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martedì 17 gennaio 2017

Silence (2016)

Potevo esimermi dal vedere l’ultimo film diretto e co-sceneggiato da Martin Scorsese? Assolutamente no! Come ennesima prova d’amore sono stata accompagnata nientemeno che dal povero Mirco allo spettacolo pomeridiano di Silence, tratto dall’omonimo libro di Shusaku Endo. Segue post lunghissimo e sconclusionato che potete anche non leggere ma che è servito a me per dare un senso a ciò che ho visto. Se volete un riassunto: il film è bellissimo, andatelo a vedere ma astenetevi se non avete la pazienza di sopportare tempi cinematografici dilatati a dismisura.  Banalmente, se già non avete sopportato The Wolf of Wall Street questo vi ucciderà.


Trama: due missionari gesuiti si recano in Giappone per scoprire quale sia stato il reale destino di Padre Ferreira, presumibilmente ucciso durante le persecuzioni cristiane oppure convertitosi agli usi locali…


Se Quentin Tarantino è per me aMMore, quello di una fangirl che mai riscontrerà un solo difetto nelle sue opere, quello per Scorsese è sempre stato un sentimento più serio, che mi accompagna più o meno dagli anni delle superiori, da quando cioè sono rimasta folgorata da Quei bravi ragazzi. Martin Scorsese è una fede, qualcosa da studiare a fondo, qualcuno con cui non essere sempre d’accordo ma verso il quale il rispetto non deve mai venire meno, anche quando sforna robette come Hugo Cabret che ti fanno alzare un po’ il sopracciglio e guardare oltre, nell’attesa che arrivi il prossimo film capace di toglierti il fiato. Onestamente, fiato me ne è rimasto parecchio dopo la visione di Silence (che non è, almeno per me, IL film più bello di Scorsese come sentirete dire da molti) eppure è stata l’unica pellicola recente del regista che mi ha spinta a recuperare libri e saggi universitari per rituffarmi nello studio della poetica del buon Martin, cercando di capire cosa potesse nascondersi dietro la passione per la storia raccontata da Shusaku Endo e, soprattutto, per comprendere il punto di vista di chi ha passato anni cercando di realizzare un film simile. Il dubbio, ovviamente, è nato fin da subito ed è stato condiviso a lungo con l’amico Toto: per chi, come noi, è ipercritico nei confronti del cattolicesimo, cosa potrebbe significare guardare quasi tre ore di film apprezzato dai prelati che lo hanno visto proiettato in anteprima in Vaticano e tratto da un’opera scritta da un convertito? Saremmo stati costretti a subire tre ore di pippone pro-cattolico, all’urlo di “che cattivi i Giapponesi e poveretti i cristiani”? Sinceramente, non lo credevo possibile e sono contentissima di non essermi sbagliata, perché la poetica scorsesiana dell’”incertezza”, dell’essere umano incapace di distinguere tra giusto e sbagliato, dell’uomo in lotta contro la società, della solitudine e delle illusioni si riafferma prepotentemente in Silence, al di là del contenuto cattolico della pellicola. La storia dei due missionari che vanno in Giappone per recuperarne un terzo è l’ennesima conferma che solo il Cristo de L’ultima tentazione è stato capace di prendere in mano il proprio destino e fare una scelta dettata dalla propria coscienza (giusta o sbagliata, questo non sta a noi deciderlo) mentre tutti gli altri personaggi di Scorsese sono stati influenzati o dalla società in cui sono nati e cresciuti o da una limitata visione del mondo, ritrovandosi così privi del controllo sulla loro vita. 


