venerdì 13 settembre 2024

Beetlejuice Beetlejuice (2024)

Nonostante qualche perplessità non potevo perdermi Beetlejuice Beetlejuice, diretto dal regista Tim Burton.


Trama: Lydia e la figlia Astrid sono costrette a tornare a Winter River per partecipare a un funerale. Lì, per una serie di circostanze, avranno di nuovo a che fare col bioesorcista Betelgeuse.


Non avevo grandi speranze quando ho deciso di andare al cinema a vedere Beetlejuice Betlejuice. Ormai dai tempi di Planet of the Apes, Burton non è più quello di un tempo, e il massimo che mi sarei aspettata è un prodotto dignitoso, in grado di farmi passare un paio d'ore in tetra allegria. Fino alla fine del primo tempo, in realtà, mi sono sentita invece come Califano. Tra nuovi personaggi abbastanza sciapi, vecchie conoscenze che non sembrano essersi evolute dagli anni '80 e omaggi alla prima pellicola, la sensazione è stata quella di una storia che stentava a decollare, schiacciata nella noia di un'introduzione infinita. Tutto il primo atto, infatti, serve a presentarci una Lydia ormai cresciuta, con figlia annessa che la odia a causa di un lavoro derivante dalla sua capacità di vedere qualsiasi fantasma tranne quello dell'adorato padre defunto. La sceneggiatura scava nelle dinamiche familiari dei Deetz, che subiscono uno scossone alla morte di un altro padre, quello di Lydia; l'evento costringe le donne superstiti, assieme al nuovo compagno di Lydia, Rory, a tornare a Winter River e ad affrontare un passato ancora ben radicato all'interno del diorama dei coniugi Maitland, ma finché non arriva l'unico, imprevedibile twist della pellicola, il tempo scivola via lento tra recriminazioni, bizzarrie e imbarazzi. La cosa che mi ha soprattutto fatto specie è vedere la tosta Lydia ridotta a cretinetti insicura, incapace di riconoscere il belinone che la sorte le ha messo accanto e di comunicare con una figlia ben più odiosa di quanto fosse lei da adolescente. Ha un bel daffare Delia a parlare di Karma, quando la realtà è che la rossa wannabe artista, nonostante il disprezzo di Lydia, ha sempre avuto un carattere egoista e volitivo, mentre la figliastra è diventata un'ameba dallo sguardo stralunato (lì, probabilmente, ci ha messo del suo anche la Ryder, che negli anni si è legata al ruolo di Joyce Byers e non ne è più uscita). Il film si risolleva un po' quando l'aldilà torna a farla da padrone, con le sue stranezze e la grottesca burocrazia sbattute in faccia senza pietà agli umani inconsapevoli, e quando, ovviamente, la presenza di Beetlejuice comincia a farsi un po' più preponderante. Da quel momento, se non altro, il ritmo aumenta e si torna a divertirsi, a dispetto della costante sensazione di avere davanti tre film in uno, rabberciati alla bell'e meglio come la bellissima Sall.... ehm, Delores di Monica Bellucci.


Ha i suoi momenti, Beetlejuice Beetlejuice. Al di là dell'innegabile bellezza dei costumi di Coleen Atwood, delle scenografie, e di parecchi effetti speciali artigianali, il film raggiunge apici notevoli, per esempio, quando si affida alla verve della divertentissima Catherine O'Hara e alla sua elaborazione del lutto, fa battere il cuore nei momenti in cui Burton si convince di stare girando un horror e mette in campo un terrificante neonato frutto dell'empia unione tra Baby Killer e il cadaverino di Trainspotting, e poco prima del finale riesce persino a commuovere nonostante la faciloneria con cui i personaggi ci lasciano le piume. Il resto, purtroppo, l'ho trovato molto superficiale, oppure tirato per le lunghe. Non c'è stato, da parte mia, alcun coinvolgimento emotivo davanti a drammi familiari o ricongiungimenti, e onestamente avrei preferito che il personaggio interpretato all'epoca da Jeffrey Jones non venisse proprio utilizzato "fisicamente" (se decidi, giustamente, di non coinvolgerlo in quanto predatore sessuale pluricondannato e ritiratosi dalla recitazione da anni, mi pare assurdo infilare delle sue foto o animazioni in stop motion dal sembiante identico, o sfruttare un personaggio senza testa, ma perché?). Il numero musicale verso la fine richiama quello iconico della cena coi gamberetti, ma è davvero lunghissimo e, anche se io l'ho apprezzato ridendo parecchio, capisco perché uno dei miei compagni di visione si sia addormentato; allo stesso modo, enorme rispetto verso Burton per la scelta di utilizzare la melodia che accompagna il finale di Carrie - Lo sguardo di Satana, ma francamente mi è sembrato che la conclusione onirica di Beetlejuice Beetlejuice fosse attaccata con lo sputo, messa lì giusto per dare la possibilità di realizzare un altro sequel. D'altronde, il nome del bioesorcista va pronunciato tre volte, non mi stupirei se tra qualche anno arrivasse Beetlejuice Beetlejuice Beetlejuice. Nell'attesa (e non tratterrò il respiro, non mi va di finire laggiù e prendere il numero), per me è un nì. Non è un film che riguarderei, sono contenta comunque di averlo visto, ma temo che la settimana prossima l'avrò già dimenticato. Peccato.  


Del regista Tim Burton ho già parlato QUI. Michael Keaton (Beetlejuice), Winona Ryder (Lydia Deetz), Catherine O'Hara (Delia Deetz), Jenna Ortega (Astrid Deetz), Justin Theroux (Rory), Willem Dafoe (Wolf Jackson), Monica Bellucci (Delores) e Danny DeVito (uomo delle pulizie) li trovate invece ai rispettivi link.


Se Beetlejuce Beetlejuice vi fosse piaciuto, recuperate Beetlejuice, La sposa cadavere e The Nightmare Before Christmas. ENJOY!

 

martedì 10 settembre 2024

MaXXXine (2024)

Finalmente. Quando ormai non ci speravo più, anch'io sono riuscita ad andare al cinema e vedere MaXXXine, diretto e sceneggiato dal regista Ti West.


Trama: anni dopo la terribile esperienza in Texas, Maxine Minx, sempre decisa a diventare una stella del cinema, ottiene una parte in un film horror. Qualcuno, però, è sulle sue tracce, pronto a rivangare il suo passato...


