mercoledì 31 gennaio 2024

Megan Is Missing (2011)

La challenge HorrorX24 di Letterboxd continua col secondo prompt, Lowest rated horror film on your watchlist. Onestamente, non so nemmeno perché ci fosse finito sulla watchlist ma, tant'è, il titolo di oggi è Megan is Missing, diretto e sceneggiato nel 2011 dal regista Michael Goi.


Trama: Megan è la ragazza più popolare del liceo ma, nonostante questo, la sua migliore amica è una ragazzina evitata da tutti, Amy. Dopo avere conosciuto un ragazzo online, Megan scompare senza lasciare traccia...


Prima di iniziare col post, mi preme segnalare che il meraviglioso podcast Nuovi incubi, di Lucia e Marika, aveva già parlato di Megan is Missing QUI. Non ho ancora ascoltato l'episodio, perché verteva su due film che non avevo visto, ma conto di farlo per scoprire se le opinioni espresse nel corso della puntata rispecchiano le mie. Intanto, prima di affrontare il soggetto, prendo tempo per raccontarvi un po' il motivo per cui un mockumentary fatto con due dollari come Megan is Missing sia assurto agli onori della cronaca dopo dieci anni dalla sua uscita. Il "merito" è del social TikTok, che a un certo punto (probabilmente perché, durante i vari lockdown, i ragazzini si sono messi a raschiare il fondo del barile dello streaming horror) si è riempito di video reaction di utenti terrorizzati e pronti a consacrare il film come il più terrificante di sempre, cosa che ha spinto il regista a scrivere questo trigger warning per giovani utenti che vi traduco a braccio: "Non guardate il film di notte. Non guardatelo da soli. Quando vedrete comparire sullo schermo le parole 'foto numero uno' avete circa quattro secondi per spegnere la riproduzione prima di assistere a cose che magari non volete vedere, soprattutto se siete già spaventati". Io non sono giovane, né mi spavento più così facilmente, ma vi assicuro che quella foto numero uno me la ricorderò finché campo. Attenzione, però, a non confondere fastidio, disgusto ed ansia con "paura": Megan is Missing non lascia quella sensazione di terrore in grado di spingere lo spettatore ad accendere tutte le luci, quanto piuttosto dubbi sulla sanità mentale di Michael Goi il quale, nel tentativo dichiarato di realizzare un'opera che mettesse in guardia i genitori di figli adolescenti dai pericoli del web, ha girato un torture porn con protagoniste minorenni talmente connotate sessualmente che uno dei tanti, lunghissimi dialoghi "pre-foto" racconta nel dettaglio (e con dovizia di risolini stupiti, ma anche stupidi) lo stupro orale ai danni di una bambina di dieci anni. Tranquilli, prendetevi pure il tempo di rileggere la riga precedente, non ho fretta. Ho 42 anni, capisco che il mondo sessuale dei teen e pre-teen è LEGGERMENTE cambiato rispetto a quando facevo le medie e le superiori io, conosco la leggenda metropolitana (? uno ci spera...) delle gare di "chinotti" in bagno, arrivo persino a capire l'intento disperato di connotare Megan come una ragazza persa a causa di una situazione familiare terrificante, ma si può anche giocare di sottigliezza senza imperniare ogni sequenza del film sul fatto che Megan, a 14 anni, dà via ogni orifizio come il pane. 


Quando non è impegnata a regalarla ai suoi "amici" in cambio di un po' di droga, Megan cerca l'amore vero on line (!!), ed è qui che Megan is Missing dovrebbe trasformarsi in cinema educativo per i genitori, così da spingerli a controllare il comportamento dei propri figli su internet. Il fallimento dell'intento è dato, in primis ma non solo, dalla natura imbarazzante dell'espediente narrativo, che vede Megan accettare l'incontro con un ragazzo mai visto prima dopo solo un paio di conversazioni a telecamera spenta (durante le quali, per inciso, "Josh" si contraddice tante di quelle volte che la puzza di marcio avrebbe dovuto prendere a schiaffi la ragazzetta dallo schermo del PC) e, come da titolo, sparire. In seconda, ma non ultima, istanza, c'è la dubbia efficacia del torture porn come mezzo "educativo". Dopo la sparizione di Megan, infatti, il film diventa davvero un horror e va a punire la povera co-protagonista, rea "soltanto" di essere scema come un tacco e di girare da sola per i boschi dopo essere stata minacciata dal fantomatico Josh; Michael Goi azzecca soltanto UNA sequenza, quella in cui Josh spia Amy di nascosto, dopodiché confeziona scene talmente fastidiose che, al confronto, il coniglio spellato di Antropophagus è un elegante guizzo andersoniano, indugiando per un tempo lunghissimo sul primo piano di una ragazzina stuprata e per un tempo ancora più lungo su suppliche ed urla sovrapposte alla ripresa in tempo reale di uno stronzo che scava una buca. A ripensarci, non so davvero come ho fatto ad arrivare alla fine di Megan is Missing visto l'orrore che permea gli ultimi venti minuti, ma non perché il film sia fatto male o recitato da dilettanti, quanto piuttosto per la gioia spudorata di sbattere in faccia allo spettatore una roba pornografica facendola passare per altro. Non c'è nulla, in Megan is Missing, che faccia riflettere lo spettatore (sì, ok, il cautionary tale. Sì, nel 2011 magari si era tutti più ingenui. Ma, ripeto, c'è modo e modo), niente di catartico, niente di divertente, c'è solo il compiacimento di scioccare prendendo come spunto storie di cronaca "vera" con vittime minorenni e io, sarò invecchiata, ma certe cose non le tollero più. Fatevi il favore ed evitate questo film abietto.  

Michael Goi
è il regista e sceneggiatore della pellicola. Americano, ha diretto episodi di serie come American Horror Story, The Gifted, Streghe e Le terrificanti avventure di Sabrina. Anche direttore della fotografia, produttore e attore, ha 65 anni.


Se il film vi fosse piaciuto recuperate Ratter - Ossessione in rete e The Den. ENJOY! 

martedì 30 gennaio 2024

Il cacciatore (1978)

Grazie alla riedizione in 4K distribuita da Lucky Red per tre giorni, lunedì scorso sono andata al cinema a vedere Il cacciatore (The Deer Hunter), diretto e co-sceneggiato dal regista Michael Cimino nel 1978.

Trama: tre amici di lunga data partono per il Vietnam, un'esperienza che lascerà tremendi segni sul loro corpo e, soprattutto, nella loro psiche...


