Grazie alla riedizione in 4K distribuita da Lucky Red per tre giorni, lunedì scorso sono andata al cinema a vedere Il cacciatore (The Deer Hunter), diretto e co-sceneggiato dal regista Michael Cimino nel 1978.
Trama: tre amici di lunga data partono per il Vietnam, un'esperienza che lascerà tremendi segni sul loro corpo e, soprattutto, nella loro psiche...
Il cacciatore è una di quelle opere imprescindibili che avevo scoperto all'università, quando il mio amore per il cinema era in pieno boccio e una marea di tempo libero mi consentiva non solo di guardare film ma anche, e soprattutto, di leggere libri a tema (cosa a cui ho dovuto rinunciare da tempo, col risultato di diventare sempre più ignorante in materia). Siccome, da quando ho cominciato a lavorare, tendo a guardare principalmente cose per me inedite, erano quasi 20 anni che non "rinfrescavo" più Il cacciatore, quindi la visione al cinema è stata ancora più soddisfacente, perché ne ricordavo giusto le scene clou, senza troppi dettagli. Nonostante i suoi 45 anni, il film di Cimino continua a colpire duro e si conferma come una delle pellicole più angoscianti a tema Vietnam, non solo per la lunga, famigerata sequenza delle violenze al fronte, ma soprattutto per quello che viene mostrato prima e dopo. Il film si apre con uno spaccato della quotidianità di una cittadina industriale, e si concentra su alcuni esponenti della comunità russo-americana locale; Steven sta per sposare Angela e sia lui che i suoi due amici fraterni, Mike e Nick, partiranno per il Vietnam subito dopo il matrimonio. La prima parte de Il cacciatore insiste sul legame tra i protagonisti, i loro amici, i loro amori e le loro famiglie, ci travolge con l'allegra frenesia del matrimonio, ci rende spettatori privilegiati del cameratismo che governa le loro uscite di caccia, con piccoli dettagli ci rende partecipi di tutte le inevitabili stonature che esistono anche nelle amicizie storiche e, soprattutto, nelle comunità in cui tutti si conoscono ma ognuno ha i suoi segreti. Tutto ciò viene cancellato con un colpo di spugna dalle terribili, stranianti esperienze vissute in Vietnam, un inferno sulla terra da dove nessuno può uscire indenne. La parentesi vietnamita è un'ordalia di angoscia continua, dove la tensione si taglia col coltello e il magone è sempre lì, pronto a trasformarsi in pianto; quest'ultima sensazione è quella preponderante nella parte finale de Il cacciatore, dove il desiderio di tornare alla vita quotidiana si trasforma in senso di colpa e di inadeguatezza, alimentati dall'inevitabile consapevolezza di essere diversi da chi è rimasto a casa, lontano dalla guerra.
Mike, Nick e Steven sono rimasti bloccati all'interno di una bolla dove il tempo si è fermato, concretizzandosi in una dimensione allucinata di continuo dolore, completamente staccata da qualsiasi idea di vita normale. Dimenticare tutto e tornare ad esistere come se nulla fosse successo è tremendamente difficile, per alcuni addirittura impossibile, ed è arduo rimanere accanto a chi, benché mosso dalle migliori intenzioni, cerca di mantenere l'illusione che nulla sia cambiato. Persino Mike, il più "forte" dei tre soldati nonché protagonista della pellicola, vive il ritorno a casa come un purgatorio dove scontare la colpa di essere sopravvissuto e anela la solitudine dei boschi, l'unico luogo dove il silenzio e la purezza la fanno da padroni; il sonoro e la regia de Il cacciatore aiutano ad empatizzare con queste sensazioni, in quanto i personaggi, soprattutto Mike, sono sempre inghiottiti da folle e piani americani o primi piani claustrofobici, circondati da un rumore continuo e assordante, una cacofonia di suoni e persone che si parlano addosso, sia in Vietnam che a casa, ed è solo nel silenzio e nelle ariose riprese della foresta montana che ci si può riposare dall'estenuante esperienza che è la visione del film. Non so se è il senno di poi che parla, o se la pellicola sia stata volutamente costruita così, ma anche le scene iniziali mi hanno messo angoscia. Al di là di un'introduzione in cui l'acciaieria dove lavora Mike sembra la fucina dell'inferno e in cui le panoramiche di strade semideserte e baracche assortite mettono una tristezza infinita, lo stesso matrimonio è talmente "larger than life", così carico di balli forsennati, gente ubriaca e urla di giubilo, che sembra il tentativo disperato di vivere il più possibile prima di una morte inevitabile, andando anche contro ogni buon senso (Steven sposa una donna già incinta di un altro, probabilmente per non lasciarla nella "vergogna" visto che ne è innamorato, ma che senso ha visto che non ha alcuna certezza di tornare vivo dal Vietnam?).