Ti West
ha concluso la sua trilogia, il suo progetto più ambizioso. Per quanto avessi adorato, all'epoca, X, mentirei se dicessi che avrei scommesso anche solo un'euro sulla riuscita dell'operazione. Credevo, erroneamente, che non si potesse fare meglio di così. Invece, il regista ci ha prima stupito con un racconto di frustrazioni e speranze tanto potente da farci provare pietà per quella che, a rigor di logica, avrebbe dovuto essere solo una disgustosa e rancorosa matta, infine ha concluso il percorso del personaggio Maxine Minx, inserendolo in un discorso più ampio legato al cinema di genere e alla società americana, senza una sola sbavatura. Maxine ha cominciato, in X, come potenziale stellina dell'hard dotata del "fattore X", quel qualcosa in grado di bucare lo schermo, riconducibile ad una cazzimma e una durezza interiore nate dalla ferma volontà di sfondare, a qualunque costo; in parallelo, West raccontava un'America ipocrita, che rinnegava in pubblico la fame di libertà sessuale stigmatizzando un'industria del porno mai stata così fiorente, e rivendicava la dignità di chi in quell'industria lavorava o creava legami familiari. Con MaXXXine, arriviamo agli anni '80 in cui le speranze di ricchezza e di progresso si scontravano con un clima di puro terrore, alimentato da un'amministrazione durissima e bigotta, pronta a creare nemici mediatici per ciò che più contava davvero, riassumibile con Patria, mamma, torta di mele. Negli anni del Satanic Panic e delle proteste contro horror, pornografia e persino giochi di ruolo, la realtà abilmente nascosta sotto il tappeto dell'ipocrisia puritana era fatta di squallidi localini a luci rosse, serial killer e quant'altro e questa sensazione di pericolo e "sporco" tangibile viene resa da Ti West ogni volta che Maxine esce di casa per andare a lavorare. Quanto alla protagonista, il tempo passato e il mancato successo non l'hanno resa meno determinata, anzi; ben consapevole della realtà che la circonda, dov'è un attimo venire uccise da un pazzo e dimenticate in un angolo di strada, Maxine è ben decisa a non lasciare che nulla disturbi la sua paziente ricerca di un'occasione giusta, e finalmente quest'ultima arriva con un ruolo all'interno di un film horror. L'amore di Ti West per la sua protagonista e per l'industria cinematografica è tangibile. La regista del film "La puritana II", le maestranze e il set diventano per Maxine l'unico punto fermo di un'esistenza minacciata da un caotico passato, e ogni azione "altruista" intrapresa da un personaggio al quale importa solo di se stesso (e, nonostante questo, impossibile da odiare) nasce proprio dal desiderio di non perdere in primis questo porto sicuro, oltre alla ovvia possibilità di diventare una star, finalmente. Di vivere la vita che Maxine merita.


Ovviamente, per raggiungere l'happy end, sempre che qualcosa di simile esista, Maxine dovrà passare per un'ordalia di morte e follia. Sono tanti i modelli a cui guarda Ti West, purtroppo per la sottoscritta è passato tuttavia tanto tempo da quando quegli stessi modelli mi sono passati sotto agli occhi. Perdonatemi, dunque, se non citerò Fulci e il suo Lo squartatore di New York, bensì i padri del Giallo all'italiana come Bava e Argento, "genitori" di killer senza volto e con le mani guantate, in grado di trasudare odio e perversione nonostante siano privi di un sembiante riconoscibile. Ma più del killer e del gusto di Ti West per delle morti ancora più splatter che nei film precedenti, mi ha colpita il modo in cui sono state rappresentate le sordide strade di una Los Angeles priva di patina nostalgica o glamour, con uno stile che mi ha ricordato moltissimo Cruising di Friedkin (anche se lì l'azione si svolgeva a New York); la fotografia di MaXXXine, fatta principalmente di ombre e cupe luci al neon, enfatizza ancora più la sensazione di pericolo imminente, di una città caotica e corrotta, dove gioventù e bellezza sopravvivono poco e male. Quanto a Mia Goth, sarebbe un delitto non parlarne. Mi riservo di farlo con più competenza quando avrò rivisto il film in lingua originale, perché al momento ho apprezzato maggiormente la sua interpretazione in Pearl, ma ormai direi che l'attrice ha centrato in pieno il personaggio titolare, portando a termine il non facile compito di spingere lo spettatore a fare il tifo per una "macchina da guerra" egoista e dalla morale ambigua. Anzi, sul finale a me è salito persino il magone per l'amarezza dello sguardo e delle espressioni di Mia Goth, specchio di un futuro incerto, sempre appeso a un filo, anche quando le cose parrebbero essersi risolte per il meglio (non ha aiutato la presenza, sui titoli di coda, della canzone Bette Davis Eyes, che mi spezza il cuore dal 2015). Il resto del cast non è meno interessante. Su tutti, ho apprezzato tantissimo l'inedito Kevin Bacon in versione detective laido e anche Elizabeth Debicki, con la sua algida eleganza, è perfetta come mentore di Maxine e motivatrice in grado di riportare il personaggio sulla "retta" via verso il successo. Sono sicura che MaXXXine meriterebbe ulteriori approfondimenti ma, come nel caso di Pearl, è un film che riuscirei a capire ed apprezzare di più a una seconda visione, quindi per ora mi fermo qui, ringraziando Ti West e Mia Goth per il bellissimo viaggio e per una delle trilogie migliori degli ultimi anni... nell'attesa che ci siano altre storie da raccontare!


Del regista e sceneggiatore Ti West ho già parlato QUI. Mia Goth (Maxine Minx), Elizabeth Debicki (Elizabeth Bender), Giancarlo Esposito (Teddy Night), Kevin Bacon (John Labat), Michelle Monaghan (Detective Williams), Bobby Cannavale (Detective Torres), Larry Fessenden (Guardia), e Lily Collins (Molly Bennett) li trovate invece ai rispettivi link. 

Sophie Thatcher interpreta la FX artist. Americana, ha partecipato a film come The Boogeyman e a serie quali The Exorcist e Yellowjackets. Anche produttrice, ha 24 anni e un film in uscita, Heretic.



Se MaXXXine vi fosse piaciuto, recuperate X - A Sexy Horror Story e Pearl. ENJOY!

venerdì 6 settembre 2024

Oddity (2024)

Spinta da un paio di immagini viste in rete, ho recuperato il recente Oddity, diretto e sceneggiato dal regista Damian Mc Carthy.


Trama: dopo l'omicidio della sorella gemella, una medium cerca di ricostruire l'accaduto, all'interno della casa dov'è avvenuto il delitto...


Oddity
è un film semplice, si potrebbe dire dall'impianto molto classico, che trova appunto forza in questa sua semplicità. Non importa, infatti, rinnovare i topoi dell'orrore, quanto saperli sfruttare al meglio, e Mc Carthy in questo dimostra di saperci fare. Tutto inizia da Dani, una donna decisa a passare la notte all'interno di un'immensa dimora. La situazione iniziale, che più classica non si può, mette già lo spettatore sul chi va là per una serie di dettagli che non vengono inizialmente spiegati: non si sa cosa ci faccia la donna lì, non si sa perché abbia impostato la macchina fotografica per fare ripetuti scatti in notturna, non si sa cosa si intende per il "we are connected" pronunciato durante una telefonata, si sa solo che il cellulare prende solo in un preciso punto dell'edificio e che non ci sono luci, quindi la costruzione di una situazione "da casa infestata" viene automatica. Tutti i misteri, se così si possono chiamare, di Dani, verranno rivelati a poco a poco, compresa la modalità della sua morte, attraverso le indagini della sorella gemella, Darcy. Darcy gestisce un negozio di "oggetti curiosi", come da titolo originale, spesso dotati di caratteristiche esoteriche, se non addirittura maledetti, ed è cieca. Il suo modo di vedere il mondo attraverso il dono della psicometria, il suo essere cresciuta in un ambiente che non nega gli spiriti, positivi o negativi che siano, si scontra con la pragmatica freddezza del marito di Dani, psichiatra che divide le persone in savi e pazzi, e che ha sempre una spiegazione scientifica per tutto. La "percezione" della realtà è la chiave di volta di Oddity, interamente costruito su sequenze riportate da punti di vista differenti, che spingono sia i personaggi che lo spettatore a dare interpretazioni viziate da preconcetti. Paradossalmente, chi è dotato di vista viene sviato, cullato da un'erronea sicurezza, mentre chi è cieco si affida a chi non è in grado di mentire, a percezioni che vanno oltre la razionalità. Oddity è per questo molto ironico, benché in senso amaro. Darcy è consapevole sia del suo potere sia del modo in cui gli altri la percepiscono come debole ed inferiore, ed è bello vedere come gli ignoranti ed irrispettosi vengano rimessi al loro posto con perfetto aplomb inglese e risposte salaci. Quanto a chi si ritiene superiore, Mc Carthy non perdona chi persevera nell'arroganza, e il contrappasso per chi sottovaluta il sovrannaturale e si crede più furbo degli altri è molto soddisfacente. 


