venerdì 31 maggio 2024

Attachment (2022)

Oggi il tema della challenge Horror 52x24 era "Film danese", così ho scelto Attachment (Natten har øjne), diretto e sceneggiato nel 2022 dal regista Gabriel Bier Gislason.


Trama: Maja, attrice danese, si innamora di Leah, ragazza inglese di origine ebraiche. Quando quest'ultima ha un incidente, Maja decide di trasferirsi in Inghilterra, nella casa a due piani che Leah divide con la madre. La convivenza si rivelerà un incubo...


Attachment
è un film piccolino, sussurrato anche in quel poco di orrore che mostra, un'opera che sceglie di sfruttare un canovaccio tipico del genere per raccontare una storia di legami profondi, incomprensione e amore. Tutto parte dall'incontro tra Maja, attrice danese diventata famosa grazie ad una fortunata serie di video per bambini in cui interpreta un elfo natalizio, e Leah, studentessa londinese di origini ebraiche. Tra le due scatta un colpo di fulmine da manuale che sfocia in una rapida convivenza, finché un giorno Leah non si rompe una gamba proprio quando deve tornare a Londra per questioni di studio. Maja sceglie di accompagnarla ed è così che fa la conoscenza di Chana, la madre di Leah. Imbevuta di credenze religiose e morbosa nell'affetto che riserva alla figlia, Chana mette a dura prova la pazienza di Maja la quale, pur cercando di lottare con le unghie e con i denti per non perdere né la calma, né l'amore della sua vita, non può fare a meno di soccombere, lentamente, alle inquietanti stranezze che circondano la donna e che trasformano la casetta londinese in un claustrofobico antro di terribili segreti. I misteri legati a Chana vengono svelati a poco a poco, senza fretta, filtrati dal punto di vista diffidente di Maja, ragazza danese che di religione ebraica non sa nulla. A donarle un briciolo di conoscenza arriva lo strano zio di Leah, ma siccome l'intera trama del film è giocata sull'incomprensione e la distanza, sia culturale che linguistica, ogni indizio rischia di venire distorto dall'altro grande protagonista di Attachment, che viene citato proprio dal titolo. Attachment come legame affettivo ma anche attaccamento, in senso fisico e psicologico. Maja, rimasta sola dopo la morte della madre e priva di prospettive nella vita salvo un lavoro fastidioso, si lega a Leah con un affetto profondo e cieco, che non tiene conto di piccoli particolari dissonanti legati ai comportamenti della ragazza, designata come assoluta ancora di salvezza; Chana, immigrata danese convertitasi alla religione del marito e ancora considerata straniera dopo decenni, vive esclusivamente per il legame con la figlia la quale, soffocata da tante attenzioni, è diventata però incapace (o perlomeno restia) a ricambiarlo. In questo substrato di affetto troppo intenso, generato spesso dal terrore della perdita e dalla solitudine, prolifera così un male dalle radici antichissime, che si nutre di emozioni negative e che ha imparato da tempo a sfruttare le imperfezioni degli esseri umani per ingannarli e causare loro ancora più dolore.


Essendo un horror "umano", Attachment vive innanzitutto della bravura delle tre attrici protagoniste. L'alchimia tra Josephine Park ed Ellie Kendrick rende la coppia sullo schermo assai tenera e convincente, oltre che molto naturale per quanto riguarda le varie interazioni; nonostante la differenza d'età reale di 5 anni, le dinamiche sono quelle tra una donna "matura", comunque già verso la trentina se non di più, convinta che Leah sia l'ultima chance di combinare qualcosa nella vita, e una ragazza più giovane che del mondo conosce poco, vissuta a lungo sotto l'ala protettrice della madre. Quest'ultima, interpretata da Sofie Gråbøl, è una figura assai inquietante, che riesce a risultare contemporaneamente schiva e dura, e anche l'interazione tra la Park e la Gråbøl, in particolare nei momenti in cui le due donne si scontrano, è interessante e credibile. A completare il quadro ci pensa l'elemento comico di David Dencik e del suo zio Lev, una folata di leggerezza che non sfocia mai nella stupidità e consente allo spettatore occidentale e cattolico, poco avvezzo a tematiche legate alla religione ebraica, di capire qualcosa relativamente ai miti e alle leggende che la caratterizzano. Nonostante la struttura di Attachment, soprattutto sul finale, richiami i cliché di migliaia di altri horror, l'idea di parlare di ebraismo e non di cattolicesimo ha reso il film, almeno per me, più nuovo e coinvolgente, e ho apprezzato molto anche la scelta di non sfruttare jump scares o CGI, quanto piuttosto di lavorare d'atmosfera (molto belle anche le scenografie, elemento indispensabile visto che il film è girato in gran parte in interni), affidandosi a pochi effetti pratici e alla fisicità di Ellie Kendrick. Con tutte le schifezze che arrivano mensilmente sui vari servizi streaming italiani è un peccato che Attachment sia rimasto nel limbo nella non distribuzione, ma se vi capitasse di trovarlo guardatelo, perché è piccino ma delizioso.

Gabriel Bier Gislason è il regista e sceneggiatore della pellicola, al suo primo lungometraggio. Danese, ha 35 anni.


 

martedì 28 maggio 2024

Furiosa: A Mad Max Saga (2024)

Di ritorno dalla vacanza in Borgogna sono corsa a vedere il film sulla bocca di tutti, Furiosa: A Mad Max Saga, scritto e diretto dal regista George Miller.


Trama: in un mondo post-apocalittico, la piccola Furiosa viene rapita dal luogo paradisiaco dove vive con la sua famiglia ed è costretta ad imparare a sopravvivere...


Poveri voi, che magari vi aspettavate un post in cui si confrontassero Mad Max: Fury Road e Furiosa. Dovreste ormai sapere che non ho tempo nemmeno per farmi da mangiare, figuriamoci per dei comodi recuperi. Sono quindi andata a vedere Furiosa senza nulla più che il vago ricordo (sono passati quasi 10 anni!) di un film epico e scatenato, zeppo di personaggi comunque talmente ben caratterizzati da essere indimenticabili, tanto che alla prima apparizione della titolare, di Immortan Joe e dei suoi seguaci, il mio cervello si è elettrizzato. Ma cos'è, in definitiva, questo Furiosa? E' la origin story di una delle eroine cinematografiche più cazzute dell'attuale millennio. In essa, si racconta come mai Furiosa sia finita nel regno di Immortan Joe come fidato, benché riluttante, membro del suo entourage, e cosa si celasse in quel luogo paradisiaco che la donna cercava di raggiungere in Fury Road. E' una saga di formazione che spazia nel tempo e che, di conseguenza, non si siede sugli allori. Aggiunge infatti ulteriori tasselli al puzzle post-apocalittico creato da George Miller nel lontano 1979, puntando i riflettori sui territori governati da Immortan Joe attraverso complessi meccanismi di potere, con microcittà/fortezze specializzate nella produzione di un solo, indispensabile approvvigionamento (benzina, armi o cibo), popolate da pochissimi esseri umani ritenuti indispensabili e tanta, troppa feccia. Proprio qui sta il nocciolo dello scontro culturale tra Furiosa, nata in un luogo "sano" ed incontaminato anche a livello di emozioni umane, e un mondo esterno dove i sentimenti positivi sembrano essere stati cancellati con un colpo di spugna, una realtà malata in cui conviene rimanere in silenzio e nascosti nell'ombra, celando desideri e pensieri. E' interessantissima, in tal senso, la scelta di dedicare a Furiosa ben poche righe di dialogo e di affiancarle, come nemesi definitiva, il ciarliero ed insopportabile Dementus, artefice del destino nefasto della protagonista. In una società (prevalentemente maschile) in cui persino un raro eloquio forbito diventa l'ennesimo modo per distinguersi attraverso un tocco di folle originalità e anche la conoscenza è un mezzo per giocare a chi ce l'ha più grosso, come se il timbro di voce e il rombo dei motori fossero interscambiabili, Furiosa si trincera in un testardo e doveroso mutismo per osservare, imparare e migliorare, mettendo a tacere anche il dolore pur di raggiungere i suoi obiettivi. E se non è una lezione di vita questa, signori miei, non so proprio cos'altro lo sia.


