luce la figlia morta, o quando Jin – Seong, preso dal senso di colpa, si vede avvolgere da una marea di fili di lana rossi), un colore che si insinua nella realtà e nel presente quando esplode la follia della madre adottiva, che tappezza la casa di fili rossi ed inquietanti quadri, oppure quando i fiori di acacia cominciano stranamente a tingersi. E l’acacia, l’elemento principale del film, incarna una poesia e una malinconia particolarissimi, grazie anche al modo in cui interagiscono con lei i personaggi, in primis i piccoli e bravissimi interpreti, riuscendo anche a regalarci qualche brivido. Insomma, un film sicuramente non per tutti, ma se avete voglia di provare a vedere qualcosa di diverso dategli fiducia.

Ki – Hyeong Park è regista e sceneggiatore della pellicola. Originario della Corea del Sud, ha 42 anni e ha girato, oltre ad Acacia, altri tre film, tra cui Whispering Corridors.


E ora vi lascio con il trailer originale.. ENJOY!

martedì 11 gennaio 2011

Hereafter (2010)

Domenica sono andata a vedere Hereafter, l’ultimo film di Clint Eastwood. Sono andata in fiducia, visto che il buon Clint, come regista, fa sempre dei film molto belli e per nulla banali. Purtroppo la fiducia questa volta non è stata ripagata come speravo…

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Trama: Hereafter racconta l’esperienza con la morte e i defunti di tre personaggi diversi. Marie è una giornalista francese che sopravvive per puro miracolo ad uno tsunami; George è un operaio perseguitato dalla sua capacità di entrare in contatto con l’aldilà; Marcus è un bambino che ha appena perso il gemello in un incidente d’auto.

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Cerchiamo di raccapezzarci un attimo. Non posso dire che Hereafter sia un brutto film. Innanzitutto è girato benissimo. La scena iniziale, dove viene mostrato lo tsunami che si abbatte sull’isola, è di un realismo spaventoso perché si concentra non tanto sulla catastroficità dell’evento, ma sulla sua assoluta imprevedibilità; un minuto prima vediamo i personaggi tranquilli, impegnati in piccoli litigi, nello shopping vacanziero, e un minuto dopo, senza preavviso, l’onda si schianta sulla cittadina travolgendo tutto e tutti, proprio come è successo in Indonesia e ad Haiti neppure troppo tempo fa. Gli attori sono bravissimi, ognuno di loro impegnato al massimo per infondere realismo e sentimento a dei personaggi che ci sono assai vicini per la loro normalità, per il loro essere umani, chi incuriosito, chi spaventato, chi scioccato dalla morte o dalla sua vicinanza. Hereafter ci mostra tre modi di affrontare la morte, che possono essere condivisibili o meno: Marie viene toccata da un’esperienza spaventosa che sconvolge il suo mondo, e la sua forza è quella di cercare di capire e modificare la sua vita di conseguenza, senza tirarsi indietro. George invece cerca di fuggire a quello che lui percepisce non come un dono o una fonte di sostentamento, ma come un handicap che gli impedisce di vivere un’esistenza normale, che lo isola dagli altri. Infine, Marcus cerca di fare fronte come può alla morte del gemello “più grande di pochi minuti”, all’assenza della sua forza, del suo sostegno all’interno di una situazione familiare disastrata, e cerca di trovare un modo per entrare in contatto con lui. Sono tre storie a modo loro commoventi, interessanti, che si snodano mostrandoci la terribile solitudine dei protagonisti e che si intrecciano verso la fine del film, concludendolo con uno spiraglio di speranza per i personaggi, che non sono più costretti a rimanere soli davanti alle loro terribili esperienze, e per lo spettatore.