Il cacciatore
è una di quelle opere imprescindibili che avevo scoperto all'università, quando il mio amore per il cinema era in pieno boccio e una marea di tempo libero mi consentiva non solo di guardare film ma anche, e soprattutto, di leggere libri a tema (cosa a cui ho dovuto rinunciare da tempo, col risultato di diventare sempre più ignorante in materia). Siccome, da quando ho cominciato a lavorare, tendo a guardare principalmente cose per me inedite, erano quasi 20 anni che non "rinfrescavo" più Il cacciatore, quindi la visione al cinema è stata ancora più soddisfacente, perché ne ricordavo giusto le scene clou, senza troppi dettagli. Nonostante i suoi 45 anni, il film di Cimino continua a colpire duro e si conferma come una delle pellicole più angoscianti a tema Vietnam, non solo per la lunga, famigerata sequenza delle violenze al fronte, ma soprattutto per quello che viene mostrato prima e dopo. Il film si apre con uno spaccato della quotidianità di una cittadina industriale, e si concentra su alcuni esponenti della comunità russo-americana locale; Steven sta per sposare Angela e sia lui che i suoi due amici fraterni, Mike e Nick, partiranno per il Vietnam subito dopo il matrimonio. La prima parte de Il cacciatore insiste sul legame tra i protagonisti, i loro amici, i loro amori e le loro famiglie, ci travolge con l'allegra frenesia del matrimonio, ci rende spettatori privilegiati del cameratismo che governa le loro uscite di caccia, con piccoli dettagli ci rende partecipi di tutte le inevitabili stonature che esistono anche nelle amicizie storiche e, soprattutto, nelle comunità in cui tutti si conoscono ma ognuno ha i suoi segreti. Tutto ciò viene cancellato con un colpo di spugna dalle terribili, stranianti esperienze vissute in Vietnam, un inferno sulla terra da dove nessuno può uscire indenne. La parentesi vietnamita è un'ordalia di angoscia continua, dove la tensione si taglia col coltello e il magone è sempre lì, pronto a trasformarsi in pianto; quest'ultima sensazione è quella preponderante nella parte finale de Il cacciatore, dove il desiderio di tornare alla vita quotidiana si trasforma in senso di colpa e di inadeguatezza, alimentati dall'inevitabile consapevolezza di essere diversi da chi è rimasto a casa, lontano dalla guerra.


Mike, Nick e Steven sono rimasti bloccati all'interno di una bolla dove il tempo si è fermato, concretizzandosi in una dimensione allucinata di continuo dolore, completamente staccata da qualsiasi idea di vita normale. Dimenticare tutto e tornare ad esistere come se nulla fosse successo è tremendamente difficile, per alcuni addirittura impossibile, ed è arduo rimanere accanto a chi, benché mosso dalle migliori intenzioni, cerca di mantenere l'illusione che nulla sia cambiato. Persino Mike, il più "forte" dei tre soldati nonché protagonista della pellicola, vive il ritorno a casa come un purgatorio dove scontare la colpa di essere sopravvissuto e anela la solitudine dei boschi, l'unico luogo dove il silenzio e la purezza la fanno da padroni; il sonoro e la regia de Il cacciatore aiutano ad empatizzare con queste sensazioni, in quanto i personaggi, soprattutto Mike, sono sempre inghiottiti da folle e piani americani o primi piani claustrofobici, circondati da un rumore continuo e assordante, una cacofonia di suoni e persone che si parlano addosso, sia in Vietnam che a casa, ed è solo nel silenzio e nelle ariose riprese della foresta montana che ci si può riposare dall'estenuante esperienza che è la visione del film. Non so se è il senno di poi che parla, o se la pellicola sia stata volutamente costruita così, ma anche le scene iniziali mi hanno messo angoscia. Al di là di un'introduzione in cui l'acciaieria dove lavora Mike sembra la fucina dell'inferno e in cui le panoramiche di strade semideserte e baracche assortite mettono una tristezza infinita, lo stesso matrimonio è talmente "larger than life", così carico di balli forsennati, gente ubriaca e urla di giubilo, che sembra il tentativo disperato di vivere il più possibile prima di una morte inevitabile, andando anche contro ogni buon senso (Steven sposa una donna già incinta di un altro, probabilmente per non lasciarla nella "vergogna" visto che ne è innamorato, ma che senso ha visto che non ha alcuna certezza di tornare vivo dal Vietnam?).


Come sempre, inoltre, a me fa angoscia la perdita della giovinezza, ma questo è un valore aggiunto che vent'anni fa non percepivo. Tolto che gli interpreti sono tutti bravissimi (Christopher Walken ha vinto l'Oscar come Miglior attore non protagonista, il quinto assieme a quello per Miglior film, Miglior regia, Miglior montaggio e Migliore sonoro, ma erano candidati anche De Niro e la Streep), mi fa proprio effetto vederli giovani e bellissimi, impegnati una performance tra le migliori e più difficili della loro carriera. De Niro è un mostro di bravura, ed è nel pieno della sua maturità artistica, perfetto nell'interpretazione di una salda roccia sul punto di sgretolarsi, ma il cuore dello spettatore non può non volare a Christopher Walken. La bellezza androgina di Nick, con quegli assurdi occhi che sembrano volere inghiottire interlocutori e spettatori all'interno di un dolore sconfinato, nella seconda parte del film diventa la fredda riproposizione di un'umanità assente, di una mente spezzata dopo un pianto sconsolato di puro orrore, e questo aspetto, più di ogni altro, mi annienta ogni volta che vedo Il cacciatore. Per carità, mi distrugge anche il sorriso buono di George Dzundza, e la sua aria malinconica durante quella sonata al pianoforte che spezzerebbe il cuore a un sasso, ma mai quanto la crisi di pianto in cucina, durante la quale mi sono messa a piangere anche io, in sala, senza vergogna. Il cacciatore si riconferma, dunque, splendido oggi come allora e pazienza se ancora non ho capito come prendere quel God bless America, se un ultimo, disperato tentativo di consolarsi e fingere normalità, o una sentita dichiarazione d'amore verso una patria che manda a morire i propri giovani in un conflitto inutile. Se qualcuno potesse illuminarmi, gliene sarei infinitamente grato!


Di Robert De Niro (Michael), Christopher Walken (Nick) e Meryl Streep (Linda) ho già parlato ai rispettivi link. 

Michael Cimino è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Americano, ha diretto film come I cancelli del cielo e L'anno del dragone. Anche produttore, è morto nel 2016, all'età di 77 anni. 


Quello di Stan è stato l'ultimo ruolo di John Cazale, famoso per avere interpretato Fredo Corleone nei primi due film della saga Il padrino e morto di cancro ai polmoni l'anno dell'uscita de Il cacciatore. Se il film vi fosse piaciuto recuperate Full Metal Jacket e Apocalypse Now. ENJOY!


venerdì 26 gennaio 2024

Destroy All Neighbors (2024)

Potevo ignorare il primo Shudder original del 2024? Visto che mi sarebbe valso anche per la challenge horror direi di no, infatti ho recuperato appena possibile Destroy All Neighbors, diretto dal regista Josh Forbes.

Trama: William, da anni, culla il sogno irrealizzato di portare a termine il suo album rock prog. Le possibilità si fanno ancora più ridotte quando, nell'appartamento accanto, si trasferisce il peggiore vicino di sempre...