Chi ha definito Furiosa un'interminabile sequenza di inseguimenti con mezzi allucinanti, non ha dunque capito un belino, con rispetto parlando. Aggiungo anche che, se non vi toccano il cuore la tamarreide allucinata di George Miller, nonché l'impianto epico delle vicende di Furiosa, siete un po' delle brutte persone. Quest'uomo l'anno prossimo compie ottant'anni, ma nel cuore è rimasto un giovanotto pieno di passione, incanalata in anni di esperienza che rendono il film perfetto per la sala e il grande schermo. Non c'è una sola inquadratura inutile, le sequenze funzionano ed emozionano sia quando sono coinvolti mezzi corazzati usciti dalla mente di un pazzo (sui quali brulicano esseri umani destinati spesso a morti spettacolari e soprattutto esplosive) sia quando si incentrano sulla figura di Furiosa e le sue interazioni con gli altri protagonisti del film (in una, in particolare, mi è salito il magone); in più, ogni gruppo sociale o fazione in guerra è perfettamente caratterizzato, sia a livello di mezzi, costumi e make-up, che a livello di scenografie, e tutti questi elementi presentano almeno un particolare bizzarro o comunque capace di imprimersi a fuoco nella memoria. Poi, ci sono gli attori. Anya Taylor-Joy, assieme alla giovanissima Alyla Browne, ha raccolto lo scomodo testimone di Charlize Theron e non la fa rimpiangere nemmeno per un secondo. Saranno i suoi occhi particolarissimi, messi ancora più in risalto dal make up color fuliggine che le copre mezzo viso, ma l'espressività di Anya Taylor-Joy mi è sembrata ancora più intensa che in altri film ed è davvero impossibile non farsi coinvolgere dalla disperazione e dalla rabbia del personaggio. Anche perché, se Immortan Joe e i suoi figli sono rimasti degli stronzi patentati da appendere a testa in giù, il Dementus di Chris Hemsworth li batte di almeno dieci misure. Dotato di un naso posticcio che, a un certo punto, mi ha fatto venire in mente il Fagin di Oliver Twist (non riesco altrimenti a capire il perché di questa scelta perplimente), Hemsworth è l'irritazione fatta a persona, un soffiablabla in carne e ossa, l'incarnazione stessa di un inutile fiume di parole, con l'aggiunta di una cattiveria spocchiosa che farebbe venire voglia di picchiarlo senza sosta. Siccome spesso i personaggi interpretati da Hemsworth mi fanno questo effetto, anche quando non sono cattivi, mi chiedo se l'attore sia effettivamente bravo oppure se sia così il suo carattere e i registi lo sfruttino nel modo migliore. Al di là di queste mie futili considerazioni, Furiosa è un film che merita di essere visto, ovviamente in sala, per goderselo come merita, augurandosi che Miller non smetta mai di realizzare opere di tale caratura e che porti a termine questa nuova trilogia!


Del regista e sceneggiatore George Miller ho già parlato QUI. Anya Taylor-Joy (Furiosa), Chris Hemsworth (Dr. Dementus), Tom Burke (Pretoriano Jack) e Angus Sampson (Organic Mechanic) li trovate invece ai rispettivi link.


Elsa Pataky
, che interpreta la generalessa Vuvalini, è la moglie di Chris Hemsworth. Se Furiosa: A Mad Max Saga vi fosse piaciuto recuperate l'intera saga di Mad Max Mad Max: Fury Road. ENJOY!


venerdì 24 maggio 2024

Fase IV: distruzione Terra (1974)

Per la challenge Horrorx52 su Letterboxd dovevo vedere un film uscito nel 1974. La scelta è ricaduta su Fase IV: distruzione Terra (Phase IV), diretto proprio quell'anno dal regista Saul Bass.


Trama: a seguito di un non ben precisato evento cosmico, le formiche del deserto dell'Arizona cominciano a sviluppare comportamenti inusuali. Due scienziati vengono inviati ad indagare e la situazione degenera...


Come sa chi segue un po' il blog, non vado matta per la fantascienza. Probabilmente questo film era finito nella mia lista perché ne aveva parlato Lucia, altrimenti non penso mi sarebbe mai venuto in mente di guardarlo. Il genere continua a non esser uno dei miei preferiti, ma sono contenta di avere recuperato un'opera particolare come Fase IV: distruzione Terra. Ci sono molti motivi per cui questo film è particolare, in primis perché è il primo ed unico lungometraggio diretto da Saul Bass, che molti di voi conosceranno come realizzatore di spettacolari titoli di testa come quelli, giusto per citarne un paio, di Psyco, Casinò, Cape Fear, Quei bravi ragazzi e West Side Story. In quanto frutto della mente di un illustratore e artista, Fase IV: distruzione Terra è incredibilmente ricercato a livello di immagini ed è un'esempio di fantascienza lenta, adulta, alla 2001: Odissea nello spazio. Si prende, infatti, tutto il tempo per mostrare lunghissime sequenze ambientate nel sottosuolo, che mostrano la silenziosa ma ineluttabile riorganizzazione di formiche mutate da un non ben precisato evento cosmico, sfruttando spesso proprio il punto di vista degli insetti, tra primi piani e immagini documentaristiche ma mai sciatte. Attraverso un mix di riprese dal vero, timelapse e pregevoli effetti speciali, la misteriosa attività delle formiche si dipana agli occhi dello spettatore senza bisogno di dialoghi esplicativi, giustapposta al tentativo di due scienziati di comprendere cosa stia accadendo. Se, all'inizio, gli scienziati vengono descritti come la fredda voce della ragione (soprattutto uno) e ultimo baluardo contro un caos che rischia di diffondersi sulla Terra, mano a mano che il film prosegue si percepisce un apprezzamento sempre maggiore verso le strutture geometriche e regolari delle operazioni imenottere, con la natura che getta nel caos tecnologie all'avanguardia, sfruttandone i punti deboli e smascherando la fondamentale natura bruta dell'essere umano. 


