venerdì 28 luglio 2023

Bird box: Barcellona (2023)

Vittima delle condizioni disagiate dell'Aurelia ogni qualvolta c'è un incidente in autostrada, la settimana scorsa ho saltato la visione di La maledizione della Queen Mary e ho ripiegato su Bird box: Barcellona (Bird Box: Barcelona), diretto e sceneggiato dai registi David Pastor e Àlex Pastor.


Trama: un uomo vaga con la figlia in una Barcellona dove le persone sono costrette ad uscire bendate, pena suicidarsi dopo avere incrociato lo sguardo con delle misteriose creature che hanno invaso la terra...


Nel 2019, quando è uscito Bird Box, credo di essere stata una delle tre persone in tutto il pianeta a trovarlo bello, nonostante un paio di ovvi difetti tra cui la faciloneria della trama e le troppe similitudini con A Quiet Place, decisamente superiore in tutto. Ciò che chiunque ha contestato a Bird Box (la regia poco horror di Susanne Bier, l'eccesso di flashback sentimentali, ecc.) è proprio quello che, per me, dava valore aggiunto a un'opera popolata da personaggi magari stereotipati, ma comunque in grado di coinvolgere lo spettatore, la Malorie di Sandra Bullock in primis. Bird box: Barcellona è MOLTO più horror del suo predecessore, e i personaggi, salvo il protagonista Sebastián e un paio d'altri, hanno ben poco screentime a disposizione prima di morire male. Attenzione però, "molto più horror" non significa che sia un horror innovativo o capace di raccontare qualcosa di diverso, anche perché parte dall'assunto iniziale di Bird Box limitandosi a spostare l'azione a Barcellona per mostrarci un'altra versione dell'"invasione" di creature con le quali non conviene incrociare lo sguardo, a meno di non volere impazzire e/o suicidarsi. Quindi lo spettatore sa già più o meno dove vuole andare a parare la trama e le variazioni sul tema sono davvero poche; anzi, la carta migliore (e la sequenza più bella) Bird box: Barcellona se la gioca a dieci minuti dall'inizio, dopodiché i realizzatori nascondono la mano che ha tirato il sasso invece di spingere l'acceleratore su una china sgradevole ma interessante e, ancor peggio, cominciano ad inserire piccoli spiegoni volti a spianare la strada ad eventuali sequel/spin-off , quando, a mio avviso, la forza delle creature di Bird Box è proprio l'alone di mistero che le circonda fin dal loro esordio.


Sulla realizzazione, non c'è granché da dire. Mi è sembrato che i fratelli Pastor sapessero il fatto loro a livello di regia, soprattutto per quanto riguarda non solo la gestione della tensione, coadiuvati da un montaggio dinamico, ma anche quel "piccolo" particolare che differenzia Bird Box: Barcellona dal suo predecessore e ne stravolge completamente la trama. Inoltre (ma qui la colpa è mia che soffro di vertigini "riflesse") le sequenze finali ambientate sulla teleferica per Montjuïc mi hanno mozzato il fiato e, dovessi dire, ho apprezzato anche la scelta di mostrare cosa, presumibilmente, avviene dopo che le persone hanno avuto la sventura di guardare le creature. Nulla di eclatante, invece, nel reparto attori. Avevo enormi speranze sia per Diego Calva, che avevo adorato in Babylon, che per la brava Georgina Campbell di Barbarian, ma a nessuno dei due viene dato tempo o modo di brillare, sia per esigenze di trama che per una scrittura dei personaggi pigra e banalotta. Tra l'altro, mi è piaciuto ben poco Mario Casas, che interpreta il protagonista, il che un po' mi perplime visto che il ragazzo ha collaborato spesso e volentieri con de la Iglesia; anche in questo caso, però, temo che la colpa sia di una sceneggiatura trattenuta che ha impedito all'attore di esprimersi quanto avrebbe potuto. Per quanto mi riguarda, Bird box: Barcellona è dunque l'ennesima occasione sprecata targata Netflix, un film dimenticabile che ha il solo pregio di avermi fatto riguardare Bird Box, e spero sinceramente che il tentativo di creare un Bird Box Universe finisca qui. 


Di Mario Casas, che interpreta Sebastián, ho già parlato QUI

David e Àlex Pastor sono i registi e sceneggiatori della pellicola. Spagnoli, hanno diretto film come Contagio letale. Entrambi anche produttori, David ha 45 anni, Àlex 42.


Georgina Campbell interpreta Claire. Inglese, ha partecipato a film come King Arthur - Il potere della spada e Barbarian. Ha 31 anni e due film in uscita. 


Diego Calva, che interpreta Octavio, è il protagonista di Babylon. Se Bird box: Barcellona vi fosse piaciuto, recuperate ovviamente Bird Box, tanto sono entrambi su Netflix, e aggiungete A Quiet Place e A Quiet Place 2. ENJOY!

mercoledì 26 luglio 2023

Unwelcome (2022)

Era un film che avevo segnato come uno dei must see dell'anno ma poi lo avevo un po' perso dai radar, finché Shudder non ha tirato fuori Unwelcome, diretto e co-sceneggiato nel 2022 dal regista Jon Wright.
Edit: La Plaion Pictures farà uscire questo film delizioso su moltissime piattaforme italiane a fine agosto, col titolo La maledizione dei Far Darrig.



Trama: dopo essere stati aggrediti nel loro appartamento, Maya e Jamie si trasferiscono in Irlanda, nella casa ereditata dalla zia di lui. Non sanno che la casa è tenuta sotto controllo da inquietanti creature...

Continuo a ripeterlo: il cinema horror inglese e irlandese ha una marcia in più. Sarà per la birra e l'alcool che scorrono a fiumi, per un certo stile nel raccontare storie, per l'ampio bacino di leggende da cui attingere, per lo humour nero che non manca mai: qualunque film di genere, anche il più stupido, piccolo e sconosciuto, se proviene da una delle due nazioni, ha per me comunque motivo di esistere e riesce quasi sempre a lasciare un frammento di gioia nel mio cuore. Unwelcome è uno strano ibrido, un film che aveva tutte le carte in regola per riuscire malissimo, invece è risultato una delle pellicole più interessanti dell'anno. Tutto comincia quando Maya e Jamie, coppietta di persone deliziose che ha appena scoperto di aspettare un bambino, vengono aggrediti in casa da tre buzzurri proprio nel corso di innocui festeggiamenti casalinghi; la sequenza iniziale del film, in perfetto equilibrio tra la leggerezza umoristica dei dialoghi tra Maya e Jamie e l'orribile, angosciante serietà di vedersi minacciati e percossi senza poter reagire, è quella che definisce in toto il tono di Unwelcome, film che ad ogni passaggio stempera con trovate bizzarre e dialoghi brillanti delle situazioni di uno squallore aberrante, dimostrandosi più profondo di quanto non appaia. Maya e Jamie, come da titolo, sono "sgraditi" ovunque vadano, costretti per il comportamento di pochi zotici ignoranti a sentirsi costantemente minacciati nel momento più delicato della loro vita, e ciò vale in Inghilterra come in Irlanda, dove i due trovano temporaneo rifugio nel momento in cui la vecchia zia Maeve lascia in eredità a Jamie la sua casa vicino ai boschi. Mentre, infatti, gli abitanti del paesino si dimostrano accoglienti e cortesi, la famiglia di muratori assunta dai protagonisti per rimettere a posto casa si profonde in comportamenti sempre più razzisti, ignoranti, beceri e pericolosi, rendendo Jamie e Maya il fulcro di tutto ciò che c'è di sbagliato nel mondo. L'aggettivo "Unwelcome", però, non si riferisce solo ai protagonisti, ma anche agli esseri che si nascondono nel bosco. I far darrig, o red caps, come preferite voi, sono creaturine malevole che esigono quotidianamente un tributo di sangue e che rischiano di scomparire, rifiutate dalla modernità che avanza e da chi ritiene superfluo tramandare le leggende, positive o negative che siano, e non è un caso che Maya e Jamie si leghino (all'inizio inconsapevolmente ma comunque in fiducia) ad esseri "sgraditi" quanto loro.