Destroy All Neighbors è una commedia horror fracassona, più divertente che spaventosa, che ricorda un po' gli esordi di Peter Jackson, pur senza averne la rozza cattiveria, e ha i colori di una pellicola di Joe Begos. La trama non è proprio originalissima, e potrei citare almeno mezza dozzina di film recenti (Studio 666 in primis) che partono da un presupposto simile, ovvero la presenza di un musicista fallito o comunque in difficoltà, e la mano "empia" di qualcosa che lo aiuta a sbloccarsi, nel bene o nel male. Qui abbiamo William, fonico che ama la musica prog e vorrebbe incidere l'album definitivo; in realtà, sono tre anni che ci prova e, tra una registrazione e l'altra, nemmeno si rende conto della pazienza infinita di una fidanzata che sopporta la sua frustrazione continua e il suo arrabattarsi tra lavoretti insoddisfacenti. A sbloccare la situazione ci pensa Vlad, disgustoso simil-troll proveniente dall'Europa dell'Est che, nel momento esatto del suo trasferimento nell'appartamento accanto, diventa la nemesi di William, disturbato dalla musica dance che il nuovo arrivato spara a tutto volume. Per una serie di casualità, William rimane coinvolto nella morte di Vlad, ma il cadavere di quest'ultimo non ha molta voglia di rimanere zitto e, nel giro di pochissimo, il protagonista si ritrova perseguitato da un ben strano "Grillo Parlante", accompagnato da un discreto carico di sfiga e sangue come se piovesse. Cosa c'entra tutto questo con la prog e con la carriera da musicista di William lo scoprirete solo se guarderete il film, ma posso dirvi che Destroy All Neighbors, oltre ad essere molto divertente, offre allo spettatore anche un messaggio positivo, invitandolo a non focalizzarsi esclusivamente su obiettivi mancati e frustrazione, bensì ad aprirsi a quanto di buono (a livello di empatia, conoscenza ed esperienze) può venire da compagni, amici e vicini.


Certo, il messaggio positivo è sicuramente ciò che interessava di meno a Josh Forbes e soci, che hanno imbastito una roba ignorante e fracassona, il cui valore aggiunto è l'affiatamento di un cast che vede coinvolti soprattutto comici (che io non conoscevo, ma faccio poco testo), a partire dal protagonista. Jonah Ray ha la faccina perfetta per interpretare il 30something clueless con un piede nel baratro della follia o della disperazione e, nonostante sia il protagonista, funge da ottima spalla per tutti gli allucinanti personaggi che gli vengono affiancati, vicini non poi così terribili che nascondono più di una sorpresa e danno il bianco nella sequenza in sala di registrazione. L'altro valore aggiunto è la natura squisitamente artigianale degli effetti speciali utilizzati, che vedono un veterano quale Gabriel Bartalos (uno che ha lavorato con Raimi, Henenlotter e Gordon non può essere preso sotto gamba!) come make-up designer. In effetti, i cadaveri che pullulano nel film hanno un design così familiare da risultare deliziosamente nostalgico, sono dei pupazzoni schifosetti ma belli da vedere, e c'è una scena in particolare che è il trionfo del trash metal anni '80, tra bassi che sparano arcobaleni e demoni appiccicati allo sfondo con lo sputo. Completa il tutto una regia ispirata, con movimenti di macchina ed inquadrature che mirano a trasmettere una sensazione di caos e claustrofobia continue, e una fotografia fatta di colori acidi e ombre minacciose. Non il miglior Shudder original, ma un prodotto simpatico e "rilassante" per cominciare l'anno in allegria, nell'attesa di qualcosa di più succoso!


Del regista Josh Forbes ho già parlato QUI mentre Kumail Nanjiani, che interpreta la guardia dell'acciaieria, lo trovate QUA.

Jonah Ray interpreta William Brown. Americano, ha partecipato a film come Weird: The Al Yankovich Story, Christmas Bloody Christmas, Suitable Flesh e serie come Stan against Evil; come doppiatore, ha lavorato in Adventure Time e Uncle Grandpa. Anche sceneggiatore, regista e produttore, ha 42 anni e un film in uscita. 


Alex Winter interpreta Vlad. Inglese, principalmente regista, ha partecipato a film come Ragazzi perduti, Il giustiziere della notte 3, Bill & Ted's Excellent Adventure, Freaked - Sgorbi, I rubacchiotti, Il ricatto e a serie quali Bones; come doppiatore ha lavorato in Robot Chicken. Anche produttore e sceneggiatore, ha 59 anni e un film in uscita. 



martedì 23 gennaio 2024

The Holdovers - Lezioni di vita (2023)

Al momento della stesura del post non ho idea se The Holdovers - Lezioni di vita (The Holdovers), diretto nel 2023 dal regista Alexander Payne, sarà candidato a qualche Oscar, ma siccome è fresco di due Golden Globe non potevo comunque perderlo!


Trama: all'inizio delle vacanze di Natale, in un collegio del New England, il professor Hunham è costretto a fare da tutore ai pochi ragazzi che non sono tornati a casa per festeggiare con le famiglie. L'esperienza sarà traumatica ma utile per tutti i coinvolti...


The Holdovers
era un film che avevo già puntato durante il paio di giorni passati al Torino Film Festival, ma purtroppo non ero riuscita a vederlo a causa degli orari. Sono contentissima di sapere che il mio istinto non ha ancora cominciato a fare cilecca, e anche di avere assistito, per una volta, al miracolo di una programmazione illuminata del multisala savonese. The Holdovers è, infatti, uno di quei film "come facevano una volta", e non parlo solo dello stile, di cui scriverò più avanti; all'interno della pellicola di Payne sono importanti i personaggi, i loro sentimenti ed evoluzione, e la trama non viene sacrificata ad una fredda soggettività che vede l'Autore preponderante rispetto a ciò che viene narrato, come troppo spesso accade in certo cinema moderno. L'azione si svolge nel 1970, a cavallo delle festività natalizie, in un prestigioso collegio maschile del New England. Il periodo storico è importante, perché lo spettro della guerra del Vietnam e dell'arruolamento nell'esercito è una costante minaccia sul capo degli studenti idonei al servizio militare, e la possibilità di frequentare il college (soprattutto grazie ai soldi di genitori abbienti) è l'unico modo di proteggersi da un destino potenzialmente mortifero. Queste considerazioni non sfuggono al professor Paul Hunham, ciò nonostante il suo modus operandi è improntato su una severità portata agli eccessi, alimentata da un naturale disprezzo (ricambiato, ça va sans dire) verso gli ignoranti ragazzetti figli di papà a cui deve badare quotidianamente, e nemmeno lo spirito natalizio riesce a scalfire il suo carattere intransigente; quando, per una serie di circostanze, Hunham è costretto a rimanere in collegio assieme ai pochi sfortunati impossibilitati a passare le vacanze con le loro famiglie, l'esperienza si prefigura come un incubo, soprattutto per chi proprio non si aspettava di venire lasciato solo a Natale, come il pluriripetente Angus. Partendo da questo presupposto, The Holdovers tratteggia con delicatezza la difficile convivenza tra tre persone di estrazione sociale assai diversa, accomunate da esperienze dolorose che ne hanno segnato il passato e definito il presente. Lo fa senza pietismo, anche se le tragedie che hanno toccato Angus e la cuoca Mary farebbero piangere un sasso, perché "Crying never did nobody no good", come insegna la canzone portante del film (Crying, Laughing, Loving, Lying di Labi Siffre, punta di diamante di una colonna sonora bellissima). I protagonisti di The Holdovers ci provano a non piangere, trincerandosi dietro un egoismo "autoconservativo" che sicuramente consente loro di andare avanti e sopravvivere, ma li priva dell'empatia necessaria per osservare gli altri senza pregiudizi, e il film racconta proprio il loro lento, progressivo e complicato percorso di avvicinamento, conoscenza e conseguente crescita. 