Questo lento mutamento di prospettiva si accompagna ad un cambiamento anche dello stile. Dopo un prologo iniziale inusuale, interamente dedicato alle formiche, l'atmosfera diventa, per buona parte del primo atto, quella tipica di un film di fantascienza anni '50, con umani terrorizzati da creature minacciose e il governo americano che cerca di metterci una pezza. Gli intenti non necessariamente distruttivi delle formiche vengono evidenziati, tuttavia, da strutture quasi artistiche, che non solo creano immagini spettacolari dal punto di vista formale, ma che sottolineano una volontà di comunicare, cambiare e costruire, cosa che diventa il fulcro di un finale diventato cult e di cui esistono due versioni. La versione recuperata negli ultimi anni è l'ennesimo esempio della creatività di Saul Bass, una conclusione visionaria fatta di immagini oniriche, di cui ogni fermo immagine meriterebbe di essere appeso in casa per arredare con gusto, e accompagna degnamente le ultime parole del film, ma personalmente ho apprezzato anche il finale classico, che ho trovato comunque comprensibile anche senza particolari ausili visivi; in esso, il film si apre, se non all'ottimismo, almeno alla speranza o alla volontà di abbracciare un cambiamento non scontato, e come sempre dimostra che los titolistas malvagi erano già belli attivi negli anni '70, perché nessuno ha mai detto che la Fase 4 preveda la distruzione della Terra. A discolpa di eventuali fraintendimenti, è vero che il film prende talvolta il sentiero dell'horror a sfondo ecologico, e l'assedio delle formiche tocca anche picchi di disgusto, enfatizzati dalla natura minuscola di un insetto famelico che potrebbe infilarsi a branchi in qualsiasi orifizio, prima di decidere di divorarti dall'interno, ma si è visto decisamente di peggio, al cinema. Ciò detto, ribadisco la contentezza di avere guardato Fase IV: distruzione Terra, pellicola interessante che vi consiglierei di recuperare, se vi piace il genere.

Saul Bass è il regista della pellicola. Famoso come illustratore e realizzatore di alcuni dei titoli di testa più famosi della storia del cinema, ha vinto un Oscar per la regia del corto Why Man Creates. Americano, anche scenografo, animatore, sceneggiatore e produttore, è morto nel 1996, a 76 anni. 


Per il ruolo di Kendra era stata provinata anche Linda Blair, scartata alla fine a causa della giovane età e del compenso troppo elevato che avrebbe richiesto la sua presenza. Di Fase IV: distruzione Terra esiste uno psichedelico finale alternativo che tratterebbe del futuro dell'umanità, recuperato e restaurato qualche anno fa. ENJOY!

mercoledì 22 maggio 2024

Stopmotion (2023)

Sembra che, con la primavera, il nostro amato genere horror si stia risvegliando. Uno degli ultimi film usciti su Shudder è Stopmotion, diretto e co-sceneggiato nel 2023 dal regista Robert Morgan.


Trama: Ella è figlia di una famosissima animatrice dalla personalità soverchiante, con le mani ormai divorate dall'artrite. Quando la madre entra in coma, Ella comincia a venire assalita dai demoni della propria inadeguatezza...


Non so a voi, ma a me la stop motion ha sempre messo un po' ansia. Per quanto ritenga le opere realizzate in stop motion/claymation una delle più alte espressioni dell'ingegno umano, quei movimenti un po' innaturali di creature anche troppo assimilabili a bamboline hanno sempre tinto la mia ammirazione sconfinata con un senso di inquietudine. Non a caso, la stop motion è sempre stata perfetta per opere dal sapore horror, si vedano casi eclatanti e famosissimi come The Nightmare Before Christmas, La sposa cadavere, Coraline, Paranorman, Wallace & Gromitt ma anche opere meno famose come The House e, soprattutto, tanti piccoli corti sconosciuti o quasi, ché comunque a realizzare un lungometraggio con questa tecnica ci vogliono anni. A proposito di corti, per l'appunto, quelli di Robert Morgan mettono talmente ansia che uno di essi, il terrificante D is for Deloused, è giustamente finito nel film a episodi The ABCs of Death 2 e molte delle suggestioni dell'opera sono finite, dopo ben dieci anni, all'interno di questo Stopmotion. Il primo lungometraggio di Robert Morgan è una discesa nella follia che mescola riprese tradizionali ad animazione in stop-motion, in un continuo mescolarsi di realtà, immaginazione e arte, e che ha per protagonista proprio un'animatrice. Ella lavora come assistente della madre, una leggenda della stop-motion che, a causa di una malattia degenerativa, non è più in grado di manipolare i pupazzetti con precisione millimetrica ed è costretta ad affidarsi alla figlia per portare a termine il suo ultimo film. Vessata da una madre soffocante che, pur imponendole di lavorare senza sosta, la ritiene un'inetta priva di talento e idee, Ella è a disagio all'interno di una cerchia di amici (fidanzato compreso) che vivono una giovinezza artistica di successi sfolgoranti, e la situazione peggiora quando la vecchiaccia entra in coma dopo un ictus. Invece di ritenersi libera dallo spettro della madre, Ella dapprima tenta di finire il film da sola, dopodiché decide di realizzare qualcosa di suo, ma tanta è la convinzione di essere un'incapace priva di valore che l'esperienza si trasforma in un incubo a occhi aperti dove la ragazza cerca, inutilmente, di dibattersi per conquistare una libertà personale e artistica che, come spesso accade negli horror, passerà necessariamente attraverso follia, sangue e morte. 


Fin dall'inizio, la regia cupa e morbosa di Robert Morgan connota Ella come una ragazza dalla personalità spezzata ed incerta (bellissima la scena iniziale con l'alternarsi di luci sul volto della protagonista), permeabile alla cattiveria della madre e inadatta alla vita sociale; attorno a lei, lo squallore di ambienti bui, asettici, mai chiaramente definibili, va ad unirsi alla percezione inaffidabile di una mente debole che spesso tende a rinchiudersi in se stessa, e si esprime in una regia dove i confini tra realtà e allucinazione non sono mai chiari, anche prima che un presunto elemento "sovrannaturale" entri a gamba tesa. Come già in D is for Deloused, la particolarità dei pupazzetti creati da Robert Morgan è quella di sembrare fatti di carne sanguinolenta e malaticcia, il che diventa una componente fondamentale della trama del film, all'interno del quale il disagio mentale si sviluppa in una progressiva decadenza ambientale e fisica. Se già l'opera della madre non era tra le più rassicuranti, il corto animato realizzato da Ella è l'emblema dell'angoscia e, tra simbolismi neanche troppo velati e la presenza ricorrente di un uovo azzurro pronto a rompersi o schiudersi, regala momenti di puro terrore e un senso di "sporcizia" difficile da scrollarsi di dosso. Aisling Franciosi, già bravissima in The Nightingale, offre la splendida interpretazione di un personaggio scomodo, un'altra di quelle protagoniste con cui si riesce ad empatizzare quasi solo in virtù del loro essere circondate da gente peggiore di loro (la madre è incommentabile, la sorella del fidanzato una bitch fatta e finita, mentre lo sfogo di lui, per quanto poco elegante, è comunque dettato da una perdita di pazienza comprensibile), ma è difficile non rimanere ipnotizzati e coinvolti dalla sua inarrestabile discesa verso la follia. La presenza più forte del film è però quella di Caoilinn Springall, perfida ragazzina dal pesante accento inglese che farebbe una coppia perfetta con la Pale Girl di Terrifier 2; il twist legato al suo personaggio non è proprio originalissimo o inaspettato, ma come veicolo di caos la fanciulla è perfetta ed è un ulteriore motivo per consigliare la visione di Stopmotion, che, al momento, è uno degli horror più soddisfacenti visti quest'anno.    

Robert Morgan è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Inglese, ha diretto uno dei corti di The ABCs of Death 2. Anche animatore e produttore, ha 50 anni.


Aisling Franciosi
interpreta Ella Blake. Irlandese, la ricordo per film come The Nightingale e The Last Voyage of the Demeter, inoltre ha partecipato a serie come Il trono di spade. Ha 39 anni e un film in uscita. 