Come sempre, inoltre, a me fa angoscia la perdita della giovinezza, ma questo è un valore aggiunto che vent'anni fa non percepivo. Tolto che gli interpreti sono tutti bravissimi (Christopher Walken ha vinto l'Oscar come Miglior attore non protagonista, il quinto assieme a quello per Miglior film, Miglior regia, Miglior montaggio e Migliore sonoro, ma erano candidati anche De Niro e la Streep), mi fa proprio effetto vederli giovani e bellissimi, impegnati una performance tra le migliori e più difficili della loro carriera. De Niro è un mostro di bravura, ed è nel pieno della sua maturità artistica, perfetto nell'interpretazione di una salda roccia sul punto di sgretolarsi, ma il cuore dello spettatore non può non volare a Christopher Walken. La bellezza androgina di Nick, con quegli assurdi occhi che sembrano volere inghiottire interlocutori e spettatori all'interno di un dolore sconfinato, nella seconda parte del film diventa la fredda riproposizione di un'umanità assente, di una mente spezzata dopo un pianto sconsolato di puro orrore, e questo aspetto, più di ogni altro, mi annienta ogni volta che vedo Il cacciatore. Per carità, mi distrugge anche il sorriso buono di George Dzundza, e la sua aria malinconica durante quella sonata al pianoforte che spezzerebbe il cuore a un sasso, ma mai quanto la crisi di pianto in cucina, durante la quale mi sono messa a piangere anche io, in sala, senza vergogna. Il cacciatore si riconferma, dunque, splendido oggi come allora e pazienza se ancora non ho capito come prendere quel God bless America, se un ultimo, disperato tentativo di consolarsi e fingere normalità, o una sentita dichiarazione d'amore verso una patria che manda a morire i propri giovani in un conflitto inutile. Se qualcuno potesse illuminarmi, gliene sarei infinitamente grato!
Di Robert De Niro (Michael), Christopher Walken (Nick) e Meryl Streep (Linda) ho già parlato ai rispettivi link.
Michael Cimino è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Americano, ha diretto film come I cancelli del cielo e L'anno del dragone. Anche produttore, è morto nel 2016, all'età di 77 anni.
Quello di Stan è stato l'ultimo ruolo di John Cazale, famoso per avere interpretato Fredo Corleone nei primi due film della saga Il padrino e morto di cancro ai polmoni l'anno dell'uscita de Il cacciatore. Se il film vi fosse piaciuto recuperate Full Metal Jacket e Apocalypse Now. ENJOY!
Bellissima recensione, davvero toccante. Un grande film. Non mi sento di aggiungere altro.
RispondiEliminaGrazie mille!
EliminaMi hai fatto venire voglia di rivederlo :)
RispondiEliminaSull'ultimo punto non saprei, coi film americani c'è sempre questa vaga ambiguità... 😅
Allora a qualcosa serve il blog! Sull'ultimo punto, hai assolutamente ragione, purtroppo...
EliminaTantissimo che non lo rivedo, come te, ma sono sicuro che mi piacerà come l'ultima volta quando lo farò, spero presto. Grande recensione la tua!
RispondiEliminaGrazie mille!!