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Però. Però Herafter è un film noioso. Scusate, mi dispiace dirlo, è un giudizio che non amo dare, ma in questo caso è l’assoluta verità. Per quanto le storie narrate siano a tratti commoventi, a volte anche interessanti, ciò non toglie che ci siano troppi momenti morti nel film e che Hereafter decolli solo verso la fine, quando i destini dei tre personaggi si uniscono. Un po’ poco, visto che nel frattempo è passata un’ora e mezza in cui i protagonisti, in pratica, si limitano a vagare cercando risposte che non trovano. Il secondo però è che certi episodi sembrano creati a tavolino per fare piangere e sfruttano clichè talmente banali che, francamente, non mi aspettavo da Clint Eastwood: in primis, la morte del fratello di Marcus. Ma quanti ragazzini sono morti in questo modo nei film? Ma possibile che ci debbano sempre essere dei bulletti dietro l’angolo che ti fanno andare incontro alla morte senza volerlo? E basta, diamine. Così come non è possibile che ogni “sporco” segreto di fanciulla sia legato ad un’infanzia dove il padre si dilettava ad abusare della figlia salvo poi pentirsi nella morte. E l’ultimo però… il finale. Qualcosa che lascia gli spettatori a fissare lo schermo con un “e quindi…?” sospeso nell’aria, condito da un’infantile visione di un George innamorato e speranzoso di avere una vita felice con Marie, l’unica in grado di capirlo, altro escamotage di una banalità sconcertante. L’impressione finale, insomma, è quella di aver visto un film che, in fin dei conti, non racconta nulla, non emoziona, non meraviglia; qualcosa che rimane “sospeso”, perché secondo me ci sarebbero state molte cose ben più interessanti da dire ancora sui tre personaggi, e soprattutto la reciproca influenza avrebbe dovuto essere analizzata un po’ di più, e resa il fulcro del film. Peccato, davvero peccato.

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Di Matt Damon, che interpreta George, ho già parlato qui. Dell’irriconoscibile (ma brava!) Cecile De France ho scritto qua.

Clint Eastwood è il regista del film. Uno dei più famosi e bravi autori americani, oltre che attore cult, lo ricordo per film come Gli spietati, Un mondo perfetto, I ponti di Madison County, Potere assoluto, Gli Spietati (che ha vinto l’Oscar come miglior film e regia), il bellissimo Mezzanotte nel giardino del bene e del male, lo splendido Mystic River, Million Dollar Baby (che gli ha fruttato l’Oscar per la miglior regia e miglior film) e Gran Torino. Ha 81 anni e un film in uscita, sempre come regista, un biopic su J. Edgar Hoover dove il protagonista sarà Leonardo di Caprio, affiancato da Charlize Theron e Judi Dench.

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Bryce Dallas Howard interpreta Melanie. Figlia del regista Ron Howard, la ricordo per aver interpretato la ninfa in uno dei film più brutti che abbia mai visto, Lady in the Water, oltre che ad aver recitato in Apollo 13, Il Grinch, The Village, e doppiato un episodio de I Griffin. Ha 30 anni e due film in uscita.

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Derek Jacobi interpreta sé stesso, come narratore designato dei racconti di Charles Dickens, di cui George è un grande fan. Famosissimo attore inglese, lo ricordo per film come Otello, Il giorno dello Sciacallo, Hamlet, Il gladiatore e Gosford Park, mentre come doppiatore lo possiamo ascoltare in Brisby e il segreto di Nihm. Ha 73 anni e sei film in uscita.

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E ora un paio di curiosità. Per la gioia mia e di tutti i fan de I Soprano, il cuoco che gestisce il corso di cucina seguito da George altri non è che Steve Schirripa, che nella serie interpretava il dolcissimo (per i canoni di un mafioso, ovvio…) Bobby Baccalieri, detto Baccalà. Personalmente, se cercate un bel film che parla di aldilà e del rapporto dei morti con i vivi, vi consiglierei di vedere Il sesto senso, Amabili resti, Sospesi nel tempo, persino Al di là dei sogni o Ghost se proprio amate le storie “sentimentali”. Al momento non me ne vengono in mente altri, quindi vi lascio al trailer originale dii Hereafter.. ENJOY!

