venerdì 17 maggio 2024

The Love Witch (2016)

La horror challenge di Letterboxd sta, mio malgrado, procedendo lentissimamente e ormai fuori tempo. Aspetterò però la fine dell'anno prima di arrendermi, anche perché mi sta spingendo a recuperare film particolari. Oggi, per esempio, tocca a The Love Witch, diretto e sceneggiato nel 2016 dalla regista Anna Biller quindi perfetto per il prompt "film diretti da donne".


Trama: dopo un divorzio finito male, Elaine decide di cambiare città e cercare un altro uomo sfruttando le sue arti magiche, ma non andrà benissimo...


Come sapete se, ogni tanto, leggete le cretinate che scrivo su Facebook e Instagram, ho avuto qualche difficoltà con The Love Witch. Non tanto a livello di lentezza, un problema che ho personalmente patito e sul quale tornerò, quanto proprio a livello di significato. Leggendo qualche articolo qui e là ho avuto la conferma che Anna Biller è un'autrice profondamente femminista, ma proprio non sono riuscita a collegare la scelta di utilizzare tecniche cinematografiche ormai scomparse con la concezione moderna di femminismo, un tema assai sentito all'interno del film ma "raccontato" in maniera particolare. The Love Witch parla, infatti, di una donna alla ricerca del vero amore, quello delle fiabe. La protagonista, Elaine, è reduce da un matrimonio fallito e culminato, con tutta probabilità, nell'omicidio del marito; onde riprendersi dall'esperienza, Elaine decide di trasferirsi in una cittadina di provincia e lì cercare un nuovo amore, propiziando il sentimento degli uomini grazie alle sue arti di strega. Il problema è che la magia d'amore di Elaine funziona troppo bene, al punto che gli esponenti del sesso maschile perdono ogni dignità di fronte a lei. Tra chi si trasforma in un bambino piangente e bisognoso di affetto perenne, chi perde il senno e chi, per reazione, diventa un freddo gatto di marmo, non bisogna stupirsi se Elaine, dopo poco tempo, si stufa e cambia obiettivo, alla ricerca perenne di un principe azzurro perfetto che corrisponda al suo ideale, non importa se la magia ha come risultato finale quello di lasciare in giro cadaveri. Quello che turba un po' il mio cervello di cocorita è che Elaine, a differenza delle poche conoscenti che le gravitano intorno, ambirebbe ad annullarsi completamente per amore, assecondando ogni desiderio e capriccio dei suoi amanti, ed è assai critica verso chi parla di indipendenza femminile. La sua collega strega, per esempio, è una ferma sostenitrice di come il potere sessuale e d'amore debba puntare verso l'affermazione della donna contro una società fallocentrica, mentre l'agente immobiliare Trish vorrebbe che il marito, di cui pur è innamorata, la piantasse di asfissiarla con continue richieste sessuali e vive come una donna affermata, senza che la propria vita venga determinata dal ruolo di moglie. Mi verrebbe da pensare, visto che le azioni di Elaine sono votate a un narcisismo egoistico, che nonostante le sue parole la vera femminista sia comunque lei, in quanto sceglie consapevolmente di basare la sua felicità sul raggiungimento di un obiettivo preciso (che poi l'obiettivo siano gli uomini, poco importa) sfruttando tutti i mezzi che la natura le ha messo a disposizione, mentre le donne che la circondano si conformano ad una visione maschile del potere femminile, oppure la invidiano; la congrega di streghe è gestita da un uomo leppegosissimo che Elaine, palesemente, odia, benché venga venerato dalle sue pari, mentre le azioni di Trish sul prefinale sono tristemente eloquenti.


Proprio quest'affermazione di un femminismo lontano dai dogmi estremisti e divisori, dell'unicità di Elaine e del suo modo di concepire l'amore, potrebbe essere la chiave per interpretare anche la scelta stilistica di Anna Biller. L'autrice ha deciso di realizzare il film servendosi di pellicola 35 mm, montandola personalmente in analogico, tagliandone e giuntandone i pezzi come si faceva un tempo, e ha fatto un lavoro di ricostruzione impressionante, a livello di costumi, scenografie, effetti speciali, colori, fotografia e musiche. Considerato che The Love Witch è ambientato ai giorni nostri, l'effetto è a dir poco straniante, e dà l'impressione che l'intera vicenda sia filtrata dal punto di vista di Elaine, la cui emotività ricorda quella al limite dello psicotico di molte protagoniste di melodrammi cinematografici d'epoca, per le quali amore e morte erano da perseguire con eguale intensità. Purtroppo, l'ignoranza che mi accompagna sottobraccio dalla nascita non mi ha consentito di cogliere tutti i riferimenti colti verso un cinema, non soltanto di genere, di cui conosco giusto gli esponenti più famosi, da Hitchcock a Corman, passando per La fabbrica delle mogli, nominato anche nei dialoghi, ma sarei curiosa di recuperare tutte le pellicole citate dalla regista come influenze sulla sua opera, perché alcune mi intrigano molto. La speranza è che la gioia di contemplare l'estetica coloratissima e vintage di film a me sconosciuti, così com'è successo per ogni singola immagine che compone The Love Witch, mi distolga da eventuali, probabili lentezze a livello di ritmo per quanto riguarda le fonti d'ispirazione di Anna Biller. Purtroppo, infatti, l'unico vero difetto di The Love Witch è la presenza di lunghe sequenze visivamente affascinanti ma (a parer mio, ci mancherebbe!) inutili ai fini della trama, alla quale avrebbe giovato una mezz'oretta di girato in meno per salvare lo spettatore da un principio di abbiocco che ha rischiato di sopraffarmi, per esempio, durante la sequenza della cerimonia nuziale medievale. A parte queste considerazioni di carattere prosaico, The Love Witch è un esperimento interessantissimo, ben distante dal cinema mordi e fuggi odierno, che merita rispetto e attenzione anche solo in virtù del lavoro certosino che c'è dietro. Purtroppo, in Italia è stato snobbato in ogni luogo e in ogni lago, e occorre lavorare di fantasia oppure affidarsi al mercato home video inglese per recuperarlo, ma vi consiglio di provarci. E, ovviamente, di scrivere i vostri pensieri in merito nei commenti! 