Lo stesso, ovviamente, accade al vero protagonista di Silence, Padre Rodrigues. Il film prende il via dalla missione “gesuitica” che porta lui e Padre Garupe ad andare in Giappone per scoprire cosa ne è stato di Padre Ferreira ed inizialmente si ha davvero l’impressione di stare guardando un’opera incentrata sulle persecuzioni dei Gesuiti e in generale di tutti i cristiani in terra nipponica: le torture iniziali, la disperazione di chi si ritrova privo di guide religiose, la speranza di avere nel villaggio ben due preti (trattati alla stregua di reliquie), l’inquisizione del terrificante Inoue, sono tutti elementi importanti ma in qualche modo fuorvianti. Presto la sceneggiatura (scritta dallo stesso Scorsese e da Jay Cocks) si focalizza sui dubbi umani di Padre Rodrigues, ritrovatosi solo in terra straniera e messo costantemente alla prova da immagini di violenza, da una cultura che non capisce e, soprattutto, dal SILENZIO. Silence è un film quasi privo di colonna sonora e quando i personaggi non dialogano si sentono solo i monologhi interiori di Padre Rodrigues, i suoni della sofferenza o quelli di una natura spietata ed indifferente: la pellicola si apre e si chiude con l’assordante frinire delle cicale che, come ben sa chi legge manga (ed è talmente sfigato da non avere mai vissuto in Giappone, come la sottoscritta), è un suono tipico dell’estate giapponese, calda e soffocante, perfetta per rappresentare la prigione fisica e spirituale in cui viene a ritrovarsi il protagonista. Dio già non dava risposte a Cristo, l’umanissimo Cristo raccontato da Scorsese negli anni ’80, figurarsi se la sua voce può venire in soccorso di un giovane gesuita che, paradossalmente, si addossa una vocazione da martire talmente egoistica da fargli perdere completamente il senso di ciò che lo circonda. Padre Rodrigues non sente la voce di Dio (come tutti, del resto) eppure arriva a credersi l’incarnazione di Cristo sulla Terra, il depositario di tutte le sofferenze dei cristiani giapponesi, chiudendosi ancora di più nelle sue convinzioni superbe e causando così la morte di coloro che hanno deciso di seguirlo e resistere in suo nome; le illusioni di cui è preda (che lo portano persino ad immaginarsi la voce di Cristo che lo perdona, giacché il silenzio non era abbastanza) offrono gioco facile all’inquisitore giapponese che invece, forte di un senso pratico interamente collegato alla realtà storico-culturale in cui vive, riesce a portare a termine il suo compito con disarmante leggerezza e lucida spietatezza, senza tuttavia risultare un personaggio completamente negativo.  


Quello che temevo, ovvero che i cristiani venissero dipinti interamente come buoni e i giapponesi come dei maledetti torturatori, fortunatamente non è successo perché ogni personaggio viene tratteggiato con delle sfumature di grigio, fortemente connotato da qualcosa che supera la sua indole naturale. L'inquisitore Inoue, la cui identità coglie di sorpresa tanto noi quanto Rodrigues (ed ecco il pregiudizio su cui fa leva quella volpe di Scorsese), è figlio del Giappone e se ci si prendesse la briga di andare oltre le sue pose da aristocratico e l'interpretazione magistrale e molto caricaturale dell'attore nipponico Issei Ogata si capirebbe chiaramente come tutto ciò che l'uomo racconta a Rodrigues corrisponda ad una triste realtà che, nonostante non possa essere intesa come verità assoluta (ma lo stesso vale per la religione cristiana), è comunque radicata all'interno di una società antica, provvista di regole ben chiare e resa fragile da problemi di politica interna; se, di nuovo, ci si prendesse la briga di contestualizzare la vicenda di Silence, si capirebbe come la religione cristiana, dopo essere stata bene accolta ai tempi di Oda Nobunaga, venisse vista negli anni seguenti come un tentativo di colonizzare il Giappone e sovvertire l'ordine sociale, anche perché molti gesuiti offrivano supporto armato ai daimyo cristiani, tra le altre cose. Quindi torturare cristiani inermi è una buona cosa? Assolutamente no ma Scorsese si premura lo stesso di sottolineare la profonda differenza tra l'atteggiamento aggressivo-passivo di Rodrigues e quello più "aperto" di Padre Ferreira, per quanto quest'ultimo sia stato imposto con la forza. Ferreira è quindi migliore di Rodrigues? Anche lì, Scorsese non da risposte e lascia tutto alla sensibilità dello spettatore, ma a me verrebbe da dire no. Anche Ferreira è un uomo che lasciato che altri decidessero per lui e, pur di non perdere la vita a sua volta, oltre che la fede, ha accettato non solo di abiurare ma persino di aiutare il governo giapponese a scovare le immagini religiose nascoste dai cosiddetti キリシタン (la traslitterazione in katakana di "christian"), rimanendo quindi privo di uno scopo nella vita e, probabilmente, continuando a soffrire per l'impossibilità di sentire la voce di Dio: Ferreira sicuramente alla fine salva i prigionieri e il corpo di Rodrigues ma lo lascia poi allo sbando, abbandonando l'anima del suo ex discepolo in balìa degli stessi dubbi che attanagliano lui. 