Oltre che sgraditi, i far darrig dovrebbero risultare anche sgradevoli, peccato che, affiancati ai veri mostri della pellicola, risultino invece incredibilmente deliziosi. Misto di goblin di Labyrinth e verdognoli Gremlins, i far darrig sono delle creature mirabilmente realizzate con un mix di effetti artigianali (sono attori in costume, ripresi su set di grandezze diverse) e CGI che le rendono vintage ma non sciatte e, soprattutto, hanno delle vocette in grado di sciogliere il cuore con battutine sciocche e prese in giro infantili. E' un bel cortocircuito mentale questo, in quanto le creaturine non lesinano morti ad effetto e particolarmente sanguinose, ma visto quanto poco valgano a livello di umanità le loro vittime, è una contraddizione comprensibile. La loro presenza rende Unwelcome un ottimo esempio di favola nera, e lo stile di regia e fotografia concorre a ricreare un'atmosfera "fatata" con colori saturi e vividissimi che esplodono in due tonalità primarie, il rosso del sangue e il giallo dell'abito di Maya, senza dimenticare il verde dell'Irlanda e quelle sfumature di marrone tipiche dei pub, all'interno dei quali si incontrano i personaggi più bizzarri. A proposito di personaggi, i protagonisti di Unwelcome sono scritti benissimo. Maya è una donna forte e decisa, che le brutte esperienze hanno messo in ginocchio senza spezzarla, mentre Jamie vive l'incubo di venire considerato un maschio "beta", incapace di proteggere moglie e nascituro, e cerca di sopperire al trauma della violenza e al disgusto verso se stesso impegnandosi a migliorare, per quanto in modo goffo (come dimostra la sua "dipendenza" dai manuali di autoaffermazione, di mindfulness, persino krav maga); vedere questi due futuri genitori bersagliati di continuo da una vita ingiusta e da persone orribili fa male davvero, ed è forse per questo che sono stata spinta a vivere con ottimismo anche l'ambiguo, affascinante finale, nella speranza che Jamie e Maya possano diventare "desiderati" e amati, soprattutto protetti, per quanto in modo inconsueto. Guardatelo, poi mi saprete dire!


Del regista e co-sceneggiatore Jon Wright ho già parlato QUI

Hannah John-Kamen interpreta Maya. Inglese, ha partecipato a film come Star Wars - Il risveglio della forza, Ready Player One, Ant-Man and the Wasp e a serie quali Il trono di spade. Ha 34 anni.


Colm Meaney interpreta Daddy Whelan. Irlandese, ha partecipato a film come Dick Tracy, 58 minuti per morire, Cuori ribelli, L'ultimo dei mohicani, Trappola in alto mare, La guerra dei bottoni, Morti di salute, Con Air, Blueberry e a serie quali Moonlighting, Star Trek: The Next Generation e Star Trek: Deep Space Nine; come doppiatore ha lavorato in Gargoyles e I Simpson. Anche produttore, ha 70 anni e sette film in uscita. 


Kristian Nairn, che interpreta Eoin Whelan, era l'Hodor de Il trono di spade. Se Unwelcome vi fosse piaciuto potreste recuperare Grabbers - Hangover finale, sempre di Wright, che potete trovare su Prime Video. ENJOY!

martedì 25 luglio 2023

Barbie (2023)

Giovedì sono corsa a vedere uno dei film che aspettavo di più quest'anno, il Barbie diretto e co-sceneggiato dalla regista Greta Gerwig. NIENTE SPOILER, tranne quelli presenti in un trailer per una volta poco rivelatore!


Trama: la vita scorre serena all'interno di Barbieland finché una Barbie comincia a notare stranezze e difetti nella sua esistenza sulla carta perfetta. Per indagare, la Barbie (assieme a Ken) valica i confini che separano il suo mondo da quello umano...


Di Barbie si è già detto e scritto tutto ancora prima che uscisse, quindi non sarà facile scrivere qualcosa di interessante e poco banale, soprattutto senza fare spoiler, ma ci proverò. Preceduto da un trailer accattivante e sciocchino, Barbie, per la prima mezz'ora, è, volutamente, tutto quello che i suoi detrattori pensavano. In un trionfo di rosa e kitsch, veniamo introdotti in quella che è la realtà di Barbieland, un luogo in cui ogni giorno è perfetto ma anche perfettamente uguale a quello precedente, e dove ogni Barbie può essere ciò che vuole, da presidente ad astronauta, in un susseguirsi di scene tra l'esilarante e il paradossale. Furbamente, la Gerwig e Baumbach puntano i riflettori sulla "Barbie" per eccellenza, bionda bella e sorridente, e modellano la perfezione di Barbieland su di lei perché, capirete bene, non tutte le bambine (me compresa) si limita(va)no a pensare noiose quanto glamour giornate di ozio, svago e trionfi per le proprie bambole; questo stereotipo radicato nel tempo da decenni di marketing e pubblicità è però essenziale per rendere ancora più duro lo scontro con la realtà, allorché Barbie, allarmata da terrificanti cambiamenti all'interno della sua routine e dei suoi pensieri, decide di andare nel mondo umano per indagare. E' qui che il film prende una piega inaspettata e devia da quel trailer che ci viene propinato da mesi, diventando una riflessione su un aspetto ben preciso della società, legato a doppio filo al desiderio di Ruth Handler, la creatrice di Barbie, di dare alla figlia e alle donne la possibilità di sognare in grande, proiettando ogni aspirazione su una bambola che non si limitava ad essere solo madre o moglie, ma poteva essere qualunque cosa. Prigione dorat, ehm, rosa dove questo desiderio è portato all'estremo, Barbieland è un'isola felice rigidamente amministrata da un consiglio direttivo della Mattel gestito interamente da uomini, e al suo interno c'è qualcuno che invece NON può essere quello che desidera, perché creato per esistere in funzione di Barbie, ovvero Ken. Si può dunque dire che Barbieland è il riflesso distorto di un'idea di per sé giusta, un luogo che non solo ha creato dei mostri nella realtà, alimentando ideali di bellezza e perfezione irraggiungibili, ma che "vendica" la sopraffazione con una sopraffazione al contrario, dove c'è sempre e comunque qualcuno che soffre e che viene ignorato o considerato "inferiore", a discapito di tutta la tolleranza e l'inclusività moderna predicata dal marchio Barbie.


