mercoledì 21 maggio 2025

The Ugly Stepsister (2025)

Era un film che aspettavo fin dal primo trailer, l'ho visto appena disponibile e, finalmente, riesco a scrivere qualcosa su The Ugly Stepsister (Den stygge stesøsteren), diretto e sceneggiato dalla regista Emilie Blichfeldt.


Trama: Rebekka, signora con due figlie a carico, la bruttina Elvira e la giovane Alma, si sposa con un nobiluomo che vive con la bellissima figlia Agnes. Subito dopo il matrimonio l'uomo muore, lasciando moglie, figlia e figliastre povere in canna. Per risollevare la situazione economica della famiglia, Rebekka decide che Elvira dovrà sposare il principe, e non si ferma davanti a nulla pur di farla diventare bellissima...


Ho sempre avuto un debole per le fiabe declinate in nero, anche perché, diciamocela tutta, un simile approccio non è altro che un omaggio alle atmosfere tetre dell'opera originale. Forse non sapete, per esempio, che nella Cenerentola dei fratelli Grimm le sorellastre si tagliano rispettivamente un alluce e un tallone per cercare di calzare la famigerata scarpetta e, durante il matrimonio della protagonista, vengono accecate da due colombe, quindi altro che Disney. Emilie Blichfeldt, al suo primo lungometraggio, mantiene la sanguinosa ma suggestiva idea del "taglio" delle dita, senza però renderla un'immagine fine a sé stessa. The Ugly Stepsister (sarà un problema se il film verrà distribuito in Italia, dove solitamente traduciamo "sorellastra cattiva", perché il significato del titolo si perderebbe) racconta, infatti, gli estremi a cui arriva Elvira, una delle due sorellastre di Cenerentola, per diventare "bella". La regista, anche sceneggiatrice, non la connota come "cattiva", anzi. Elvira è un goffo ronzino, una romantica senza speranza, una ragazza che sogna, letteralmente, di sposare il principe poeta del regno, e che si ritrova a dover seriamente competere per coronare il suo sogno, non tanto per amore ma per motivi tristemente economici. Cenerentola deve sposare il principe per lo stesso motivo, alla faccia dell'amore puro, ma lei è fortunata, poiché è nata bella ed aggraziata. La cattiveria di Elvira, in definitiva, subentra dopo che quella profittatrice della matrigna decide di farla diventare bella per forza, sottoponendola alle torture peggiori per mano di chirurghi estetici ben distanti da quelli moderni (il film, a naso - e perdonatemi se scrivo "naso" visto quanti orrori subisce quello della protagonista - , è ambientato nel diciannovesimo secolo) e dopo che questi metodi estremi non le consentono comunque di battere la sorellastra. Quella di Elvira è un'ordalia, un crescendo di cambiamenti fisici che sconfinano nel body horror e la rendono sempre più spaventata ed infelice, oltre che sempre più "brutta" dentro; osservare i cambiamenti della protagonista equivale a testimoniare un disperato tentativo di tenere a freno un'alluvione con dei sacchettini di sabbia, perché per ogni difetto che viene corretto, lo scotto fisico e mentale è quello di diventare sempre meno umana.


Elvira, dunque, diventa "la sorellastra cattiva" della tradizione, spinta da un mix di amore, desiderio di piacere agli altri e compiacere la madre manipolatrice; la poveraccia è una vittima, un agnello sacrificale masticato dagli ingranaggi delle convenzioni e dello status sociali. Se Elvira però, spinta da un'angosciante frustrazione, arriva ad agire davvero da "cattiva", rispettando il copione impostole fin dai tempi di Basile, quelli che la circondano non sono proprio dei modelli di virtù. Cenerentola (o meglio, Agnes) è un modello di egoismo da manuale, concentrata solo sul dolore per la morte del padre e sulla sua condizione economica, e mai cerca di nascondere il disprezzo verso le sorellastre di ceto sociale inferiore. Il principe non è migliore: misogino, volgare, maleducato, presuntuoso e stupido, vive protetto dal suo status e dalla patetica raccolta di poesie che lo hanno reso un lontano ideale agli occhi delle fanciulle del regno, una raccolta falsa quanto gli orpelli che, sul finale, trasformano Elvira in una bambola. Tolta la matrigna, un puttanone senza scrupoli per la quale le figlie sono soltanto mezzi di sostentamento e che lascia letteralmente marcire il suo secondo marito, l'unico personaggio positivo è la giovane Alma, la seconda sorellastra. Interpretata da un'attrice bellissima, che ricorda molto l'indomita Merida disneyana, Alma vive libera dalle mire della madre perché non ha ancora avuto le mestruazioni, quindi ai suoi occhi è ancora una bambina inutile; in realtà, Alma vede e capisce benissimo tutto ciò che la circonda e sceglie volontariamente di spezzare le catene delle convenzioni sociali, uscendo da un meccanismo malato rimanendo saggiamente sullo sfondo, nonostante il desiderio di aiutare la sorella.


The Ugly Stepsister
offre tantissimi spunti di riflessione e si rivela una feroce, nerissima critica sul mito della bellezza a tutti i costi e di quanto lo sguardo altrui possa convincerci che siamo dei mostri senza possibilità di riscatto. L'attrice che interpreta Elvira, al di là di quell'accenno di make-up utilizzato per renderla "bruttina" (naso leggermente irregolare, apparecchio ai denti, un incarnato spento, una controfigura più tozza nelle inquadrature ravvicinate del corpo), in realtà è molto bella, di quella bellezza naturale che colpisce anche in mancanza di trucco, e la cosa traspare durante il film, rendendo ancora più surreale e doloroso il disgusto provato dagli altri verso la povera ragazza. Se siete arrivati a leggere fino a questo punto, vi sarete chiesti se questo The Ugly Step Sister è dunque un elevated horror per i salotti buoni. Ma tristi anime sole, non temete! E' vero che Emilie Blichfeldt (dichiaratamente influenzata da Cronenberg, Fulci, Argento e persino da tale Walerian Borowczyk, regista polacco definito come "un genio che era anche pornografo") mette in scena immagini elegantissime che mescolano suggestioni gotiche alla Eggers a fantasie girlie disneyane, quasi camp, un mix di stili che rende il film molto originale anche a livello visivo, ma la regista non si sottrae al gore e allo schifo che tanto piacciono a noi amanti dell'horror. Vi bastino un paio di trigger warning concernenti occhi e parassiti, soprattutto se provate disgusto alla vista di persone che vomitano "cose" assortite e anche troppo realistiche, per maneggiare The Ugly Stepsister con la dovuta cautela. Non lasciate però che questo vi freni, perché The Ugly Stepsister è uno degli horror più interessanti e belli dell'anno e sarebbe un peccato impedirgli di sconvolgervi e, sì, persino commuovervi. Ovviamente, in Italia non è ancora uscito, ma basta smanettare un po', perché se l'è accaparrato Shudder, come molte delle cose migliori del genere. 

Emilie Blichfeldt è la regista e sceneggiatrice del film. Norvegese, anche attrice, è al suo primo lungometraggio.




martedì 20 maggio 2025

Il Bollalmanacco On Demand: Little Sister (2015)

Tra challenge e nuove uscite è davvero difficile trovare spazio per le rubriche "storiche" del blog. Oggi, però, torna il Bollalmanacco On Demand con un film scelto da Ross, ovvero Little Sister (うみまちダイアリー - Umimachi Diary), diretto e sceneggiato nel 2015 dal regista Hirokazu Koreeda a partire dal manga Our Little Sister - Diario di Kamakura, di Akimi Yoshida. Il prossimo film On Demand sarà The Gangster, the Cop, the Devil.