Chi invece agisce come veicolo di salvezza, per quanto improbabile, è il peculiare Kichijiro. Ubriacone, sporco, traditore e paraculo (posso anche dirlo, tanto ormai chi è arrivato a leggere fino qui??), Kichijiro è il tipico cristiano che compie le nefandezze peggiori confidando comunque nel perdono di Dio e, nonostante non smetta di tormentare per un attimo Rodrigues, alla fine viene comunque ringraziato da quest'ultimo in un toccante confronto. Lì per lì pensavo che Kichijiro fosse la rappresentazione di Giuda, invece diventa per il protagonista l'ultimo baluardo di fede, l'estrema prova di coraggio che porta a perdonare i peccati più empi e a rimettere le colpe anche quando la persona in questione non lo merita; probabilmente Kichijiro è l'unico ancora in grado di far sentire a Rodrigues che la voce di Dio, per quanto flebile, esiste e forse viene persino considerato un modello di forza per la sua capacità di attaccarsi alla fede anche dopo assere stato schiacciato, gettato nel fango e deriso. Forse invece sono io che mi faccio troppi viaggi mentali, spinta dalla complessità degli argomenti trattati e dalla bellezza che Scorsese, in quanto regista, riesce a ricreare attraverso le immagini, anche quando queste ultime mostrano soltanto sangue, morte e desolazione, sfruttando il creato "divino" come mezzo per spegnere le vite dei fedeli. Il regista italoamericano, come al solito, non lascia nulla al caso e non spreca neppure un'inquadratura o un suono (quel gallo che canta tre volte a me ha messo i brividi), così che ogni splendida immagine ed ogni sequenza diventano l'equivalente di immagini sacre per tutti coloro che amano il buon cinema. E già che sono arrivata al quarto paragrafo di post annichilendo il 99% di chi passerà di qui posso sfogare anche la mia anima scema, visto che ho scritto queste righe per puro piacere personale: Adam Driver è stato deluso dalla fede, ecco perché è passato al lato Oscuro della Forza (e comunque, figlio mio, sei brutto come il peccato, non ti si può guardare!!), ad Andrew Garfield non avrei dato due lire invece non è mai stato così bravo e Tadanobu Asano è figo, tremendamente figo, persino con l'orrido taglio di capelli che andava di moda in Giappone nel 1600. 浅野忠信 遊びに行こう!

Del regista e co-sceneggiatore Martin Scorsese ho già parlato QUI. Andrew Garfield (Rodrigues), Adam Driver (Garupe), Liam Neeson (Ferreira), Tadanobu Asano (Interprete), Ciarán Hinds (Padre Valignano) e Shin'ya Tsukamoto (Mokichi) li trovate invece ai rispettivi link.


Daniel Day-Lewis avrebbe dovuto interpretare Padre Ferreira ma la lunga produzione del film (è dai tempi di Gangs of New York che Scorsese avrebbe voluto girarlo) ha fatto sì che l'attore fosse impossibilitato a partecipare e lo stesso è successo a Gael García Bernal e Benicio Del Toro, in parola per i ruoli di Padre Rodrigues e Padre Garupe. Tadanobu Asano ha invece sostituito Ken Watanabe nel ruolo di interprete. Il romanzo di Shusaku Endo era già stato portato sullo schermo nel 1971 dal regista Masahiro Shinoda, col titolo Chinmoku; ovviamente non l'ho mai visto ma se Silence vi fosse piaciuto recuperatelo e aggiungete L'ultima tentazione di Cristo e magari Kundun. ENJOY!

venerdì 1 aprile 2016

Lupin III (2014)

Con mostruoso ritardo e tremenda vergogna riesco a parlare solo oggi di Lupin III (ルパン三世 - Rupan Sansei), live action diretto e co-sceneggiato dal regista Ryuhei Kitamura.


Trama: quando il loro mentore viene assassinato, Lupin, Jigen e Fujiko si alleano a Goemon e al genietto dell'informatica Pierre per vendicare l'uomo e rubare il Cuore Cremisi di Cleopatra, un gioiello commissionato da Marcantonio per la Regina d'Egitto...