Alla faccia di tutta la gioiosa idiozia riversataci addosso da trailer, meme ed anteprime, Barbie è un film molto amaro, che non mostra il fianco neppure per un istante a soluzioni semplici ed happy ending posticci. La Gerwig e Baumbach, anzi, sembrano volerci dire che la vita è fatta di scelte e sofferenza, una lotta continua per affermare noi stessi in una società che probabilmente non ci vuole e che ci impone assurdi modelli maschili o femminili; ancora peggio, non esistono cambiamenti nati da illuminazioni improvvise e lo status quo è terribilmente difficile da sradicare, quindi tutto il contrario di ciò che ci è sempre stato insegnato dalla Disney e dai suoi emuli (se poi pensate che l'amore possa vincere su ogni cosa, avete davvero puntato sul film sbagliato). Tutto ciò viene gettato in faccia allo spettatore col sorriso, con i toni garbati di una commedia capace di spingere il pedale sull'acceleratore dell'assurdo senza mai deviare dal suo percorso né imbroccare la via senza ritorno della caciara fine a se stessa, cosa che dimostra l'incredibile lucidità mentale della Gerwig e il suo polso fermissimo sia in fase di scrittura che di regia. Se, a tratti, Barbie vi sembrerà un po' troppo fighetto e "maestrino" nel suo desiderio di aprirci gli occhi al mondo, beh, non sarò io a farvi cambiare idea, perché ogni tanto ho avuto io stessa la sensazione di venire "bacchettata" tra una risata e l'altra (probabilmente avvertivo l'aura di Baumbach, con cui non vado d'accordissimo), ma siccome sul finale sono riuscita persino a commuovermi direi che nel film c'è soprattutto del sentimento, non solo del freddo, cinico calcolo.


Al di là di queste considerazioni che, come avrete capito, non posso sviscerare appieno pena incappare in sgraditi spoiler, Barbie è proprio bello cinematograficamente parlando. Se date un'occhiata QUI, vi farete un'idea di quante, elegantissime fonti d'ispirazione abbiano guidato la Gerwig nella realizzazione del film che, effettivamente, è una gioia per gli occhi fatta di inquadrature iconiche ed intelligenti, con numeri musicali dal sapore vintage, capaci di lasciare a bocca spalancata. Le scenografie sono spettacolari e non potrebbe essere altrimenti: il rosa e i colori pastello delle case dei sogni di Barbieland si accompagnano a fondali disegnati che noi bambine conosciamo molto bene, e non contrastano neppure troppo con la fredda monocromia e regolarità degli uffici della Mattel, proprio a rispecchiare il rigido controllo presente in due mondi strettamente legati. Personalmente, non ho mai avuto molte Barbie con cui giocare ma mi sono ammazzata di cataloghi Mattel (li adoravo, avendo sempre amato disegnare mi davano una fonte d'ispirazione costante per vestire le mie donnine e, in più, erano scritti in almeno un paio di lingue) e non nascondo di avere represso più di un brivido di gioia davanti al rispetto filologico di costumi, pettinature, accessori e linee, spesso utilizzati come ulteriore fonte di ironica presa in giro. La presenza di una narratrice d'eccezione, che spesso sfonda la quarta parete dialogando con spettatori e realizzatori, è l'ulteriore aggiunta a un cast perfetto. Se Michael Cera e Kate McKinnon sfruttano al meglio il poco tempo a loro concesso e Margot Robbie è una Barbie fatta e finita, a rubarle la scena c'è un Ryan Gosling favoloso, che si è gettato anima e corpo in un ruolo che molti avrebbero rifiutato perché troppo "stupido"; l'attore ha reso finalmente giustizia al povero Kentozzi(tm) rendendolo tragico, eroico "imperatore del regno di mille fighe di legno", "monumento" di un algido piccione biondo, che verrebbe voglia di abbracciare per tutta la durata del film. Non mi vergogno a dire che, per quanto mi riguarda, questa è l'interpretazione migliore di Gosling e, prima di venire linciata, vi invito a correre al cinema a vedere Barbie. Lo so, è una cretinata, ma andate con almeno un accessorio rosa, perché vedere una sala gremita di gente tutta vestita a tema, persino nel triste multisala di Savona, è stata un'esperienza bellissima!!


Della regista e co- sceneggiatrice Greta Gerwig ho già parlato QUI. Margot Robbie (Barbie), Kate McKinnon (Barbie), Alexandra Shipp (Barbie), Emerald Fennell (Midge), Ryan Gosling (Ken), Michael Cera (Allan), America Ferrera (Gloria), Helen Mirren (narratrice), Will Ferrell (CEO della Mattel) e Lucy Boynton (Barbie Proust) li trovate invece ai rispettivi link. 

Simu Liu interpreta Ken. Cinese, lo ricordo per film come Shang - Chi e la leggenda dei dieci anelli, inoltre ha partecipato a serie quali Slasher e prestato la voce per I Simpson. Anche produttore, sceneggiatore e regista, ha 34 anni e tre film in uscita. 


Rhea Perlman interpreta Ruth. Americana, moglie di Danny De Vito, ha partecipato a film come Matilda 6 mitica e a serie quali Taxi, Blossom, Cin Cin, Innamorati pazzi e Ally McBeal; come doppiatrice ha lavorato ne I Simpson, American Dad!, Robot Chicken e Sing. Anche produttrice e sceneggiatrice, ha 75 anni. 


Tra le mille Barbie e Ken presenti nel film spuntano Dua Lipa e John Cena in versione sirene. Se Barbie vi fosse piaciuto il mio consiglio è di recuperare davvero le fonti di ispirazione della Gerwig, male non farà di sicuro! ENJOY!



venerdì 21 luglio 2023

Un gelido inverno (2010)

Ho deciso di togliere un po' di polvere alla mia collezione di DVD e uno dei film che non avevo ancora visto né recensito è risultato essere Un gelido inverno (Winter's Bone), diretto e co-sceneggiato nel 2010 dalla regista Debra Granik partendo dal romanzo omonimo di Daniel Woodrell.


Trama: la diciassettenne Ree vive con la madre catatonica e un fratellino e una sorellina molto più piccoli. La loro vita già complicata viene sconvolta dalla notizia che il padre spacciatore è scomparso dopo avere impegnato casa e terreni per pagare la cauzione, quindi Ree è costretta a mettersi a cercarlo affrontando la pericolosa omertà della gente del luogo...


Non ricordo assolutamente perché avessi acquistato Un gelido inverno, se non per qualche mega offerta credo del Libraccio, ma sono contenta di averlo fatto. Un gelido inverno, infatti, è uno di quei thriller poco eclatanti ma interessantissimi, che giocano interamente di atmosfera e traggono tutta la tensione dalla costruzione certosina dei personaggi e dei rapporti che intercorrono tra loro. Non guasta, inoltre, che il film sia ambientato nella regione dei monti Ozark, in un'America rurale che non viene rappresentata spesso nelle opere di finzione se non quando servono mostri o note di colore in aperto contrasto con la "bontà" di personaggi provenienti da zone più ricche; in Un gelido inverno sono tutti poveracci ignoranti scappati di casa, la protagonista in primis, e non c'è modo di distinguere i buoni dai cattivi in una società fatta solo di zone grigie, dove la gente si arrabatta come può per sopravvivere. Ree questo lo sa bene e lei stessa cerca di garantire la sopravvivenza (e una vita per quanto possibile sana e dignitosa) sua e dei fratellini a fronte di una madre malata e di un padre spacciatore, scomparso dopo che qualcuno ha pagato la cauzione per farlo uscire di prigione. In una realtà di vicini e mezzi parenti impegnati in ogni genere di attività illegale, che si prodigano per fornire viveri e a volte anche soldi a Ree e alla sua famiglia, la protagonista arriva a scontrarsi con un'inaspettata omertà proprio nel momento in cui si ritrova ad aver bisogno di rintracciare il padre, pena la perdita di casa e terreni. Il duro rifiuto di queste persone pericolose e schive non scoraggia però Ree che, come "il cane che scava cercando un osso d'inverno" (da qui il titolo originale) si arma di testardaggine e coinvolge lo spettatore in una difficile indagine scandita dalla disperazione di vedere i giorni passare e le opzioni assottigliarsi, così come le speranze di ritrovare Jessup, con l'aggravante di trovarsi davanti dei muri sempre più invalicabili e persino il rischio di perdere la vita a causa di una parola di troppo detta alla persona sbagliata.