La cosa più interessante di Oddity, tuttavia, è l'abilità del regista di sfruttare al meglio gli spazi, le luci e UN singolo elemento perturbante. In Caveat, il suo film precedente, l'ansia si concentrava soprattutto in una sequenza in particolare, che sfruttava paure ancestrali e usava, come detonatore, un terrificante coniglio di pezza. Se siete fan della bestiola, sappiate che in Oddity c'è un suo simpatico cameo, mentre il suo posto viene egregiamente preso da un golem di legno e, soprattutto, l'ansia viene distribuita a piene mani per tutto il film. Per quanto mi riguarda, Oddity è, al momento, la pellicola più terrificante del 2024, se parliamo di una paura viscerale, slegata da eventuale schifo splatter; la casa teatro del delitto, apparentemente ariosa e piena di spazi aperti, diventa un luogo sinistro, zeppo di ombre e punti ciechi che danno la sensazione di essere spiati da presenze oscure, sensazioni enfatizzate anche dal fatto che Mc Carthy non ricerca mai il jump scare, ma predilige creare situazioni di attesa che logorano i nervi dello spettatore. Aiuta molto il fatto che il golem di legno sia un incubo fattosi materia (non a caso una delle sequenze più efficaci vede la nuova fidanzata di Ted "giocherellare" attorno al manichino cercando di carpirne i segreti), ma a onor del vero Oddity fa paura già prima della sua comparsa, per tutta una serie di dettagli volutamente fraintendibili e alterati da una percezione stravolta dall'orrore di chi si ritrova a vivere determinate situazioni. Al suo secondo film, dunque, Damian Mc Carthy si è confermato un autore horror a tutto tondo, e personalmente non vedo l'ora che si metta alla prova con una terza pellicola, anche se le mie coronarie potrebbero non farcela. 


Del regista e sceneggiatore Damian Mc Carthy ho già parlato QUI.


Se Oddity vi fosse piaciuto, recuperate Caveat. ENJOY!

mercoledì 4 settembre 2024

Aliens - Scontro finale (1986)

La challenge di oggi voleva un film degli anni '80 e ho scelto così Aliens - Scontro finale (Aliens), diretto e co-sceneggiato nel 1986 dal regista James Cameron e vincitore di tre premi Oscar: Migliori effetti speciali, Miglior colonna sonora originale, Miglior montaggio sonoro.


Trama: l'astronave di Ripley viene ritrovata e la donna viene svegliata dal sonno criogenico dopo più di 50 anni. Il ritorno sulla Terra risulta difficile, ma non quanto dover tornare sul planetoide dove il suo equipaggio era stato sterminato dall'alieno, ora trasformato in una colonia...


Avrò sicuramente già scritto che la saga di Alien non è tra le mie preferite e che, di conseguenza, avrò visto i film che la compongono solo una volta, al massimo un paio. Ciò vale anche per Aliens - Scontro finale, che ricordavo di aver visto intorno al 1997 e poi mai più, ispirata (non ridete) dalla cassetta X-Terror Files 2, che conteneva un riadattamento della colonna sonora inframezzato da alcuni degli iconici dialoghi, in primis il "Get away from her, you bitch!" finale. E' stato dunque come guardare un film inedito, completamente diverso dal predecessore, che invece avevo ancora ben fresco in mente. Aliens, a differenza di Alien, non è un horror ma un action di fantascienza, carico di quelle vibes anni '80 che tanto fanno andare in visibilio chi è figlio di quei tempi come me. Nonostante questo, è anche un film modernissimo, ovviamente. Ripley, che nel primo capitolo veniva fatta assurgere a protagonista in maniera inaspettata, dopo un primo atto passato quasi completamente nell'ombra, è il fulcro della storia fin dall'inizio, nonché baluardo contro tutto ciò che è all-american e testosteronico, dal capitalismo sfrenato che non guarda in faccia a nessuno per il profitto, ai fucili automatici più grossi di coloro che li impugnano. Ripley è l'estranea dell'equipaggio, con tutti i suoi traumi, le sue diffidenze e il suo carattere stundaio, ma nel giro di poco si guadagna il rispetto e la fiducia del gruppo di marine impegnati nella missione su LV-426. Questo perché Ripley, in questo film, non lotta per la sua salvare se stessa, bensì la piccola Newt, unica sopravvissuta alla mattanza degli alieni, e ciò la rende ancora più umana e fondamentale, così come rende Aliens meno freddo e, passatemi il termine, più "avventuroso" rispetto all'algido capolavoro di Ridley Scott. Come ho scritto sopra, sono due generi diversi, ed è inevitabile. Lo spettatore sa già cosa aspettarsi dai ferocissimi xenomorfi; la tensione non manca, così come non mancano un paio di scene schifosette, ma gli alieni sono meno subdoli e più diretti, Cameron punta tutto su un gran dispendio di armi ed esplosioni, con un confronto col "boss finale" che risulta in uno scontro fisico tra titani e tra due tipi di istinto materno, diversi ma speculari.


Chi, come me, non è legato alla saga ma ha guardato da poco Avatar, si potrà divertire a trovare già in questo Aliens embrioni di un sacco di armi, armature, equipaggiamenti e personaggi, se ci fosse ancora bisogno di testimoniare la genialità di James Cameron e la modernità del suo spettacolare modo di fare cinema. Non a caso, gli effetti speciali reggono alla perfezione l'usura del tempo. Nell'Alien di Ridley Scott sembrava tutto, volutamente, già vecchio e squallido, Aliens rende invece protagonisti complicati ma funzionali esempi di ingegno umano (che nulla possono contro gli xenomorfi, ma questo è un altro discorso) e, dal momento in cui compaiono gli alieni titolari, è impossibile non rimanere a fissare lo schermo a bocca aperta. A proposito degli alieni, è impressionante il loro attacco ed è impressionante il loro realismo sia nelle inquadrature ravvicinate sia quando brulicano addosso ai poveri marine, per non parlare della terrificante "madre" annidata in una delle scenografie più genuinamente raccapriccianti della storia del cinema; se già lo xenomorfo del primo Alien aveva una sua perversa personalità, la Regina è un incubo gigante di tremenda intelligenza, un inarrestabile concentrato di odio che, da sola, decreta la superiorità degli effetti pratici su qualunque frutto della grafica computerizzata. E anche il cast, ovviamente, ha buona parte del merito della riuscita di Aliens. Sigourney Weaver è sempre iconica e il suo personaggio si arricchisce di ulteriore profondità grazie al legame, tenero e credibile, con la piccola Newt, ma gente come Lance Henriksen, Bill Paxton e Jenette Goldstein sono le ciliegine sulla torta di un parterre di marine indimenticabile, benché sfortunato, e non lo dico solo perché, grazie a questo film, è stato realizzato quel trionfo di Il buio si avvicina. Per l'ennesima volta, la challenge horror (anche se Aliens - Scontro finale di horror ha poco o nulla) mi ha dato delle gioie e mi ha spinta a riguardare un film che, nella mia pigrizia, non sarei riuscita a recuperare nemmeno con l'uscita di Romulus, cosa che invece ha fatto Lucia, con la sua bella rassegna che vi invito a leggere, perché scritta con competenza e passione, a differenza di questo post. D'altronde, sono scoppiata a ridere pensando a Cartman nel momento esatto in cui Newt ha detto "Molto spesso vengono di notte. Molto spesso", quindi sono proprio una brutta persona. 
 