In questo romanzo di formazione senza limiti generazionali, la parte del leone la fanno inevitabilmente gli interpreti. Voi non avete idea di quanto mi abbia resa felice rivedere nel ruolo di protagonista Paul Giamatti, feticcio del cinema indipendente di inizio millennio e ridotto ultimamente a particine in film insulsi. Il suo Paul Hunham ha tutti i difetti del mondo, fisici e caratteriali, è l'essere più respingente del pianeta, eppure è un personaggio adorabile, il cui eloquio forbito unito ad una spietatezza incomparabile mi ha strappato più volte risate di sincero e gioioso entusiasmo. Una performance come quella di Giamatti aveva tutte le carte in regola per mettere in ombra quelle degli altri interpreti, invece sia l'esordiente Dominic Sessa che Da'Vine Joy Randolph riescono a tenergli testa senza problemi, arricchendo di rimando il personaggio di Hunham di nuove sfumature e creando figure tridimensionali indimenticabili. In particolare, stupisce Dominic Sessa per il modo in cui riesce a gestire Angus, conferendo ad un potenziale "galletto" figlio di papà un'enorme fragilità percepibile nello sguardo e negli atteggiamenti, non solo nelle sequenze più tristi, ma anche in quelle dove il confine tra commedia e tragedia è talmente labile da risultare impercettibile. The Holdovers è dunque, principalmente, un successo di sceneggiatura e attori, ma la regia di Alexander Payne conferisce un necessario tocco di malinconia nostalgica che non si limita ad essere un mero omaggio alle pellicole anni '70; la fotografia "invecchiata", la sensazione di freddi mesi invernali e calore natalizio filtrata dalla percezione di chi, essendo giovane, ne avrà per sempre un ricordo indelebile (magari catturandola in fotografie o video d'epoca), quel geniale effetto speciale per cui una caratteristica del volto di Giamatti cambia da una scena all'altra perché Angus non è interessato a guardare con attenzione Hunham, la colonna sonora, la perfetta gestione del ritmo e dei registri della vicenda sono tutte conferme della bravura di un regista che non ha perso smalto. Insomma, io spero di avervi convinti ad andare al cinema a vedere The Holdovers, l'antipasto perfetto per l'imminentissima Award Season e un potenziale "classico natalizio" da guardare e riguardare!


Di Paul Giamatti, che interpreta Paul Hunham, ho già parlato QUI.

Alexander Payne è il regista della pellicola. Americano, ha diretto film come Election, A proposito di Schmidt, Sideways - In viaggio con Jack e Paradiso amaro. Anche produttore, sceneggiatore e attore, ha 63 anni.


Da'Vine Joy Randolph
interpreta Mary Lamb. Americana, ha partecipato a film come Dolemite Is My Name e Gli Stati Uniti contro Billie Holiday. Ha 38 anni e due film in uscita. 


Il film prende vagamente spunto da Vacanze in collegio, che ha dato a Payne l'idea. Se The Holdovers vi fosse piaciuto potreste recuperarlo e aggiungere L'attimo fuggente, Rushmore e St. Vincent. ENJOY!

venerdì 19 gennaio 2024

Alien (1979)

Mi sono impelagata in una challenge settimanale su Letterboxd (che non so, ovviamente, se riuscirò a mantenere fino a fine anno e che non pubblicherò secondo il calendario, visto che sono già passate due settimane dalla visione del film...) e il primo prompt era "Most popular horror film on your watchlist". La scelta è così caduta su Alien, diretto nel 1979 dal regista Ridley Scott.


Trama: durante il viaggio di ritorno, l'astronave cargo Nostromo riceve un segnale da un altro pianeta. Quello che gli esploratori riportano a bordo è l'inizio di un incubo...


Mi rendo conto ora che la challenge non contemplava rewatch per il primo prompt, quindi mi tocca dichiarare di averla fallita in partenza. Pazienza, erano decenni che non riguardavo Alien e non ne avevo mai parlato sul blog, quindi sono contenta, anche se sarà dura scrivere qualcosa di intelligente che non sia mai stato detto su un riconosciuto capolavoro della fantascienza e dell'horror. Quindi, largo ad impressioni personali e banalità, senza troppi voli pindarici. Alien è il film perfetto per chi, come me, è refrattaria alla fantascienza "cervellotica" e adora l'horror, perché si può tranquillamente riassumere come un creature feature o un home invasion nello spazio, con l'aggiunta di un pizzico di body horror che lo rende ancora più inquietante. La trama, ridotta all'osso, è di una semplicità estrema perché prevede la progressiva morte dei membri dell'equipaggio per mano di una creatura portata a bordo dopo la breve esplorazione di un pianeta ostile e cupo, ma è tutto il "contorno" a contare. Fin dall'inizio, il clima all'interno della Nostromo comunica inquietudine ed incertezza: il viaggio di ritorno dell'equipaggio è stato interrotto dall'intercettazione di una comunicazione misteriosa e, per cause squisitamente contrattuali, gli occupanti dell'astronave sono costretti a fermarsi e indagare. L'impressione inziale che si ha, al di là dell'ovvio scoramento dei personaggi, è che non solo lo spazio esterno sia loro nemico, ma anche la tecnologia interna alla nave, sensazione che viene confermata più avanti nel film. Al di fuori della linda ed asettica sicurezza delle capsule di ipersonno, gli ambienti sono claustrofobici e, sembrerebbe, vetusti, fatti di corridoi male illuminati e sale che danno l'impressione di essere garage o cortili esterni, zeppi come sono di cianfrusaglie impilate e persino danneggiati da una condensa in grado di generare scrosci d'acqua continui. L'unica prova di una tecnologia all'avanguardia è l'esistenza dell'A.I. Mother, ma anche quest'ultima non offre risposta alcuna ai dubbi crescenti del capitano e del suo secondo, anzi, sembra quasi essere andata a scuola da Hal 9000: la vita umana, nello spazio, vale quanto il due di coppe a briscola e può essere facilmente sfruttata, distrutta e rimpiazzata, aggiungendo un ulteriore livello di orrore a quello già incarnato dall'alieno del titolo.