La regia di Debra Granik ripropone in toto questo mondo gelido e duro, spesso squallido, attraverso inquadrature prive di fronzoli e degne di un western, perché di fatto Ree è un'eroina solitaria suo malgrado, costretta a duellare con gente infida e imbruttita dalla vita, spesso ai margini di una legge ambigua; anche la fotografia rispecchia alla perfezione il grigiore degli abitanti degli Ozark e il loro legame con la natura difficile dell'ambiente che li circonda, tra tocchi di marrone e verde cupo che richiamano i boschi, le paludi e le montagne in cui Jessup potrebbe nascondersi. Nonostante questa messa in scena non proprio accattivante, l'attenzione dello spettatore viene tenuta desta da dialoghi taglienti, personaggi ben scritti e, soprattutto dagli attori che sfruttano gli ampi silenzi per veicolare più di mille parole. Jennifer Lawrence, che come sapete non è una delle mie attrici preferite, qui offre un'interpretazione giustamente nominata agli Oscar (purtroppo per lei quell'anno c'era la Portman de Il Cigno Nero a regnare incontrastata, impossibile reggere il confronto) e fa di Ree un personaggio fragile ma determinato, riuscendo intelligentemente a non infonderle un'ingannevole aura di superiorità rispetto agli altri; Ree è consapevole di non essere speciale né destinata a un futuro diverso da quello che attende le sue coetanee, ma la vena di durezza che la contraddistingue le consente di mantenersi perlomeno ferma nel proposito di non prendere la via dell'illegalità come il padre e consapevole dell'esistenza di certe regole da rispettare anche all'interno del mondo della criminalità, se non altro per evitare che ci rimetta la sua famiglia. Anche il cast di supporto, tra l'altro composto per buona parte da originari del Missouri senza alcuna esperienza pregressa, offre delle interpretazioni ottime, in primis John Hawkes nei panni del complesso Teardrop ma anche una favolosa Dale Dickey, impegnata in una delle scene più "forti" e stomachevoli della pellicola. Nel complesso, dunque, un film da non perdere. Non aspettate tredici anni come ho fatto io per vederlo, mi raccomando!


Di Jennifer Lawrence (Ree), John Hawkes (Teardrop), Garret Dillahunt (Sceriffo Baskin), Dale Dickey (Merab), Sheryl Lee (April) e Tate Taylor (Mike Satterfield) ho già parlato ai rispettivi link.

Debra Granik è la regista e co-sceneggiatrice del film. Americana, ha diretto film come Down to the Bone e Senza lasciare traccia. Anche direttrice della fotografia, montatrice e produttrice, ha 60 anni. 


Nel 2011 il film è stato candidato a ben quattro premi Oscar, senza vincerne nemmeno uno: Miglior Film (vinse Il discorso del re), Jennifer Lawrence Miglior Attrice Protagonista (vinse Natalie Portman per Il cigno nero), John Hawkes Miglior Attore Non Protagonista (vinse Christian Bale per The Fighter) e Miglior Sceneggiatura Non Originale (vinse The Social Network). ENJOY!





mercoledì 19 luglio 2023

Insidious - La porta rossa (2023)

Con calma inaudita, sono andata al cinema a vedere Insidious - La porta rossa (Insidious: The Red Door), diretto dal regista Patrick Wilson. Niente SPOILER, cioè sì, ma vi avviso prima.


Trama: nove anni dopo gli eventi di Insidious 2, la vita dei Lambert è andata avanti e Dalton ha cominciato il primo anno di college, ma l'Altrove è sempre in agguato...


Che fatica, signori. La saga Insidious, come saprete se avete letto i miei ultimi post a tema, non è mai stata una delle mie preferite, ma siccome le uscite horror al cinema latitavano, coi miei amici abbiamo deciso di tentare il quinto capitolo. Ripassone alla mano, mi sono nuovamente immersa nel mondo creato da James Wan e Leigh Whannell nel 2010 e, purtroppo, anche stavolta la mia pur alta soglia di noia è stata superata. Cambiano i registi (Patrick Wilson si è messo per la prima volta dietro la macchina da presa), cambia lo sceneggiatore, invecchiano/crescono/muoiono i protagonisti, ma la solfa è sempre la stessa: gli abitanti dell'Altrove hanno per il belino di rimanere confinati in una dimensione dove tutto è grigio e nebbioso, e bramano di tornare nel regno umano, possedendo i corpi di chi è tanto incauto (o sfigato) da finire nel loro regno e lasciare aperte le porte manco fosse un novello Gianni Morandi. Dopo due capitoli dedicati alla medium Elise Brenner, non è un mistero che i riflettori sarebbero tornati sulla famiglia Lambert e che, quindi, la storia avrebbe ripreso a scorrere in ordine cronologico. Sono passati nove anni da quando papà Josh e il piccolo Dalton si sono liberati dai demoni che li perseguitavano e hanno scelto di dimenticare quanto accaduto loro. Proprio in questa scelta comincia e finisce l'aspetto più interessante della pellicola, ma qui qualche spoiler devo farlo, quindi occhio.

SPOILER 
L'unico aspetto originale di Insidious - La porta rossa è il dramma familiare che nasce nel momento in cui, finalmente, qualcuno ha capito che non ha senso legare la felicità di genitori e figli all'essere sopravvissuti a piaghe paranormali della peggior specie. Perché la povera Renai avrebbe dovuto voler rimanere legata a un tizio che rischia di portarle i demoni in casa e, tra l'altro, è stato pure posseduto e conseguentemente colto da follia omicida? Perché l'inutile figlio Foster dovrebbe bersi le bugie della madre, che da anni gli dice che le immagini di papà in modalità Jack Torrance erano tutto un incubo, frutto della sua immaginazione? Perché Josh e Dalton dovrebbero andare d'accordo dal momento che entrambi hanno perso un anno della loro vita e sono rimasti privi di ricordi fondamentali? Certo, purtroppo sul finale tutti questi ragionamenti sensati vanno in vacca e l'happy ending vuole che, una volta recuperati i ricordi, Renai accetterà probabilmente di riavere in casa le due calamite per la sfiga, ma quella di insegnare ai personaggi (e conseguentemente agli spettatori) la necessità di affrontare i traumi senza rimuoverli, pena il rimanere incompleti e "difettati" è un'idea lodevole e abbastanza ben sviluppata. 
FINE SPOILER