Del regista e co-sceneggiatore James Cameron ho già parlato QUI. Sigourney Weaver (Ripley), Michael Biehn (Hicks), Lance Henriksen (Bishop), Bill Paxton (Hudson), William Hope (Gorman), Jenette Goldstein (Vasquez) e Mark Rolston (Drake) li trovate invece ai rispettivi link. 

Paul Reiser interpreta Burke. Americano, lo ricordo per film come Beverly Hills Cop - Un piedipiatti a Beverly Hills, Beverly Hills Cop II - Un piedipiatti a Beverly Hills II, Bella, bionda... e dice sempre sì, Storia di noi due, Dietro i candelabri, Whiplash, The Darkness e serie quali Innamorati pazzi, The Boys e Stranger Things. Anche sceneggiatore e produttore, ha 68 anni e un film in uscita, inoltre tornerà nell'ultima stagione di Stranger Things


Stephen Lang aveva fatto l'audizione per i ruoli di Burke e Hicks, mentre per quanto riguarda Bill Paxton c'è stato il serio rischio di vederlo come Zed in Scuola di polizia 2: Prima missione e per fortuna ha preferito accettare la parte di Hudson o non avremmo mai avuto Bobcat Goldthwait! Per brindare allo scampato pericolo, recuperate AlienAlien 3, Alien - La clonazione, Prometheus, e Alien: Covenant. ENJOY!  



martedì 3 settembre 2024

Alien: Romulus (2024)

Con la riapertura del multisala, sono corsa a vedere un film di cui avevano detto tutti meraviglie, Alien: Romulus, diretto e co-sceneggiato dal regista Fede Alvarez.


Trama: per fuggire alle tremende condizioni di vita della colonia, la giovane Rain ed altri amici decidono di tentare il viaggio verso un pianeta lontano, appropriandosi di un'astronave abbandonata. Ignorano che quest'ultima sia abitata da qualcosa di terrificante...


Se leggete da un po' il mio blog, saprete che non conosco granché la saga di Alien, anche se mi piace andare al cinema quando escono i film della serie. Li prendo però, per ignoranza, come stand-alone slegati da tutto il resto, non sono assolutamente in grado di trovare collegamenti salvo Ripley (quando c'è), l'alieno del titolo, e un paio di altri aspetti di dominio comune, che potrebbero conoscere anche i miei genitori. Alien: Romulus l'ho vissuto, dunque, come un "film horror con lo xenomorfo" e, come tale, per quanto mi riguarda ha assolto egregiamente il suo dovere, anche perché il mio cervello non è stato distratto da elementi riservati al fandom, sano o tossico che sia. Mi è piaciuto molto, per esempio, il minimo di background ed empatia riservati alla protagonista, Rain, e al suo sintetico difettoso, il povero Andy. Il rapporto familiare tra un'orfana che vive di stenti all'interno di una triste colonia spaziale dove non sorge mai il sole (una tale esasperazione del capitalismo da aver fatto il giro ed essere tornata a dividere le persone in classi sociali basate sui singoli lavori) e un androide col cervello di un bimbo che lei considera come un fratello vero tocca il cuore, ed è il motore della maggior parte degli sviluppi della sceneggiatura. Andy e Rain sono gli unici personaggi per i quali ci preoccupiamo davvero, nonostante i loro compagni non meritino le cose orrende che li aspettano sulla Romulus (oddio, forse uno sì), questo perché al loro comprensibile desiderio di una vita migliore, simboleggiato da un'alba luminosa, si unisce la rappresentazione di un legame verosimile e sincero. E ho apprezzato, ovviamente, l'approccio più horror di Alvarez, quei picchi di cattiveria che non risparmiano nemmeno gli "intoccabili". Qui, più che negli altri Alien che ho visto o ricordo, lo xenomorfo ha il gusto del gore e non solo spunta dagli anfratti più schifidi all'interno dei poveri cristi tanto sventurati da finire vittime dei facehuggers, ma ricorda agli incauti viandanti che non sta bene scontrarsi contro chi ha il sangue corrosivo. La sceneggiatura viene più che incontro a chi, come me, ricorda poco o nulla del resto della saga o non la conosce proprio (come il Bolluomo che, però, ha mostrato di gradire) ma il ritmo del film si mantiene tutto sommato veloce senza impantanarsi in spiegoni troppo didascalici e mentirei se dicessi che ogni tanto non mi sono sentita mozzare il respiro, non tanto con l'entrata in scena degli xenomorfi grossi, quanto più per quelle schifezzuole fecondanti.


Apprezzabile, all'interno di un film anti-capitalista ma finanziato da una grossa major, che Alvarez abbia deciso di affidarsi il più possibile ad effetti speciali artigianali, senza ricorrere troppo alla CGI senz'anima. Inoltre, benché il regista abbia sempre giocato in "piccolo", ambientando i suoi film all'interno di rifugi o case, bisogna dire che qui ha dimostrato di saper gestire al meglio anche i grandi spazi, sia esterni che interni alle gigantesche astronavi che fungono da teatro della vicenda, e a trasformarli in luoghi claustrofobici e oscuri, dove la mancanza di ossigeno è l'ultimo dei problemi. L'unica cosa che mi ha dato fastidio di Alien: Romulus (tornando in argomento anti-capitalismo, asservimento alle major, mancanza di anima, ecc.) è una scelta che mi indispone a livello etico e che qui non sto a spoilerare, se ancora non avete visto il film. Mi chiedo però se non ci fosse un altro modo per far drizzare i capelli ai fan e, contemporaneamente, sfruttare l'effetto nostalgia anche per fornire spiegazioni ai neofiti, senza ricorrere a mezzucci che già avevo visto con occhio critico in Ghostbusters: Legacy. Temo siano scelte che rischiano di svilire, nel tempo, il lavoro dei professionisti, e di prendere chine molto pericolose, soprattutto a scapito di chi non è ancora famoso e, così, rischia di non diventarlo mai. Ma ho già detto troppo, se avete visto il film o lo andrete a vedere ne riparleremo, i poco utilizzati commenti servono apposta. Fastidio da vecchia barbogia a parte, ho trovato Alien: Romulus un ottimo horror estivo, molto dinamico e ansiogeno ma anche, passatemi il termine, più "leggero" rispetto agli ultimi due Alien diretti da Ridley Scott, che avevo trovato più affascinanti. Non mi sono entusiasmata quanto avrei voluto (o mi sarei aspettata), ma è comunque un film che vi consiglio di vedere al cinema.