Il facehugger prima e il chestburster poi rappresentano lo schifo primigenio di avere il proprio corpo violato e non potervi porre rimedio, lo xenomorfo nato dal sangue e dalle viscere incarna il terrore di venire cacciati e uccisi da una creatura priva di sentimenti "e per questo perfetta". I risultati, in entrambi i casi, è l'annientamento della vita, forse per questo i protagonisti e unici sopravvissuti sono, rispettivamente, una donna e un gattone. Tra l'altro, Ripley è proprio il personaggio che, per la prima ora, viene messo in ombra dal resto di una ciurma in cui ognuno è dotato di un ruolo archetipico ben definito, con tutto ciò che consegue in termini di sorpresa e coinvolgimento quando quello che si pensava fosse il protagonista viene fatto fuori come gli altri; la stella di Ripley sorge dal nulla, ma quando lo fa non abbiamo occhi che per lei, per la forza che Sigourney Weaver infonde in ogni sguardo, in ogni tentativo di posporre l'ineluttabile maledizione scagliata contro lei e il resto dell'equipaggio da una creatura ancora più deprecabile dell'alieno. Il confronto finale tra la bella, il gatto e la bestia è da antologia, un colpo di coda dopo un piccolo afflato di speranza alla fine di intere mezz'ore passate a non respirare, ed ho sempre amato tantissimo il modo in cui Ripley viene mostrata quasi nuda e quindi ancor più indifesa, mentre indossa biancheria immacolata, costretta ad affrontare una creatura dall'impenetrabile corazza, nera come la pece. E' fin troppo facile immaginare un corpo femminile violato da zanne e denti o, peggio ancora, costretto a dare vita a un altro essere mostruoso, ed è anche per questo che il nostro cuore vola verso la sfortunata fanciulla e continua a tremare anche durante gli scabri titoli di coda, perché come ci si può ancora fidare di una tecnologia che ha causato tanto dolore?


Mi sono riletta un attimo e vedo che ho sproloquiato, ma questo è una specie di diario, non un sito di recensioni serie (che lascio ad altri più esperti di cinema in generale e della saga in particolare), quindi poco importa. Mi preme sottolineare come, nell'anno del Signore 2024, se l'alieno progettato da Giger incute ancora il terrore di Dio e della Madonna (ed è talmente insinuante e pieno di rimandi fallici che non starei nemmeno qui a parlarne, visto che lo fanno tutti), ciò che spezza di più il cuore è vedere quella tavolata iniziale zeppa di talento attoriale, ad oggi decimata. Harry Dean Stanton, John Hurt, Ian Holm e Yaphet Kotto hanno tutti lasciato questo mondo, e vederli lì, giovani e forti, impegnati in ruoli e sequenze talmente iconici da lasciare un segno nella storia del cinema, porta anche i più aperti di mente a diventare vecchi dentro e scuotere la testa al grido di "non ci sono più i film/gli attori di una volta". Scott lo dovrebbe sapere, visto che non comprendo come lo stesso regista di Alien possa avere realizzato una palla pretenziosa e cringe come Napoleon, ma ringraziamo che, all'epoca, avesse talento da vendere e tanta voglia di sperimentare. Alien, infatti, è un miracolo di regia, montaggio, scenografie, colonna sonora ed effetti speciali, un capolavoro che ha generato troppi emuli mediocri e che non bisognerebbe rivedere solo una volta ogni dieci anni, come ho fatto io (a rischio di dimenticare dettagli fondamentali. Ma questo si chiama Alzheimer, mi sa), ma dedicargli almeno un omaggio all'anno. Un buon proposito da mantenere per il futuro!


Del regista Ridley Scott ho già parlato QUI. Tom Skerritt (Dallas), Sigourney Weaver (Ripley), Veronica Cartwright (Lambert), Harry Dean Stanton (Brett), John Hurt (Kane), Ian Holm (Ash), Yaphet Kotto (Parker) li trovate invece ai rispettivi link.


Per il ruolo di Ripley, la scelta era tra Sigourney Weaver e Meryl Streep, ma quest'ultima, all'epoca, era in lutto per la morte del compagno John Cazale; Harrison Ford ha invece rifiutato il ruolo di Dallas. La saga di Alien è proseguita con Aliens - Scontro finale, Alien 3, Alien - La clonazione, Prometheus, Alien: Covenant e l'aggiunta degli spin-off Alien vs Predator e Aliens vs. Predator 2. Se il genere vi piace, recuperateli tutti! ENJOY!

mercoledì 17 gennaio 2024

Wish (2023)

Me la sono presa con molta calma, ma la settimana scorsa sono andata a vedere Wish, diretto e co-sceneggiato nel 2023 dai registi Chris Buck e Fawn Veerasunthorn.


Trama: nel regno di Rosas, la giovane Asha vuole diventare apprendista di Magnifico, re e potentissimo mago che custodisce i desideri dei sudditi e, di tanto in tanto, ne esaudisce alcuni. Durante il colloquio col sovrano, tuttavia, Asha scopre cosa si nasconde dietro la sua volontà di proteggere i desideri...


Wish è il cartone animato che la Disney ha distribuito per festeggiare i suoi 100 anni e, come potete immaginare, è un'opera celebrativa, che avrebbe dovuto racchiudere in sé tutti valori della Casa del Topo. Uso il condizionale perché non è un film granché riuscito e, invece che una celebrazione, mi è sembrata una banalizzazione del concetto di "desiderio" inteso come ciò che riempie i cuori delle persone e le spinge a fare del loro meglio, non solo per loro e per il presente, ma soprattutto per gli altri e per il futuro; di più, è la drammatizzazione della canzone When You Wish Upon a Star (diventata, nel tempo, la "sigla" della Disney), con una stella che si fa personaggio dotato del potere di esaudire i desideri di una protagonista col cuore al posto giusto, colma d'amore per la famiglia, i suoi amici e il suo Paese. Una marchetta, insomma, troppo breve per approfondire certi concetti e vittima, per questo, di un po' di superficialità a livello di caratterizzazioni e trama. Asha, tanto quanto, è una protagonista coraggiosa e ribelle (benché la sua ribellione sia talmente subitanea che il suo tormento dura giusto il tempo di una canzone), mentre il villain sarebbe anche dotato di una storia appena abbozzata che gli darebbe ben più motivazioni e la speranza di una redenzione, ma purtroppo è stato designato come il primo antagonista veramente "cattivo" dai tempi di Rapunzel, quindi la cosa è caduta nel dimenticatoio dopo un quarto d'ora. Tutto questo, unito alla ferrea volontà di inserire numeri musicali e personaggi secondari che riprendessero ed omaggiassero la sessantina di "classici" che hanno preceduto Wish (sacrificando, a mio avviso, parte della bellezza del character design e risultando talvolta forzati), fa del cartone animato un'opera facilona e per buona parte prevedibile, che emoziona nel corso della visione perché riesce a toccare tutti i tasti giusti ma, di fatto, viene condannata all'oblio dopo qualche giorno.