Stella Gonet
, che interpreta la madre di Ella, è stata la "Margaret" di El Conde e la regina Elisabetta in Spencer. Se Stopmotion vi fosse piaciuto recuperate Censor. ENJOY!

martedì 21 maggio 2024

Abigail (2024)

Prima di partire per la Borgogna sono corsa al cinema a vedere Abigail, diretto dai registi Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett.


Trama: una squadra di malviventi assortiti viene incaricata di rapire una ragazzina per una cifra spropositata. Purtroppo per loro, la piccola Abigail non è indifesa come sembra...


Abigail
è una deliziosa, piccola chicca che mi aveva attirata già dal trailer, per una volta affatto ingannevole, anzi, sincero relativamente a ciò che è la natura del film: tanto divertimento, tanto splatter, qualche brivido. In più, e questo è un valore aggiunto per me, coniuga due delle cose che più amo vedere al cinema, ovvero gli heist movies con un cast molto affiatato e, ovviamente, i vampiri. Abigail comincia, infatti, come il più classico esponente della prima categoria di film che ho citato: una banda di persone che non si conoscono tra loro, ed usano nomi falsi nel caso venissero colti in flagrante, devono fare un colpo. Ci vengono risparmiate le fasi organizzative, la vicenda comincia già all'ingresso della magione dove la banda dovrà rapire una ragazzina, e una rapida carrellata (alla quale si aggiungerà, più avanti, un simpatico "gioco" che consente allo spettatore di approfondire maggiormente le personalità dei singoli membri) ci mostra le abilità di ognuno dei rapitori. E' un'introduzione rapida e divertente, perché la ciccia vera consiste nell'arrivo dei protagonisti all'interno di una splendida villa ove dovranno passare la notte con la ragazzina rapita, nell'attesa che arrivino i soldi del riscatto. Lì dentro l'atmosfera da heist movie dura il tempo di un battito di ciglia, prima che entri a gamba tesa l'elemento gotico, veicolato da scenografie a dir poco splendide, zeppe di dettagli rivelatori (e di un omaggio artistico a Finché morte non ci separi, che ha più di un elemento in comune con Abigail), e quello horror tout court, quando la ragazzina si rivela un vampiro famelico che ama giocare con le sue prede prima di divorarle in un sol boccone. Abigail è "tutto qui". Non c'è la satira sociale di Finché morte non ci separi e i personaggi sono incasellabili, come ironicamente sottolineato a un certo punto, all'interno di cliché abbastanza banali, quindi tutto il film si gioca su un canovaccio vecchio come il mondo, quello del mostro che uccide, una dopo l'altra, le sue vittime. Tutto sta a rendere carismatico il mostro ed interessanti le vittime, e l'intera prima parte del film è focalizzata sul secondo obiettivo; tolti un paio di elementi sacrificabili, è dura sopportare l'idea che Abigail uccida i superstiti del Rat Pack (segnatevi questo nome perché tornerò sulla questione alla fine del post) e molta della tensione deriva non tanto dal terrore verso la pur cattivissima vampiretta, ma dal dispiacere che uno dei nostri personaggi preferiti faccia una brutta fine.



Il merito di tanto affetto va, in primis, al cast. Melissa Barrera sembra molto più a suo agio qui che sul set di Scream, forse perché lontana dall'eredità scomoda lasciata da Neve Campbell, in più attorno a lei ci sono caratteristi di lusso. Kevin Durand aggiunge un twist inedito al suo solito ruolo da duro, Kathryn Newton ormai è abbonata ai ritratti di ragazze weird dall'espressione stralunata ed è sempre più adorabile, Dan Stevens è figo anche con canottiera e occhialazzi da wog, ma a un certo punto diventa ancora più figo: dico solo che non mi veniva voglia di sventagliarmi così, a mo' di Maria Antonietta davanti a Fersen, dal 22 maggio 2001, e più non dimandate. E poi, ovviamente, c'è Abigail. Una leziosa ballerina dalla vocina delicata, capace di staccarti la testa con un morso. I due registi si divertono un sacco a mescolare senza soluzione di continuità elementi infantili e graziosi a topoi horror, e rendono ancor più "personaggio" la vampira costruendole attorno delle performance di danza di tutto rispetto, cosa che tocca il suo apice nell'esibizione simultanea col burattino umano di turno; in più, viene fatto un uso ottimo della splendida location, che può tranquillamente essere definita personaggio a se stante, con tutti quei piccoli elementi rivelatori, le singole stanze piene di personalità, e un aspetto esteriore ingannevole, che nasconde all'interno abissi (o piscine) di depravazione schifosa e tanto squallore. Infine, c'è il sangue. Tanto, tantissimo sangue, un bagno di liquido rosso godereccio e divertito, alla faccia dell'educata cenere in cui dovrebbero trasformarsi i vampiri di fronte alla morte ultima. Sogno, neanche a dirlo, un Radio Silence cinematic universe, magari un prequel condiviso tra Abigail e Finché morte non ci separi in cui la piccola vampira interagisca col demoniaco Le Bail, e chiedo a gran voce un film come questo a settimana, perché mi ha scaldato il cuore e ce n'è gran bisogno. Concludo, infine, con una chiosa da non traduttrice rosicona, sottolineando la pochezza dell'adattamento italiano. A un certo punto, Lambert definisce i rapitori "branco di ratti", questo dopo averli battezzati con i nomi dei componenti del Rat Pack: Frank Sinatra, Dean Martin, Sammy Davis Jr., Joey Bishop,  Peter Lawford e Don Rickles, che in realtà non faceva proprio parte ufficialmente del gruppo. Buona parte di loro era nel cast dell'heist movie Colpo grosso, quindi l'umorismo di Lambert è duplice, un po' dispregiativo, un po' giocoso, e in italiano non solo si perde il riferimento e il gioco di parole ma non si capisce nemmeno perché, a un certo punto, il personaggio di Kevin Durand si "svegli" e capisca un riferimento che, di fatto, in italiano non viene reso. Mi chiedo se non ci fosse un modo per tradurlo meglio nella nostra lingua, invece di costringermi a bestemmiare sonoramente in sala. 


Dei registi Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett ho già parlato QUI. Dan Stevens (Frank), Kathryn Newton (Sammy), Kevin Durand (Peter), Giancarlo Esposito (Lambert) e Matthew Goode (il padre) li trovate invece ai rispettivi link.

Melissa Barrera interpreta Joey. Messicana, la ricordo per film come Scream e Scream VI. Anche produttrice, ha 34 anni e un film in uscita. 


Se Abigail vi fosse piaciuto recuperate Finché morte non ci separi e Renfield. ENJOY!

venerdì 17 maggio 2024

The Love Witch (2016)

La horror challenge di Letterboxd sta, mio malgrado, procedendo lentissimamente e ormai fuori tempo. Aspetterò però la fine dell'anno prima di arrendermi, anche perché mi sta spingendo a recuperare film particolari. Oggi, per esempio, tocca a The Love Witch, diretto e sceneggiato nel 2016 dalla regista Anna Biller quindi perfetto per il prompt "film diretti da donne".


Trama: dopo un divorzio finito male, Elaine decide di cambiare città e cercare un altro uomo sfruttando le sue arti magiche, ma non andrà benissimo...