Del regista e co-sceneggiatore Fede Alvarez ho già parlato QUI mentre Cailee Spaeny, che interpreta Rain, la trovate QUA


Alien: Romulus
si colloca, cronologicamente, tra  Alien e Aliens - Scontro finale, quindi precede Alien 3 e Alien - La clonazione ma viene prima di Prometheus, e Alien: CovenantENJOY!  


venerdì 30 agosto 2024

Blink Twice (2024)

Per una serie di circostanze fortuite sono riuscita ad andare a vedere anche Blink Twice, diretto e co-sceneggiato dalla regista  Zoë Kravitz. Dovrò necessariamente fare qualche spoilerino, ahimé.


Trama: Frida fa la cameriera ma sogna una vita migliore. L'occasione si presenta quando il magnate Slater King, durante una festa, invita lei e la sua amica Jess a passare alcuni giorni nella sua isola privata, ma non è tutto oro quello che luccica...


Blink Twice
mi aveva attirata fin dal trailer, ma siccome le uscite interessanti del periodo erano tante non avevo granché intenzione di impegnarmi per recuperarlo in sala. Per fortuna, una serie di circostanze mi hanno consentito di andarlo a vedere proprio martedì, altrimenti mi sarei persa un'opera d'esordio assai promettente. Blink Twice è il più classico dei cautionary tales, dove si invitano le persone a stare attente a ciò che desiderano, e trova le sue radici all'interno della vana società odierna, fatta di like ed effimera fama sui social. Attenzione, però, l'argomento del film non è la ricerca del successo a tutti i costi, quanto piuttosto il desiderio di lasciarsi ingannare dalle apparenze, di spegnere il cervello e non pensare, di trovare qualcuno che possa concederci di vivere piacevolmente e senza impegni, chiudendo gli occhi davanti alle cose sgradevoli. E' un sentire comune, un sostrato che alimenta l'esercizio del potere e che crea confusione nel momento in cui le persone non sanno più scindere la realtà dalla pia illusione. Come dirà il magnate Slater King verso la fine del film, "Il perdono non esiste, esiste solo l'oblio", il che significa che in un mondo di riccastri proni a danneggiare il prossimo e soddisfare solo i loro desideri, il perdono non serve, tanto c'è l'oblio di una nebbia lussuosa e profumata che ci fa dimenticare le colpe passate di questi personaggi, nonostante continuino a compiere azioni orribili o discutibili (se ci pensate, succede così anche con i politici italiani, vogliamo parlare dell'aeroporto intitolato a Berlusconi?). Nello stesso tempo, Blink Twice mette in scena anche il terribile destino delle donne che subiscono violenza e non possono chiedere aiuto per paura, oppure non si rendono neppure conto di averne bisogno, vittime delle subdole manipolazioni mentali dei loro carnefici al punto da accettare anche cose impensabili. Se il titolo originale, Pussy Island, è stato drasticamente cambiato per le proteste dei produttori, il contenuto del film è comunque chiarissimo e rispecchia la condizione svilente delle ospiti di Slater King senza risparmiare colpi bassi, né allo spettatore né ai personaggi, con gli ultimi 20 minuti che alternano una serie di abusi da far accapponare la pelle a scoppi di violenza liberatoria, per concludere con un finale splendido, dove tutto ciò che sembrava bianco e nero, diventa verosimilmente grigio. 


Al suo film di esordio, Zoë Kravitz ha le idee ben chiare in testa. Personalmente, avrei sfrangiato la prima parte del film, perché alla fine del primo tempo l'autrice non aveva ancora posto tutte le basi per il plot twist e ho visto gente lasciare la sala spazientita (sono bonobi, lo so, ma temo non saranno stati gli unici nel mondo), ma Blink Twice è uno di quei film da guardare col senno di poi, zeppo di tanti minuscoli e macroscopici dettagli che possono passare per esercizi di stile, invece sono fondamentali. Sono importanti la simbologia e il graduale cambiamento dei punti di vista, con citazioni insistenti del mito dei Lotofagi (e grazie ad Antonio per avermelo fatto notare!) e un montaggio frenetico che stordisce lo spettatore indugiando sui tanti, lussuosi dettagli dell'isola, tra small talk, trasgressioni, arredamenti, alta cucina e begli abiti. C'è sempre qualcosa che stona, ovvio, perché noi sappiamo fin da subito che l'isola di King è troppo bella per essere vera, ma i molteplici elementi sbagliati e perturbanti non danno affatto l'idea di quanto marcio si nasconda dietro quella realtà instagrammabile, e il graduale cambio di registro prima e durante le sequenze rivelatorie, degno di un horror (genere a cui, peraltro, Blink Twice deve tantissimo, soprattutto ai revenge movie), arriva ancora più inaspettato. Il film vanta anche un cast di tutto rispetto. Naomi Ackie e Channing Tatum hanno una bellissima alchimia, lei è molto espressiva e lui, che pur non mi è mai piaciuto come attore, mi ha messo più di un brivido nel ruolo di Slater King. La vera sorpresa è però Adria Arjona, che sta palesemente vivendo un periodo d'oro; buona parte di Blink Twice ha i toni vivaci della commedia, anche demenziale (d'altronde, la pochezza dei personaggi è quella, e le caratteristiche di sciocca vanità vengono enfatizzate quando alcuni veli cominciano a cadere, trasformando dei simpatici buffoni in fastidiosi rompicoglioni perennemente in botta, o peggio), ci sono alcune sequenze in particolare dove il sorriso si trasforma in un'isterica risata di orrore, e la Arjona ha dei tempi comici perfetti, che non la fanno mai risultare ridicola, anzi, enfatizzano la tragica presa di coscienza del personaggio. Non guasta, infine, vedere facce amate come quelle di Christian Slater, Haley Joel Osment, Geena Davis e Kyle MacLachlan, che brillano di luce propria impreziosendo ancor più un film bello e coraggioso, che vi consiglio di correre a vedere prima che venga tolto dalle sale!


Della regista e co-sceneggiatrice Zoë Kravitz ho già parlato QUI. Channing Tatum (Slater), Alia Shawkat (Jess), Christian Slater (Vic), Simon Rex (Cody), Haley Joel Osment (Tom), Geena Davis (Stacy) e Kyle MacLachlan (Rich) li trovate invece ai rispettivi link.

Naomi Ackie interpreta Frida. Inglese, ha partecipato a film come Lady MacbethStar Wars - L'ascesa di Skywalker, Whitney - Una voce diventata leggenda e a serie quali Doctor Who e The End of the F***ing World. Anche produttrice e cantante, ha 33 anni e un film in uscita, Mickey 17 di Bong Joon Ho. 


Adria Arjona
interpreta Sara. Portoricana, ha partecipato a film come The Belko Experiment, Hit Man - Killer per caso e a serie quali True Detective. Anche produttrice, ha 32 anni. 


Levon Hawke
, che interpreta Lucas, è figlio di Ethan Hawke e Uma Thurman. Se Blink Twice vi fosse piaciuto recuperate Don't Worry Darling. ENJOY!



martedì 27 agosto 2024

Longlegs (2024)

Perdonatemi, ma non ce l'ho fatta. E' assolutamente VERGOGNOSO che, in Italia, uno dei film più importanti dell'anno esca con quattro mesi di ritardo rispetto al resto del mondo. Quindi, nell'attesa di riguardarlo come si deve in sala, mi sono permessa di recuperare altrove Longlegs, diretto e sceneggiato dal regista Osgood Perkins, e di parlarne SENZA SPOILER.


Trama: Lee, agente dell'FBI, viene coinvolta nel caso di Longlegs, misterioso assassino che da 30 anni stermina intere famiglie senza lasciare traccia salvo alcune lettere indecifrabili...