 

mercoledì 5 gennaio 2011

The Killer Shrews (1959)

Torno nuovamente a magnificare l’utilità di internet, soprattutto per chi, come me, è cinefilo con tendenze trash. E torno a ringraziare il sito horror.it senza il quale, probabilmente, non avrei mai scoperto l’esistenza di una cosa inguardabile come The Killer Shrews, film diretto nel 1959 dal regista Ray Kellogg.


Trama: il Capitano Thorne sbarca su un’isola assieme al suo assistente, per portare provviste agli abitanti in previsione di un tifone che sta per abbattersi proprio lì. Scopre così che l’isola è abitata da cinque persone e da una marea di toporagni che, causa esperimenti condotti dai cinque sconsiderati, hanno raggiunto ormai dimensioni più che ragguardevoli ed una fame in linea con la stazza…


Diciamo che non c’è voluto molto per convincermi a vedere questo The Killer Shrews, è bastata la trama e la convinzione che una cosa più trash di un toporagno killer può giusto essere il killer tomato (che, peraltro, devo ancora guardare, mica ci ho rinunciato!!) e, in mancanza di quest’ultimo, ho divorato il film, vista anche la durata irrisoria. E meno male, perché il trash c’è, ovviamente, ma la prima mezz’ora di film è di una noia mortale, con i personaggi chiusi in una stanza a sfondarsi di wiskey e sigarette come se piovessero. L’unico evento degno di nota è il primo attacco degli shrews ma, capitemi… avviene nel bel mezzo di una foresta, ambiente che solitamente ospita dei lupi… complice lo schermo piccolo, la giornata lavorativa, il bianco e nero della pellicola… beh, lì per lì ho pensato che fosse, appunto, un attacco di lupi.


Non avevo torto, gente!! Insomma, ho trent’anni, riuscirò a capire come si muovono dei cani, quando li vedo! E qui il trashofilo può cominciare a gioire, perché i Killer Shrews, quando vengono ripresi da lontano, altro non sono che cani ricoperti da strisce di pelo posticce e un paio di zanne, ma ci manca poco che scodinzolino. “Migliori” le riprese ravvicinate, dove lo shrew è una marionetta dall’occhio vitreo e dalla bocca spalancata che gli attori scuotono per simulare un attacco. Il problema è che, siccome l’effetto speciale è tristissimo (complice anche l’anno in cui è stato girato il film, per carità di Dio…) e probabilmente all’epoca non si potevano mostrare scene troppo cruente, gli sceneggiatori si sono dovuti inventare non solo una giustificazione per la grandezza spropositata delle bestiole, ma anche un’arma letale, rapida ed utilizzabile anche mostrando piccole ferite: la saliva velenosa, che consente agli shrews di uccidere con un solo morso. Quale sia la causa di tale “potere” e come sia relazionabile alla crescita delle bestie francamente lo ignoro o forse mi sono persa la stupidissima spiegazione, visto che la mia attenzione è stata distratta dal barbatrucco con cui i sopravvissuti cercano di fuggire agli animaletti.


Sì perché la genialata del film è che, nel momento in cui gli shrews stanno per infilarsi in ogni pertugio della casa, arrivando persino a rosicchiare muri fatti, credo, di mollica di pane, il protagonista si arma di fiamma ossidrica (!!) e, lungi dall’utilizzarla per fare fuori i roditori, decide di saldare un paio di bidoni di metallo (che peraltro, se non ho capito male, contenevano liquidi tossici…) e di nascondercisi sotto usandoli come “armatura” per arrivare al mare. Ora, io non l’ho mai fatto ma, presumo, una cosa simile funzionerebbe solo camminando a quattro zampe e strisciando i bidoni a terra cercando di muoverli. Gli attori, invece, recitano dritti con la schiena appoggiata al bidone, simulando una sofferenza degna di Ercole durante le dodici fatiche, il che mi fa pensare che gli imbecilli se la siano fatta a piedi, bidoni in spalla, camminando accucciati!! Gesù, piuttosto mi faccio inghiottire dagli shrews… E detto questo, gente, non vi è ancora venuta voglia di vederlo?