Trama: alla morte del padre che le aveva abbandonate da piccole, le sorelle Koda si recano al suo funerale, nel paese dove l'uomo si era risposato per la terza volta. Lì, scoprono di avere una sorellastra, la giovanissima Suzu, rimasta ormai orfana, e decidono di invitarla a vivere con loro...


Our Little sister
è un manga che ho adorato, forse perché l'ho acquistato poco dopo essere tornata dal mio secondo viaggio in Giappone e avere visto Kamakura, dov'è ambientato. Ero curiosa di vederne una trasposizione live action, tra l'altro diretta da un grande regista come Koreeda, ma mentirei se non dicessi che ne sono rimasta delusa. Prima di parlare del film, forse è meglio spiegare cos'è il manga, anche per capire le difficoltà che l'adattamento ha dovuto affrontare. Our Little Sister è uno slice of life e racconta le vicende quotidiane delle tre sorelle Koda che, un giorno, vengono convocate al funerale del padre che le aveva abbandonate da bambine. Lì incontrano Suzu, figlia di secondo letto dell'uomo, rimasta orfana di entrambi i genitori e costretta a affrontare la prospettiva di vivere con una terza donna che il padre aveva sposato dopo essere rimasto vedovo. Conquistate dalla maturità e dal contegno di Suzu, sentendosi in colpa per la natura scellerata del padre ("era uno stupido, ma buono"), le sorelle Koda invitano la ragazzina a vivere con loro nella grande casa materna, un edificio giapponese vecchio stile, a Kamakura, dove Suzu, letteralmente, rinasce. Il manga si concentra sulla carriera calcistica di Suzu e le vicende dei suoi compagni di scuola, sugli amori tormentati delle tre sorelle maggiori, sul loro legame con molti abitanti di Kamakura, cementati da attività "normali" come mangiare, preparare distillati, allenarsi, lavorare; attraverso questa quotidianità, l'opera tocca temi quali la morte (con tutto ciò che consegue, problemi economici e familiari in primis), la malattia, la capacità di tornare ad avere fiducia verso gli altri, l'importanza della famiglia, non necessariamente di sangue. E' un'opera che scorre lenta, una coccola quotidiana da leggere quando ci si sente malinconici, all'interno della quale ogni comprimario è importante. Purtroppo, date le premesse e la necessità di condensare una dozzina di volumi in due ore, il rischio di realizzare un film noioso e superficiale era dietro l'angolo, e purtroppo Little Sister è caduto nel tranello con tutte le scarpe. 


Il film di Koreeda è, infatti, un bignami del manga. Ci sono interi dialoghi riproposti parola per parola e situazioni identiche (ci sono persino i rafidoforidi nel bagno, con tanto di inquadratura sull'insetto!); a volte, questo approccio funziona, per esempio durante il funerale del padre delle sorelle o durante il duro confronto con la madre delle Koda, altre volte vien da pensare che la sceneggiatura avrebbe potuto approfondire un po' di più altri momenti, magari elaborando qualcosa di originale, invece di mostrare interminabili cene e pranzi in famiglia. Per accontentare i fan del manga sono stati inseriti alcuni personaggi che lì sono fondamentali, come il vecchio dello Yamanekotei oppure il giovane mantenuto di Yoshino, ma nel film si limitano, appunto, ad essere degli omaggi privi di carisma o utilità, che solo chi conosce l'opera della Yoshida potrebbe apprezzare; la loro importanza nella crescita delle sorelle, così come quella di alcuni eventi come la morte della signora della trattoria Umineko (indispensabile motore delle scelte lavorative di Sachi e della maturità emotiva e sentimentale di Yoshino), non viene percepita e risultano come tocchi di "colore", tanto per ravvivare la trama. Anche le quattro protagoniste non sono particolarmente memorabili. Little Sister si concentra soprattutto sul legame tra la sorella maggiore, Sachi, e la piccola Suzu, che oscilla tra la diffidenza iniziale e una lenta apertura, mentre Yoshino e Chika incarnano, rispettivamente, l'ubriacona umorale e la stramba di casa; a onor del vero, le due sorelle sono così anche nella prima parte del manga, e la loro crescita avviene nella seconda, però il film le rende due stereotipi monodimensionali, soprattutto Chika. Il problema di Suzu, invece, è l'attrice. Troppo remissiva, quasi inespressiva, brilla durante la sequenza della partita di calcio per poi spegnersi, lontana anni luce dalla Suzu matura ma vivace del manga. Per quanto mi riguarda, l'unico pregio di Little Sister sono le location, in particolare la casa dove vivono le sorelle Koda, una struttura in stile tradizionale con un ingresso splendido e degli interni che profumano di vecchio Giappone, perfetta per catturare le atmosfere del manga. Per il resto, un prodotto evitabile, che la scellerata Amazon Prime offre (peraltro solo a noleggio, quindi costringendo l'utente a pagare pur avendo l'abbonamento) solamente doppiato in italiano, il che rende il tutto ancora più piatto e monocorde. Un'occasione sprecata, peccato! 

 


Del regista e sceneggiatore Hirokazu Koreeda ho già parlato QUI.

venerdì 16 maggio 2025

2025 Horror Challenge: Beyond the Infinite Two Minutes (2020)

Il tema della challenge questa settimana era "Film distribuiti al Frightfest". La scelta è caduta su Beyond the Infinite Two Minutes (ドロステのはてで僕ら - Dorosute no hate de bokura), diretto nel 2020 dal regista Junta Yamaguchi.


Trama: Kato, proprietario di un caffé, scopre che il monitor del suo computer (collegato al monitor presente nel locale) mostra cosa succederà due minuti nel futuro...


Sono rimasta fregata. Beyond the Infinite Two Minutes non è assolutamente un horror, è uno sci-fi a base di paradossi temporali che rientra nel genere nagamawashi, opere cinematografiche realizzate con due spiccioli e girate come se fossero un unico piano sequenza. Per intenderci, il capostipite del genere (o sarebbe meglio dire "stile"?) è il mai troppo adorato One Cut of the Dead, il cui titolo italiano vorrei dimenticare, quindi dire che "sono rimasta fregata" non è proprio la verità. Infatti, pur non possedendo neppure un elemento horror, Beyond the Infinite Two Minutes è un film carinissimo, che sono felicissima di avere guardato. Proverò a spiegarvi di cosa parla, senza fare troppi spoiler, ma col cervello che rifugge ogni concetto scientifico, temporale e matematico sarà dura. In pratica, il protagonista Kato scopre che il monitor che ha in camera gli mostra cosa accadrà tra due minuti nel futuro (da qui il titolo internazionale del film); il monitor, non chiedetemi perché, è collegato a quello del caffé da lui gestito che, quindi, trasmette allo spettatore ciò che è accaduto due minuti prima. In pratica, la versione futura e quella passata del protagonista arrivano a dialogare attraverso i due monitor e la cosa si complica ulteriormente quando, a un amico di Kato, viene in mente di mettere gli schermi uno di fronte all'altro, creando un "effetto Droste" (da qui il titolo giapponese) che permetterebbe di superare il limite dei due minuti e guardare ancora un po' più avanti nel futuro. Per chi non lo sapesse, l'effetto Droste è un'immagine ricorsiva che contiene una sua immagine più piccola, che contiene la stessa immagine più piccola, e così via finché l'occhio riesce a distinguerla, ma se non avete capito nulla della mia spiegazione raffazzonata, vi rimando QUIBeyond the Infinite Two Minutes, con la sua premessa assurda e intelligentemente "limitata" temporalmente, funziona solo se siete come me, dei bibini che si lasciano coinvolgere dalla storia e non si fanno troppe domande cercando di capire paradossi temporali, discrepanze, passaggi illogici e supercazzole. Io, per esempio, sono rimasta conquistata dalla simpatia dei personaggi, dalla semplicità con cui decidono di sfruttare questa "visione del futuro" e dalla vena malinconica di Kato, l'unico che, in effetti, coglie il lato negativo della favolosa scoperta, ovvero quello di essere comandati dal futuro imminente, guidati come burattini senza volontà.