Cominciamo a togliere di mezzo la fastidiosa domanda generata dall'intenso battage pubblicitario americano: Longlegs è il film più spaventoso degli ultimi tempi? La risposta sincera è no, ma c'è da elaborare. L'ultimo lavoro di Osgood Perkins, per buona parte della sua durata, non lega la sua narrazione al genere horror, ma svia l'attenzione dello spettatore mirando, apparentemente, al modello di thriller pesantemente contaminati dal nostro genere preferito, come Se7en e Il silenzio degli innocenti. Questi due film balzano subito alla mente guardando Longlegs, non solo perché la protagonista è poco più che una recluta con alcune caratteristiche che la rendono "particolare", ma per una generale aura di plumbea pesantezza e pericolo imminente che sembrano volerla schiacciare fin dalle primissime scene. A dire il vero, a me il film ha però ricordato, piuttosto, alcuni degli episodi di X-Files più riusciti (non a caso, siamo negli anni '90 del sorridente Clinton), e, soprattutto, le prime due stagioni di Twin Peaks. L'elemento lynchiano di Longlegs, se mi passate il termine, risiede nella weirdness (talvolta, ingannevolmente esilarante) di tutti i personaggi presenti nel film, ognuno dei quali, persino quelli che dovrebbero garantire legge, ordine o tranquillità famigliare, hanno una caratteristica che stona all'interno di un contesto verosimile, e offrono di conseguenza il fianco alla possibilità di qualcosa che esista qualcosa di "sbagliato", di perturbante. Longlegs svariona pesantemente e gradevolmente sul finale, ma fino a quel momento cammina su un filo assai equilibrato di incertezza, nel centro perfetto del dualismo di una trama che segue un'investigazione tutto sommato lineare, e una regia che fa di tutto per confermare che di normale, in Longlegs, non c'è proprio nulla. Più volte, nel film, viene consigliato di osservare a lungo, di guardare, ma è difficile farlo quando il nostro punto di vista è condizionato da una regia fatta di grandangoli e prospettive sghembe che schiacciano le immagini rendendole claustrofobiche, spesso centrate su una Maika Monroe ripresa a distanza, come se qualcosa la osservasse, non visto. E quel qualcosa c'è, eccome. Perkins lo schiaffa a tradimento negli angoli nascosti, come un elemento dissonante, un male ineluttabile che agisce di nascosto ma neppure troppo, perché masticare e sputare gli inutili esseri umani è fin troppo facile. Per questo è importantissimo, in Longlegs, sapere dove guardare, in quanto, come nei migliori thriller, tutto è lì fin dall'inizio, e l'arte sta nel rendere spettatori e protagonisti dei burattini da sviare a piacimento, magari focalizzando la loro attenzione su Nicolas Cage.


Il brutto di vivere in un mondo ormai governato da social spoilerosi, è che Nic lo avrete già visto, nel suo trucco che lo rende quasi irriconoscibile, quando sarebbe stato meglio non sapere nulla di lui (e qui torniamo sulla questione dei quattro mesi di gap tra noi e il resto del mondo. Ribadisco, vergogna). Ma non importa, da un certo punto di vista, perché Cage, impegnato in una delle sue migliori performance, non è l'elemento fondamentale di Longlegs. Lui è l'uomo nero, certo, ma apre le porte a domande ben più insidiose, non solo legate all'"altro" da noi, ma proprio a ciò che in noi si nasconde, quello che non possiamo o non vogliamo vedere, quello che mettiamo da parte per qualcosa di più grande, vittime di un amore che diventa terreno fertile per l'orrore più profondo. Cage è la punta dell'iceberg, ma ciò che chiede Longlegs è di scavare, schiantarci come il Titanic contro un film che mette i brividi fin dalla prima inquadratura, che ti fa accendere le luci in casa, perché non sia mai che, al buio, ci sia qualcosa a fissarti. Poi, se volete, vi dico anche che Perkins è un mago della simmetria e delle simbologie nascoste, che riesce a trasformare il formato dei filmini casalinghi in qualcosa di ancora più terrificante di ciò che veniva mostrato in Sinister, che sul finale confeziona alcune delle sequenze e delle singole immagini più belle e agghiaccianti che vedrete quest'anno, e che Longlegs ha una colonna sonora di tutto rispetto e una fotografia da urlo, ma vi lascio il piacere di scoprire tutte queste cose da soli. Per quanto mi riguarda, Longlegs non è il film più terrificante degli ultimi decenni, ché ormai mi risulta difficile spaventarmi davvero, ma mi ha lasciato sicuramente la sensazione come di qualcuno che sia sempre lì a toccarti sulle spalle, pronto a farti "cucù" (e non in modo simpatico come Russell Crowe), oltre alla voglia di rivederlo ancora e ancora. La possibilità che diventi un grande classico e un cult è più che tangibile e io forse ho trovato l'horror dell'anno.


Del regista e sceneggiatore Osgood Perkins ho già parlato QUI. Maika Monroe (Agente Lee Harker), Nicolas Cage (Longlegs), Alicia Witt (Ruth Harker) e Kiernan Shipka (Carrie Anne Camera) li trovate invece ai rispettivi link.


Se Longlegs vi fosse piaciuto, recuperate Il silenzio degli innocenti, Zodiac e Se7en. ENJOY!

venerdì 23 agosto 2024

Bolle di recensioni estive: What You Wish For (2023) - Deadpool & Wolverine (2024)

Bentornati dalle ferie estive! Il Bollalmanacco si prenderà ancora un po' di tempo prima di ricominciare a pieno regime (leggi: non ho avuto nemmeno un minuto per scrivere post nelle ultime due settimane, e col caldo che ha fatto, sinceramente, mancava anche la voglia), quindi ricomincio oggi in forma leggera con brevi pensieri sui pochi film visti nel periodo. ENJOY!


What You Wish For - Nicholas Tomney
(2023)

Ormai sono anni che gli chef e l'alta cucina vanno di moda, quindi gli horror che trattano questo tema sono sempre, simpaticamente, attuali. Nel caso di What YouWish For, i toni sono più virati verso la commedia nera, altro genere che adoro, soprattutto quando coinvolge personaggi dalla dubbia moralità che, come da titolo, dovrebbero stare attenti a "quello che desiderano", perché potrebbe avverarsi in maniera poco gradevole. Ryan (quel Bastardo Giallo di Nick Stahl, tornato a bazzicare nel mondo dell'horror) è uno chef che ha gettato via carriera e abilità perdendosi nel gioco d'azzardo; un giorno, viene invitato dall'ex collega e amico Jack in una sontuosa villa in un non meglio precisato paese del Sud America. Lì scopre che lo stile di vita di Jack è decisamente diverso dal suo, grazie a un misterioso lavoro che gli consente di esercitare la professione di chef facendo soldi a palate. Per un motivo che non vi sto a dire, Ryan si ritrova costretto a sostituire Jack e da lì comincia una "commedia" degli equivoci all'insegna della legge di Murphy, con quel tocco horror che avrebbe reso un film già interessante come The Menu ancora più feroce. Qui però non siamo ai livelli di The Menu. La trama di What You Wish For è intuibile (per lo spettatore, ma non per il protagonista), dopo una decina scarsa di minuti, ma il divertimento è assicurato da un buon cast di comprimari, un ottimo ritmo e un paio di momenti decisamente schifosi. E poi la faccia di Nick Stahl è perfetta per il personaggio di Ryan, un uomo col quale non è facilissimo empatizzare e al quale si rischiano di augurare le peggio cose, nonostante le sue "buone" intenzioni. Purtroppo, What You Wish For non gode ancora di una distribuzione italiana ma si può recuperare facilmente, ed è un ottimo piatto estivo.