E' un peccato, perché a livello visivo Wish è un capolavoro. Gli animatori hanno cercato di unire le moderne animazioni in CGI a degli spettacolari sfondi ad acquerello, dove le linee che tracciano architetture e personaggi sono perfettamente evidenti, e l'effetto è quello di avere figure che danzano su un foglio di carta acquerello 100% cotone, con la stessa grana delicata e le stesse sfumature. Oltretutto, le immagini hanno un rapporto d'aspetto molto ampio, e guardando Wish, si ha l'impressione che le illustrazioni di una fiaba "esplodano" sullo schermo avvolgendo lo spettatore, con un effetto nostalgia richiamato anche dal ritorno del "verde villain" e da tantissimi elementi (abiti, colori, dettagli nelle architetture, movimenti o espressioni dei personaggi) che parlano, a livello inconscio, ai ricordi più remoti e fanciulleschi del pubblico. Per quanto riguarda la colonna sonora, importantissima perché i numeri musicali di Wish sono parecchi, non l'ho trovata memorabile né troppo originale (la canzone iniziale, Venite a Rosas, mi ha ricordato tantissimo l'introduzione di Encanto, tanto che pensavo ci fosse la mano di Lin-Manuel Miranda e Germaine Franco anche qui!) ma mi sono piaciute molto la canzone "portante" Un sogno splende in me e quella del vanesio Magnifico, Il grazie dov'è?. Per finire, voto dieci al delizioso "stellino" che funge da potente mascotte dell'intero film, che sembra uscito da un'opera dello Studio Ghibli, e un BAH! grosso come una casa per la carinissima ma insopportabile capretta Valentino, già odiosa di suo e peggiorata dall'utilizzo di Amadeus come doppiatore, che vince il podio dell'animale più antipatico mai visto in un film Disney. Il mio consiglio, (anche perché ormai, dopo un mese, lo avranno tolto dai cinema) è non sprecare troppi soldi per Wish e attenderne l'uscita in streaming, anche se la visione delle immagini su grande schermo merita tantissimo!


Del co-regista e co-sceneggiatore Chris Buck ho già parlato QUI. Chris Pine (voce originale di Magnifico), Alan Tudyk (Valentino), Victor Garber (Sabino), Evan Peters (Simon), Heather Matarazzo (donna volante) e Nasim Pedrad (Sania), li trovate invece ai rispettivi link. 

Fawn Veerasunthorn è la co-regista e co-sceneggiatrice del film, al suo primo lavoro come regista. Tra i suoi lavori come animatrice figurano Raya e l'ultimo drago, Zootropolis e Cattivissimo me 2. Thailandese, anche scenografa, ha 41 anni.


Ariana DeBose è la voce originale di Asha. Americana, ha partecipato a film come West Side Story (che le è valso un Oscar come migliore attrice non protagonista). Anche regista e sceneggiatrice, ha 33 anni e quattro film in uscita tra cui Kraven - Il cacciatore



 

martedì 16 gennaio 2024

Hell House LLC - La saga

Nelle ultime settimane del 2023, grazie a Lucia, Marika e Silvia, ho scoperto una saga di cui non conoscevo assolutamente l'esistenza, quella di Hell House LLC, creata nel 2015 dal regista Stephen Cognetti, "adottata" da Shudder e arrivata, proprio quest'anno, al quarto capitolo. Per venire incontro alle mie capacità mentali ho deciso di scrivere un post unico, invitandovi a cercare e guardare questa gradevolissima serie di found footage che vi porteranno ad affezionarvi TANTISSIMO al SIMPATICISSIMO Abaddon Hotel e alle inquietanti creature che lo popolano... ENJOY!


Hell House LLC - Stephen Cognetti, 2015

Il primo e, al momento, il migliore. Si parla di un gruppo di amici (la Hell House LLC, appunto) che decidono di mettere su un'attrazione horror per Halloween, all'interno di un hotel abbandonato e dalla strana storia. La vicenda di Hell House viene ricostruita a posteriori dopo che la serata inaugurale si è rivelata un disastro con morti annessi, tra testimonianze di studiosi, esperti e sopravvissuti terrorizzati, che si mescolano a video di fattura più o meno buona attraverso i quali si prova a dare un senso agli eventi della fatidica notte. Il risultato è un found footage un po' rozzo, se volete, ma molto efficace, perché ben poco viene spiegato di ciò che ha spazzato via i fondatori di Hell House, e buona parte di ciò che viene mostrato non aiuta la comprensione; i video catturano eventi inquietanti ma perfettamente "sopportabili" o derubricabili ad autosuggestione ed isteria (tra l'altro dovete stare attentissimi, perché il film è zeppo di momenti "blink and you’ll miss them"), mentre una mano invisibile ma presente sembrerebbe trattenere all'interno dell'albergo lo sventurato gruppetto, anche quando tutto punterebbe a far loro abbandonare baracca e burattini. Il trucco intelligentemente sfruttato da Cognetti e soci è quello di ambientare il found footage all'interno di un hotel trasformato per l'occasione in casa infestata, quindi zeppo di ambienti resi terrificanti e rozzi manichini artigianali i quali, oltre a fare paurissima già di loro, alimentano l'incertezza in protagonisti e spettatori, che non riescono a distinguere i mostri veri dai pupazzi. A guardarlo da soli la sera, il rischio è quello di tenere tutte le luci accese per paura che i clown della cantina (e non solo loro) ciccino fuori da qualche stanza, e io ne sono la testimonianza vivente!


Hell House LLC II: The Abaddon Hotel - Stephen Cognetti, 2018

Formula che vince non si cambia, o quasi. Il film riparte da dove ci si era fermati nel capitolo precedente, e nel frattempo i protagonisti non sono più i membri della Hell House LLC, bensì lo stesso Abbadon Hotel, sulla cui misteriosa natura vertono le indagini di un nuovo gruppo di persone. Hell House LLC viene considerato, all'interno dell'universo di finzione, un documentario "vero", e quella dell'Abbadon Hotel sembra essere diventata una maledizione non dissimile da quella dei Ju-On giapponesi, perché l'edificio rigurgita male all'esterno ed imprigiona qualsiasi sventurato tenti di esplorarne i corridoi. Questa è l'intuizione più brillante di un film che ripropone, quasi con la stessa efficacia, la medesima, terrificante formula del precedente; ormai lo spettatore "conosce" l'hotel e sa già quali sono i luoghi più pericolosi e da evitare, quindi la tensione viene portata ai massimi livelli nel momento esatto in cui compaiono vecchie conoscenze come i maledettissimi clown semoventi, accompagnati stavolta da spettri demoniaci più propensi a farsi riprendere, rispetto al film precedente. Il difetto di Hell House LLC II, purtroppo (oltre alla presenza di un paio di attrici che definire cagne maledette è far loro un complimento) è la volontà di spiegare quanto più possibile, arrivando persino a infilare un monologo rivelatore in bocca ad uno dei personaggi, il che affloscia e banalizza, circoscrivendolo, un concetto di male ignoto che lo spettatore poteva sviluppare a piacere, tappando i buchi con la fantasia. Ciò nonostante, mi sono divertita ugualmente, e il film continua a funzionare egregiamente come fonte di strizza serale.