L'aspetto più interessante di Beyond the Infinite Two Minutes, però, è la realizzazione. Anche in questo caso, non ho le conoscenze necessarie per spiegare nel dettaglio "come" sia il film, ma Junta Yamaguchi ha cercato (credo con tutta una serie di impercettibili micro-aggiustamenti in fase di montaggio) di rendere il film come un unico piano sequenza, cosa che lo rende scorrevolissimo e affascinante, soprattutto se si pensa a tutti i piccoli trucchetti utilizzati per dare plausibilità al fatto che non ci siano scarti temporali all'interno dell'azione. Durante i titoli di coda, lo spettatore ha modo di farsi un'idea di come sia stato realizzato Beyond the Infinite Two Minutes, e il lavoro che c'è dietro, in particolare per quanto riguarda il timing necessario a far sì che gli attori possano dialogare perfettamente con le loro controparti sullo schermo, mi ha lasciata sinceramente a bocca aperta. E il bello è che, con tutto il complicatissimo lavoro che c'è dietro, Beyond the Infinite Two Minutes non si inchioda neppure una volta, non risulta mai pesante o noioso (e il rischio ci sarebbe, vista l'inevitabile ripetitività di molte sequenze!), non condanna lo spettatore a pensare "non ci ho capito niente!", anzi; l'unico difetto che gli imputo è di essere troppo breve, perché io sarei rimasta ancora un po' in balia di quei fatidici due minuti. So che Junta Yamaguchi ha sviluppato ulteriormente l'idea di Beyond the Infinite Two Minutes all'interno del suo film più recente, River, e a questo punto credo proprio che lo metterò in cima alla lista delle pellicole da recuperare prossimamente. Intanto, vi consiglio spassionatamente di guardare Beyond the Infinite Two Minutes, sono certa che vi divertirete quanto me!
 
Junta Yamaguchi è il regista della pellicola. Giapponese, ha diretto il film River. Anche produttore, ha 38 anni.



mercoledì 14 maggio 2025

Drop (2025)

In qualche modo, sono riuscita a recuperare anche Drop, diretto dal regista Christopher Landon.


Trama: Violet, psichiatra con un figlio a carico, va a un appuntamento per la prima volta, dopo anni dalla morte del marito. Durante l'appuntamento, però, la donna comincia a ricevere minacciosi messaggi anonimi...


Drop
mi aveva intrigata fin dal primo trailer e, neanche a dirlo, fin dal nome del regista, quel Christopher Landon che, finora, ha sbagliato giusto quella mosceria di Un fantasma in casa. Purtroppo, Landon non è tornato alla commedia horror, genere che più gli si confà, ma Drop si è rivelato comunque una visione piacevole sebbene ansiogena e, come thriller di rapido consumo, è veramente ben realizzato. La situazione di partenza è, già di per sé, una potenziale bomba ad orologeria: Violet, vedova con un figlio a carico, non esce con un uomo da anni e, dopo mesi di conoscenza on line, ha deciso di incontrare di persona Henry. Con tutto il carico di nervosismo ed inadeguatezza delle grandi occasioni, Violet va all'elegantissimo ristorante prenotato da Henry e lì e le tocca aspettarlo per un po', condividendo dubbi e speranze con personaggi di varia natura i quali, col prosieguo del film, diventeranno papabili mandanti dei minacciosi "drop" del titolo originale. Henry, a un certo punto, arriva, e Violet riprende a respirare, perché l'uomo si rivela simpatico, intelligente, comprensivo e pure belloccio; purtroppo, dopo pochi minuti la donna comincia a ricevere misteriosi messaggi anonimi sul cellulare, in un crescendo sempre più angosciante, che culmina con l'ordine di uccidere Henry pena la morte del figlioletto, rimasto a casa con la giovane zia. Il mix di premessa improbabile all'interno di una situazione "normale" ma già potenzialmente fonte di agitazione e disagio, funziona alla grande. Lo spettatore, guidato dal punto di vista di Violet, con la quale condividiamo le limitate informazioni dei "drop", si ritrova col fiato sospeso a sperare non solo che la donna riesca ad uscire da un incubo sempre più pericoloso e claustrofobico, ma anche che il povero Henry sopravviva e, magari, riesca a mettersi insieme alla protagonista. Oltre all'ansia data dai tentativi di Violet di chiedere aiuto, temporeggiare e scoprire l'identità di chi la tormenta, infatti, c'è anche il dispiacere di vedere Henry, ignaro di tutto, sempre più perplesso dal comportamento della donna, pateticamente attaccato alla speranza di poter superare le stranezze di lei ed essere finalmente felice con qualcuno. Insomma, a livello psicologico, Drop non offre nemmeno un istante di tregua ed è una tesissima corsa verso una risoluzione finale un po' più action e, a mio parere, ancora meno verosimile, benché godereccia. 


Con una sceneggiatura già scritta, Christopher Landon si concentra sulla regia e rende la vicenda ancora più dinamica. Curiosa di sapere se esistesse davvero un "Ristorante Palate" a Chicago, ho scoperto che la location è stata costruita in studio, quindi gli scenografi hanno creato un ambiente perfetto dove il regista potesse muoversi a suo agio, così da realizzare sequenze fluide, azzardare riprese sghembe dal basso, enfatizzare la paranoia di Violet con ampie panoramiche dei tavoli e degli avventori e avere almeno tre ambienti diversi a disposizione. Inoltre, Landon vivacizza ancor più la vicenda riportando sullo schermo i drop ricevuti da Violet come enormi scritte in sovrimpressione, un memento mori costante che sembra volerla schiacciare in ogni istante. Molto bravi anche gli attori. Non conoscevo né Meghann FahyBrandon Sklenar (ovviamente, sono facce "da serial" e io praticamente non ne guardo), ma l'alchimia tra i due c'è, ed è tenera ed imbarazzata come può essere quella di un primo appuntamento destinato a finire bene. In particolare, Meghann Fahy riesce, con incredibile naturalezza, ad esternare tutti i traumi psicologici del suo personaggio, la timidezza, il senso di inadeguatezza, anche quando la situazione la vuole più fredda e determinata; soprattutto, calamita fin dall'inizio l'attenzione e l'empatia dello spettatore, che è felice di non abbandonare mai il suo fianco, e si ingegna a cercare alle sue spalle o sul suo cellulare un indizio, qualcosa, che possa perlomeno darci un vantaggio rispetto alla totale "ignoranza" di Violet. Drop non sarà sicuramente il film dell'anno, non voglio convincervi di questo, ma è un onestissimo thriller che fa il suo dovere, in primis quello di non lasciare che lo spettatore si annoi o si distragga al punto da cominciare a farsi domande scomode sulla plausibilità del tutto. Purtroppo, ha avuto una distribuzione in sala praticamente nulla, ma vi consiglio di divertirvici quando uscirà in streaming, perché ne vale la pena!  