Ray Kellogg è il regista della pellicola. Assai più prolifico come operatore nel campo degli effetti speciali (a suo merito va detto che non ha curato quelli di The Killer Shrews, per sua fortuna), tra i pochi film che ha girato ricordo Berretti Verdi con John Wayne. Americano, è morto nel 1976, all’età di 70 anni. Purtroppo non ho trovato foto alcuna di costui.
James Best (il cui vero nome è Jewel Franklin Guy) interpreta Thorne. Giuro che se non avessi cercato notizie su quest’uomo non lo avrei mai capito, ma l’attore americano ha interpretato per anni una figura che nessuno di noi potrà mai dimenticare, ovvero lo sceriffo Rosco di Hazzard (di cui ha diretto anche un paio di episodi). Tra l’altro, la sua filmografia è sterminata, e comprende partecipazioni a film come Pianeta Proibito e ad altri telefilm famosi come Alfred Hitchcock Presenta, Ai confini della realtà, Perry Mason, L’ispettore Tibbs. Ha 84 anni.



E ora un paio di curiosità. Ken Curtis, che interpreta l’ubriacone Jerry, oltre ad aver partecipato a molti tra i più famosi western ha prestato la voce ad un idolo della mia infanzia, l’avvoltoio Tonto dello splendido Robin Hood della Disney. E per la serie “Non c’è mai fine al peggio”, The Killer Shrews fa parte di una cosiddetta double feature, ovvero una proiezione di due film, e la pellicola prodotta e diretta per fare coppia con siffatto capolavoro è una cosa intitolata The Giant Gila Monster, che parla non già di topi, ma di lucertole giganti. Orrore!! E ora vi lascio al trailer del film... ENJOY!

domenica 2 gennaio 2011

Megamind (2010)

Lo scontro cinematografico di fine anno, almeno per me, non è stato tra i due cinepanettoni che hanno invaso le sale a colpi di wakawaka e starlette seminude, ma tra i due cartoni animati a base di supercattivi, Cattivissimo me e il più recente Megamind, diretto da Tom McGrath. Purtroppo per la Dreamworks, ha vinto il primo, e di lunga misura!

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Trama: Megamind è un alieno “malvagio” impegnato fin dall’infanzia in una lotta contro la sua nemesi naturale, il supereroe Metroman. Quando, inaspettatamente, Megamind riesce a fare fuori il protettore della città, il supercattivo si ritrova privo di uno scopo nella vita e decide di rimediare, creando un nuovo supereroe…

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Sarà che ho adorato Cattivissimo me. Sarà che ero reduce da una giornata massacrante. Sarà che ormai ne ho visti troppi… ma questo Megamind non mi ha convinta più di tanto. Innanzitutto cominciamo col dire che come trama è assai meno originale di Cattivissimo me e si basa molto sul mito e le origini di Superman, quindi si ammanta di quell’alone di “già visto” che fa un po’ storcere il naso (parodie su Clark Kent e compagnia bella ne sono già state fatte a bizzeffe…). Come seconda cosa Megamind è un cattivo molto meno incisivo di Gru: si vede da subito che non ne ha troppa voglia, non è convinto, non è davvero bastardo dentro, quindi anche il suo ovvio cambiamento arriva in modo prevedibile e fin troppo rapido, grazie al tipico personaggio femminile carismatico e fighetto. Terzo, i momenti esilaranti sono troppo pochi, e quasi tutti legati alla strepitosa colonna sonora. Il finale sulle note di Bad di Michael Jackson o la sequenza scandita da Welcome to the Jungle dei Guns’n’Roses sono strepitosi, ma di nuovo: BASTA usare canzoni cool per ravvivare i cartoni animati, è dal primo Shrek che lo fanno, quindi ormai sono quasi dieci anni, diciamo che l’effetto novità è un pochino esaurito.