Anna Biller è la regista, sceneggiatrice, produttrice, compositrice, montatrice, scenografa e costumista del film. Americana, ha diretto altri film come The Hypnotist e Viva. E' anche attrice. 


Samantha Robinson
, che interpreta Elaine, ha partecipato anche a C'era una volta... a Hollywood. Se The Love Witch vi fosse piaciuto, la regista ha citato una marea di film da cui ha tratto ispirazione o citati all'interno della pellicola, tra i quali Il delitto perfetto, Psyco, Gli uccelli, Marnie, La fabbrica delle mogli, La favolosa storia di pelle d'asino e Jeanne Dielman, 23, quai du commerce, 1080 Bruxelles, questi ultimi riproposti con intere scene ad omaggiarli. ENJOY! 

mercoledì 15 maggio 2024

La profezia del male (2024)

La sacra regola dice che qualunque horror esca al cinema vada visto, il che vale anche per pellicole poco pubblicizzate come La profezia del male (Tarot), diretto e sceneggiato dai registi Spenser Cohen e Anna Halberg a partire dal romanzo Horrorscope di Nicholas Adams, peraltro introvabile online se non a prezzi spropositati.


Trama: durante una festa di compleanno, dei ragazzi trovano un mazzo di tarocchi all'interno di una villa. Haley, esperta di oroscopi, decide quindi di leggere il futuro ad amici ed ex fidanzato, attirando su tutti quanti un'antica maledizione...


Dubito che qualcuno de los titolistas legga il mio blog ma, nel caso fosse così, sappiate che vi detesto come la Nicolodi detestava lo spirito del male in Paganini Horror. E il punto è proprio il male. Ma perché lo mettete persino nella minestra? Vi pareva brutto lasciare il titolo originale, Tarot, tanto adesso sono tornati di moda i tarocchi e avrebbero capito tutti l'argomento del film? E poi, profezia perché? Potevate scegliere parole come predizione, oroscopo, mazzo, tarocchi, e invece no. "Profezia", neanche il film avesse argomento divino, satanico, oppure la fine del mondo. Giuro, non vi capisco, spero che un giorno mi spiegherete quali arzigogolati ragionamenti di marketing stiano alla base di queste scelte. Nel frattempo, parliamo di La profezia del male. Un film banale quanto il titolo italiano che porta, il tipico horror per ragazzini dalla trama collaudata: i protagonisti incappano in una maledizione a caso per motivi risibili, seguono incidenti mortali che toccano, a turno, ognuno di loro, i sopravvissuti cominciano ad indagare per non fare la stessa fine (mettendo in mezzo l'inevitabile viaggio in macchina verso l'esperto inutile/dannoso), la maledizione viene affrontata e la conclusione può essere positiva o negativa, a seconda della bastardaggine degli sceneggiatori. Non so come sia il romanzo Horrorscope, da cui è tratto il film, ma La profezia del male ha l'enorme difetto di avere come sceneggiatori due paraculi, di conseguenza vanta uno dei finali più brutti di sempre e, di sicuro, il peggiore visto quest'anno. E' proprio di una stupidità al cubo, il "perché sì" all'ennesima potenza, e ha innervosito persino il mio compare Ale, solitamente molto più indulgente della sottoscritta. La cosa fa ancora più rabbia perché, nei limiti della sua natura di film derivativo, votato allo spavento facile e classificato PG-13, La profezia del male non è malfatto. I tarocchi mi affascinano da sempre e ci sta approcciarsi ad essi con un po' di "paura", soprattutto se non si conoscono o si è molto superstiziosi, quindi l'idea di un mazzo maledetto che dispensa morte per mano delle figure presenti sulle carte è interessante. Ed è anche divertente indovinare come moriranno i protagonisti. Il film sfrutta il concetto alla base di Final Destination, che vede il destino di ogni personaggio anticipato all'inizio (in questo caso, dall'oroscopo di Haley) e reiterato da tanti piccoli dettagli che richiamano la carta a loro legata, quindi lo spettatore può sbizzarrirsi a sua volta a fare previsioni. 