L'ultimo decennio è stato particolarmente prolifico per la creatura di Monkey Punch nata quasi 50 anni fa: a partire dal 2012 ci sono stati la stupenda serie animata Una donna chiamata Fujiko Mine, un paio di crossover con la franchise Detective Conan, un lungometraggio dedicato interamente a Jigen, la deludente serie Lupin III - L'avventura italiana e infine questo live action che, in qualche modo, ha tentato di mettere una pezza al primo, disastroso tentativo non ufficiale di trasformare Lupin in un personaggio in carne e ossa (se non avete mai guardato Lupin e la strana strategia psicocinetica fatelo, è un trip allucinogeno mica da ridere). Ci sarebbe di che essere stra-felici, se non fosse che gli adattamenti live action, soprattutto se riguardano i manga, sono spesso delle robe tra l'inquietante e l'osceno anche perché, ci avrete sicuramente fatto caso, quasi tutti i protagonisti vengono resi graficamente come se fossero degli occidentali e vederli sullo schermo come un branco di giapponesi solitamente imparruccati male e vestiti come dei cosplayer spezza il cuore. Ecco perché ci ho messo tanto ad avvicinarmi a Lupin III, spinta giusto da un paio di confortanti immagini viste su internet e dalla consapevolezza che, comunque, Tetsuji Tamayama col cappellino, la barbetta e la giacca d'ordinanza del mio adorato pistolero sarebbe stato un discreto figonzo. Ora che ho visto il film di Ryuhei Kitamura posso dire che è meno peggio di quanto avessi preventivato, nonostante un paio di "libere interpretazioni" a livello di trama che, essenzialmente, si traducono nella scelta di fare della pellicola un prequel (un'altro!) delle serie animate. L'azione parte infatti dalla morte di tale Thomas Dawson, capo di un'organizzazione di ladri di cui fanno parte Lupin, Fujiko, Jigen in qualità di guardia del corpo e un paio di altri giovinastri tra i quali spicca un certo Michael Lee, il quale si rivelerà essere un traditore e darà quindi il via a tutta la vicenda, riservandosi un paio di "sconvolgenti" twist narrativi nel corso della pellicola. La banda che tanto conosciamo e amiamo si forma a seguito della tragedia, inglobando ovviamente Goemon e l'inedito Pierre, un ragazzetto amante dei computer, mentre il combattivo Zenigata cerca alternativamente di arrestare Lupin o di ingaggiarlo come spia per debellare un boss del crimine thailandese. Questa, in soldoni, è la trama che, come nella maggior parte dei lungometraggi animati di cui ho parlato finora sul blog, intreccia furti, inseguimenti in auto, momenti ironici e drammatici colpi di scena appoggiandosi non solo ai personaggi principali ma anche e soprattutto a quelli secondari creati per l'occasione.