Il resto, ahimé, è la solita minestra riscaldata in salsa horror, che ripropone gli stessi ambienti, oggetti di scena e mostri presenti negli altri capitoli della saga, al punto che neppure i jump scares (presenti, peraltro, quasi esclusivamente dal secondo tempo in poi) riescono più ad essere efficaci. Patrick Wilson ci si impegna come regista e come attore, e si vede che ama sia il genere horror che la saga che, assieme a quella di The Conjuring, l'ha riportato al successo, ma cavare sangue da una rapa è dura anche per lui. Ciò detto, riesce comunque a ritagliarsi le sequenze più efficaci, tra cui una che sarebbe tanto piaciuta al mio claustrofobico padre; inoltre, da artista della domenica, la commistione tra arte e orrore mi piace sempre tantissimo, quindi ho apprezzato molto che Dalton sia diventato un pittore provetto e, soprattutto, che la sua graduale presa di coscienza sia legata alla progressione dei lavori su fogli e tela. Il problema di Dalton, ahimé, risiede nell'assoluta mancanza di personalità e carisma di Ty Simpkins (e pensare che in The Whale l'avevo trovato bravino!), che riesce a farsi "mangiare" non solo da papà Patrick, ma persino dalla spalla femminile che gli hanno messo accanto, mentre un paio di personaggi fondamentali per i capitoli precedenti sono qui ridotti all'apparire in brevi cameo che vanno dall'imbarazzante al melenso. La visione di Insidious - La porta rossa al cinema mi ha ricordato perché ho recuperato i capitoli dal due al quattro solo in streaming e dopo tredici anni dall'uscita del primo, ma se non altro il franchise è rimasto coerente dall'inizio alla fine: noiosino e banalotto era all'inizio, noiosina e banalotta è stata anche la fine. E speriamo sia davvero finita lì!


Del regista Patrick Wilson, che interpreta anche Josh Lambert, ho già parlato QUITy Simpkins (Dalton Lambert), Rose Byrne (Renai Lambert), Steve Coulter (Carl), Leigh Whannell (Specs), Angus Sampson (Tucker) e Lin Shaye (Elise Rainer) li trovate invece ai rispettivi link.


Mentre la saga principale di Insidious dovrebbe concludersi col quinto film, si parla già di uno spin-off dal titolo Thread: An Insidious Tale, che al momento vede nel cast Mandy MooreKumail Nanjiani (il fatto che una sia la voce storia di Rapunzel, l'altro un membro degli Eternals e il regista/sceneggiatore Jeremy Slater uno dei creatori della serie Moonknight fa di questo spin-off un prodotto Disney?). Non tratterrò il fiato nell'attesa ma, vi pungesse vaghezza di fare un ripasso, potete trovare tutti i miei "illuminati" commenti sulla saga QUI. ENJOY!

martedì 18 luglio 2023

Nimona (2023)

Ne parlavano tutti benissimo, quindi mi è venuta voglia di guardare Nimona, diretto dai registi Nick Bruno e Troy Quane (anche co-sceneggiatore) e tratto dall'omonima graphic novel di ND Stevenson, pubblicata in Italia da Bao Publishing.


Trama: in un medioevo futuristico, il cavaliere Ballister Boldheart viene accusato ingiustamente dell'omicidio della regina e viene scovato da Nimona, una mutaforma che insiste per diventare suo scudiero...


Come al solito, il mio approccio con Nimona è partito viziato da totale ignoranza, perché non ho mai letto la graphic novel di ND Stevenson, quindi non sapevo proprio cosa aspettarmi da questo nuovo film distribuito da Netflix. Di sicuro, non mi aspettavo di rimanere a fissare rapita lo schermo dopo nemmeno cinque minuti, trasportata in un mondo dove il medioevo è diventato futuristico, con castelli attraversati da automobili volanti, regine che salutano da enormi schermi all'interno di città moderne e cavalieri che diventano tali con un gran clamore pubblicitario, quasi partecipassero a dei reality, mentre i sudditi camminano per le strade armati di cellulari all'ultimo grido. Non mi aspettavo di rimanere coinvolta dalle vicende di Ballister Boldheart, unico cavaliere di origini plebee ad arrivare all'investitura, e della sua entusiasta aiutante Nimona, ragazzina assetata di sangue, violenza e caos, in grado di cambiare aspetto con uno schiocco di dita. Figuratevi che una mattina ho persino rischiato di arrivare tardi a lavoro perché non mi ero accorta che era già passata mezz'ora da quando mi ero seduta e, come i bambini, non volevo staccarmi dallo schermo. Questo perché c'è tanto cuore in Nimona, oltre a tanto ritmo. Il cuore del racconto è la necessità di capire e accettare ciò che diverso, certo, ma anche e soprattutto il ruolo fondamentale svolto dalla paura nel soggiogare il cuore e le menti delle persone preservandole nell'ignoranza (se ritenete di vivere in un momento storico che sfrutta questo sentimento negativo allo stesso modo, forse sapete di cosa sto parlando), nel travisare i fatti consegnandone versioni distorte alla storia, nel tirare fuori il peggio di noi stessi nonostante buone intenzioni e flebili speranze, trasformandoci in mostri e costringendoci a vedere gli altri come tali. Ci sono delle sequenze, in Nimona, che annullano ogni tipo di cinismo snob, saggiamente mutuate dai capolavori Miyazakiani dello Studio Ghibli, dalle scene più iconiche de La spada nella roccia e persino da quelle poesie animate che sono le opere del Cartoon Saloon, e arricchiscono con punte di coinvolgente sentimento (per non dire che ho pianto come una fontana) una trama che fa dell'orgoglio scapestrato e punk della co-protagonista uno dei suoi punti di forza.


Il contrasto tra Ballister e Nimona, l'uno cupo sia di animo che di vestiario, l'altra una "pinkissima" scintilla indemoniata che non sta ferma né zitta un secondo, è ciò che rende il film vivacissimo e scorrevole, fatto di dialoghi esilaranti e concitate sequenze di lotta animata (una delle quali omaggia la doppiatrice Chloe Moretz con una certa canzone) imperniate sulle mille, spassosissime trasformazioni della ragazzina titolare. Nonostante la risposta alla domanda "chi ha incastrato Roger Knight?" sia facilmente intuibile dopo qualche minuto, è interessante capire come si svilupperà il rapporto tra la scudiera e il suo riluttante cavaliere e, soprattutto, se quest'ultimo si lascerà traviare dallo sconforto e dai sussurri del diavoletto rosa appollaiato sulla spalla diventando "Blackheart", in aperto contrasto con la dorata purezza di tutto ciò che riguarda non solo il regno, ma anche il compagno di Ballister, dall'evocativo nome di Ambrosius Goldenloin. A tal proposito, l'intera opera è fatta di contrasti, anche a livello grafico e realizzativo. Sfondi, scenografie e abiti sono un mix di forme morbide, realizzate con colori vivaci, e motivi geometrici più stilizzati e minimal, ai quali sono stati aggiunti elementi "gotici" e, ovviamente, caratteristiche che potessero richiamare lo stile della graphic novel, più legato alle varie trasformazioni di Nimona. Inoltre, ho trovato gradevolissima la commistione tra personaggi in 2D dal character design moderno e accattivante (ho adorato, letteralmente, il viso di Ballister, con quei baffoni e gli occhi enormi, e le versioni "bambine" di Nimona, per non parlare del kaiju) e gli effetti grafici di animazione in CGI, anche se forse i fan dell'opera di ND Stevenson saranno rimasti sconvolti dallo stravolgimento totale dell'aspetto dei personaggi. Ci sarebbero mille altre cose da dire su Nimona ma non vorrei fare spoiler né fomentare troppo le aspettative, quindi mi limito, in parte, a citarmi. Il giorno in cui la Disney (che, per inciso, ha fatto chiudere i Blue Sky Studios rischiando così che Nimona non vedesse mai la luce) e la Pixar realizzeranno un film così, commovente, divertente e rispettoso del pubblico, in cui anche le quote "diverse" e "queer" non verranno trattate come eclatanti trovate di marketing ma saranno parte integrante e naturale della storia, sarà un giorno di tripudio e magno gaudio in tutto il regno.