Per essere un PG-13, La profezia del male gode di un paio di omicidi particolarmente efferati (almeno sulla carta), una caratteristica che Spenser Cohen e Anna Halberg riescono con abilità a far percepire allo spettatore, spaventandolo senza mostrargli più di quanto consentito dal visto censura. Inoltre, ha dalla sua tanti aspetti tecnici che rendono molto piacevole la visione. I tarocchi, tanto per cominciare, sono dotati di una macabra eleganza che mi fa sperare, prima o poi, per una stampa anastatica del mazzo, e le figure che fuoriescono dalle carte mettono parecchia paura, soprattutto l'Appeso, la Papessa, il Mago e il Matto, probabilmente quello che più ha terrorizzato me; sul finale, purtroppo, l'ingerenza della CGI si fa evidente, ma un paio di creature sono ben interpretate da James Swanton (già apprezzato come Ash Man in Stopmotion, di cui parlerò prossimamente) e la sinergia tra le scenografie evocative, i bellissimi costumi e la regia a tratti interessante riescono a mitigare un po' questo difetto. Non saprei dire, invece, se gli interpreti sono insipidi o se si è trattato di un problema di doppiaggio non particolarmente curato. Jacob Batalon è insopportabile (o forse SPOILER è la mia convinzione che il suo personaggio se la sia cavata col barbatrucco del coinquilino solo perché ai giovani spettatori sarebbe dispiaciuto vedere morire l'amichetto di Spider-Man) e gli altri attori mi sono sembrati bellocci ma dimenticabili, in particolare la protagonista, ben poco carismatica. Per quanto mi riguarda, non è un film che rivedrei, né vi consiglierei di buttare via i soldi al cinema, soprattutto se avete superato l'età anagrafica del target della pellicola, ma ricordatevene quando verrà distribuito in streaming. Se non altro, fatemi sapere se il finale ha fatto schifo tanto a voi quanto a me!


Di Jacob Batalon (Paxton) e Olwen Fouéré (Alma Astryn) ho già parlato ai rispettivi link.

Spenser Cohen e Anna Halberg sono i registi e co-sceneggiatori della pellicola. Americani, sono al loro primo lungometraggio, ma hanno già collaborato insieme alla serie di podcast Classified. Entrambi produttori, la Halberg è anche attrice. 


Se La profezia del male vi fosse piaciuto recuperate la saga di Final Destination. ENJOY!





martedì 14 maggio 2024

Bolla Loves Bruno: Il colore della notte (1994)

La rubrica dedicata a Bruno rallenta, come sempre, ma non si ferma! Oggi parliamo di Il colore della notte (Color of Night), diretto nel 1994 dal regista Richard Rush.


Trama: dopo avere assistito al suicidio di una sua paziente, lo psichiatra Bill Capa si trasferisce a Los Angeles da un collega, che viene ucciso di lì a poco da un killer sconosciuto. Senza volerlo, Capa si ritrova coinvolto nelle indagini, e nella torrida relazione con una misteriosa ragazza...


Mamma mia. Il colore della notte era un film che temevo, pur non avendolo mai visto, in quanto i thriller erotici che andavano di moda negli anni '90 erano spesso delle schifezze colossali senza capo né coda. In più, Il colore della notte ha il non trascurabile difetto di essere stato massacrato da un produttore che è riuscito a renderlo più brutto ed arzigogolato, là dove la versione del regista sembrava essere molto più centrata, almeno per quanto riguarda il personaggio interpretato da Jane March, ma anche più popporno. A onor del vero, io ho visto la versione da 139 minuti e tutta questa bellezza e centratezza in più non l'ho vista. In compenso, ci sono quelle scene di scopate gratuite e per nulla sensuali che sono ciò che detesto di questo genere di film, a prescindere da quanto possa essere godibile (come in questo caso) vedere Bruce Willis nudo che sfodera il suo attrezzo in piscina e i segni dell'abbronzatura sotto la doccia. Senza fare troppi spoiler, ché Il colore della notte è un thriller, vediamo perché l'ho trovato incredibilmente cretino e schizofrenico. Bruce Willis è uno psichiatra che perde la fiducia in se stesso e diventa incapace di riconoscere il colore rosso (!!) dopo che una sua paziente (la quale all'inizio viene mostrata praticare fellatio sia a un rossetto che a una pistola, così, debbotto, in una delle scene introduttive peggiori di sempre) gli si suicida davanti, buttandosi da un grattacielo. Taglio su Bill Capa, così si chiama lo psichiatra, che per riprendersi decide di andare a L.A. da un collega con tanti di quei soldi da avere una villa e uno studio allucinanti, sui quali poi tornerò. Il collega, che ogni settimana gestisce un gruppo d'incontro frequentato dai peggio matti della zona, riceve da mesi minacce di morte e, dai che ti ridai, un bel giorno viene ucciso. Ora, una persona normale sarebbe tornata a New York, invece Bill Capa si stabilisce nella villa dell'amico, gli usa le macchine, i vestiti e si prende in carico il gruppo di schizzati, in mezzo ai quali si nasconde, presumibilmente, il killer. Qui mi taccio, perché un minimo di divertimento nello scoprire chi ha fatto fuori lo psichiatra fighètto in effetti ci sarebbe. Peccato che, tra un'indagine e l'altra, Capa si invaghisca di una sgallettata subito dopo essere stato tamponato da costei e, da quel momento, il film diventi la sagra della scopata. Ora, il personaggio di Jane March non è inutile ai fini della trama, ma la sceneggiatura è palesemente scritta da due uomini alle prime armi che ambivano a mettere su schermo le banali fantasie sessuali del maschio medio, perché Rose non ha un pregio che sia uno, a parte quello di essere porca.