Come sapete se, ogni tanto, leggete le cretinate che scrivo su Facebook e Instagram, ho avuto qualche difficoltà con The Love Witch. Non tanto a livello di lentezza, un problema che ho personalmente patito e sul quale tornerò, quanto proprio a livello di significato. Leggendo qualche articolo qui e là ho avuto la conferma che Anna Biller è un'autrice profondamente femminista, ma proprio non sono riuscita a collegare la scelta di utilizzare tecniche cinematografiche ormai scomparse con la concezione moderna di femminismo, un tema assai sentito all'interno del film ma "raccontato" in maniera particolare. The Love Witch parla, infatti, di una donna alla ricerca del vero amore, quello delle fiabe. La protagonista, Elaine, è reduce da un matrimonio fallito e culminato, con tutta probabilità, nell'omicidio del marito; onde riprendersi dall'esperienza, Elaine decide di trasferirsi in una cittadina di provincia e lì cercare un nuovo amore, propiziando il sentimento degli uomini grazie alle sue arti di strega. Il problema è che la magia d'amore di Elaine funziona troppo bene, al punto che gli esponenti del sesso maschile perdono ogni dignità di fronte a lei. Tra chi si trasforma in un bambino piangente e bisognoso di affetto perenne, chi perde il senno e chi, per reazione, diventa un freddo gatto di marmo, non bisogna stupirsi se Elaine, dopo poco tempo, si stufa e cambia obiettivo, alla ricerca perenne di un principe azzurro perfetto che corrisponda al suo ideale, non importa se la magia ha come risultato finale quello di lasciare in giro cadaveri. Quello che turba un po' il mio cervello di cocorita è che Elaine, a differenza delle poche conoscenti che le gravitano intorno, ambirebbe ad annullarsi completamente per amore, assecondando ogni desiderio e capriccio dei suoi amanti, ed è assai critica verso chi parla di indipendenza femminile. La sua collega strega, per esempio, è una ferma sostenitrice di come il potere sessuale e d'amore debba puntare verso l'affermazione della donna contro una società fallocentrica, mentre l'agente immobiliare Trish vorrebbe che il marito, di cui pur è innamorata, la piantasse di asfissiarla con continue richieste sessuali e vive come una donna affermata, senza che la propria vita venga determinata dal ruolo di moglie. Mi verrebbe da pensare, visto che le azioni di Elaine sono votate a un narcisismo egoistico, che nonostante le sue parole la vera femminista sia comunque lei, in quanto sceglie consapevolmente di basare la sua felicità sul raggiungimento di un obiettivo preciso (che poi l'obiettivo siano gli uomini, poco importa) sfruttando tutti i mezzi che la natura le ha messo a disposizione, mentre le donne che la circondano si conformano ad una visione maschile del potere femminile, oppure la invidiano; la congrega di streghe è gestita da un uomo leppegosissimo che Elaine, palesemente, odia, benché venga venerato dalle sue pari, mentre le azioni di Trish sul prefinale sono tristemente eloquenti.


Proprio quest'affermazione di un femminismo lontano dai dogmi estremisti e divisori, dell'unicità di Elaine e del suo modo di concepire l'amore, potrebbe essere la chiave per interpretare anche la scelta stilistica di Anna Biller. L'autrice ha deciso di realizzare il film servendosi di pellicola 35 mm, montandola personalmente in analogico, tagliandone e giuntandone i pezzi come si faceva un tempo, e ha fatto un lavoro di ricostruzione impressionante, a livello di costumi, scenografie, effetti speciali, colori, fotografia e musiche. Considerato che The Love Witch è ambientato ai giorni nostri, l'effetto è a dir poco straniante, e dà l'impressione che l'intera vicenda sia filtrata dal punto di vista di Elaine, la cui emotività ricorda quella al limite dello psicotico di molte protagoniste di melodrammi cinematografici d'epoca, per le quali amore e morte erano da perseguire con eguale intensità. Purtroppo, l'ignoranza che mi accompagna sottobraccio dalla nascita non mi ha consentito di cogliere tutti i riferimenti colti verso un cinema, non soltanto di genere, di cui conosco giusto gli esponenti più famosi, da Hitchcock a Corman, passando per La fabbrica delle mogli, nominato anche nei dialoghi, ma sarei curiosa di recuperare tutte le pellicole citate dalla regista come influenze sulla sua opera, perché alcune mi intrigano molto. La speranza è che la gioia di contemplare l'estetica coloratissima e vintage di film a me sconosciuti, così com'è successo per ogni singola immagine che compone The Love Witch, mi distolga da eventuali, probabili lentezze a livello di ritmo per quanto riguarda le fonti d'ispirazione di Anna Biller. Purtroppo, infatti, l'unico vero difetto di The Love Witch è la presenza di lunghe sequenze visivamente affascinanti ma (a parer mio, ci mancherebbe!) inutili ai fini della trama, alla quale avrebbe giovato una mezz'oretta di girato in meno per salvare lo spettatore da un principio di abbiocco che ha rischiato di sopraffarmi, per esempio, durante la sequenza della cerimonia nuziale medievale. A parte queste considerazioni di carattere prosaico, The Love Witch è un esperimento interessantissimo, ben distante dal cinema mordi e fuggi odierno, che merita rispetto e attenzione anche solo in virtù del lavoro certosino che c'è dietro. Purtroppo, in Italia è stato snobbato in ogni luogo e in ogni lago, e occorre lavorare di fantasia oppure affidarsi al mercato home video inglese per recuperarlo, ma vi consiglio di provarci. E, ovviamente, di scrivere i vostri pensieri in merito nei commenti! 

Anna Biller è la regista, sceneggiatrice, produttrice, compositrice, montatrice, scenografa e costumista del film. Americana, ha diretto altri film come The Hypnotist e Viva. E' anche attrice. 


Samantha Robinson
, che interpreta Elaine, ha partecipato anche a C'era una volta... a Hollywood. Se The Love Witch vi fosse piaciuto, la regista ha citato una marea di film da cui ha tratto ispirazione o citati all'interno della pellicola, tra i quali Il delitto perfetto, Psyco, Gli uccelli, Marnie, La fabbrica delle mogli, La favolosa storia di pelle d'asino e Jeanne Dielman, 23, quai du commerce, 1080 Bruxelles, questi ultimi riproposti con intere scene ad omaggiarli. ENJOY! 

mercoledì 15 maggio 2024

La profezia del male (2024)

La sacra regola dice che qualunque horror esca al cinema vada visto, il che vale anche per pellicole poco pubblicizzate come La profezia del male (Tarot), diretto e sceneggiato dai registi Spenser Cohen e Anna Halberg a partire dal romanzo Horrorscope di Nicholas Adams, peraltro introvabile online se non a prezzi spropositati.


Trama: durante una festa di compleanno, dei ragazzi trovano un mazzo di tarocchi all'interno di una villa. Haley, esperta di oroscopi, decide quindi di leggere il futuro ad amici ed ex fidanzato, attirando su tutti quanti un'antica maledizione...