Del regista Christopher Landon ho già parlato QUI

Meghann Fahy interpreta Violet. Americana, ha partecipato a film come Miss Sloane - Giochi di potere e Your Monster. Ha 35 anni. 





martedì 13 maggio 2025

Le rose di Versailles - Lady Oscar (2025)

Me l'avevano detto, si capiva già dal trailer, ma ho voluto comunque dare una chance a quel disastro annunciato di Le rose di Versailles - Lady Oscar (ベルサイユのばら - Versailles no Bara), diretto dalla regista Ai Yoshimura e tratto dal manga omonimo di Ryoko Ikeda.


Trama: la vita della Delfina di Francia, Maria Antonietta, e quella di Oscar François de Jarjayes, ragazza cresciuta come un uomo e Capitano delle guardie reali, si intrecciano alla corte di Versailles...


Cercherò di non scrivere la solita recensione boomer basata su infanzie stuprate e via dicendo. Ritengo che le opere famose possano e debbano essere aggiornate al gusto odierno, andare incontro alle nuove generazioni, abbracciare un'originalità che non le stravolga, ma ritengo anche che simili aggiornamenti siano molto difficili, e bisognerebbe eseguirli con intelligenza. Tenendo a mente ciò, ho provato a capire il senso di un'opera come Le rose di Versailles - Lady Oscar, ma sto avendo serie difficoltà ad individuare il target a cui è rivolta. Di sicuro, non è un anime per chi ha adorato la serie storica. Per quanto mi riguarda, e con tutto il rispetto per Ryoko Ikeda, grazie alla quale è nato un simile capolavoro di animazione nipponica, la serie è addirittura superiore al manga, e nessuno potrà mai convincermi del contrario. Il perché è presto detto. Il manga della Ikeda è accuratissimo storicamente, ma anche zeppo di elementi umoristici, con uno stile di disegno che, spesso, si rifà a quello di Osamu Tezuka, e rende i personaggi molto cartooneschi, anche nei momenti meno adatti. L'anime, in particolare dopo l'arrivo di Osamu Dezaki alla regia e grazie al character design di Shingo Araki, ha un taglio tragico, adulto, gode di sequenze indimenticabili e incredibilmente drammatiche proprio grazie al taglio delle inquadrature e all'uso dei chiaroscuri (vorrei ricordare, inoltre, le dettagliatissime "cartoline" coi fermo immagine, tipiche del regista), per non parlare poi delle splendide, dolorose melodie di Koji Makaino, che ancora oggi non riesco ad ascoltare, nemmeno fuori contesto, senza sciogliermi in lacrime. Le rose di Versailles - Lady Oscar, di questa drammaticità al limite del nichilismo e della depressione, non ne ha neppure un'oncia. Piallato dai brillantissimi, computerizzati colori tipici delle produzioni dello Studio NAPPA e, più in generale, di tutta l'animazione giapponese moderna (vedi il remake di Ranma 1/2 o Sailor Moon Crystal), Le rose di Versailles - Lady Oscar è intriso di levità dalla prima all'ultima scena e, salvo per i personaggi principali, è popolato da pupazzetti che si muovono su sfondi in CGI, che nessuna emozione suscitano nello spettatore, a prescindere che passeggino oziosi a Versailles o che muoiano per la Rivoluzione. Il character design è simile per quasi tutti i comprimari, in particolare a livello di struttura fisica, mentre quelli principali alternano un rispetto quasi filologico verso i disegni della Ikeda (i capelli di Oscar hanno le stesse onde tratteggiate del manga) a momenti di locura in cui Maria Antonietta sembra una bambolotta dagli occhioni giganteschi. 


Questi elementi grafici possono sicuramente essere accattivanti per un pubblico più giovane, ovviamente, così come la scelta di puntare molto sui numeri musicali, caratterizzati da una colonna sonora pop, ben lontana dall'epoca in cui è ambientato l'anime. Anzi, un paio di questi momenti "musical" hanno una regia splendida ed invenzioni grafiche che scaldano il cuore, come la sequenza che omaggia l'art nouveau (a mio parere, il momento più alto di un anime deludente; altri dettagli stupendi sono gli abiti di Maria Antonietta, dettagliatissimi, e le scenografie degli interni, che sembrano quasi quelli di un live action), ma anche il piccolo momento onirico sul finale, simbolo di una libertà e un amore che travalicano le convenzioni sociali e le catene di un destino imposto. Però, tutto ciò mi costringe a tornare al discorso che facevo all'inizio, quello del target. Un pubblico di giovani neofiti potrebbe rimanere deliziato dalle animazioni, apprezzare il messaggio di fondo e le due storie d'amore tormentato, ma dubito che qualcuno potrebbe appassionarsi a un'opera superficiale come questa, che trasforma la guerra tra Maria Antonietta e la Du Barry e il tristissimo ballo tra Oscar e Fersen in brevissime parentesi musicali, incomprensibili per chi non conosce la serie originale. Privato di sottotrame fondamentali (anche storicamente) e di ben tre rose (la nera, Jeanne, la gialla, la Contessa de Polignac, e il bocciolo, Rosalie), Le rose di Versailles - Lady Oscar è un bignami storico zeppo di buchi, e talmente rapido negli sviluppi delle storie d'amore che quasi non si capisce perché mai André, a un certo punto, sia così tanto innamorato di Oscar da decidere di commettere un omicidio-suicidio pur di non vederla sposata a Girodel. Né si capiscono il perché Oscar si infatui di Fersen, oppure il livello degli sperperi monetari di Maria Antonietta (la quale risulta molto più stupida ed infantile rispetto all'opera originale), la corruzione e la depravazione dei nobilastri di corte, tutto ciò che ha portato il popolo a ribellarsi in maniera sanguinosa per fuggire alla morte e alla povertà. L'unico approfondimento psicologico-sociale è riservato ad Oscar ma, purtroppo, arriva poco prima del finale ed è eccessivamente pedante, quasi noioso, e priva lo sventurato legame tra Oscar e André di tutto il pathos e la sofferenza che ha reso la loro una delle storie d'amore più belle di sempre. In sostanza, per me è no, anche perché il rischio è che, dopo la visione di Le rose di Versailles - Lady Oscar, i giovani spettatori perdano la voglia di approfondirne le vicende e di recuperare la serie, cosa gravissima. Se siete invece fan di Lady Oscar e deciderete di guardare questo inno alla mediocrità, premuratevi di farlo con un amico pronto a salvarvi la serata con pain au chocolat, macarons e cioccolato ruby allo champagne, che è ciò che ho fatto io. Altrimenti, vi sembrerà di avere buttato via due preziosissime ore!

Ai Yoshimura è la regista della pellicola. Giapponese, ha diretto la serie Ano Hana


Miyuki Sawashiro
, che doppia Oscar, è la voce di Fujiko Mine ormai dai tempi di Lupin III - Il sigillo di sangue, la sirena dell'eternità. Neanche a dirlo, se Le rose di Versailles - Lady Oscar vi fosse piaciuto (ma anche se vi ha fatto schifo), recuperate o riguardate per la trecentesima volta la serie Lady Oscar. ENJOY!

venerdì 9 maggio 2025

Thunderbolts* (2025)

Era qualche tempo che evitavo i film Marvel al cinema, ma per amore di Florence Pugh domenica sono andata a vedere Tunderbolts*, diretto dal regista Jake Schreier.