Deadpool & Wolverine - Shawn Levy
(2024)

Lo so, questo film meritava un post a parte, ma è uscito ormai un mese fa e, nel frattempo, ne hanno parlato tutti, quindi approfitto per tirare i remi in barca e assecondare la pigrizia estiva. Su Deadpool & Wolverine si sono posti quasi tutti agli estremi, tra chi urlava al capolavoro facendo il dito medio al MCU e chi lo equiparava alla monnezza (qualcuno, che spero non legga il mio blog, mi ha detto "Una porcata, non ci si capisce niente... e sì che IO I FILM MARVEL LI HO VISTI TUTTI!" Amico caro, se non hai un minimo di infarinatura di fumetti cartacei, cinecomics quando ancora non si chiamavano così e serie Disney + puoi attaccarti al... ciò detto, il Bolluomo che non bazzica nulla di tutto ciò ha apprezzato, dunque i limiti sono altrove). Ragazzi, è come gli altri due Deadpool, solo ancora più citazionista e metacinematografico, quindi o vi piacciono il genere e l'approccio, altrimenti ciccia. Io ho gradito molto, mi ci sono divertita come una matta inserendo a tutta forza la modalità nerd/nostalgica, l'unico modo di stare al gioco e godersi l'esperienza fino in fondo. Come ho scritto su Facebook, Deadpool & Wolverine è la cosa migliore uscita da quell'obbrobrio di Loki: prende il concetto di multiverso e linee temporali affrontandolo con il piglio cazzone che avrebbe meritato fin dall'inizio (ché certe cose o le gestisci bene, oppure mandi tutto in vacca sfasciando una macchina per soldi apparentemente perfetta), trasformandolo nella parodia di se stesso, in linea col personaggio di Deadpool, e ci costruisce attorno una trama arzigogolata ma divertente, tra un momento epico, uno di epica cretineria e una serie di splatterate goduriosissime. L'alchimia tra Ryan Reynolds e Hugh Jackman funziona, i due si sono divertiti sul set e si vede, e le guest star infinite che popolano il film scaldano il cuore, alcune più di altre (per non parlare dei mille rimandi a saghe, albi, splash page storiche dei fumetti. Dovrei rivedere il film perché di sicuro mi sono persa qualcosa, ma chapeau per la conoscenza enciclopedica dei coinvolti). Personalmente, sono riuscita anche a commuovermi davanti ai titoli di coda, che mostrano i protagonisti di vari franchise storici ancora giovani ed entusiasti, ma c'è da dire che la "vecchiaia" non ha scalfito l'addominale scolpito di Hugh Jackman, la cui vista vale da sola il prezzo del biglietto. Molto apprezzabile anche la colonna sonora, anche se da vecchia 43enne preferisco più l'utilizzo di Like a Prayer rispetto alla pluricitata Bye Bye Bye, che continua a farmi schifo a prescindere dal balletto di Deadpool.


martedì 13 agosto 2024

Trap (2024)

Spinta da un trailer accattivante, ho deciso di non perdermi Trap, l'ultima fatica del regista M. Night Shyamalan, da lui diretto e sceneggiato. Con questo post il Bollalmanacco va in vacanza per qualche giorno. Vi auguro buone vacanze, buon Ferragosto e vi do appuntamento al 20 agosto, ancora non so bene con quale film! 


Trama: Cooper, serial killer dalla doppia vita irreprensibile, accompagna la figlioletta Riley al concerto della sua cantante preferita, Lady Raven, senza sapere che l'evento è in realtà proprio una trappola per lui...


Poi dite che non voglio bene a Shyamalan. Il multisala di Savona è ancora chiuso e io sono andata persino a Genova,  con un barbatrucco che nemmeno vi sto a spiegare, per poter vedere il suo ultimo film. Ammetto che Trap non valeva lo sforzo, ma neppure mi sarei aspettata il contrario, visti gli ultimi exploit del nostro; c'è di buono che Trap, a livello di "spiegoni" e "pipponi" shyamalani è molto più vicino a The Visit che a Old o Bussano alla porta, pertanto è anche molto più simpatico e rappresenta un ottimo divertissement estivo, a patto, ovviamente, che mandiate in vacanza anche la vostra suspension of disbelief. Non si tratta di spoiler, perché già il trailer sviscera la trama: il film verte sulla figura di Cooper (pompiere e padre di famiglia amorevole durante il giorno, serial killer di notte) e sul concerto a cui porta la figlioletta, in realtà una trappola tesa dall'FBI proprio per catturarlo. Vista una simile premessa, capirete bene che, in quanto spettatori, il vostro dovere non sarà fare le pulci ai modi sciocchi e risibili in cui Cooper verrà a conoscenza del piano dell'FBI, ma accettare il gioco nella consapevolezza che, in caso contrario, il racconto non potrebbe proseguire e Cooper verrebbe arrestato dopo 10 minuti. Pertanto, dimenticatevi anche un eventuale thriller con le contropalle, con tutti gli spunti sospesi che tornano sul finale come in un rompicapo perfetto. Trap non ha queste pretese, scorre leggero e veloce più o meno fino alla fine del primo tempo, grazie ad un meccanismo per cui, nonostante Shyamalan si preoccupi di sottolineare la pericolosità e la freddezza di Cooper, lo spettatore si trova quasi costretto a "parteggiare" per lui e capire come farà a scampare ad una trappola apparentemente a prova di bomba, tra sincera ammirazione e facepalm da primato, e si impantana un po' nel secondo tempo, per un paio di motivi. Uno risiede sempre nella natura "surreale" della storia in sé, con Cooper che a un certo punto diventa più trasformista e rapido di Diabolik e un altro personaggio che arriva a godere di ogni privilegio derivante dalla faciloneria della trama, il secondo è l'inevitabile ricorso shyamalano a inutili dialoghi "filosofici" sulla natura del male, che in un contesto simile lasciano un po' il tempo che trovano. Nonostante ciò però, ribadisco, mi sono divertita e il finale è talmente foriero di grasse risate che mi ha dipinto un inaspettato sorrisone in faccia. 