Bill e Rose si innamorano dopo cinque minuti. Il perché, non è dato sapere. Cioè, è comprensibile che Bill perda la testa per una che gli si offre al primo incontro e che, dopo la prima giornata di sesso (non si può parlare di notte, visto che questa arriva già senza mutande - giuro! - per colazione e se ne va la sera), non faccia altro che cucinare nuda, ma lei perché dovrebbe innamorarsi al punto da "cambiare"? Solo perché lui, ogni volta che la vede, si mette a narrare con fare sognante le azioni di Rose (giuro, lo fa)? Perché, in effetti, è Bruce Willis quindi figo a prescindere? Perché non l'ha scassata di mazzate dopo averlo prima tamponato e poi dichiarato innocentemente di non avere la patente? Comunque, questo è quanto, la struttura del film è: un passo avanti nelle indagini, una scopata, un momento in cui Capa si pente di non essersi fatto i fatti suoi, una scopata, un passo avanti, una scopata. Il tutto, con i riflettori puntati su un'attrice, Jane March, non solo cagna (il che è un problema visto che le viene richiesta un'abilità camaleontica) ma nemmeno dotata di bellezza e sensualità eccelse. Per fortuna, ci sono i matti. Trattati, ovviamente, come ci si aspetterebbe da un film simile, ovvero senza nessuna pretesa di empatia (salvo un momento stranamente serio, dedicato al personaggio interpretato da Lance Henriksen) o verosimiglianza, ma solo come un branco di mine vaganti pronte ad esplodere in faccia a Capa. Vederli interagire tra loro, snocciolando piccoli segreti potenzialmente incriminanti, e gettare uno sguardo nelle loro folli vite, è più pertinente rispetto alle infinite performance sessuali di Capa e Rose; in più, Brad Dourif si mangia il resto del cast appena sgrana gli occhi e lo stesso vale per Lesley Ann Warren, incredibilmente sopra le righe, anche se mai quanto Rubén Blades, il cui investigatore è la cosa più improbabile di tutta la pellicola, oltre che la più esilarante. Anzi, no. La cosa più improbabile de Il colore della notte sono la villa e lo studio di Bob Moore, un trionfo di ostentazione pacchiana, arricchite da elementi ripresi dalle cattedrali gotiche. Probabilmente, nelle intenzioni di Richard Rush, scenografie simili dovevano dare un tocco originale ed autoriale a Il colore della notte, così come alcuni particolari bizzarri all'interno delle inquadrature; per quanto mi riguarda, hanno solo alimentato la sensazione di incredula ilarità che mi ha accompagnata per tutta la durata di un film che depennerei tranquillamente dalla filmografia di un Bruce Willis in declino che, grazie a Tarantino, avrebbe di lì a poco iniziato il suo ritorno in grande stile. 
 

Di Bruce Willis (Bill Capa), Rubén Blades (Martinez), Scott Bakula (Bob Moore), Brad Dourif (Clark), Lance Henriksen (Buck), Eriq La Salle (Anderson) e Shirley Knight (Edith Niedelmeyer) ho già parlato ai rispettivi link.

Richard Rush è il regista della pellicola. Americano, ha diretto film come Professione pericolo. Anche sceneggiatore, produttore e attore, è morto nel 2021 all'età di 92 anni.


Lesley Ann Warren
interpreta Sondra. Americana, la ricordo per film come Victor/Victoria e Signori, il delitto è servito ; inoltre, ha partecipato a serie quali Missione impossibile, Colombo, Will & Grace, Desperate Housewives e Daredevil. Anche produttrice, ha 78 anni e due film in uscita. 


Jane March
era stata scelta in quanto reduce dal successo internazionale del suo primo film, L'amante, ma giustamente ha fatto, in seguito, ben poca carriera. Se Il colore della notte vi fosse piaciuto potete andare qui e recuperare tutta una serie di film simili più o meno riusciti. ENJOY!

venerdì 10 maggio 2024

Humane (2024)

Un uccellino mi ha detto che era già disponibile il film Humane, l'opera prima della regista Caitlin Cronenberg. Potevo forse perderlo?


Trama: in un futuro imminente dove i disastri ecologici hanno portato la terra al collasso, l'ONU ha imposto un termine ultimo per ridurre la popolazione. In questo clima di terrore, il giornalista in pensione Charles York convoca a cena la sua famiglia disfunzionale per un annuncio...