Trama: durante una missione per conto di Valentina, Yelena si ritrova costretta a fare fronte comune con altri agenti dalla dubbia moralità, per affrontare una potentissima minaccia...


Come ho scritto sopra, era un po' che non andavo al cinema per vedere un film del MCU. L'ultimo dev'essere stato Thor: Love and Thunder, dopodiché ho deciso di smettere di buttar via soldi, e di sfruttare l'abbonamento condiviso a Disney + per guardare in streaming le ultime oscenità (mi manca solo Captain America: Brave New World ma dicono non mi sia persa nulla) della "casa delle idee". A Thunderbolts* ho dato fiducia principalmente per gli attori. Adoro Florence Pugh e la sua rozza, scoglionata Yelena, in più ci sono David Harbour e Sebastian Stan che sono due gran figonzi, e a una "ragazza" quello basta per essere felice. Nonostante ciò, le mie aspettative erano bassissime, forse per questo Thunderbolts* mi è piaciuto più degli altri film Marvel recenti. Intendiamoci, Thunderbolts* non è il capolavoro che vogliono farvi credere le recensioni entusiaste; è un cinecomic Marvel e, come tale, per un'idea azzeccata dovete sopportare umorismo messo a sproposito, personaggi inconsistenti, CGI non troppo entusiasmante e scene action che potevano essere realizzate meglio, ma se non altro questo film in particolare un po' di cuore ce l'ha. Forse perché parte da antieroi davvero disastrati e, da qui, riesce ad intavolare un discorso non banale sulla depressione, sul vuoto che tanti di noi si portano dentro, sul senso di inutilità che spesso ci accompagna. Tutti i personaggi di Thunderbolts* indossano una corazza di incrollabile "coolness" e pretendono che tutto vada per il meglio, alcuni mentendo agli altri, molti persino a loro stessi; lupi solitari per natura, rifiutano l'aiuto altrui e vanno avanti per la loro strada, cercando di ignorare il vuoto e l'oscurità, aumentandoli così sempre di più. Accettare il passato, per quanto oscuro, non basta più. Serve qualcuno che aiuti a portare il peso, uno scopo che non sia necessariamente "alto", larger than life, ma anche solo la piccola consapevolezza di servire a qualcuno offrendogli magari una spalla su cui piangere e un minimo di empatia che spezzi il circolo vizioso di autodistruzione. Inserire un discorso così "universale" all'interno di un film in cui le persone volano, attraversano muri, fanno esplodere cose, non è banale, considerato anche che Thunderbolts* ha l'ingrato compito di aprire la cosiddetta sesta fase del MCU, con tutte le marchette che conseguono; Gunn lo aveva fatto con molta più eleganza, ma visti i tempi che corrono ci si può accontentare. 


L'operazione funziona, innanzitutto, perché il personaggio principale, Yelena Belova, è affidato a un'attrice come Florence Pugh. La biondissima Florence ci crede, picchia durissimo nelle scene d'azione, si dà agli stunt più spericolati, ma riesce anche a far uscire il lato infantile di Yelena, quello che è morto decenni prima nella "fabbrica" di vedove nere, nonché il mostro terrificante della depressione, che la divora da dentro spegnendo la "luce" che l'ha sempre caratterizzata. Non mi vergogno a dire di aver versato qualche lacrima nel confronto tra Yelena e Alexey; quest'ultimo, interpretato da un David Harbour ingiustamente sfruttato quasi solo come comic relief, riesce a ritagliarsi un paio di sequenze che nobilitano il personaggio, e aiutano quello di Yelena a crescere. Il resto del cast, purtroppo, si barcamena tra alti e bassi. Sebastian Stan e Julia Louis-Dreyfus brillano, soprattutto la seconda, adorabilmente perfida, purtroppo però ci pensano i nepo babies a fare la figura delle oloturie. Wyatt Russell ci prova a dare al suo John Walker un briciolino di oscura follia, ma dovrebbe guardarsi una puntata di Daredevil per capire che ha ancora tanto pane da mangiare prima di riuscirci, mentre Lewis Pullman è sicuramente favorito dall'attenzione messa dagli sceneggiatori nel tratteggiare il suo personaggio, ma funziona solo come Bob, senza avere il carisma necessario per sostenere l'altra faccia di Sentry. Per quanto riguarda la realizzazione, Thunderbolts* ha un paio di idee visive interessanti (peraltro già sfruttate in Moonknight, se non erro) quando la realtà si trasforma in una dimensione da incubo e, anche se le scene d'azione non sono granché esaltanti o memorabili, affossate peraltro dalla solita fotografia bigia per nascondere, probabilmente, le scollature più evidenti di una CGI farlocca, se non altro hanno buon ritmo e lo stesso vale per tutto il film, durante il quale è davvero difficile annoiarsi. O forse no, perché il Bolluomo nella prima parte si è fatto due palle tante, soprattutto per lo sforzo di ricordare chi fosse chi e dove l'avesse già visto. Scherzi a parte, Thunderbolts* è un film per cui potreste anche andare al cinema, senza fare i pigri con lo streaming; in caso, ricordatevi di NON alzarvi fino alla fine dei titoli di coda, perché la seconda scena post credit è molto più importante della prima. 


Di Florence Pugh (Yelena Belova), Sebastian Stan (Bucky Barnes), Julia Louis-Dreyfus (Valentina Allegra de Fontaine), Lewis Pullman (Robert Reynolds), David Harbour (Alexei Shostakov), Wyatt Russell (John Walker), Hannah John-Kamen (Ava Starr), Olga Kurylenko (Antonia Dreykov), Wendell Pierce (deputato Gary) e Violet McGraw (Yelena bambina) ho già parlato ai rispettivi link.

Jake Schreier è il regista della pellicola. Americano, ha diretto episodi di serie come Al nuovo gusto ciliegia e Lo scontro. Anche produttore e attore, ha 43 anni. 


Steven Yeun
era stato scelto per il ruolo di Robert Reynolds/Sentry, ma ha dovuto rinunciare, per impegni pregressi, quando il film è stato posticipato a causa degli scioperi del SAG-AFTRA; per lo stesso motivo, Ayo Edebiri ha rinunciato al ruolo di Mel. Quanto al regista, James Gunn si era detto interessato a dirigere un film sui Thunderbolts dopo aver realizzato Guardiani della Galassia, ma, visto il successo del film, la Marvel ha posticipato il progetto per realizzare i sequel dei guardiani. Quando è arrivato il momento dei Thunderbolts, Gunn aveva già deciso di migrare altrove. Ciò detto, non vi starò a fare il solito listone di film del MCU, solo una lista degli "indispensabili" da vedere per fruire al meglio di Thunderbolts*; innanzitutto, Black Widow, senza il quale non capireste assolutamente nulla dei personaggi principali, poi aggiungerei Captain America – Il primo vendicatoreCaptain America: The Winter Soldier, Ant-Man and the Wasp (prima inserite Ant-Man, così da non arrivare a metà storia) e aggiungete le due serie Falcon and the Winter Soldier e Hawkeye (siete fortunati, sono due tra le più carine). ENJOY!


mercoledì 7 maggio 2025

2025 Horror Challenge: Onibaba (1964)

La challenge horror questa settimana voleva un film anni '60. Ho scelto Onibaba, diretto e sceneggiato nel 1964 dal regista Kaneto Shindo.