Mio. Dio.
Dal punto di vista della trama, dunque, non c'è molto di cui lamentarsi tenendo anche conto degli inevitabili cambiamenti/aggiornamenti che solitamente vengono introdotti nel passaggio da un media a un altro (per dire, con Stephen King è stato fatto di peggio, qui al limite fa specie vedere un Jigen cuoco provetto quando ogni fan che si rispetti sa che la Anna Moroni della coppia è Lupin) e fortunatamente vengono rispettate parecchio anche le personalità dei protagonisti, consolidate nel corso dei decenni. La cosa che più mi preoccupava, l'ho già detto sopra, erano gli attori in primis e poi quel vizio terribile che hanno i giapponesi di rispettare pedissequamente gli aspetti meramente visivi di manga e anime, cosa che li porta ad investire millemila yen in improbabili esempi di computer graphic oppure orripilanti cosplay. Con Lupin III fortunatamente questo irresistibile desiderio di precisione si è tradotto esclusivamente nella sgargiante giacca rossa indossata da Lupin e nell'utilizzo di una Cinquecento gialla che a me è sembrata finta tanto quanto il Korosensei di Assassination Classroom (probabilmente però hanno ritoccato al computer solo il colore, non trovo notizie in merito...), per il resto i realizzatori si sono molto contenuti: da fan, aspettavo ovviamente di vedere Jigen e Goemon dare il meglio di sé con pistola e spada e non sono rimasta delusa perché le sequenze a loro dedicate non sono il trionfo della baracconata, bensì un bell'esempio di scene d'azione realizzate con criterio e lo stesso vale per l'unico momento in cui Lupin da prova del suo camaleontico talento. I costumi rispettano quelli iconici dei personaggi, tuttavia sono stati resi più "moderni" e soprattutto realistici, con l'unica eccezione dello sboronissimo gilet ricamato indossato da Jigen (un po' pacchiano ma mi rendo conto che riportato nella realtà l'abbigliamento di Jigen non sarebbe molto diverso da quello di un ragioniere, cappello a parte, quindi qualcosa andava fatto). Anche gli attori mi sono piaciuti parecchio, tranne forse Gou Ayano, troppo ragazzino ed inespressivo per interpretare Goemon; come ho già detto, Tetsuji Tamayama nei panni di Jigen è bellissimo, cool quanto basta per interpretare quello che nella mente di Monkey Punch sarebbe dovuto essere la versione manga del James Coburn de I magnifici sette, Meisa Kuroki è una sensuale e splendida Fujiko, fortunatamente più donna d'azione che bambolotta tuttapatata, Shun Oguri con la sua faccetta da scimmia è un perfetto Lupin III e, infine, Tadanobu Asano è uno Zazà assai simpatico ma forse troppo isterico e caricaturale (per quanto anche lui figo. Sì, ho un debole per Asano anche se mia madre ha detto che "urla come uno scemo"). L'unico difetto è il casting dei personaggi secondari, tra i quali non spicca nessun attore particolarmente meritevole, ma c'è da plaudire allo sforzo di aver allestito una produzione internazionale capace di andare a pescare anche comparse occidentali e thailandesi, cosa che fa di Lupin III un film comunque importante nel panorama della cinematografia nipponica. Insomma, ci sono ovviamente ampi margini di miglioramento e un live action non batterà mai i cartoni animati ma in generale posso dire che Lupin III mi sia piaciuto, bravi tutti!


Di Tadanobu Asano, che interpreta l'ispettore Zenigata, ho già parlato QUI mentre Meisa Kuroki, che interpreta Fujiko Mine, la trovate QUA.

Ryuhei Kitamura è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Giapponese, ha diretto film come Prossima fermata: l'inferno. Anche produttore, attore e tecnico degli effetti speciali, ha 47 anni.


Shun Oguri interpreta Lupin III. Giapponese, ha partecipato a film come Sukiyaki Western Django, Crows Zero, Crows Zero 2, Hentai Kamen, Capitan Harlock (dove doppiava per l'appunto il capitano) e ha anche interpretato Shinichi Kudo in due film TV live action dedicati a Detective Conan. Anche regista e sceneggiatore, ha 34 anni e un film in uscita.


Gou Ayano interpreta Goemon Ishikawa. Giapponese, ha partecipato a film come Nana, Crow Zero 2 e Gacchaman. Ha 34 anni e sei film in uscita.


Tetsuji Tamayama interpreta Jigen Daisuke. Giapponese, ha partecipato a film come Nana e Nana 2 (nei panni di Takumi!). Ha 36 anni.


Monkey Punch si intravede in una scena all'interno dell'aereo, nei panni dell'anziano passeggero con gli occhiali da sole che sorseggia una bibita. Detto questo, se Lupin III vi fosse piaciuto recuperate tutte le cose di cui ho parlato QUI, nella pagina dedicata al "Progetto Lupin III". ENJOY!

domenica 1 dicembre 2013

Thor: The Dark World (2013)

"Nora, Merlo, siete sempre in ritardo, ecchecca..."
"Dai, ragazzi, muoviamoci che mancan cinque minuti all'inizio di Thor: The Dark World!"
"Belin, ma è in treddì?"
"Occristo, sì.... Che due marroni. E vabbé, ormai ci siamo..."

Come avrete evinto, domenica scorsa sono andata a vedere Thor: The Dark World, diretto dal regista Alan Taylor. Con qualche convinzione derivata dalla visione di Thor e qualche dubbio derivato dalla lettura di recensioni assai migliori di quella che sarà la mia…


"Ma che è sta roba?"
"Che c'entra l'Iter? Ma non è Aehter?"
"Oddio Malekith!! Quello si chiama Malekith!! Bwahahaahh!!!"
"E quelli? Sono i Teletubbies?"
"No, sono dei mimi anni '50. Che tenerezza, hanno le orecchiette!"