Hell House LLC III: Lake of Fire - Stephen Cognetti, 2019

Al terzo film, il franchise perde notevolmente efficacia, almeno per quanto mi riguarda. La storia continua ad essere simile a quella dei primi due capitoli, ma siccome il secondo ha aperto le porte del passato, concentrandosi sul luciferino proprietario dell'hotel, la sua presenza è preponderante anche in Lake of Fire, che inscena una vera e propria battaglia tra bene e male. In tutta franchezza, è una battaglia scritta malissimo e lascia sul finale più di una perplessità, ma ho trovato interessante sia il restyling dell'hotel (luoghi familiari vengono "riverniciati", come quando la gente si dà il deodorante senza lavarsi, quindi fanno ancora più paura perché offrono un falso senso di sicurezza) sia l'idea di usarlo come luogo per una performance teatrale a tema Faust. In più, Hell House LLC III: Lake of Fire contiene, a man bassa, la sequenza più terrificante della saga, che mi ha costretta a usare la tecnica della "mano protettiva" persino in casa, evento più unico che raro. Il resto, in realtà, l'ho trovato fiacco anche a causa di personaggi non particolarmente accattivanti, e un altro difetto del film è che lascia tantissimi indizi senza risoluzione, quasi fossero stati messi a mo' di fanservice per chi ha seguito la saga fin dall'inizio. In soldoni, un film abbastanza deludente.


Hell House LLC Origins: The Carmichael Manor - Stephen Cognetti, 2023

Dopo la delusione del terzo capitolo, mi sono approcciata ad Origins senza troppe aspettative. Oh, quanto mi sbagliavo. Pur continuando a preferire il capostipite, Origins ne recupera la freschezza cambiando, innanzitutto, ambientazione, e passando dall'Abaddon Hotel a Carmichael Manor, magione sperduta nei boschi e presumibilmente infestata. Due vlogger si recano nell'edificio per realizzare una puntata del loro programma true crime, accompagnate dal fratello della regista, e il racconto è, come già accadeva per i film precedenti, "postumo", e parte di un documentario sulla scomparsa dei tre protagonisti: pur conoscendo il loro destino e pur ritrovando alcune familiari facce inquietanti, il film riesce a sorprendere e spaventare, inoltre risulta più interessante del terzo capitolo perché permette a chi conosce la saga di scoprire nuovi retroscena e capire come due edifici così lontani e diversi siano collegati. L'espansione della mitologia di Hell House LLC si accompagna a lunghe sequenze di pura tensione che mettono a dura prova i nervi dei personaggi e dello spettatore e sfruttano alla perfezione non solo l'ambiente soffocante di una magione sterminata, ma anche quello apparentemente salvifico dei boschi, che mettono ansia quanto quelli di The Blair Witch Project. Alla fine di Origins mi sono ritrovata con l'ansia a mille ma anche desiderosa di un quinto film, ché qui Cognetti ha lasciato indizi e spunti per almeno un altro paio di pellicole, e io ormai sono diventata un'adepta del maligno Andrew Tully!


venerdì 12 gennaio 2024

Perfect Days (2023)

Qualche giorno fa un'amica mi ha convinta ad accompagnarla a vedere Perfect Days, diretto e co-sceneggiato nel 2023 dal regista Wim Wenders. Quella che segue è la mia sincera, ignorantissima opinione.


Trama: Hirayama lavora come addetto alle pulizie delle toilette pubbliche di Tokyo e le sue giornate scorrono tra solitari rituali casalinghi e sporadici imprevisti...


Sono andata a vedere Perfect Days non solo perché me lo ha chiesto la mia amica, ma anche perché, come ormai ben saprete, adoro il Giappone e mi intrigava l'idea di guardare un film radicato nella quotidianità di un uomo impegnato in un lavoro umile ma a stretto contatto con le persone. Credevo che il protagonista si sarebbe confrontato con la varia umanità costretta a frequentare un posto "necessario" come una toilette pubblica, offrendo così allo spettatore un punto di vista inedito sulla società nipponica, filtrata dall'occhio di un regista occidentale ma coadiuvato da un cast, uno sceneggiatore e un comparto tecnico autoctono. Invece, Perfect Days è il ritratto intimo di una persona descritta attraverso la reiterazione dei suoi riti quotidiani, intervallati da sporadiche interazioni con pochi colleghi, conoscenti o parenti. Nel corso del film assistiamo ai "giorni perfetti" di Hirayama, dalla sua sveglia al suono della scopa in saggina della vicina di casa che spazza la strada, ai sogni astratti in bianco e nero che lo accompagnano nel sonno, fino a diventare familiari con quest'uomo tranquillo e taciturno, che riserva i suoi rari sorrisi a ciò che, nel corso della giornata, lo meraviglia o lo riconcilia con l'esistenza. A dispetto del titolo, Hirayama non è un uomo felice. Non sappiamo perché le sue giornate siano scandite da una regolarità quasi patologica (è ossessivo-compulsivo o, forse, nel suo passato e nel suo animo si nasconde così tanto caos che l'unico rimedio è un ordine totale? Non lo sapremo mai...) né perché viva da solo dopo aver rotto i rapporti con la famiglia apparentemente abbiente, decidendo di lavorare per una ditta che pulisce sanitari pubblici e rinchiudersi in un appartamento privo di alcun comfort, ma di sicuro l'esistenza gli causa dolore e la sua apparenza serafica, il suo disperato tentativo di circondarsi di cose rilassanti e belle (bonsai, musica, libri, natura), sono armature per evitare di venire travolto e soccombere. Da spettatrice, ho cercato di aprire il cuore a Hirayama e, in parte, ci sono anche riuscita. Non è facile, perché il protagonista è respingente, sempre compresso all'interno del suo silenzio distaccato, ma Koji Yakusho lascia trasparire tutta la fragilità di un animo sensibile e probabilmente inadatto alla vita sociale, in bilico tra il desiderio di condividere le proprie emozioni e quello di non avere mai più a che fare con un altro essere umano.


L'altra cosa respingente, che mi porterà a non riguardare mai più Perfect Day finché campo e ad ammantarmi di ignoranza cinematografica (per la quale mi pento e mi dolgo, ecc.), è la ripetitività del film. Capisco che è voluta, per la prima mezz'ora l'ho trovata anche affascinante e, come Hirayama, ho cercato di scovare ciò che di poetico, bello e buono circonda il protagonista anche in questa sorta di limbo a cui si è condannato, dopodiché è subentrato l'effetto Paterson/Skinamarink e la mia sensibilità ha lasciato il posto ad un feroce cinismo che mi ha portata a definire il film "un Amélie al maschile, ambientato nei cessi pubblici, ma senza gioia né colori". Il che, per moltissimi spettatori intelligenti, potrebbe anche essere un pregio (lo dimostrano le mille recensioni entusiaste che ho intravisto in rete), ma io a una certa mi sono chiesta dove volesse andare a parare Wenders, a parte mettermi la nostalgia per il Giappone e i panorami urbani di Tokyo, oppure abbattermi alla sedicesima sequenza in cui il protagonista si alza, piega il futon, bagna i bonsai, beve il caffè in lattina, mette su la cassettina. Ogni tanto mi veniva anche voglia di scrollarlo questo Hirayama, di spronarlo ad aprirsi non dico col collega deficiente, ma almeno col bel donnino del ristorante, oppure con la dolcissima nipotina, alla faccia dell' "un'altra volta è un'altra volta, adesso è adesso"; poi però Wim Wenders mi fa quella ripresa di Koji Yakusho in macchina, quel primo piano devastante in cui l'attore va a fare compagnia a Mia Goth in una delle espressioni di dolore cosmico da dissimulare ad ogni costo più belle di sempre, e io non riesco a rimanere cinica al 100%, né a sconsigliarvi Perfect Days. Perché non nego di essermi fatta spesso due palle cubiche, ma come faccio a non volere bene al Giappone, alla poesia dei parchi, a una gentildonna che canta The House of Rising Sun in giapponese, a un omino triste che si impegna a rendere i cessi un posto talmente pulito che ci si potrebbe mangiare, a piccoli bonsai curati con amore? Guardatelo, e ditemi se anche voi siete combattuti quanto me!