Trama: durante il periodo Nanboku-cho, un'anziana donna e la nuora uccidono e depredano soldati isolati per riuscire a sopravvivere. L'arrivo di Hachi, vicino tornato dalla guerra, sconvolgerà la vita delle due donne...


Onibaba
era un altro di quei film di cui avevo sempre sentito parlare e di cui avevo visto un paio di immagini cult, ma che non avevo mai guardato prima. L'ho scelto per la challenge horror in quanto anche Letterboxd lo fa rientrare nel genere, tuttavia, in realtà, la critica è un po' divisa su come definirlo. Per quanto mi riguarda, dopo averlo guardato, sono più vicina a chi lo definisce "dramma in costume", o jidai-geki, tuttavia non mancano affatto elementi perturbanti e tipici del genere che tanto amo. Intanto, la stessa parola "Onibaba" significa strega demoniaca, ed è una definizione che può essere tranquillamente riservata alle due protagoniste del film. E' buffo che, in questi giorni, stia leggendo (grazie al gruppo di lettura di Marika) il libro Sirene e altri mostri di Jess Zimmerman; le due donne senza nome del film, infatti, sarebbero soggetti ottimi per il saggio in questione, perché la loro pericolosità è legata, innanzitutto, a un modo di apparire e comportarsi diametralmente opposti a quello che dovrebbe essere tipico del modello femminile, per di più nipponico. Rimaste sole in un mondo di soldati ormai allo sbando, le due protagoniste vestono di stracci, si lasciano alle spalle orpelli e bellezza, e per sopravvivere uccidono uomini nascondendosi all'interno di uno sterminato campo di altissime graminacee. Le due non attirano gli uomini nella loro tana, non sfruttano eventuali arti di seduzione, ma, semplicemente, escono dal fitto dell'erba e uccidono. La loro mostruosità (almeno, quella delle donna più giovane) scompare nel momento in cui un uomo, l'ex vicino di casa Hachi, torna dalla guerra dichiarando morto Kishi, figlio della più anziana e marito della giovane; Hachi si invaghisce di quest'ultima e, dopo un breve periodo di riluttanza, la ragazza prende a correre ogni notte dal vicino per fare sesso, indebolendo di fatto sua suocera, vittima di un sentimento misto di gelosia, solitudine e terrore per il futuro. Se la ragazza, nel sesso, ritrova libertà e gioia, riappropriandosi di un'idea di "femminile" inestricabile dallo sguardo e dai desideri di un uomo, la più anziana si abbruttisce ancor più, finché non arriverà a farsi realmente demone, indossando la maschera Hannya appartenuta a un samurai di passaggio.


La maschera Hannya, tipica del Teatro No, incarna un demone femminile spinto da gelosia, risentimento e rabbia, che sono proprio i sentimenti di cui cade vittima l'anziana protagonista. Come nel No, tuttavia, la maschera muta con il mutare della prospettiva, cosa che il regista Kaneto Shindo rende alla perfezione attraverso inquadrature e luci: ripresa frontalmente, l'Hannya incarna il pericolo di una furia demoniaca, se ripresa, invece, leggermente dal basso, sembra che il demone pianga e provi dolore, un ambivalenza chiarissima, in particolare nel tragico, ambiguo finale di Onibaba. La maschera Hannya è  l'elemento più horror del film, anche perché le sue origini non vengono rivelate e, soprattutto, non viene mai chiarita la natura della maledizione che porta con sé. Non è però l'unico elemento che richiama atmosfere orrorifiche. C'è un terrificante pozzo, "nero e profondo", dove le donne gettano i cadaveri dei soldati uccisi; ci sono gli steli d'erba silenziosi e folti, claustrofobici quanto un qualsiasi campo di granturco all'interno dei più blasonati horror americani; ci sono volti non più umani, puniti da mano divina o, forse, resi tali dalle putride passioni nascoste nell'animo di chi li indossa; c'è l'intenso bianco e nero di immagini che sembrano vergate con l'inchiostro, e il trucco pesante di una donna che onibaba lo era già un po' prima di trovare la maschera Hannya. Onibaba è comunque un film fatto di emozioni violente, ambientato in un periodo caotico e confuso, e l'isolamento dei personaggi in un luogo così privo di riferimenti geografici lo rende quasi "post-atomico" nel modo in cui dipinge un mondo privo di leggi e valori. La sua particolarità, sicuramente, è l'essere ben poco dialogato, quasi privo di una colonna sonora, così che l'intensità emotiva dell'opera è affidata interamente a tre attori bravissimi (in particolare, Nobuto Okowa è magnetica, e 14 anni dopo sarebbe diventata la moglie del regista) e ad immagini suggestive che parlano da sole. Personalmente, sono molto contenta di averlo scoperto con questa challenge, e vi consiglio di provare a guardarlo almeno una volta, se non avete ancora avuto l'occasione!

Kaneto Shindo è il regista e sceneggiatore della pellicola. Giapponese, ha diretto film come Kuroneko e L'isola nuda. Anche produttore, scenografo e attore, è morto nel 2012.



martedì 6 maggio 2025

Un altro piccolo favore (2025)

Nonostante fossero disponibili parecchi film più interessanti, in questi giorni, per una serie di motivi, ho recuperato prima Un altro piccolo favore (Another Simple Favor), diretto dal regista Paul Feig.


Trama: Dopo aver mandato in carcere Emily, Stepahanie è diventata una vlogger ed investigatrice affermata. Tutto sembra andare per il meglio, finché Emily non si ripresenta davanti a Stephanie e la invita a Capri per il suo matrimonio...


Avevo visto Un piccolo favore ai tempi dell'uscita cinematografica. Era un film carino, il cui punto di forza risiedeva nell'alchimia tra la "strana" mammina tuttofare Stephanie e la fascinosa, misteriosissima Emily, coinvolte in una trama delirante e, sul finale, anche un po' ridicola (l'incidente d'auto, rivisto oggi, è brutto come lo ricordate). Non mi sembrava fosse stato una hit clamorosa, quindi ho faticato a capire il perché di un sequel ma, spinta da curiosità, l'ho comunque guardato. Un altro piccolo favore è come il predecessore: una trama arzigogolata fatta di segreti, confessioni e omicidi, dove spicca la relazione di amore e odio tra Emily e Stephanie. Nel frattempo, però, la mammina timida e weird del film precedente è diventata una scrittrice sicura di sé che non sta tanto a farsi menare per il naso, soprattutto non da Emily, e gli scambi dibattute tra le due sono molto più sassy rispetto al film precedente. Con l'upgrade della protagonista, gli sceneggiatori hanno dovuto fare i salti mortali per creare una trama che fosse più complessa, più "esagerata" di quella precedente e, soprattutto, zeppa di rimandi, perdendo così anche un po' di coerenza, soprattutto perché Un altro piccolo favore cerca di inserire tutti i personaggi comparsi nel primo film, anche quelli solamente nominati; non si capisce dunque perché, al matrimonio di Emily, debba essere invitato anche l'ex marito (la scusa di volere che il figlio sia presente non sta in piedi), e la funzione del detective di colore e degli amici della scuola è talmente ridicola che avrebbero potuto anche non inserirli nel cast. Il boost della trama passa anche, purtroppo, per un cambio di setting imbarazzante per un'italiana. Per dare un tocco esotico al tutto, infatti, il matrimonio di Emily si tiene in una Capri da cartolina, ovviamente con un membro della malavita organizzata che è lo stereotipo (perdonatemi il razzismo) del terronaccio da operetta. Guardare le scene ambientate in Italia, ritornare a una rappresentazione anni '50 del Paese, filtrata dagli occhi di americani che, probabilmente, non ci hanno mai messo piede, è cringe quanto ascoltare la colonna sonora scelta per l'occasione, dove spiccano L'italiano di Toto Cutugno e l'esibizione di un terrificante cantante neomelodico che mi ha fatto rimpiangere che il film non fosse ambientato al Castello delle Cerimonie.