Dubito che qualcuno de los titolistas legga il mio blog ma, nel caso fosse così, sappiate che vi detesto come la Nicolodi detestava lo spirito del male in Paganini Horror. E il punto è proprio il male. Ma perché lo mettete persino nella minestra? Vi pareva brutto lasciare il titolo originale, Tarot, tanto adesso sono tornati di moda i tarocchi e avrebbero capito tutti l'argomento del film? E poi, profezia perché? Potevate scegliere parole come predizione, oroscopo, mazzo, tarocchi, e invece no. "Profezia", neanche il film avesse argomento divino, satanico, oppure la fine del mondo. Giuro, non vi capisco, spero che un giorno mi spiegherete quali arzigogolati ragionamenti di marketing stiano alla base di queste scelte. Nel frattempo, parliamo di La profezia del male. Un film banale quanto il titolo italiano che porta, il tipico horror per ragazzini dalla trama collaudata: i protagonisti incappano in una maledizione a caso per motivi risibili, seguono incidenti mortali che toccano, a turno, ognuno di loro, i sopravvissuti cominciano ad indagare per non fare la stessa fine (mettendo in mezzo l'inevitabile viaggio in macchina verso l'esperto inutile/dannoso), la maledizione viene affrontata e la conclusione può essere positiva o negativa, a seconda della bastardaggine degli sceneggiatori. Non so come sia il romanzo Horrorscope, da cui è tratto il film, ma La profezia del male ha l'enorme difetto di avere come sceneggiatori due paraculi, di conseguenza vanta uno dei finali più brutti di sempre e, di sicuro, il peggiore visto quest'anno. E' proprio di una stupidità al cubo, il "perché sì" all'ennesima potenza, e ha innervosito persino il mio compare Ale, solitamente molto più indulgente della sottoscritta. La cosa fa ancora più rabbia perché, nei limiti della sua natura di film derivativo, votato allo spavento facile e classificato PG-13, La profezia del male non è malfatto. I tarocchi mi affascinano da sempre e ci sta approcciarsi ad essi con un po' di "paura", soprattutto se non si conoscono o si è molto superstiziosi, quindi l'idea di un mazzo maledetto che dispensa morte per mano delle figure presenti sulle carte è interessante. Ed è anche divertente indovinare come moriranno i protagonisti. Il film sfrutta il concetto alla base di Final Destination, che vede il destino di ogni personaggio anticipato all'inizio (in questo caso, dall'oroscopo di Haley) e reiterato da tanti piccoli dettagli che richiamano la carta a loro legata, quindi lo spettatore può sbizzarrirsi a sua volta a fare previsioni. 


Per essere un PG-13, La profezia del male gode di un paio di omicidi particolarmente efferati (almeno sulla carta), una caratteristica che Spenser Cohen e Anna Halberg riescono con abilità a far percepire allo spettatore, spaventandolo senza mostrargli più di quanto consentito dal visto censura. Inoltre, ha dalla sua tanti aspetti tecnici che rendono molto piacevole la visione. I tarocchi, tanto per cominciare, sono dotati di una macabra eleganza che mi fa sperare, prima o poi, per una stampa anastatica del mazzo, e le figure che fuoriescono dalle carte mettono parecchia paura, soprattutto l'Appeso, la Papessa, il Mago e il Matto, probabilmente quello che più ha terrorizzato me; sul finale, purtroppo, l'ingerenza della CGI si fa evidente, ma un paio di creature sono ben interpretate da James Swanton (già apprezzato come Ash Man in Stopmotion, di cui parlerò prossimamente) e la sinergia tra le scenografie evocative, i bellissimi costumi e la regia a tratti interessante riescono a mitigare un po' questo difetto. Non saprei dire, invece, se gli interpreti sono insipidi o se si è trattato di un problema di doppiaggio non particolarmente curato. Jacob Batalon è insopportabile (o forse SPOILER è la mia convinzione che il suo personaggio se la sia cavata col barbatrucco del coinquilino solo perché ai giovani spettatori sarebbe dispiaciuto vedere morire l'amichetto di Spider-Man) e gli altri attori mi sono sembrati bellocci ma dimenticabili, in particolare la protagonista, ben poco carismatica. Per quanto mi riguarda, non è un film che rivedrei, né vi consiglierei di buttare via i soldi al cinema, soprattutto se avete superato l'età anagrafica del target della pellicola, ma ricordatevene quando verrà distribuito in streaming. Se non altro, fatemi sapere se il finale ha fatto schifo tanto a voi quanto a me!


Di Jacob Batalon (Paxton) e Olwen Fouéré (Alma Astryn) ho già parlato ai rispettivi link.

Spenser Cohen e Anna Halberg sono i registi e co-sceneggiatori della pellicola. Americani, sono al loro primo lungometraggio, ma hanno già collaborato insieme alla serie di podcast Classified. Entrambi produttori, la Halberg è anche attrice. 


Se La profezia del male vi fosse piaciuto recuperate la saga di Final Destination. ENJOY!





martedì 14 maggio 2024

Bolla Loves Bruno: Il colore della notte (1994)

La rubrica dedicata a Bruno rallenta, come sempre, ma non si ferma! Oggi parliamo di Il colore della notte (Color of Night), diretto nel 1994 dal regista Richard Rush.


Trama: dopo avere assistito al suicidio di una sua paziente, lo psichiatra Bill Capa si trasferisce a Los Angeles da un collega, che viene ucciso di lì a poco da un killer sconosciuto. Senza volerlo, Capa si ritrova coinvolto nelle indagini, e nella torrida relazione con una misteriosa ragazza...


Mamma mia. Il colore della notte era un film che temevo, pur non avendolo mai visto, in quanto i thriller erotici che andavano di moda negli anni '90 erano spesso delle schifezze colossali senza capo né coda. In più, Il colore della notte ha il non trascurabile difetto di essere stato massacrato da un produttore che è riuscito a renderlo più brutto ed arzigogolato, là dove la versione del regista sembrava essere molto più centrata, almeno per quanto riguarda il personaggio interpretato da Jane March, ma anche più popporno. A onor del vero, io ho visto la versione da 139 minuti e tutta questa bellezza e centratezza in più non l'ho vista. In compenso, ci sono quelle scene di scopate gratuite e per nulla sensuali che sono ciò che detesto di questo genere di film, a prescindere da quanto possa essere godibile (come in questo caso) vedere Bruce Willis nudo che sfodera il suo attrezzo in piscina e i segni dell'abbronzatura sotto la doccia. Senza fare troppi spoiler, ché Il colore della notte è un thriller, vediamo perché l'ho trovato incredibilmente cretino e schizofrenico. Bruce Willis è uno psichiatra che perde la fiducia in se stesso e diventa incapace di riconoscere il colore rosso (!!) dopo che una sua paziente (la quale all'inizio viene mostrata praticare fellatio sia a un rossetto che a una pistola, così, debbotto, in una delle scene introduttive peggiori di sempre) gli si suicida davanti, buttandosi da un grattacielo. Taglio su Bill Capa, così si chiama lo psichiatra, che per riprendersi decide di andare a L.A. da un collega con tanti di quei soldi da avere una villa e uno studio allucinanti, sui quali poi tornerò. Il collega, che ogni settimana gestisce un gruppo d'incontro frequentato dai peggio matti della zona, riceve da mesi minacce di morte e, dai che ti ridai, un bel giorno viene ucciso. Ora, una persona normale sarebbe tornata a New York, invece Bill Capa si stabilisce nella villa dell'amico, gli usa le macchine, i vestiti e si prende in carico il gruppo di schizzati, in mezzo ai quali si nasconde, presumibilmente, il killer. Qui mi taccio, perché un minimo di divertimento nello scoprire chi ha fatto fuori lo psichiatra fighètto in effetti ci sarebbe. Peccato che, tra un'indagine e l'altra, Capa si invaghisca di una sgallettata subito dopo essere stato tamponato da costei e, da quel momento, il film diventi la sagra della scopata. Ora, il personaggio di Jane March non è inutile ai fini della trama, ma la sceneggiatura è palesemente scritta da due uomini alle prime armi che ambivano a mettere su schermo le banali fantasie sessuali del maschio medio, perché Rose non ha un pregio che sia uno, a parte quello di essere porca.