Di Chloë Grace Moretz (Nimona), Riz Ahmed (Ballister Boldheart) e  Frances Conroy (la Direttrice) ho parlato ai rispettivi link.

Nick Bruno è il co-regista della pellicola e doppiatore di Sir Nicholas Brun. Americano, ha diretto il film Spie sotto copertura. Principalmente, lavora come animatore. 
Troy Quane è il co-regista e co-sceneggiatore della pellicola, oltre che doppiatore di Sir Troy Quartermane. Americano, ha diretto il film Spie sotto copertura. Principalmente, lavora come scenografo e animatore. 

RuPaul presta la voce al conduttore Nate Knight. Se Nimona vi fosse piaciuto recuperate I Mitchell contro le macchine, Wolfwalkers - Il popolo dei lupi, La città incantata e persino la trilogia di Madoka Magica. ENJOY! 

venerdì 14 luglio 2023

Bolla loves Bruno: L'ultimo boy scout - Missione: sopravvivere (1991)

Dopo un paio di mesi di stop, torna la rubrica dedicata all'adorato Bruno e, stavolta, con un pezzaccio: L'ultimo boy scout - Missione: sopravvivere (The Last Boyscout), diretto nel 1991 dal regista Tony Scott.


Trama: un detective disilluso riceve l'incarico di proteggere una spogliarellista ma, quando quest'ultima viene uccisa, è costretto ad unire le forze con il suo ragazzo, un'ex promessa del football americano, per riuscire a smascherare i colpevoli...


Dopo una serie di film atipici, si torna finalmente a parlare del Bruce Willis consacratosi ad imperitura memoria dello spettatore, ovvero l'interprete di personaggi dalla parte giusta della legge ma sconfitti dalla vita, con problemi di alcolismo e famiglie allo sfascio, incapaci di tenersi stretto un futuro che sembrava roseo e scolpito nella pietra e, soprattutto, sprezzanti davanti al pericolo al punto da permettersi di scherzare (sempre con la noia scazzata di chi ti prende in giro nonostante tu sia armato di kalashnikov) anche quando tutto sembra perduto. Dall'unione della penna magica di Shane Black, dello stile strafottente dello Scott migliore e della faccia perfetta di Bruce Willis è nato uno dei più iconici action di inizio anni '90, un film impossibile da spiegare a chi non ha avuto la fortuna di vederlo, sconvolgente ancora oggi per il modo in cui inizia con l'acceleratore già pigiato al massimo (fatemi sapere se siete riusciti a ritrovare la mascella caduta in terra alla fine della prima, spettacolare sequenza ambientata durante una piovosa partita in notturna) e non si ferma più. Raccolta la mascella da terra, facciamo la conoscenza di Joe Hallenbeck, talmente straccionato dalla vita che nel giro di cinque minuti ce lo becchiamo con uno scoiattolo morto sul petto e alle prese con il monologo più demotivazionale di sempre, ma se fosse solo questo la "gioia" non sarebbe completa; altri cinque minuti e scopriamo infatti che quella (inserire insulto a caso oppure la foto di Giovanni Storti che ti manda a cagare) di sua moglie se la fa col migliore amico di lui. Mi fermo un secondo. L'ultimo boyscout è PIENO di momenti inverosimili, nella fattispecie quasi tutti quelli legati alla figlia di Joe e alle sue "naturalissime" reazioni davanti a eventi che porterebbero in terapia anche me, ma il più inverosimile è che, spinta dalla solitudine, la moglie di Willis vada a letto con 'sto coso. Capisco tu abbia la patata frizzante, signò, ma si aspetta con pazienza il ritorno del marito e poi lo si lega al letto per non farlo andare mai più via. Eh, che diamine, devo insegnarti tutto. Mi sono persa un attimo, torniamo al film, scusate.


A fianco di un Bruce Willis dal carisma fuori scala, qualche genio ha deciso di piazzare Damon Wayans (quello di Tutto in famiglia, quello che mi fa venire voglia di prenderlo a ceffoni da mane a sera assieme a Will Smith, sì). Per farvi capire quanto L'ultimo boy scout - Missione: sopravvivere sia un meccanismo di finezza incomparabile, vi dico solo che funziona anche lui e che la naturalezza della coppia Willis/Wayans si riproporrà solo quando a Bruno verrà affiancato Samuel L. Jackson in Die Hard e poi mai più. Con la sua strafottenza e quei rari ma importanti momenti di debolezza che tanto disgustano Joe, Jimmy Dix diventa uno di quei personaggi di cui, all'inizio, quasi non ti accorgi, ma che riescono poi a portare sulle spalle il peso di almeno mezzo film, diventando l'elemento indispensabile non solo come comic relief ma proprio come figura a tutto tondo, veicolo di importanti scoperte e ancora più importanti risoluzioni, utile anche per tenere sotto controllo il pessimismo cosmico del protagonista e il suo indiscutibile egoismo. E dopo gli eroi, vengono i cattivi. Ecco, dovessi proprio trovare un neo a L'ultimo boy scout - Missione: sopravvivere è che ai molti criminali che popolano la pellicola non viene dato il giusto peso e, salvo un paio di eccezioni, servono giusto a rendere Joe ancora più meravigliosamente badass e non raggiungono quel livello di memorabilità che mi aspetterei da un film di questa portata. Non prendetela come una lamentela, ché la badassitudine di Willis è uno dei motivi che mi rende ancora felice di essere al mondo, anche perché L'ultimo boy scout - Missione: sopravvivere è il trionfo della gente che muore malissimo ma con ironia, soprattutto quando lo fa per mano di Bruce; se non vi fosse caduta la mascella alla fine della succitata scena iniziale, sappiate infatti che ci saranno molti altri momenti in cui salterete dalla poltrona davanti all'esplosivo e sanguinolento scatenarsi di violenza improvvisa, non solo ai danni di esseri umani ma anche di confezioni di gelato innocenti o di genitori asfaltati dal turpiloquio di una ragazzina col sembiante apparecchiuto di Danielle Harris. E se tutto ciò non vi fa venire voglia di vedere subito L'ultimo Boyscout (o ballare una giga nell'attesa) temo siate delle persone irrecuperabilmente MALE. 


Del regista Tony Scott ho già parlato QUI. Bruce Willis (Joe Hallenbeck), Danielle Harris (Darian Hallenbeck), Halle Berry (Cory), Bruce McGill (Mike Matthews), Kim Coates (Chet) li trovate invece ai rispettivi link.

Damon Wayans interpreta Jimmy Dix. Famoso per il ruolo di in Tutto in famiglia, lo ricordo per film come Beverly Hills Cop - Un piedipiatti a Beverly Hills, Roxanne, Le ragazze della terra sono facili, Senti chi parla 2 e Last Action Hero. Americano, anche sceneggiatore, produttore e regista, ha 63 anni. 


Chelsea Field interpreta Sarah Hallenbeck. Americana, ha partecipato a film come Commando, I dominatori dell'universo, La metà oscura, Flipper e serie quali I racconti della cripta, Cold Case e Senza traccia. Ha 66 anni.