La sensazione avuta guardando il film è che tutto fosse volutamente più esagerato e kitsch rispetto a Un piccolo favore. Persino le mise di Blake Lively, elegantissime ed invidiabili nel primo capitolo, si sono evolute in un tratto distintivo assai simile a una caricatura; inoltre, se pensavate che nel primo film le relazioni familiari fossero leggermente di cattivo gusto (e inserite, anche lì, senza un reale perché) qui la sceneggiatura si supera, cercando l'elemento comico in qualcosa di difficilmente apprezzabile. Per il resto, è tutto più o meno simile a Un piccolo favore. La regia di Paul Feig alterna momenti di serio thriller a svolazzanti, coloratissime sequenze da commedia, risultando in un effetto assai straniante, non per tutti i palati. Le due protagoniste ci credono ancora tantissimo, in particolare la Kendrick, evolutasi nel frattempo come il suo personaggio (guardando i due film a distanza ravvicinata si vede che l'attrice era molto più dimessa un tempo, quasi non osasse affrontare ruoli più fascinosi, ora si abbandona a trucco, parrucco e abiti molto più particolari, anche quando il personaggio torna ad essere più "sfigatello"); la Lively è sempre a suo agio nel ruolo di Emily, ma Un altro piccolo favore le richiede un'altra interpretazione ancora, e l'attrice non mi è sembrata molto all'altezza, ho provato a tratti imbarazzo per lei. Lo stesso imbarazzo l'ho provato per buona parte del cast italiano, dove si salva solo Elena Sofia Ricci, elegante e divertentissima nei panni della madre del boss mafioso. Sicuramente, l'attrice fa più bella figura di una Allison Janney sprecata, il cui ruolo avrebbe meriato un po' più di impegno da parte degli sceneggiatori. Diciamo che Un altro piccolo favore funziona nella misura in cui viene affrontato senza aspettative, senza pensare troppo a quel che viene mostrato sullo schermo, prendendolo come una commedia nera dalle tinte thriller. In questo modo, intrattiene per tutta la sua durata, anche se due ore sono troppe. Ma, se già non vi era piaciuto il primo, fossi in voi lo eviterei come la peste.
 

Del regista Paul Feig ho già parlato QUI. Anna Kendrick (Stephanie Smothers), Blake Lively (Emily Nelson), Elena Sofia Ricci (Portia Versano), Allison Janney (Zia Linda McLanden) ed Elizabeth Perkins (Margaret McLanden) li trovate invece ai rispettivi link.


Se Un altro piccolo favore vi fosse piaciuto recuperate, ovviamente, Un piccolo favore, anche se vi converrebbe vederli in ordine. ENJOY!

lunedì 5 maggio 2025

Until Dawn - Fino all'alba (2025)

Martedì scorso sono andata a vedere Until Dawn - Fino all'alba (Until Dawn), diretto dal regista David F. Sandberg.


Trama: a un anno dalla scomparsa della sorella, Clover e i suoi amici tornano sui luoghi dov'era stata vista per l'ultima volta e rimangono bloccati all'interno di una casa colma di esseri pronti a ucciderli...


"Sono troppo vecchia per queste stronzate", nel senso che non conosco il gioco da cui è stato tratto Until Dawn e riesco a stupirmi che il film sia stato proiettato nella sala più grossa di Savona, attirando un discreto numero di ragazzini anche di martedì. Sono, ovviamente, troppo vecchia anche per sopportare detti ragazzini, che hanno ruminato roba dall'inizio alla fine del film (ma quanti cazzo di sacchetti di patatine possono stare in una borsa??), non paghi di avermi ammorbata, come la Enoiosa de I Promessi sposi, con la tiritera "Eh, ma non è inverno. Perché è ambientato d'estate? Non potevano farlo in inverno? Oh, ma non è inverno. E perché non è inverno?" finché non ho esclamato "Perché è ESTATE. STACCE. E che due coglioni" (per fortuna, Sandberg è venuto incontro alle loro scarse capacità mentali piazzando, sul finale, l'immagine di una baita innevata. Grazie, David). Irritazione a parte, mi sono divertita guardando Until Dawn. E' un film con una trama estremamente semplice, che lascia un bel po' di domande a chi non conosce il videogioco, e che si riduce alla gioia di vedere gente morire male e tentare di sopravvivere ad aggressioni assai scorrette e crudeli. Non lasciatevi sviare dal fatto che Blair Butler e Gary Dauberman abbiano cercato di caratterizzare i personaggi sfruttando sentimenti profondi come amore, amicizia, spirito di sacrificio, oppure traumi come l'elaborazione del lutto e della solitudine; i cinque personaggi principali sono cinque sacchi di carne bellocci, per le cui innumerevoli dipartite è molto difficile provare pietà. Più interessante, invece, vedere come verranno uccisi all'interno di un loop temporale e, soprattutto, da cosa, benché nella seconda parte del film la fantasia degli sceneggiatori venga un po' a mancare. Sicuramente, Until Dawn non difetta di ritmo e i realizzatori non si sono dilungati a dismisura, e in una pellicola superficiale come questa sono due punti fondamentali per una buona riuscita. 


Altro elemento fondamentale, sono gli effetti speciali. Until Dawn è splatterosissimo, godurioso all'ennesima potenza. Continuo a ritenere The Monkey superiore, da questo punto di vista, ma sono felicissima del fatto che Sandberg abbia insistito per usare, quanto più possibile, effetti speciali artigianali. Lo so che già solo col discorso iniziale mi sono trasformata in una boomer fatta e finita, ma le soluzioni artigianali hanno tutto un altro sapore, risultano reali, fisiche, e lo stesso vale per il trucco prostetico, il buon vecchio make up, il lattice che esplode in mille pezzi, quello che volete, ma evitiamo, per cortesia, la CGI invasiva e non indispensabile. Sandberg è un patito dell'horror e si vede, perché Until Dawn è un crogiolo di citazioni non solo di classici famosi come The Descent, Nightmare, Venerdì 13 e La casa, ma anche delle trashissime case apocrife italiane; sarebbe bastata solo una messinscena un po' più lurida, degli attori meno perfetti e un pizzico di locura aggiuntiva, per realizzare un'opera davvero disturbante. Purtroppo (e torniamo al discorso iniziale della boomer), non ci sono più i tempi né il pubblico per realizzare un prodotto commerciale zeppo di trashate anni '80, e mi devo quindi accontentare di un Peter Stormare evolutosi in Enrico Beruschi, per rievocare l'infanzia. Scherzi a parte, sono stata molto contenta di rivedere uno dei miei caratteristi preferiti, ma sarei rimasta molto meno sorpresa se avessi saputo che Stormare ha partecipato anche al videogioco di Until Dawn, sempre come Dr Hill, anche se pare siano due personaggi diversi. Non credo basterà questo o il film per convincermi a giocare ad Until Dawn, che pur mi sembra un'opera molto interessante e, soprattutto, inquietante, ma non si sa mai nella vita. Per quanto riguarda l'Until Dawn cinematografico, ho visto di meglio, ho visto di peggio, ma se non altro mi sono divertita senza rimpiangere i soldi del biglietto, quindi mi sento di promuoverlo. 