Il nome Cronenberg pesa quanto un macigno, quindi Caitlin l'aspettavamo tutti al varco, pronti a giudicare la legittimità della sua appartenenza alla stirpe. Forse la fanciulla lo sapeva e ha deciso, per il suo esordio, di non seguire ciecamente le orme di padre e fratello, e di non approcciare le tematiche del body horror, pur conservando inalterato "l'ottimismo" che serpeggia in famiglia. Come fa da anni papà David, seguito a ruota dal fratello Brandon, Caitlin ci offre lo spaccato di un'umanità perduta, e comincia partendo dal titolo, Humane. All'inizio del film si dice che le catastrofi naturali e i conseguenti problemi da esse derivate sono un problema squisitamente umano: abbiamo ridotto noi il pianeta uno schifo e, da un punto di vista egoisticamente antropocentrico, siamo noi quelli che avranno più da soffrirne. E' giusto dunque che l'uomo diventi anche la soluzione al problema, attraverso un mezzo che non vi spoilero se avrete piacere di guardare il film. Attenzione, lo dico perché lo penso davvero. Il mezzo di salvezza concertato dallo sceneggiatore Michael Sparaga, benché spesso sfruttato nelle opere horror e fantascientifiche, sarebbe incredibilmente giusto se fosse amministrato con equità imparziale. Il problema è, come sempre, l'essere umano. Una creatura profondamente ingiusta, elitaria ed egoista, in grado di creare centri di potere che esasperano queste caratteristiche e mettono in piedi società basate sull'ipocrisia, l'opportunismo e lo sfruttamento. Ciò vale in primis per i privilegiati coi soldi, come i membri della famiglia York, ma vale anche per chi, nelle disgrazie, cerca una rivalsa per un destino ingiusto o magari, chissà, per qualche psicosi latente. E così, Caitlin Cronenberg ricrea in piccolo tutto lo schifo dell'umanità, portando sullo schermo protagonisti odiosi e grotteschi, con pochissimi sprazzi di positività che ci mettono davvero poco a venire inghiottiti ed annullati per sempre. Lo fa con un senso dell'umorismo nerissimo e una messa in scena classica ma efficace, che sfrutta cliché sempre graditi (cene eleganti all'interno di magioni lussuose che diventano, in un attimo, teatro di indicibili atti di violenza e codardia) con l'aggiunta di "pubblicità progresso" confezionate ad hoc, trasudanti ipocrisia e un pietismo agghiaccianti.


Si ride parecchio in questo Humane, anche se si tratta di un riso molto amaro. Il film della Cronenberg rientra di diritto nella categoria di film che amo di più, quelle commedie bastarde, al confine col thriller e l'horror, in cui l'affetto diventa odio in quattro e quattr'otto e la sete di potere e denaro trasforma il sangue in acqua, e gli attori sono stati scelti di conseguenza. Infatti, in mezzo a performance serie e quasi dolorose come quella di Sebastian Chacon nei panni di Noah o quella di Alanna Bale in quella di Ashley, spiccano quelle caricatissime di Emily Hampshire (una donna la cui resting bitch face fa il paio con un animo nero come la pece), quella di Jay Baruchel (il belino mollo per eccellenza, talmente odioso che il personaggio sarebbe calzato a pennello a Justin Long, ultimamente abbonato a questo genere di ruoli) e, soprattutto, quella di Enrico Colantoni nei panni di Bob. Ecco, quest'ultimo è, al momento, candidato come mio personaggio dell'anno. Bob è un essere abietto, l'emblema della banalità (stronza) del male, e mi spiace mi abbia ricordato tanto, almeno per l'aspetto, la bonanima di Bob Hoskins (anche se penso che si sarebbe divertito ad interpretarlo); ogni apparizione di Bob gela il sangue nelle vene e spinge a volersi alzare dalla poltrona per per tirare una ciabattata sul televisore, solo per non vedere più la sua sorridente, cortese faccia di merda. Anche solo per questo, spero che Humane ottenga vasta distribuzione in Italia, ché mi piacerebbe vedere un film simile al cinema, anche solo per essere testimoni delle reazioni dei miei storici compagni di horror. Se non dovesse succedere, date in qualche modo una chance a Caitlin Cronenberg. Magari il suo esordio non è stato eclatante come quello del fratello, ma la ragazza ha il cuore nel posto giusto, e rischia di dare delle soddisfazioni agli appassionati!


Di Jay Baruchel (Jared York) e Peter Gallagher (Charles York) ho parlato ai rispettivi link.

Caitlin Cronenberg è la regista del film. Canadese, figlia di David Cronenberg e sorella di Brandon Cronenberg, è al suo primo lungometraggio. Lavora principalmente come fotografa di scena ma è anche attrice e produttrice. Ha 40 anni.


Sia Emily Hampshire, che interpreta Rachel York, che Sirena Gulamgaus, che interpreta sua figlia Mia, hanno partecipato alla serie Chapelwaite. Se Humane vi fosse piaciuto recuperate Silent Night e The Feast. ENJOY!

mercoledì 8 maggio 2024

La società della neve (2023)

E' stata dura ma alla fine sono riuscita a guardare La società della neve (La sociedad de la nieve), diretto e co-sceneggiato nel 2023 dal regista Juan Antonio Bayona a partire libro omonimo di Pablo Vierci e candidato a 2 premi Oscar, Miglior film internazionale e Miglior trucco e acconciatura.


Trama: nel 1972, un volo partito dall'Uruguay e diretto in Cile si schianta contro la cordigliera delle Ande. I pochi sopravvissuti si ritroveranno bloccati in uno dei luoghi più inospitali del pianeta e dovranno cercare in tutti i modi di rimanere vivi...