Buona parte del merito va a Josh Hartnett, babbalone che non ho mai particolarmente apprezzato ma che qui si diverte come un matto. Frenandosi appena un attimo prima di entrare in zona overacting cageano, Hartnett si destreggia abilmente tra il ruolo di padre dell'anno e quello di maniaco omicida privo di rispetto per la vita umana, e alcune sue espressioni con primi piani annessi sono tra le cose migliori che potrete vedere nel film. Altri aspetti molto positivi sono, ovviamente, la regia di Shyamalan, soprattutto nella parte di film ambientata all'interno del palazzetto dello sport. Sfruttando inquadrature dinamiche, un montaggio serrato e anche un'incredibile sensibilità nel restituire l'esaltazione e la gioia di una dodicenne al suo primo concerto importante, il regista offre allo spettatore un mix di tensione positiva e negativa, di claustrofobia e un senso di assoluta libertà, in un continuo alternarsi di sensazioni contrastanti che impreziosiscono il primo atto, rendendolo il migliore del film. Mi verrebbe da essere un po' cattivella e assecondare la parte di me che considera Shyamalan un paraculo, dicendo che tanto impegno nasce dalla volontà di pompare la figlia Saleka come cantante e attrice, ma devo anche essere sincera e ammettere che la fanciulla mi ha conquistata fin dalle prime note nei titoli di testa. Saleka Shyamalan, 28 anni, non solo canta divinamente un genere che normalmente mi farebbe schifo, non solo ha una presenza scenica tale che il concerto all'interno di Trap mi verrebbe voglia di vederlo dal vivo, ma è anche di una bellezza allucinante e io mi chiedo come abbia fatto quel mostrinetto di Shyamalan a mettere al mondo due gioielli come Saleka e Ishana (e pure Shivani, che deve ancora mostare al grande pubblico, non scherza). Ma basta fare bodyshaming sul povero Shyamalan, che in Trap riesce a parlare anche di bullismo e a spezzarmi il cuore con tutto ciò che riguarda e riguarderà la vita della piccola Riley, unico motivo che mi spingerebbe a sperare in un sequel di Trap, magari tra qualche annetto. Intanto, non so se consigliarvi o meno di andare a vedere Trap al cinema, visto e considerato quanta roba interessante uscirà nelle prossime settimane; riflettendoci, tuttavia, lo ritengo un film che può aspettare tranquillamente lo streaming, anche perché credo che la prova di Hartnett sia stata un po' appiattita dal doppiaggio.


Del regista e sceneggiatore M. Night Shyamalan, che interpreta anche il membro dello staff incaricato di scegliere le fan fortunate di Lady Raven, ho già parlato QUI. Josh Hartnett (Cooper), Alison Pill (Rachel) e Hayley Mills (Dottoressa Josephine Grant) li trovate invece ai rispettivi link. 


Ariel Donoghue
, che interpreta Riley, era la Emma della serie Wolf Like Me. Se Trap vi fosse piaciuto recuperate Split. ENJOY!

venerdì 9 agosto 2024

Tumbbad (2018)

La challenge di oggi prevedeva un horror indiano, così ho scelto Tumbbad, diretto nel 2018 dal regista Rahi Anil Barve.


Trama: Tumbbad è una città maledetta dagli dèi, che tuttavia nasconde al suo interno un enorme tesoro. Autoproclamatosi erede del luogo, Vinayak affronta la maledizione per arricchirsi...


Non conosco affatto il cinema indiano, e già solo definirlo "cinema indiano" probabilmente è un errore in partenza, vista la miriade di etnie, lingue e produzioni che costellano la cinematografia del luogo. Mi sono dunque messa a guardare Tumbbad con inusuale curiosità, catturata fin dall'inizio dalla natura fiabesca e folkloristica dell'opera. Il film inizia col racconto della leggenda di Hastar, primogenito della Dea della Prosperità, condannato al perpetuo oblio dopo aver rubato tutto l'oro degli dei e aver tentato di sottrarre loro anche il cibo. Benché sia stato proibito venerare e persino nominare Hastar, gli uomini hanno eretto un tempio in suo onore all'interno della città di Tumbbad, divenuta così un luogo maledetto e funestato da piogge perenni. La vicenda vera e propria comincia nel 1918 e segue l'infanzia di Vinayak, depositario, assieme alla madre, del segreto di Tumbbad e mosso dal desiderio di recuperare il favoleggiato tesoro nascosto all'interno della città. Pur consapevole dell'orrore che attende chiunque cerchi di recuperare il tesoro, Vinayak è un "avido bastardo" e, crescendo, non può fare a meno di ignorare gli avvertimenti della madre e tentare di arricchirsi con la sua "eredità", con tutto ciò che ne consegue. Non starò a fare troppi spoiler, ma Tumbbad è bello per la sua natura di favola nera, di cui contiene tutti i topoi. C'è un tesoro da recuperare con astuzia, un po' come faceva Aladino, accontentandosi di poche monete per volta pena un destino orribile, e la morale di fondo invita a non essere avidi; in più, il terribile Hastar brama la farina più dell'oro e ciò offre la possibilità di poterlo ingannare con qualcosa di semplice ma indispensabile al sostentamento umano, e anche questo è un elemento tipico delle favole. L'elemento fantastico diventa metafora della storia coloniale dell'India (non a caso il film tocca tre diversi periodi storici fondamentali per l'indipendenza del Paese) e anche, più in generale, di un capitalismo che viola il ventre della madre Terra, sacrificando risorse importanti per fare la bella vita con pochi spiccioli e ammassare il resto fuori dalla portata di chi ne avrebbe davvero bisogno.


La trama "semplice" di Tumbbad è impreziosita da aspetti tecnici che farebbero impallidire le produzioni occidentali più blasonate. Al di là del fatto che la CGI possa piacere o meno, quindi l'unica cosa che avrei cambiato del film è Hastar, che ho trovato orrendo, la cura delle scenografie (con un ventre della Dea particolarmente umidiccio e realistico), dei costumi e degli effetti speciali è incredibile (l'idea che il film sia stato girato nel corso di anni, così da sfruttare i monsoni veri per ricreare la pioggia battente sulla città titolare, mi ha sconvolta). Coadiuvata da una fotografia splendida che trasforma ogni scorcio naturale, urbano o fantastico in una vista mozzafiato, la macchina da presa si lancia in inquadrature ardite e dinamiche, quindi la parte horror ambientata all'interno di sotterranei o labirintici edifici poco illuminati è sorprendente e ansiogena come pochi, perché non segue i blandi, prevedibili jump scare occidentali. Inoltre, il design delle creature è interessante e la "nonna" di Vinayak fa davvero paura, cosa che mi ha spinta a preferire la prima parte rispetto alla seconda e alla terza, più legate a un percorso di progressiva distruzione del protagonista quindi meno spaventose, salvo per un paio di sequenze da brividi. Per quanto riguarda Vinayak, l'attore Sohum Shah, anche produttore del film, è bravissimo a dare vita a un personaggio insopportabile, che causa sentimenti ambivalenti: da una parte, ci ritroviamo nostro malgrado a tifare per Vinayak e la sua avidità, mitigata da pochi sprazzi di pietoso altruismo, dall'altra lo vorremmo vedere morto in quanto perfetto rappresentante di una società fortemente maschilista, dove i padri ignorano o disprezzano i propri figli, e questi ultimi, se maschi, tendono ad ignorare le madri, voci della ragione tenute spesso all'oscuro di ciò che accade al di fuori del focolare. Ma forse questo è un punto di vista troppo occidentale per essere sensato, e lo stesso vale per la reazione sconvolta che ho avuto davanti alla colonna sonora, che per tre-quattro volte offre un riassunto cantato di ciò che sta accadendo sullo schermo, neanche ci trovassimo davanti a un musicarello. Come ho scritto all'inizio, purtroppo non conosco il cinema indiano, quindi mi stupisco per le cose più cretine, quando magari questi momenti musicali sono la norma. Comunque, è una particolarità in più che non inficia per nulla la qualità della pellicola, anzi, la rende ancora più originale e interessante, quindi vi invito a recuperare Tumbbad e guardarlo in completa fiducia! 

Rahi Anil Barve è il regista e co-sceneggiatore della pellicola, per ora al suo primo lungometraggio. Ha 45 anni e un film in uscita.



Se vuoi condividere l'articolo

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...