Trama: Thor e compagnia stanno riportando la pace ad Asgard e negli altri Regni, mentre la povera Jane Foster langue per la mancanza del Dio norreno. Insomma, tutto sembra tranquillo almeno finché la dottoressa non rinviene l’Aether, la potentissima arma che già una volta aveva quasi consentito agli Elfi Oscuri capitanati da Malekith di distruggere interi mondi…

"Stellan Skarsgard è nudo. ARGH! Ma perché?"
"Adesso è in mutande"
"Ah beh"
"Quello è Stan Lee"
"E quello è Sir Anthony Hopkins. Non ci crede più nemmeno lui, poveraccio".


"Ooh il martello! Va che roba! Ma da dove gli arriva? Dove lo tiene quando non combatte?"
"Nella gnagna di Miley Cyrus"
"Ahahahahahaahhahah!!"

Sono sincera. A parte gli addominali di Chris Hemsworth, il bel funerale vichingo, la "rivelazione" finale e i meravigliosi disegni nei titoli di coda, di Thor: The Dark World non ricordo quasi più nulla perché, purtroppo, è un film che sul nulla si regge. La pellicola avrebbe potuto tranquillamente ridursi alla mera parte centrale, quella in cui la presenza di Loki è un pochino più cospicua e, soprattutto, utile, una cosa che dura più o meno un quarto d’ora. E non lo dico perché mi piace Tom Hiddleston, non faccio parte dello zoccolo duro delle Hiddlestoner o come diavolo si fanno chiamare, sebbene l’attore inglese sia affascinante da morire e l’unico in grado di dare un minimo di profondità al personaggio: il problema è proprio che, a livello di sceneggiatura, non c’è nient’altro di interessante e, peggio ancora, Thor: The Dark World, sotto tutti i suoi mirabolanti effetti speciali, è privo di un’identità precisa. Comincia come la versione menosa de Il signore degli anelli, continua come Guerre Stellari e finisce (o, meglio, vorrebbe finire) come The Avengers ma il problema è che ai comandi non c’è Joss Whedon (nonostante ci abbia messo del suo quando Loki imita Capitan America pare) e, soprattutto, quest’ultimo tentativo di svolta umoristico/CCioFfane risulta un po’ improbabile.

"Bolla, ma come minkia si chiama quella?"
"Boh, mi ricordavo Frigga ma qui la chiamano Figa, Frega... ma che ti frega, tanto faceva la carta da parati nell'altro Thor."


"Che palle di film... Bolla, ricordami perché sono venuta a vederlo."
"Non lo so, devo già capire cosa ci faccio io qui. Certo che Kenneth Branagh..."
"Alé, pure il bambino col giochino."
"Allora, ho capito che il ragazzino è scoglionato, ma almeno la suoneria la togliamo? Grazie."

Vedete cosa intendo? Immaginate, per tutto il film, che quei pochi momenti epici o drammatici o anche solo vagamente interessanti vengano interrotti da quelle che in gergo chiamano gag ma che io chiamo ca**ate o “momento Ciccio Bastardo”: ricordate quando, negli ultimi due Austin Powers, Ciccio Bastardo raccontava i suoi tristi problemi esistenziali… e concludeva il tutto con una bella scoreggia? Ecco, Thor: The Dark World è interamente retto da momenti simili, senza soluzione di continuità tra serio e faceto. Tra l’altro l’unico, vero, inutile momento comico in grado di strappare una vera risata spunta dopo i titoli di coda (non in mezzo, proprio alla fine, non fate come TUTTI quelli che si sono alzati alla prima scena post credit, perché ormai lo sa persino l’ultimo streppone della Terra che ce ne sono DUE di scene) ma, anche lì, lascia in bocca quel simpatico retrogusto di fregatura messa lì solo perché ci DEVONO essere delle scene dopo i titoli di coda altrimenti non abbiamo visto un film Marvel.