Come ho detto, è stata dura guardare La società della neve e sarà dura anche scriverci un post, a causa della modalità in cui l'ho guardato. Abbiamo cominciato una sera, con Mirco, appena il film è uscito su Netflix. Arrivati alla sequenza del disastro, Mirco, notoriamente aviofobico, si è alzato dopo pochi secondi e se n'è andato, maledicendo me, il mondo e Bayona. Io, che pur non ho paura degli aerei, ho resistito poco di più, e alla fine della sequenza, preda della tachicardia forse causata dall'empatia verso il mio povero fidanzato, ho spento la TV. Nel frattempo sono passate le settimane e, vista la mia ferma volontà di fare fronte alla Oscar Run, ho ricominciato a guardare il film al mattino, mentre facevo colazione, il che significa che mi ci è voluta più di una settimana per finirlo e che ogni, fottutissima mattina, mi sono ritrovata a piangere come un vitello, in pena per Numa, Nando, Roberto e gli altri sfortunatissimi sopravvissuti. Se vi sembra il modo di fruire di un film. Eppure io ricordo, da ragazzina, che Alive - I sopravvissuti non mi aveva fatto né caldo né freddo, i miei lo avevano tranquillamente guardato in TV, e l'unica cosa che mi aveva perplessa, più che turbata, è il fatto che i protagonisti fossero stati costretti a mangiare carne umana per sopravvivere, cioè più una cosa "schifosa" che altro. Invece La società della neve mi ha annientata, e non saprei nemmeno dire perché. Forse per la particolare scelta di raccontare il film dal punto di vista di chi non ce l'ha fatta, con un narratore a cui ci affezioniamo e che muore verso metà film. Forse perché, fino all'ultima partenza verso la salvezza, la regia e la sceneggiatura si impegnano a raccontare una storia non di eroi, ma di esseri umani ai quali è toccata in sorte una delle peggiori disgrazie, di persone che cercano di non regredire ad animali o di non farsi divorare dalla disperazione, mettendo in gioco pochi talenti peculiari e apportando ognuno qualcosa al gruppo, alla "società". Evidentemente, a 43 anni non reggo più le ricostruzioni di eventi realmente accorsi, durante i quali le persone hanno sofferto per lungo tempo, provando sulla loro pelle terrore, disperazione, claustrofobia e freddo, perfettamente veicolati dalla regia e dalle inquadrature di Bayona, ma non solo.


Al di là della bastardissima colonna sonora di Michael Giacchino, che quando ci si impegna riesce a strapparmi il cuore, è il SILENZIO che stronca. Il silenzio ovattato della neve, gli echi, la voce che si perde nell'infinita, spietata vastità delle montagne, la sensazione fisica di isolamento, che arriva dritta alle orecchie dello spettatore. Anche per questo motivo dico che è un delitto guardare il film come ho fatto io. Una pellicola come La società della neve, intanto, merita il buon sonoro di una sala cinematografica come si deve, ed esige l'assoluto coinvolgimento di un pubblico non pavido come la sottoscritta, disposto a non dormire per settimane al ricordo delle scene viste, terribili e sublimi, sul grande schermo. Anche così, la potenza del disastro aereo è innegabile, degna di un horror, e lo stesso vale per le tempeste e la valanga che arrivano a decimare i già pochi sopravvissuti, ma le immagini più preziose sono quelle di doloroso confronto, oppure quelle in cui i protagonisti cercano di condurre una vita quanto più normale, protetti da una fusoliera e dagli oblò che nascondono, a loro ma anche allo spettatore, quanto di innominabile deve essere fatto in nome della sopravvivenza. E grazie a Dio Bayona ha deciso di non indulgere nell'exploitation, che avrebbe distratto il pubblico dal dramma umano dei protagonisti (peraltro interpretati tutti da attori bravissimi), né nel pietismo di un didascalico sguardo al futuro, fermando la narrazione nel momento più intimo e rivelatorio per chi ha avuto la fortuna di sopravvivere e, da quel giorno, ha dovuto farsi carico di non dimenticare chi lo ha reso possibile. Sensazioni personali e probabilmente inspiegabili, incomprensibili per chi è al sicuro e al caldo, e che trovo giusto non dare in pasto alla gente con superficialità. 


Del regista e co-sceneggiatore Juan Antonio Bayona ho già parlato QUI.


La vicenda narrata in La società della neve era già stata portata al cinema con I sopravvissuti delle Ande e Alive - Sopravvissuti, quindi se volete farvi ulteriormente del male potete recuperarli. ENJOY!


martedì 7 maggio 2024

Il Bollalmanacco on Demand: Angel Heart - Ascensore per l'inferno (1987)

Torna dopo qualche mese l'appuntamento col Bollalmanacco On Demand! La richiesta di oggi è stata fatta da Arwen del blog La fabbrica dei sogni, e trattasi di un horror che non rivedevo da decenni, ovvero Angel Heart - Ascensore per l'inferno (Angel Heart), diretto e sceneggiato dal regista Alan Parker a partire dal romanzo Falling Angel di William Hjortsberg. Il prossimo film On Demand sarà Phoenomena. ENJOY!


Trama: l'ambiguo Louis Cyphre chiede al detective Harry Angel di rintracciare un musicista scomparso. Il detective si ritroverà coinvolto in una strana storia a base di cadaveri e voodoo...