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Certo, non si può dire che Megamind sia brutto. Il 3D è inutile come sempre ma la grafica strepitosa a tratti ci fa illudere di trovarci davanti ad un telegiornale o ad un film live action: le scene dove Roxanne è in bilico in cima al grattacielo o viene sballottata in aria da Titan mi hanno messo le vertigini, tanto che ho dovuto distogliere lo sguardo e pensare ad altro (non so che farci, mi fanno soffrire certe sequenze…); inoltre la “spalla” del supercattivo che, guarda un po’, si chiama anche lui Minion, è di una dolcezza disarmante ed è sicuramente il personaggio più riuscito dopo il narcisista Metroman ( - Ti amiamo, Metroman! – E io amo TE, cittadino qualunque!!), che con il lungo flashback risolutivo vince indubbiamente la palma d’oro per il personaggio più paraculo dell’anno. Se dovessi trovare un momento preferito, sicuramente è quello in cui viene introdotta la mitica figura del Padrino Spaziale (un nano capelluto che parla come Marlon Brando nel Padrino e che, a ripensarci, potrebbe essere un riferimento ai vecchi film di Superman, dove il compianto Marlon interpretava proprio il padre del supereroe…) accompagnato ovviamente dalla Madrina, un improbabile Minion con parrucca bionda e grembiulino rosa. Insomma, io fossi in voi eviterei di pagare 10 o più euro per guardarvelo al cinema e aspetterei di affittarlo… questo a meno che non siate in crisi da mancanza di cinema e l’alternativa fosse andare a vedere un cinepanettone. Allora, nel dubbio, andate a vedere Megamind, ovviamente!

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Parecchie le guest star tra i doppiatori della versione originale. Brad Pitt, di cui ho già parlato qui, doppia Metroman, mentre Ben Stiller, che trovate qua, presta la voce a Bernard, anche se in origine il ruolo di Megamind era stato offerto proprio a lui (e a Robert Downey Jr., per la cronaca).

Tom McGrath è il regista della pellicola. Tra i suoi altri lavori ricordo Madagascar, Madagascar 2 – Via dall’isola e qualche episodio del geniale The Ren & Stimpy Show. Americano, ha 45 anni.

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Will Ferrell doppia Megamind nella versione originale del film. Uno degli ultimi comici americani ad aver spopolato anche all’estero (e uno di quelli che preferisco di meno…) ha partecipato a film come Austin Powers, Austin Powers – La spia che ci provava, Jay & Silent Bob… fermate Hollywood!, Zoolander, Elf, Starsky & Hutch (dove si profonde in uno splendido cameo XD), il geniale Anchorman: the Legend of Ron Burgundy, Wedding Crashers e Talladega Nights: the Ballad of Ricky Bobby, inoltre ha doppiato serie come Mucca e Pollo, The Angry Beavers e I Griffin. Ha 43 anni e un film in uscita.

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David Cross doppia Minion. Attore americano, lo ricordo per piccoli ruoli in film come Mr. Destiny, Il rompiscatole, Men in Black, Small Soldiers, Ghost World, Scary Movie 2, Men in Black II, Se mi lasci ti cancello ed Alvin Superstar; ha inoltre prestato la voce alla Gru di Kung Fu Panda e doppiato un episodio de I Griffin. Ha 46 anni e due film in uscita, tra cui il seguito di Kung Fu Panda.

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Justin Theroux presta la voce al padre di Megamind. Americano, tra i suoi film segnalo American Psycho, Mulholland Drive, Zoolander e Charlie’s Angels: più che mai, ha inoltre partecipato ai telefilm Alias e Six Feet Under. Ha 39 anni e tre film in uscita.

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Se vi fosse piaciuto il genere, Megamind non è il primo film d’animazione a trattare il tema dei supereroi. Ben più riusciti, a mio avviso, sono Gli Incredibili e Mostri contro alieni, che vi consiglio di cercare e vedere. Un ultimo avviso prima di lasciarvi al trailer originale del film: rimanete almeno fino a metà dei titoli di coda, c’è un simpatico siparietto con Minion e Bernard. E ora.. ENJOY!


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