EliminaEra il 1979 e, chissà se il caso o più probabilmente la volontà dell’Academy, a consegnare l’Oscar per il miglior film c’era John Wayne - “l’eroe americano” che proprio dieci anni prima aveva diretto e interpretato Berretti Verdi, film sulla guerra del Vietnam manicheo e reazionario. Nessuno fino a Il Cacciatore, a parte pezzi isolati di società civile o icone pubbliche (Cassius Clay che disse no alla coscrizione: “Nessun vietcong mi ha mai chiamato negro.”) aveva osato davvero fare i conti con la guerra del Vietnam, con le sue verità. Ci aveva pensato il giornalista indipendente Seymour Hersh, nel 1969, a costo di grandi battaglie contro la censura ad aprire gli occhi al grande pubblico mostrando la vera faccia della guerra che si cela dietro la spudorata propaganda del Colonnello Michael "Mike" Kirby/John Wayne (omonimo - guarda caso - del “Mike” Vronsky/De Niro di Cimino) denunciando al mondo il massacro a stelle e strisce di My Lai. Dieci anni erano più che sufficienti perché anche il cinema facesse sentire la propria voce; ma Il Cacciatore non è tanto un film sulla guerra del Vietnam bensì un film sulla guerra tout court. E sull’amicizia: secondo i topoi cari alla letteratura anche qui c’è un Niso guerriero (Mike) che proverà a salvare, non una ma ben due volte, l’amato Eurialo (Nick); e, anche qui, entrambi soccomberanno - ché la guerra non fa prigionieri. Così quei balli di festa “larger than life” di apertura suonano disperati perché non possono che rappresentare che un ballo di morte. Di questo film immenso voglio solo ricordare un attore altrettanto immenso che si spense durante le riprese: John Cazale; e, provando a rispondere alla tua domanda, “Dio benedica l’America” perché ha sempre trovato, attraverso il cinema e la letteratura, giornalismo d’inchiesta - arte o cronaca che si voglia - il coraggio, anche se in ritardo, di guardarsi dentro e denunciarsi.
RispondiEliminaJohn Cazale l'ho ricordato nel trafiletto in fondo (tra l'altro la sua interpretazione "fastidiosa" è molto realistica e mi è piaciuta parecchio). La tua interpretazione di quel God bless America mi piace molto, in effetti!
EliminaOgni tanto prendo e mi leggo qualche tua vecchia recensione, mancando se troverai il tempo per... Quel pomeriggio di un giorno da cani. Thx
EliminaE' un film che mi ha sempre affascinata ma non ho mai visto. Lo metto negli On Demand!
EliminaUna splendida recensione a un film che se la meritava. Bravi tutti, non ho altro da dire.
RispondiEliminaGrazie!!
EliminaQuando cantano tutti assieme al biliardo, mi vengono sempre i brividi.
RispondiEliminaAssolutamente. In quella scena c'è una sospensione tragica che travolge tutti i personaggi e lo spettatore con loro.
EliminaCi siamo "cascati" in tanti in questa ri-uscita al cinema, e che bello trovarlo pieno.
RispondiEliminaUn film che mi aveva sempre spaventato, per temi e durata, e che invece fa commuovere, non fino alle lacrime (che la sala mascolina mi ha frenato), ma a ripensare a quell'inizio festoso durante quel finale in nero sembra davvero passata una vita, più che una guerra.
Ovviamente, sono capitolata al fascino di Walken, occhi solo per lui e l'eterea Streep.
Da noi è uscito solo un giorno, in una sala piccolissima, sono contenta davvero di essere riuscita a trovare tempo e biglietti. Io delle sale mascoline me ne batto i cosiddetti, alla fine piangevo senza ritegno u__u
Eliminafilm che con UN MERCOLEDI' DA LEONI,senza nulla togliere agli altri capolavori del periodo, e sono tanti, il passaggio dall'adolescenza all'eta' adulta del popolo dei giovani americani. CAPOLAVORO
RispondiEliminaMercoledì da leoni è un altro di quei film che non rivedo da decenni!
EliminaDESCRIVE.......IL PASSAGGIO, avevo saltato
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