Del regista David F. Sandberg ho già parlato QUI mentre Peter Stormare, che interpreta il Dr. Hill, lo trovate QUA.


Ella Rubin
, che interpreta Clover, è tra i protagonisti dell'imminente e attesissimo Fear Street: Prom Queen, mentre Michael Cimino, che interpreta Max, aveva partecipato ad Annabelle 3, un altro film diretto e sceneggiato dallo sceneggiatore di Until Dawn, Gary Dauberman. Odessa A'Zion (Nina), invece, è stata la protagonista dell'ultimo Hellraiser. Se Until Dawn vi fosse piaciuto, recuperate La casa, La casa 2 e Quella casa nel bosco. ENJOY!

mercoledì 30 aprile 2025

2025 Horror Challenge: Il ritorno dei morti viventi (1985)

Per questa settimana, la challenge di Letterboxd chiedeva un film uscito nel 1985, quindi ho scelto Il ritorno dei morti viventi (The Return of the Living Dead), diretto e co-sceneggiato proprio in quell'anno dal regista Dan O'Bannon.


Trama: due dipendenti di un'azienda di attrezzature mediche rilasciano nell'aria, per errore, un gas in grado di far resuscitare i morti...


Vi siete mai chiesti cosa sia successo dopo quel che ci ha raccontato Romero ne La notte dei morti viventi (lasciate perdere Zombi e Il giorno degli zombi, uscito peraltro lo stesso anno de Il ritorno dei morti viventi!)? Ma, soprattutto, sapevate che Romero ha raccontato una storia vera, con qualche piccolo cambiamento impostogli per non finire in galera? Altro che mistero, la resurrezione dei morti viventi romeriana è stata causata da un pericolosissimo gas sviluppato dall'esercito americano, e Dan O'Bannon e soci, spergiurando che "tutto ciò che viene mostrato nel film è una storia vera" vi raccontano che fine ha fatto il gas in questione e come ha portato al ritorno dell'orrore in una sonnacchiosa cittadina del Kentucky. Non c'è niente di particolarmente politico o né alcun cenno di critica sociale nella pellicola di O'Bannon, salvo per un giusto dito accusatore verso il menefreghismo de "la polizia di Dallas" (sto leggendo I Tommyknockers, la definizione arriva da lì) o l'esercito degli Stati Uniti o i servizi segreti, chiamateli un po' come volete, che non si fermano davanti a niente e nessuno pur di nascondere i loro errori. No, quello di O'Bannon è il tipico, divertente film anni '80 a base di adolescenti punkabbestia ed effetti speciali artigianali, che ha il merito di avere introdotto il cliché per cui gli zombi amano nutrirsi di cervelli (il film spiega persino perché!). In tutta onestà, Il ritorno dei morti viventi infila in mezzo al divertimento anche una buona dose di pessimismo e ineluttabilità; inizia come una commedia demenziale, tratta l'elemento horror con la leggerezza che merita, ma non è tenero con i suoi protagonisti e tutto ciò che succede dal momento in cui Frank e Freddy vengono segregati nella cappella dell'obitorio è, anzi, piuttosto tragico. Il finale è la ciliegina sulla torta di tanto pessimismo, oltre ad essere ottimo per aprire la possibilità a una serie di seguiti che, a partire dal 1988, sarebbero diventati ben quattro.


Il ritorno dei morti viventi
è un film perfetto per chi si lamenta delle pellicole lente, troppo ragionate o impegnate. L'azione, infatti, comincia fin dal primo minuto e i personaggi non perdono tempo in riflessioni relative al problema "zombi", perché tutte le (inutili) tecniche di sopravvivenza o distruzione della minaccia le hanno imparate già nei film; il problema, semmai, è che i morti viventi di O'Bannon non solo parlano, ma sono molto più veloci di quelli di Romero, poiché, se interi, corrono come esseri umani, con ovvie conseguenze. Nei tempi "morti" (battutaccia) gli sceneggiatori e il regista ricorrono a dialoghi esilaranti, a spogliarelli di Linnea Quigley e a pezzacci punk contenuti all'interno di una colonna sonora martellante. Non c'è dunque da annoiarsi nemmeno per un secondo, e, per chi apprezza gli effetti speciali dell'epoca, c'è da dire che il sembiante dei morti viventi è un ottimo mix di elementi repellenti, soprattutto per quel che riguarda il "tarman" del sotterraneo, e quasi cartooneschi, tra occhioni perfettamente integri e giganteschi dentoni in grado di azzannare teste inghiottendone la calotta cranica in un sol boccone. Apprezzabilissimi anche gli attori, tutti dotati o di abiti anni '80 di inaudita cafoneria, nel caso degli amici di Freddy, oppure di bellissime facce da caratteristi in grado di bucare lo schermo; il migliore, per quanto mi riguarda, è il teutonico Ernie, incredibile mix di rifugiato nazista e mafioso italoamericano che, nonostante le premesse, è anche uno dei personaggi più umani di tutto il film. La cosa più incredibile de Il ritorno dei morti viventi, però, è che io non lo avevo mai visto, in barba al suo essere perfetto per Notte horror; o lo hanno programmato negli anni in cui non avevo il permesso di guardare la rassegna, o non mi spiego come mai non mi sia mai capitato sotto mano. L'importante è rimediare, perché è una pellicola che merita davvero!


Di Clu Gulager, che interpreta Burt, ho già parlato QUI.

Dan O'Bannon è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Americano, ha diretto anche il film The Resurrected. Anche attore, è morto nel 2009.


Linnea Quigley
interpreta Trash. Americana, ha partecipato a film come Natale di sangue, Sbirri oltre la vita, Nightmare 4 - Il non risveglio e Amore all'ultimo morso. Anche produttrice, ha 67 anni e un film in uscita.


Il film avrebbe dovuto essere diretto, in 3D, da Tobe Hooper. James Karen, che interpreta Frank (ruolo che sarebbe andato allo stesso Dan O'Bannon, se quest'ultimo non fosse rimasto folgorato dal provino dell'attore), e Thom Mathews, che interpreta Freddy, hanno partecipato con ruoli diversi anche a Il ritorno dei morti viventi 2. Il ruolo di Burt era stato inizialmente offerto a Leslie Nielsen, che però voleva troppi soldi. Quindi la richiesta è passata a Robert Webber, disgustato dallo script, quindi allo sceriffo Frank de I Gremlins, l'attore Scott Brady, purtroppo molto malato (sarebbe morto l'anno dopo la produzione del film). Clu Gulager, alla fine, ha accettato il ruolo il giorno prima dell'inizio delle riprese. Il ritorno dei morti viventi ha dato vita ai sequel Il ritorno dei morti viventi 2, Il ritorno dei morti viventi 3, Return of the Living Dead: Necropolis e Return of the Living Dead: Rave to the Grave; a fine anno dovrebbe uscire un remake diretto dal regista Steve Wolsh (Imdb lo da ancora in pre-produzione, quindi campa cavallo) ed è anche in progetto un altro seguito dal titolo Trash's Revenge: Return of the Living Dead Universe, avente per protagonista proprio Linnea Quigley. Nell'attesa, se Il ritorno dei morti viventi vi fosse piaciuto, recuperate i seguiti già usciti e aggiungete le pellicole a tema "zombi" di Romero. ENJOY!

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