Noble Willingham interpreta Sheldon Marcone. Americano, ha partecipato a film come Chinatown, L'ululato, Good Morning Vietnam, Scappo dalla città - La vita, l'amore e le vacche, Mister Hula Hoop, Ace Ventura - L'acchiappanimali, Scappo dalla città 2 e serie quali Dallas, Chips, Hazzard, A-Team, Quell'uragano di papà, La signora in giallo, I racconti della cripta e Walker Texas Ranger. E' morto nel 2004, all'età di 72 anni.


Dicono che nel film compaia anche il mio amatissimo James Gandolfini come scagnozzo di Marcone, quello grosso e con gli occhiali da sole che butta giù Jimmy dal cavalcavia. Nonostante L'ultimo boy scout abbia un numero spropositato di fan, sia Scott che Shane Black hanno odiato il risultato finale, zeppo di riscritture volute da Bruce Willis, quando invece il tono della sceneggiatura originale era molto più cupo e crudo, oltre che più centrato su Milo e Marcone (un esempio su tutti: la moglie di Joe, minacciata da Milo con una motosega sul set di uno snuff, ottiene vendetta uccidendolo personalmente con la pistola del marito). Un po' mi spiace ma un po', anche, pazienza. Il risultato finale per me è ottimo e, se L'ultimo boy scout - Missione: sopravvivere  vi fosse piaciuto, vi consiglio di recuperare la saga di Die Hard e Hudson Hawk - Il mago del furto. ENJOY! 
 

mercoledì 12 luglio 2023

Il morso del coniglio (2023)

Una delle ultime aggiunte su Netflix, nonché un film che tenevo d'occhio da un po', è Il morso del coniglio (Run Rabbit Run), diretto dalla regista Daina Reid. NO SPOILER, ovvio.


Trama: Sarah, medico con problemi passati di salute mentale e un rapporto tormentato con la famiglia, è costretta ad affrontare gli improvvisi cambiamenti della figlioletta Mia...


Dopo The Babadook, arriva dall'Australia il Babasnook (non è mia ma mi ha fatto crepare dalle risate), ovvero uno slow burn di orrore familiare in cui una donna, Sarah Snook per l'appunto, si ritrova a dover affrontare i cambiamenti inspiegabili della figlioletta di sette anni e ad affrontare i traumi passati che minacciano di inghiottirla. Nulla di troppo innovativo, ve lo concedo, infatti non è con spirito desideroso di innovazione che bisogna affrontare Il morso del coniglio, bisogna seguire il mood e "rilassarsi". Se ci riuscite, ovvio, perché il paragone con The Babadook non l'ho fatto a caso. Sarah, infatti, parte da una condizione già svantaggiata, come accadeva ad Amelia. Madre single, con ex marito risposatosi e in procinto di avere un secondo figlio (che lui e Sarah si fossero messi d'accordo per "non dare un fratellino a Mia" neppure con altri partner è un dettaglio molto importante), Sarah viene privata di un altro pilastro importante per la propria stabilità mentale con la morte dell'adorato padre, evento che la costringe ad interessarsi della madre con la quale non parla da anni. Il rapporto tra Sarah e la piccola Mia, almeno all'inizio, non è però terribile come quello tra Amelia e Samuel: certo, Mia ogni tanto ha delle uscite un po' assurde e Sarah tende a tenere la piccola all'oscuro delle dinamiche familiari, soprattutto per quanto riguarda la nonna, ma madre e figlia parrebbero assai legate. Qualcosa si spezza il giorno del compleanno di Mia, quando la bambina vede la madre nell'atto di compiere un gesto potenzialmente imperdonabile (le cui conseguenze fisiche si imprimeranno nella carne della donna, come da titolo italiano) e, tradita nel profondo, comincia a cambiare, diventando quasi una sconosciuta agli occhi di Sarah. Scioccata da questi violenti cambiamenti, le difese mentali della donna si indeboliscono al punto che i traumi passati arrivano ad assumere contorni ben più reali di un presente incerto, con tutta una serie di rivelazioni che vi lascio il piacere di scoprire.


Il punto di forza de Il morso del coniglio, neanche a dirlo, è l'interpretazione di Sarah Snook, attrice che apprezzo dai tempi del sottovalutato Jessabelle. Appesantita, sciatta e con lo sguardo atterrito e diffidente del coniglio che fugge, la Snook rende credibili ed intensi anche i momenti più "confusi" della pellicola, quelli in cui la sceneggiatura sembra volerla fare un po' fuori dal vaso, e permette allo spettatore di empatizzare anche con un personaggio, a tratti, non particolarmente gradevole. La piccola Lily LaTorre, adorabile pulcetta dalla faccia da schiaffi anche nei momenti più inquietanti della pellicola, è a sua volta molto brava e tiene botta senza timore di venire eclissata da "mammà", il che risulta in un'ottima alchimia tra le due attrici. Altra cosa che ho molto apprezzato de Il morso del coniglio (ma qui secondo me fa parecchio l'effetto nostalgia) è l'ambientazione australiana, quel passaggio dalle sfumature bluastre della prima parte, che mostra principalmente edifici chiusi come case, scuole o studi medici, che si tinge dei colori marroni del bush, di una natura brulla e immancabilmente sconfinata, capace di inghiottire le persone senza che di loro rimanga traccia, tranne che nel cuore di chi ancora le aspetta o le ricorda. Siccome ho promesso di non fare spoiler, non mi sento di aggiungere altro, tranne che di dare una chance a Il morso del coniglio e di affrontarlo con la pazienza che merita, perché il suo difetto principale è quello di risultare poco dinamico e magari non facilissimo da sostenere dopo una dura giornata di lavoro. Io non mi sono addormentata però, quindi questo dispone a suo favore!


Di Sarah Snook, che interpreta Sarah, ho già parlato QUI.

Daina Reid è la regista della pellicola. Australiana, ha diretto principalmente episodi di serie TV quali The Handmaid's Tale e The Outsider. Anche attrice, produttrice e sceneggiatrice, ha 57 anni. 



Sarah Snook ha sostituito Elisabeth Moss, che ha dovuto rinunciare al film per impegni pregressi. Se Il morso del coniglio vi fosse piaciuto recuperate ovviamente The Babadook (lo trovate sul canale Midnight Factory o a noleggio su Prime Video) e aggiungete Hereditary , Two Sisters (entrambi a noleggio su Chili o Prime Video) e Relic (compreso nell'abbonamento Prime Video). ENJOY!

martedì 11 luglio 2023

Indiana Jones e il quadrante del destino (2023)

Potevo forse perdermi Indiana Jones e il quadrante del destino (Indiana Jones and the Dial of Destiny), diretto e co-sceneggiato dal regista James Mangold? Ovviamente no. Zero spoiler, prometto.


Trama: raggiunta l'età della pensione, Indiana Jones viene avvicinato dalla figlia di un suo vecchio amico, che lo trascinerà in un'avventura in mezzo a nazisti ed invenzioni pitagoriche...