Bill e Rose si innamorano dopo cinque minuti. Il perché, non è dato sapere. Cioè, è comprensibile che Bill perda la testa per una che gli si offre al primo incontro e che, dopo la prima giornata di sesso (non si può parlare di notte, visto che questa arriva già senza mutande - giuro! - per colazione e se ne va la sera), non faccia altro che cucinare nuda, ma lei perché dovrebbe innamorarsi al punto da "cambiare"? Solo perché lui, ogni volta che la vede, si mette a narrare con fare sognante le azioni di Rose (giuro, lo fa)? Perché, in effetti, è Bruce Willis quindi figo a prescindere? Perché non l'ha scassata di mazzate dopo averlo prima tamponato e poi dichiarato innocentemente di non avere la patente? Comunque, questo è quanto, la struttura del film è: un passo avanti nelle indagini, una scopata, un momento in cui Capa si pente di non essersi fatto i fatti suoi, una scopata, un passo avanti, una scopata. Il tutto, con i riflettori puntati su un'attrice, Jane March, non solo cagna (il che è un problema visto che le viene richiesta un'abilità camaleontica) ma nemmeno dotata di bellezza e sensualità eccelse. Per fortuna, ci sono i matti. Trattati, ovviamente, come ci si aspetterebbe da un film simile, ovvero senza nessuna pretesa di empatia (salvo un momento stranamente serio, dedicato al personaggio interpretato da Lance Henriksen) o verosimiglianza, ma solo come un branco di mine vaganti pronte ad esplodere in faccia a Capa. Vederli interagire tra loro, snocciolando piccoli segreti potenzialmente incriminanti, e gettare uno sguardo nelle loro folli vite, è più pertinente rispetto alle infinite performance sessuali di Capa e Rose; in più, Brad Dourif si mangia il resto del cast appena sgrana gli occhi e lo stesso vale per Lesley Ann Warren, incredibilmente sopra le righe, anche se mai quanto Rubén Blades, il cui investigatore è la cosa più improbabile di tutta la pellicola, oltre che la più esilarante. Anzi, no. La cosa più improbabile de Il colore della notte sono la villa e lo studio di Bob Moore, un trionfo di ostentazione pacchiana, arricchite da elementi ripresi dalle cattedrali gotiche. Probabilmente, nelle intenzioni di Richard Rush, scenografie simili dovevano dare un tocco originale ed autoriale a Il colore della notte, così come alcuni particolari bizzarri all'interno delle inquadrature; per quanto mi riguarda, hanno solo alimentato la sensazione di incredula ilarità che mi ha accompagnata per tutta la durata di un film che depennerei tranquillamente dalla filmografia di un Bruce Willis in declino che, grazie a Tarantino, avrebbe di lì a poco iniziato il suo ritorno in grande stile. 
 

Di Bruce Willis (Bill Capa), Rubén Blades (Martinez), Scott Bakula (Bob Moore), Brad Dourif (Clark), Lance Henriksen (Buck), Eriq La Salle (Anderson) e Shirley Knight (Edith Niedelmeyer) ho già parlato ai rispettivi link.

Richard Rush è il regista della pellicola. Americano, ha diretto film come Professione pericolo. Anche sceneggiatore, produttore e attore, è morto nel 2021 all'età di 92 anni.


Lesley Ann Warren
interpreta Sondra. Americana, la ricordo per film come Victor/Victoria e Signori, il delitto è servito ; inoltre, ha partecipato a serie quali Missione impossibile, Colombo, Will & Grace, Desperate Housewives e Daredevil. Anche produttrice, ha 78 anni e due film in uscita. 


Jane March
era stata scelta in quanto reduce dal successo internazionale del suo primo film, L'amante, ma giustamente ha fatto, in seguito, ben poca carriera. Se Il colore della notte vi fosse piaciuto potete andare qui e recuperare tutta una serie di film simili più o meno riusciti. ENJOY!

venerdì 10 maggio 2024

Humane (2024)

Un uccellino mi ha detto che era già disponibile il film Humane, l'opera prima della regista Caitlin Cronenberg. Potevo forse perderlo?


Trama: in un futuro imminente dove i disastri ecologici hanno portato la terra al collasso, l'ONU ha imposto un termine ultimo per ridurre la popolazione. In questo clima di terrore, il giornalista in pensione Charles York convoca a cena la sua famiglia disfunzionale per un annuncio...


Il nome Cronenberg pesa quanto un macigno, quindi Caitlin l'aspettavamo tutti al varco, pronti a giudicare la legittimità della sua appartenenza alla stirpe. Forse la fanciulla lo sapeva e ha deciso, per il suo esordio, di non seguire ciecamente le orme di padre e fratello, e di non approcciare le tematiche del body horror, pur conservando inalterato "l'ottimismo" che serpeggia in famiglia. Come fa da anni papà David, seguito a ruota dal fratello Brandon, Caitlin ci offre lo spaccato di un'umanità perduta, e comincia partendo dal titolo, Humane. All'inizio del film si dice che le catastrofi naturali e i conseguenti problemi da esse derivate sono un problema squisitamente umano: abbiamo ridotto noi il pianeta uno schifo e, da un punto di vista egoisticamente antropocentrico, siamo noi quelli che avranno più da soffrirne. E' giusto dunque che l'uomo diventi anche la soluzione al problema, attraverso un mezzo che non vi spoilero se avrete piacere di guardare il film. Attenzione, lo dico perché lo penso davvero. Il mezzo di salvezza concertato dallo sceneggiatore Michael Sparaga, benché spesso sfruttato nelle opere horror e fantascientifiche, sarebbe incredibilmente giusto se fosse amministrato con equità imparziale. Il problema è, come sempre, l'essere umano. Una creatura profondamente ingiusta, elitaria ed egoista, in grado di creare centri di potere che esasperano queste caratteristiche e mettono in piedi società basate sull'ipocrisia, l'opportunismo e lo sfruttamento. Ciò vale in primis per i privilegiati coi soldi, come i membri della famiglia York, ma vale anche per chi, nelle disgrazie, cerca una rivalsa per un destino ingiusto o magari, chissà, per qualche psicosi latente. E così, Caitlin Cronenberg ricrea in piccolo tutto lo schifo dell'umanità, portando sullo schermo protagonisti odiosi e grotteschi, con pochissimi sprazzi di positività che ci mettono davvero poco a venire inghiottiti ed annullati per sempre. Lo fa con un senso dell'umorismo nerissimo e una messa in scena classica ma efficace, che sfrutta cliché sempre graditi (cene eleganti all'interno di magioni lussuose che diventano, in un attimo, teatro di indicibili atti di violenza e codardia) con l'aggiunta di "pubblicità progresso" confezionate ad hoc, trasudanti ipocrisia e un pietismo agghiaccianti.