Angel Heart
è una curiosa contaminazione tra noir e horror, pervaso, fin dalle prime sequenze, di un'aria non solo malinconica, ma anche "sporca". Protagonista è Harry Angel, uno dei detective cinematografici meno antipatici mai comparsi sullo schermo; Harry da l'idea di farsi i fatti suoi, nonostante la natura del lavoro che svolge, non è strafottente né minaccioso, al limite un po' piacione con le signorine che incontra durante le indagini. Un giorno viene incaricato da Louis Cyphre, un ambiguo riccone, di ritrovare il cantante Johnny Favourite, scomparso prima di saldare un debito proprio con Cyphre. Quella che si preannuncia come un'indagine di routine, diventerà nel giro di poco una discesa all'inferno costellata da testimoni uccisi in modo brutale, ulteriormente complicata da indizi sempre più evidenti legati alla magia nera e al voodoo, mentre la figura di Johnny Favourite si rivela assai più oscura rispetto a quella di un normale cantante. Non andrò avanti a ricamare sulla trama nel caso (probabile, chissà!) che chi legge non abbia mai visto Angel Heart, quindi parlerò un po' delle atmosfere del film. Come ho scritto all'inizio, Angel Heart è un ibrido. Ambientato negli anni '50, poco dopo la fine della seconda guerra mondiale, presenta lo stile tipico di un noir e ne conserva alcuni cliché a livello di personaggi (il detective, il committente dalla dubbia moralità, la femme fatale) e di ambienti metropolitani, tra fumosi bar, appartamenti squallidi e ancor più squallidi alberghi, ma questi elementi vengono arricchiti e resi inquietanti da qualcosa di completamente diverso dal noir. Harry Angel si muove in un mondo che sembra appartenere a una dimensione parallela alla nostra, governato da rituali inquietanti e superstizioni, in bilico tra iconografia cattolica e ciò che di misterioso si nasconde nelle campagne della Lousiana; le figure dei santi, le chiese e i gospel si mescolano ad immagini di feticci, al sangue di polli e galline, al ballo forsennato delle mambo, a qualcosa di talmente radicato nel territorio che un detective nato e cresciuto a New York non potrà mai capire fino in fondo.


La confusione e l'inquietudine di Harry Angel si trasmette allo spettatore grazie alla regia raffinata di Alan Parker, il cui stile elegante non evita sequenze di disgustosa potenza che includono dettagli di cadaveri seviziati nei modi più terribili, o visioni mistiche grondanti sangue. Anche in assenza di immagini esplicite, il disagio del personaggio si manifesta nel fastidio di un caldo perenne che sembra appiccicare gli abiti alla pelle di Mickey Rourke, mentre le inquadrature insistite di ventilatori neri come la pece richiamano l'idea di un'aria talmente soffocante che nemmeno gli strumenti inventati dall'uomo sono in grado di dare sollievo a chi è rimasto invischiato. Il tutto, giustamente, dà l'idea di una situazione da cui è impossibile uscire, e anche il tocco sensuale ed elegante di una colonna sonora jazz di tutto rispetto non fa altro che aumentare la sensazione di estraneità e disagio che sembra essere dominante nel personaggio di Harry Angel. Mickey Rourke, all'epoca, era uno degli attori più belli e carismatici in circolazione, l'anno prima era uscito Nove settimane e mezzo, quindi parliamo di un uomo che richiamava sensualità ad ogni gesto, in grado di conferire un fascino particolare al suo detective; le sequenze che lo vedono "interagire" con Lisa Bonet, all'epoca appena diciottenne, hanno fatto scandalo a ragione (a prescindere dai risvolti della trama, decisamente angoscianti) perché, benché non siano esplicite, sono MOLTO più realistiche e coinvolgenti di quelle di un banale porno, e si sa che in America bisogna sempre fare finta che il sesso non esista. Nelle mani di un altro regista, questa commistione tra noir, horror ed erotismo sarebbe probabilmente diventata un pasticcio di cui ridere, ma Alan Parker è riuscito a trovare un equilibrio miracoloso, e a far sì che De Niro, benché abbia uno screentime di una decina di minuti in tutto il film, diventasse una delle migliori incarnazioni cinematografiche del Demonio. Onestamente, non so perché Angel Heart non abbia avuto successo alla sua uscita, ma io l'ho già visto un paio di volte e ogni volta è una soddisfazione, anche conoscendo la trama, quindi ringrazio Arwen per avermelo chiesto e a voi consiglio la visione, se non avete mai avuto il piacere!  


Del regista e sceneggiatore Alan Parker ho già parlato QUI. Mickey Rourke (Harry Angel), Robert De Niro (Louis Cyphre), Lisa Bonet (Epiphany Proudfoot), Charlotte Rampling (Margaret Krusemark) e Pruitt Taylor Vince (Detective Deimos) ho parlato ai rispettivi link. 


Il ruolo di Harry Angel era stato offerto a Jack Nicholson, Al Pacino e persino a De Niro. Se Angel Heart - Ascensore per l'inferno vi fosse piaciuto recuperate Constantine e Seven. ENJOY!

venerdì 3 maggio 2024

Challengers (2024)

Domenica ho costretto il povero Bolluomo ad accompagnarmi a vedere Challengers, diretto dal regista Luca Guadagnino.


Trama: due ex amici, entrambi tennisti, si scontrano durante un torneo Challenger, sotto lo sguardo della donna amata e contesa tra i due sin dai tempi del college...