Wim Wenders è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Tedesco, ha diretto film come Paris, Texas, Il cielo sopra Berlino, Buena Vista Social Club e The Million Dollar Hotel. Anche produttore e attore, ha 79 anni. 


Koji Yakusho interpreta Hirayama. Giapponese, ha partecipato a film come Memorie di una geisha e, come doppiatore, ha lavorato in The Boy and the Beast, Mirai e Belle. Anche regista, sceneggiatore e produttore, ha 68 anni. 



mercoledì 10 gennaio 2024

Birth/Rebirth (2023)

Gli ultimi sprazzi del 2023 hanno portato un film che mi ero persa al Torino Film Festival ma che ho prontamente recuperato, Birth/Rebirth, diretto e co-sceneggiato dalla regista Laura Moss.


Trama: Celia, infermiera nel reparto maternità di un ospedale, si ritrova con la vita distrutta dopo la morte improvvisa della figlioletta. Quando il cadavere della bambina risulta misteriosamente scomparso, la donna inizia a sospettare della dottoressa Rose, e scopre che quest'ultima è riuscita a resuscitare la piccola...


Se dovessi dare un premio al film più freddo e "clinico" dell'anno scorso, il vincitore sarebbe senza dubbio questo Birth/Rebirth. L'opera prima della regista Laura Moss è un bisturi che affonda con lucidità e sangue freddo nell'animo dello spettatore, costringendolo ad affrontare tutta la sgradevolezza di un orrore che non è tanto visivo (benché, per chi come me ha il terrore cieco di aghi e affini, ci sia parecchio per cui distogliere lo sguardo dallo schermo), quanto piuttosto etico e morale, inestricabilmente unito ad un dolore terribilmente umano. Birth/Rebirth è l'equivalente filmico delle anime delle sue due protagoniste, gelido e sanguigno allo stesso tempo. Da una parte c'è Celia, dolce ed umanissima infermiera di un reparto maternità, dall'altra abbiamo Rose, dottoressa che lavora nella morgue dello stesso ospedale, praticamente priva di emozioni umane che non siano legate ad una distaccata praticità. Le due si ritrovano improbabili alleate quando la figlioletta di Celia muore di meningite fulminante e, al momento di vedere il cadavere, l'infermiera scopre che quest'ultimo è stato misteriosamente "perso"; disperata, Celia comincia a sospettare di Rose e scopre che la figlia viene tenuta in vita da un siero sperimentale inventato dalla dottoressa e perfezionato nel tempo. Senza indulgere troppo in spoiler spiacevoli, Birth/Rebirth racconta di come due animi apparentemente opposti si ritrovino uniti per uno scopo comune e arrivino a compenetrarsi e scambiarsi, saggiando i rispettivi limiti ed oltrepassandoli, l'uno per amore materno, l'altro per amor di scienza. Ciò che all'inizio viene mostrato come follia depravata, l'arrogante desiderio di sostituirsi a Dio, diventa speranza di felicità che, a poco a poco, demolisce condivisibili remore morali; viceversa, il cinico atteggiamento scientifico, sostanzialmente legato ad una terrificante profanazione del proprio corpo, si ammorbidisce nel calore di amicizia, amore ed affetto, probabilmente nella speranza di poter finalmente appartenere a qualcosa. Birth/Rebirth è dunque un film profondamente complesso, che lascia allo spettatore, se crede, la responsabilità di dare giudizi morali, perché sceneggiatura e regia rifiutano (giustamente) di darne e tratteggiano due donne spezzate con una tavolozza sterminata di toni grigi, o rossi, se volete.


C'è da dire che, senza le due attrici protagoniste, il film non esisterebbe. Marin Ireland si carica sulle spalle il ruolo più difficile, quella di una disadattata che vive solo per la scienza e, per essa, non esiterebbe a sacrificare se stessa. Però, attenzione, Rose non disprezza la vita, né la sua né quella degli altri; la Ireland la interpreta come una donna profondamente sola, che esiste in funzione del suo obiettivo e neppure si rende conto di quanto il suo atteggiamento risulti respingente ed ostile, e così facendo le dà anche una connotazione a tratti buffa, che alleggerisce un po' la pesantezza dell'argomento trattato senza risultare stupida o ridicola. Dall'altra parte c'è Judy Reyes, l'ex Carla di Scrubs, che dall'esperienza con la serie ha mantenuto quell'aura di gentilezza quasi materna e la cazzimma di chi non si fa mettere i piedi in testa da nessuno. Probabilmente è proprio per il modo in cui gli spettatori sono abituati a vederla che la sua lenta, quasi impercettibile trasformazione coglie impreparati e colpisce, raggiungendo l'apice in quel finale che, per quanto mi riguarda, è uno dei più allucinanti del 2023. Arriva lì, ti dà uno schiaffone lasciandoti a bocca aperta, titoli di coda. Ci vogliono bastardaggine ed eleganza per realizzare una cosa simile, ed è per questo che mi ha lasciata perplessa (per non dire infastidita) una sequenza che parrebbe quasi inserita a forza solo per dare una connotazione horror più "grafica" al film, come se quello che viene mostrato e suggerito non fosse abbastanza. Secondo me, Birth/Rebirth sarebbe stata un'opera di grande impatto anche senza, e il risultato di questo "mezzuccio" è stato quello di farmi rimanere in attesa di una svolta banale che, per fortuna, non è arrivata. Avviso sin da ora gestanti, genitori e persone che vorrebbero figli ma non ne hanno ancora avuti o sanno che non potranno mai averne che Birth/Rebirth contiene parecchie scene ed argomenti potenzialmente "triggeranti", come dicono i giovani, quindi, nel caso, avvicinatevi con cautela. Poi fatemi sapere cosa ne pensate!


Di Marin Ireland, che interpreta Rose Casper, ho già parlato QUI.

Laura Moss è la regista e co-sceneggiatrice della pellicola, al suo primo lungometraggio. Americana, lavora principalmente come scenografa.


Judy Reyes interpreta Celie Morales. Indimenticata Carla della serie Scrubs, la ricordo per film quali Al di là della vita, The Circle, Smile ed altre serie come I Soprano e Medium. Americana, anche produttrice e regista, ha 56 anni e un film in uscita. 





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