Si ride parecchio in questo Humane, anche se si tratta di un riso molto amaro. Il film della Cronenberg rientra di diritto nella categoria di film che amo di più, quelle commedie bastarde, al confine col thriller e l'horror, in cui l'affetto diventa odio in quattro e quattr'otto e la sete di potere e denaro trasforma il sangue in acqua, e gli attori sono stati scelti di conseguenza. Infatti, in mezzo a performance serie e quasi dolorose come quella di Sebastian Chacon nei panni di Noah o quella di Alanna Bale in quella di Ashley, spiccano quelle caricatissime di Emily Hampshire (una donna la cui resting bitch face fa il paio con un animo nero come la pece), quella di Jay Baruchel (il belino mollo per eccellenza, talmente odioso che il personaggio sarebbe calzato a pennello a Justin Long, ultimamente abbonato a questo genere di ruoli) e, soprattutto, quella di Enrico Colantoni nei panni di Bob. Ecco, quest'ultimo è, al momento, candidato come mio personaggio dell'anno. Bob è un essere abietto, l'emblema della banalità (stronza) del male, e mi spiace mi abbia ricordato tanto, almeno per l'aspetto, la bonanima di Bob Hoskins (anche se penso che si sarebbe divertito ad interpretarlo); ogni apparizione di Bob gela il sangue nelle vene e spinge a volersi alzare dalla poltrona per per tirare una ciabattata sul televisore, solo per non vedere più la sua sorridente, cortese faccia di merda. Anche solo per questo, spero che Humane ottenga vasta distribuzione in Italia, ché mi piacerebbe vedere un film simile al cinema, anche solo per essere testimoni delle reazioni dei miei storici compagni di horror. Se non dovesse succedere, date in qualche modo una chance a Caitlin Cronenberg. Magari il suo esordio non è stato eclatante come quello del fratello, ma la ragazza ha il cuore nel posto giusto, e rischia di dare delle soddisfazioni agli appassionati!


Di Jay Baruchel (Jared York) e Peter Gallagher (Charles York) ho parlato ai rispettivi link.

Caitlin Cronenberg è la regista del film. Canadese, figlia di David Cronenberg e sorella di Brandon Cronenberg, è al suo primo lungometraggio. Lavora principalmente come fotografa di scena ma è anche attrice e produttrice. Ha 40 anni.


Sia Emily Hampshire, che interpreta Rachel York, che Sirena Gulamgaus, che interpreta sua figlia Mia, hanno partecipato alla serie Chapelwaite. Se Humane vi fosse piaciuto recuperate Silent Night e The Feast. ENJOY!

mercoledì 8 maggio 2024

La società della neve (2023)

E' stata dura ma alla fine sono riuscita a guardare La società della neve (La sociedad de la nieve), diretto e co-sceneggiato nel 2023 dal regista Juan Antonio Bayona a partire libro omonimo di Pablo Vierci e candidato a 2 premi Oscar, Miglior film internazionale e Miglior trucco e acconciatura.


Trama: nel 1972, un volo partito dall'Uruguay e diretto in Cile si schianta contro la cordigliera delle Ande. I pochi sopravvissuti si ritroveranno bloccati in uno dei luoghi più inospitali del pianeta e dovranno cercare in tutti i modi di rimanere vivi...


Come ho detto, è stata dura guardare La società della neve e sarà dura anche scriverci un post, a causa della modalità in cui l'ho guardato. Abbiamo cominciato una sera, con Mirco, appena il film è uscito su Netflix. Arrivati alla sequenza del disastro, Mirco, notoriamente aviofobico, si è alzato dopo pochi secondi e se n'è andato, maledicendo me, il mondo e Bayona. Io, che pur non ho paura degli aerei, ho resistito poco di più, e alla fine della sequenza, preda della tachicardia forse causata dall'empatia verso il mio povero fidanzato, ho spento la TV. Nel frattempo sono passate le settimane e, vista la mia ferma volontà di fare fronte alla Oscar Run, ho ricominciato a guardare il film al mattino, mentre facevo colazione, il che significa che mi ci è voluta più di una settimana per finirlo e che ogni, fottutissima mattina, mi sono ritrovata a piangere come un vitello, in pena per Numa, Nando, Roberto e gli altri sfortunatissimi sopravvissuti. Se vi sembra il modo di fruire di un film. Eppure io ricordo, da ragazzina, che Alive - I sopravvissuti non mi aveva fatto né caldo né freddo, i miei lo avevano tranquillamente guardato in TV, e l'unica cosa che mi aveva perplessa, più che turbata, è il fatto che i protagonisti fossero stati costretti a mangiare carne umana per sopravvivere, cioè più una cosa "schifosa" che altro. Invece La società della neve mi ha annientata, e non saprei nemmeno dire perché. Forse per la particolare scelta di raccontare il film dal punto di vista di chi non ce l'ha fatta, con un narratore a cui ci affezioniamo e che muore verso metà film. Forse perché, fino all'ultima partenza verso la salvezza, la regia e la sceneggiatura si impegnano a raccontare una storia non di eroi, ma di esseri umani ai quali è toccata in sorte una delle peggiori disgrazie, di persone che cercano di non regredire ad animali o di non farsi divorare dalla disperazione, mettendo in gioco pochi talenti peculiari e apportando ognuno qualcosa al gruppo, alla "società". Evidentemente, a 43 anni non reggo più le ricostruzioni di eventi realmente accorsi, durante i quali le persone hanno sofferto per lungo tempo, provando sulla loro pelle terrore, disperazione, claustrofobia e freddo, perfettamente veicolati dalla regia e dalle inquadrature di Bayona, ma non solo.


Al di là della bastardissima colonna sonora di Michael Giacchino, che quando ci si impegna riesce a strapparmi il cuore, è il SILENZIO che stronca. Il silenzio ovattato della neve, gli echi, la voce che si perde nell'infinita, spietata vastità delle montagne, la sensazione fisica di isolamento, che arriva dritta alle orecchie dello spettatore. Anche per questo motivo dico che è un delitto guardare il film come ho fatto io. Una pellicola come La società della neve, intanto, merita il buon sonoro di una sala cinematografica come si deve, ed esige l'assoluto coinvolgimento di un pubblico non pavido come la sottoscritta, disposto a non dormire per settimane al ricordo delle scene viste, terribili e sublimi, sul grande schermo. Anche così, la potenza del disastro aereo è innegabile, degna di un horror, e lo stesso vale per le tempeste e la valanga che arrivano a decimare i già pochi sopravvissuti, ma le immagini più preziose sono quelle di doloroso confronto, oppure quelle in cui i protagonisti cercano di condurre una vita quanto più normale, protetti da una fusoliera e dagli oblò che nascondono, a loro ma anche allo spettatore, quanto di innominabile deve essere fatto in nome della sopravvivenza. E grazie a Dio Bayona ha deciso di non indulgere nell'exploitation, che avrebbe distratto il pubblico dal dramma umano dei protagonisti (peraltro interpretati tutti da attori bravissimi), né nel pietismo di un didascalico sguardo al futuro, fermando la narrazione nel momento più intimo e rivelatorio per chi ha avuto la fortuna di sopravvivere e, da quel giorno, ha dovuto farsi carico di non dimenticare chi lo ha reso possibile. Sensazioni personali e probabilmente inspiegabili, incomprensibili per chi è al sicuro e al caldo, e che trovo giusto non dare in pasto alla gente con superficialità. 


Del regista e co-sceneggiatore Juan Antonio Bayona ho già parlato QUI.


La vicenda narrata in La società della neve era già stata portata al cinema con I sopravvissuti delle Ande e Alive - Sopravvissuti, quindi se volete farvi ulteriormente del male potete recuperarli. ENJOY!


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