Inizio il post col solito disclaimer. La mia natura di bradipo mi impedisce di amare ogni genere di sport, e credo che poche cose mi annoino quanto vedere delle partite di tennis in TV, quindi immaginate quanto avessi paura che rotolassero le mie, di palle (più quelle del Bolluomo), durante la visione di Challengers. A discapito di questi timori, Guadagnino non mi è mai dispiaciuto e il trailer mi ha intrigata, quindi ho deciso di dare al film una chance, cosa di cui non mi sono pentita. In totale onestà, non credo di averlo capito al 100%, perché la mia natura spiccia e "pane e salame" ha opposto una strenua resistenza all'idea che due ragazzotti con un promettente futuro davanti decidano di consacrarsi anima e corpo, per tutta l'esistenza, a una come Tashi Duncan, il cui unico pregio è essere inconfutabilmente gnocca, ma per il resto talmente vanesia, antipatica, spocchiosa ed egoista da far venire voglia di prenderla a racchettate. Non che i due baldi fanciulli siano meglio: due servi della gleba a testa alta, uno dotato della vitalità di un'ameba, l'altro spocchioso quasi quanto Tashi, due tennisti che non sono mai riusciti a raggiungere il loro pieno potenziale, ognuno per motivi non meglio specificati o comunque discutibili. In mezzo, per l'appunto, Tashi Duncan. Brillante tennista la cui carriera finisce bruscamente per colpa di un incidente, fulcro di un triangolo che nasce come gioco adolescenziale e si evolve in una partita a tennis lunga decenni, alla perenne ricerca di quel momento perfetto di agonismo e passione pura, in cui contano solo il gioco e i due contendenti, quella sensazione orgasmica che fa urlare per la gioia. Ha il ritmo di un thriller, Challengers. Per quanto i protagonisti siano insopportabili, c'è ovviamente la curiosità (morbosa?) di capire quali saranno i risultati delle macchinazioni di Tashi e chi, tra i due giocatori, vincerà non solo la partita, ma anche il cuore della bella stronza che, apparentemente, è duro ed impenetrabile come l'acciaio. Si crea, inevitabilmente, un preferito per cui tifare (non vi dirò mai per chi ho parteggiato!) e, di conseguenza, si sviluppano tutti i meccanismi che rendono il gioco, se portato avanti bene, degno di essere seguito con attenzione, a costo di farsi venire il torcicollo come succede agli spettatori sugli spalti.


La struttura stessa del film è quella di una partita a tennis, cadenzata dalla truzzissima colonna sonora di Trent Reznor e Atticus Ross (so che tanti l'hanno odiata, io l'ho adorata, non riuscivo a smettere di andare a tempo con la testa). La pallina del tempo va avanti e indietro, senza fermarsi mai, rimbalzando tra il presente e i flashback di un passato sempre meno remoto, costringendo lo spettatore a concentrarsi per non perdere dei pezzi. Come in una partita a tennis cambia la tecnica dei giocatori, qui si fa vario uso di tecniche registiche. Guadagnino sperimenta, soprattutto durante le riprese dei match, con la go-pro che riflette il punto di vista dei due giocatori, e addirittura la simulazione della percezione della pallina, oppure attraverso lastre trasparenti che ci permettono di "diventare" il campo da tennis; sprazzi di originalità che non privano di importanza il fulcro della narrazione, ovvero le inquadrature di corpi atletici sempre più nervosi e sudati, i primi piani di sguardi che celano inquiete tempeste emotive, ferite che, come quelle fisiche, lasciano cicatrici e indeboliscono animi e corpi che non torneranno mai più freschi come un tempo. A proposito di corpi freschi. Zendaya è bellissima, non le serve altro. La sua faccetta naturalmente scazzata è perfetta per il personaggio di Tashi, con lo sguardo colmo di spregio e quel labbrino sempre in giù; peccato per le babbucce di Chanel, l'unico capo orrido di un guardaroba altrimenti stupendo, che la fa ulteriormente spiccare rispetto alla massa (fate caso alle scene "corali". Zendaya è sempre circondata o da uomini o da donne più vecchie, brutte e mal vestite di lei. Guadagnino, non ce n'era bisogno, giuro). I due fanciulli comunque non stanno a guardare. Pur penalizzati dalla necessità di interpretare uomini dall'occhio spento e il viso di cemento, Josh O'Connor Mike Faist non se lo fanno menare e i loro duetti, sia da amici che da rivali, sono uno spettacolo, tanto che avrei gradito molto la svolta seriamente omoerotica in un film che è pieno di allusioni gay neppure tanto sottese. Probabilmente, Challengers non sarà la cup of tea di molti, soprattutto se vi aspettate qualcosa di artistico e cerebrale come The Dreamers (citato da troppi, in realtà la somiglianza si ferma in superficie, al triangolo iniziale), ma a me è piaciuto molto, nonostante fosse un film potenzialmente inadatto alla sottoscritta. Dategli un'occhiata!
 

Del regista Luca Guadagnino ho già parlato QUI mentre Zendaya, che interpreta Tashi Donaldson, la trovate QUA.

Josh O'Connor interpreta Patrick Zweig. Inglese, ha partecipato a film come Cenerentola, Florence, Emma. e a serie quali Doctor Who e The Crown. Anche sceneggiatore e produttore, ha 34 anni e un film in uscita. 


Mike Faist
, che interpreta Art Donaldson, aveva partecipato al West Side Story di Steven Spielberg; per il suo ruolo, inizialmente si era pensato ad Austin Butler e Timothée Chalamet, mentre per quello di Patrick Zweig era in lizza anche Jacob Elordi. Lo sceneggiatore del film, Justin Kuritzkes, è il marito della regista e sceneggiatrice Celine Song. ENJOY!

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