Lo dico e lo ripeto: che susse siamo diventati noi spettatori. Ma da una parte, per carità, è meglio così. Indiana Jones e il quadrante del destino è stato talmente asfaltato dalla "critica" che sono partita prevenutissima con questo ultimo capitolo della saga, nonostante non sia una di quei fan che conoscono a memoria e citano ogni film della trilogia tranne il quarto (per me questa cosa vale solo con Il tempio maledetto, ma sono in minoranza visto che lo odiano persino i coinvolti). Mi aspettavo una ciofeca e, come sempre accade in questi casi, avendo le aspettative a terra mi sono sorpresa davanti a un film gradevolissimo e divertente che, con un po' di fortuna, metterà definitivamente fine alle avventure di Indiana Jones. Questa consapevolezza, probabilmente, ha viziato la mia percezione dell'opera, lo ammetto. Se già in Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo il protagonista era invecchiato e si scagliava contro i giovinastri irrispettosi incarnati dal "simpaticissimo" Mutt, pagando il contrappasso di avere perculato papà Sean Connery nel capitolo precedente e ritrovandosi nei panni di matusa rincoglionito, qui abbiamo un professor Jones in pensione, divorato dalla solitudine, amaro come l'alcool in cui affoga i suoi dispiaceri, a volte persino vittima di quello sguardo tra il sorpreso e lo spaventato degli anziani (una bambina nel pubblico mi ha spezzato il cuore dicendo che uno dei cattivi non le piaceva perché "picchia i vecchietti". Amore pulcetta, ma ci rendiamo conto che per lei quel gran figo di Ford è un vecchietto?). Indy è un uomo arrivato al capolinea, ed è terribile il contrasto tra la sequenza iniziale (che, grazie alla CGI, ce lo mostra giovane e aitante a fare il mazzo ai nazi) e quella in cui, mutanda flappa d'ordinanza, intima al vicino capellone di abbassare la musica; è un uomo che, a differenza dell'Indy che rideva in faccia alla morte ne I predatori dell'arca perduta, spende una lacrima per ogni persona conosciuta o amico che fa una brutta fine, perché ognuna di queste morti lo rende più solo e più vicino alla sua dipartita. Onestamente, questo è uno degli aspetti che più ho apprezzato del film, perché non avrei tollerato un settanta-ottantenne che saltella e si spara pose da cinico marpione come se non fossero passati più di quarant'anni dal suo esordio, e trovo anche giusto che la motivazione principale che lo spinge a farsi coinvolgere dalla giovane Helena sia quella di levarsi presto dalle balle l'incombenza e tornare a piangersi addosso in tranquillità.


Siccome ho nominato Helena, un paio di accenni sulla trama. Indiana Jones e il quadrante del destino è il tipico film avventuroso, "alla Indiana Jones" appunto, dove i personaggi vagano per il globo alla ricerca di manufatti protetti da ingegnose trappole/indovinelli onde evitare che il villain di turno se ne impossessi. E' la cifra stilistica della serie, per quanto mi riguarda, solo che stavolta l'azione è quasi tutta nelle mani della new entry Helena; quest'ultima è un personaggio che evolve, presentandosi inizialmente come un'archeologa/collezionista di manufatti antichi senza scrupoli, in aperto contrasto con le idee più filantropiche di Indy, e piano piano riscopre una sorta di etica, se non addirittura un cuore, che la rendono meno monodimensionale di quanto non appaia all'inizio. Il fulcro della trama, però, non è lo scontro generazionale, quanto piuttosto il contrasto tra chi non accetta di fare ormai parte di un'altra epoca e ancora vive legato a fasti passati che non torneranno mai, e chi sceglie di fare tesoro del passato ma senza lasciarsi dominare da esso, un contrasto che trova compimento nella presenza di un artefatto strettamente legato al tempo e, anche, nella natura stessa di Indiana Jones e il quadrante del destino. Guardando il film, infatti, non si percepisce alcuna voglia di rilanciare il franchise, quanto piuttosto quella di farlo diventare una sorta di omaggio riaggiornato (e remunerativo, certo) a quarant'anni di avventure di un'icona cinematografica. Al di là dei riferimenti espliciti e degli easter egg sparsi qui e là, ci sono intere sequenze ad omaggiare lo stile di Spielberg quando si approcciava alla saga (ma anche a quello delle sue produzioni più iconiche, soprattutto i Goonies, citato più di una volta), tra inseguimenti mozzafiato su vari mezzi di locomozione ed insidiosi ambienti zeppi di trappole, e persino alcuni giochi di luce ed ombre sono simili; nonostante ciò, Mangold e soci sono riusciti a far sì che il film mantenesse una sua personalità e hanno evitato di ricalcare pedissequamente le opere che lo hanno preceduto e trasformarlo in un remake/plagio fatto e finito, com'è successo, per esempio, con il secondo tempo di Ghostbusters Legacy.


E poi, vabbé, come ho scritto all'inizio del post io sono di parte. Harrison Ford, col tempo, è arrivato ad assomigliare un casino al mio papà, sia per il sembiante che per la faccia scazzata di chi ha sempre un po' la bestemmia in canna perché la gente gli spacca i marroni, e vederlo guidare il tuctuc ha rischiato di uccidermi in mezzo alla sala, perché uno dei mezzi di ordinanza di padre è l'Ape Piaggio, mezzo di locomozione tipico dei vegi di campagna. Quindi sì, ogni volta che vedevo Jones sperso, perplesso, triste, mi veniva in mente papà e mi si spezzava il cuore, e ogni suo trionfo o rivincita da old man sono stati una gioia per lo stesso motivo. Lo so che è un punto di vista stupido, da ragazzina immatura, ma credo che il cinema sia soprattutto questo, farsi trasportare dalle emozioni più varie, tornare bambini per una sera, dividersi tra il rimpianto per quel gran figo che era Harrison Ford e l'amore per questo arzillo ottantenne, perdendo quella voglia di criticare sempre e comunque, tipica del nostro tempo. Poi se volete vi dico che quel bambino mostruoso che hanno appioppato ai protagonisti non ha un grammo del carisma dell'amatissimo Shorty, che le scene ambientate in Italia sono il trionfo dello sterotipo tossico, che la presenza di Banderas è uno spreco di denaro e carisma, che le motivazioni del villain sono di una banalità sconcertante e che Helena si definisce bene solo da un certo punto in poi, ché all'inizio secondo me la sceneggiatura non sapeva bene quale carattere darle, ma tutto scompare davanti allo score di John Williams, agli schiocchi di frusta e a quel piccolo bacio dato sul gomito, che ha lasciato me e i miei compagni di visione in lacrime commosse. Dite quel che volete su Indiana Jones e il quadrante del destino ma, per quanto mi riguarda, old man Indy batte gli alieni 10 a 0. 
P.S. Magari andatelo a vedere in v.o., se potete. Il doppiaggio italiano ci mette almeno dieci minuti ad entrare in sincrono coi movimenti labiali dei personaggi, tanto che all'inizio mi veniva voglia di strapparmi le orecchie, e Gammino ormai biascica un po', santa creatura. Ho riso più per le varie interpretazioni che gli spettatori attorno a me davano di "wombato" che per le gag del film, ma qui magari trattasi di ignoranza del pubblico, non di pronuncia strascicata.  


Del regista e co-sceneggiatore James Mangold ho già parlato QUI. Harrison Ford (Indiana Jones), Antonio Banderas (Renaldo), Karen Allen (Marion), John Rhys-Davies (Sallah), Thomas Kretschmann (Colonnello Weber), Toby Jones (Basil Shaw), Boyd Holbrook (Klaber) e Mads Mikkelsen (Dr. Voller) li trovate invece ai rispettivi link. 

Phoebe Waller-Bridge interpreta Helena. Inglese, ha partecipato a film come Albert Nobbs, The Iron Lady, Solo: A Star Wars Story e a serie quali Fleabag. Anche produttrice, sceneggiatrice e regista, ha 38 anni e un film in uscita. 


Se Indiana Jones e il quadrante del destino vi fosse piaciuto, neanche a dirlo, recuperate tutti gli altri film della saga! ENJOY!
 

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