Per paura che questa settimana il multisala fosse già chiuso per ferie, mercoledì scorso sono andata a vedere 28 anni dopo (28 Years Later), diretto dal regista Danny Boyle.
Trama: 28 anni dopo la pandemia di rabbia che ha distrutto l'Inghilterra, in un isola della Scozia si è ricreata una prospera comunità separata dalla terraferma. Il dodicenne Spike esce per la prima volta assieme a suo padre e apre gli occhi su ciò che si trova fuori dall'isola e dentro di lui...
Quasi vent'anni dopo il secondo capitolo e 23 anni dopo aver creato la saga, Danny Boyle e Alex Garland tornano, rispettivamente, alla regia e alla sceneggiatura per raccontarci cos'è successo al mondo dopo la pandemia di rabbia che ha distrutto l'Inghilterra. Nulla, a quanto pare. Dopo la scena finale di 28 settimane dopo, che vedeva gli infetti correre davanti alla Torre Eiffel, scopriamo infatti che il mondo è andato avanti, isolando gli inglesi sopravvissuti all'interno dei confini nazionali e lasciandoli a riscoprire la "gioia" di difendere le proprie terre con arco e frecce, costruendo fortificazioni, inventando nuove leggende e riti di passaggio, tornando insomma a uno stile di vita più semplice e quasi "tribale". Anche gli infetti, in qualche modo, si sono evoluti, e alcuni di loro somigliano più a uomini di Neanderthal che a mostri (mentre altri sembrano usciti dal Gyo di Junji Ito e fanno schifo a più livelli), ma non è cambiata la loro pericolosità. In questo mondo "di mezzo", dove la natura è tornata a farla da padrone e l'umanità fatica a fare quel salto che separa il sopravvivere dal vivere, il dodicenne Spike si fa protagonista di un coming of age a tinte horror. Spike vive all'interno di una comunità chiusa, fatta di riti di passaggio e regole ferree, assieme al padre e alla madre malata. Il padre, Jamie, è un modello di mascolinità, di forza, un eroe con tutte le risposte a cui Spike guarda con ammirazione sconfinata; la madre, Isla, è vittima di una misteriosa malattia che le sta portando via forza e raziocinio. Dopo la prima sortita all'esterno, Spike scopre l'orrore che si cela sulla terraferma e arriva a conoscere l'imperfezione di un padre tristemente umano; la consapevolezza della fallacia di Jamie si trasforma in un disprezzo che spinge Spike a prendere la madre per portarla da un dottore isolato sulla terraferma, temuto da tutti perché "pazzo". Quindi, Spike intraprende una vera e propria quest per cercare un individuo "magico", o comunque dotato di capacità uniche e, nel cammino, troverà nemici da sconfiggere, pericoli mortali, improbabili alleati; soprattutto, scoprirà il significato di resilienza e cosa rende una persona davvero umana.
In 28 giorni dopo e, soprattutto, 28 settimane dopo, era l'elemento horror-zombie a farla da padrone, e il terrore di una morte violenta. 28 anni dopo rimette tutto in prospettiva, sottolineando una cosa ovvia: la morte c'è sempre stata, anche prima della pandemia di rabbia che l'ha trasformata in un orrore da dimenticare e che ha diviso l'umanità in anonimi mostri malati e persone sane. Il film sottolinea come la morte sia una parte fondamentale della vita, al punto che una delle massime espressioni d'amore è l'accettazione di una dipartita dignitosa; così come ogni esistenza è unica, è giusto che anche la morte venga percepita in questo modo, o il rischio è quello di diventare insensibili di fronte a qualsiasi dolore che non sia il nostro, soprattutto quando le vittime di pandemie e guerre si fondono in un unicum fatto di anonima carne, anonimo sangue. Il rischio, come sempre, è quello di trasformarci a nostra volta in mostri, anche se non corriamo in giro sbraitando in preda a crisi di rabbia. In una delle sequenze più poetiche del film (affidata, per inciso, ad uno degli attori più bravi del mondo) si cita la frase memento mori, alla quale si aggiunge il meno utilizzato memento amare, perché è più facile avere paura e scappare dall'inevitabile, piuttosto che trarre forza dal ricordo di momenti preziosi, per crearne di ulteriori ai quali aggrapparci. Il coming of age di Spike si trasforma così in un bisogno di libertà, nel rifiuto di una costrizione spaziale che priva di individualità le persone e fa di loro tanti piccoli ingranaggi di una struttura anonima e quasi militarizzata, che è poi il leitmotiv dei mille spezzoni di filmati d'epoca che introducono la vita all'interno dell'isola. Il che mi porta, dopo tutti questi pipponi "filosofici", a parlare un po' della regia di 28 anni dopo.
Su Facebook e Instagram ho definito il film come "una bellissima puntata di The Walking Dead in acido". Lo confermo, perché la regia di Danny Boyle e il montaggio di Jon Harris (coadiuvati da una splendida e martellante colonna sonora, il cui unico difetto è l'assenza della storica In the House – In a Heartbeat di John Murphy) creano un'opera isterica, tra gli spezzoni di filmati di cui sopra, flash di visioni orrorifiche, ralenti che portano a rapidissimi fermi immagine ogni volta che un infetto viene ucciso da una freccia, sogni ad occhi aperti e una consecutio temporum che viene spesso mescolata e spezzata. La narrazione è più lo stream of consciousness di un ragazzino che cerca di assimilare tutta una serie di stimoli nuovi e confusi, ma è anche un'eco della malattia di Isla, del delirio che è diventata l'Inghilterra in 28 anni di mutazioni continue, e c'è una bella differenza tra le immagini desolanti del primo film, intervallate da rapidissimi scoppi di sconvolgente violenza, e questo pastiche di invenzioni visive. L'unica cosa che accomuna, visivamente, le due pellicole, è l'utilizzo di un device digitale per le riprese (in 28 giorni dopo era una videocamera della Canon, qui abbiamo un IPhone di ultima generazione), che conferisce alle immagini una grana particolare, e colori ancora più vividi; per il resto, 28 anni dopo presenta molta varietà anche nei setting e non esita a lasciarsi alle spalle la verosimiglianza del primo capitolo per abbracciare momenti di pura locura concretizzati nel personaggio di Ralph Fiennes e nel trashissimo finale aperto (con tutto il rispetto per Jack O'Connell il quale, dopo questo film e Sinners, sta diventando uno dei miei attori preferiti, mi è sembrato di assistere a un mix tra i Teletubbies, una puntata dei Power Rangers e uno sketch di Benny Hill con la parrucca da giovane scapestrato biondo). A proposito di Ralph Fiennes, il cast è perfetto, proprio a cominciare dal suo Dr. Kelson, che evolve da matto del paese a personaggio migliore del mucchio nel giro di pochissime, splendide sequenze; il giovane Alfie Williams, praticamente esordiente, ha un musetto adorabile ed è un protagonista credibile, capace di infondere al suo personaggio tutte le sfumature necessarie a connotarne la crescita, e mi sono piaciuti molto anche Aaron Taylor-Johnson, sempre figo, e Jodie Comer. Non lo credevo possibile, visto che la saga iniziata nel 2002 non rientra nel mio elenco di film cult, ma alla fine di 28 anni dopo mi sono ritrovata ad aspettare con trepidazione il sequel già annunciato e previsto per l'anno prossimo, 28 Years Later: The Bone Temple, diretto da Nia DaCosta. Speriamo non faccia la fine di Horizon e che questa nuova trilogia arrivi fino alla fine!
Del regista Danny Boyle ho già parlato QUI. Aaron Taylor-Johnson (Jamie), Jodie Comer (Isla), Ralph Fiennes (Dr. Kelson) e Jack O'Connell (Sir Jimmy Crystal) li trovate invece ai rispettivi link.
Nell'attesa che esca 28 Years Later: The Bone Temple, se 28 anni dopo vi fosse piaciuto recuperate 28 giorni dopo e 28 settimane dopo. ENJOY!
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