"Ah, che bel momento dramma... e no ca**o, Stellan Skarsgard è di nuovo in mutande!!"
"No ma complimenti per il montaggio! La prossima volta mettete direttamente la dissolvenza con la stellina..."
"Bolla, scusa, ma perché sono a Greenwich? Cosa vanno a fare lì?"
"Nora è la convergenza... sì perché i pianeti, sai... er ... Malekith!!!"
"Bwahahahah chenomedimmm... Malekith! Ciao, guardami, sono Malekith!"
"ALLORA, LA SMETTIAMO CON 'STO GIOCHINO???"


Poi, per carità, il fumettone c’è e meno male perché, come mi successe ai tempi di Capote, serve a un certo punto il colpo di pistola che ti risveglia dall’assopimento oppure sai che dormita! Messo da parte l’approccio poco zamarro di Kenneth Branagh che, si sa, è uno snob e nel suo Thor aveva preferito concentrarsi un po’ più sui dialoghi e sui confronti tra i personaggi piuttosto che sulle mazzate, è stato giustamente chiamato Alan Taylor che, invece, si è profuso in adrenaliniche scene zeppe di effetti speciali della madonna, scenografie grandiose con il ponte arcobaleno rifatto, botte da orbi, visioni virate in rosso, il finale con tanto di confini spaziali che si annullano consentendo così balzi continui da un universo all’altro con dovizia di vomitazio per la sottoscritta e, ovviamente, l’importante monumento/città distrutti per giustificare la presenza di un Eroe a proteggere l’umanità. Biondoooo! Biondoooooo!! Mi hai scassato mezza Londra, che il Signore ti camalli! Proteggiti Asgard che “hai mancato una colonna!”, ah-ha. E non dimentichiamo l’approccio maschilista di Branagh! In Thor: The Dark World invece le donne rialzano la testa e reclamano fiere il loro ruolo di protagoniste, con l’ex carta da parati Rene Russo che viene messa a tacere per la legge di The Walking Dead, Natalie Portman che piglia a schiaffi gli dei quando per la scemenza del personaggio, semmai, sarebbe lei quella da prendere a ceffoni, e Kat Dennings che acquista maggiore importanza grazie ad un comprimario ancora più sfigato e inutile di lei. Bello bello, come no. Ridatemi Scarlett Johansson, Branagh, Whedon e Robertino mio bello, che è meglio.

"Noruzza, ma che fine ha fatto Odino quindi?"
"Ma che ca**o me ne frega...."


Del regista James Gunn (che ha diretto solo la scena post credit e che aspetto al varco con quello che potrebbe essere un trashissimo, meraviglioso Guardians of the Galaxy!) ho già parlato qui. Chris Hemsworth (Thor), Natalie Portman (Jane Foster), Tom Hiddleston (Loki), Anthony Hopkins (Odino), Stellan Skarsgård (Erik Selvig), Idris Elba (Heimdall), Rene Russo (Frigga) Tadanobu Asano (Hogun), Alice Krige (Eir), Clive Russell (Tyr) e i non accreditati Benicio Del Toro (il Collezionista) e Chris Evans (Capitan America) li trovate invece ai rispettivi link.

"Bolla ma quello alla fine era quello di Chuck?"
"Che è Chuck?"
"Ma sì dai è lui. Bolla, dimmi un po' come si chiama"
"Ma Zachary Levi dici?"
"No Bolla, quello di Chuck"
"..."

Alan Taylor è il regista della pellicola. Americano, ha diretto film come I vestiti nuovi dell'imperatore ed episodi delle serie Oz, Six Feet Under, Sex and the City, Lost, I Soprano e Il trono di spade. Anche produttore e sceneggiatore, ha 48 anni e un film in uscita, Terminator (!).

 
Christopher Eccleston interpreta Malekith. Inglese, ha partecipato a film come Piccoli omicidi tra amici, Elizabeth, eXistenZ, The Others, 28 giorni dopo e a serie come Doctor Who Heroes. Ha 49 anni e un film in uscita.


Zachary Levi (at last!) interpreta Fandral al posto di Josh Dallas, impegnato sul set della serie Once Upon A Time. Americano, ha partecipato ALLA SERIE CHUCK, Perfetti ma non troppo e ha lavorato come doppiatore in Alvin Superstar 2, Rapunzel - L'intreccio della torre e Robot Chicken. Anche regista e produttore, ha 33 anni.


Tra gli altri attori, segnalo la presenza dell'impronunciabile Adewale Akinnuoye-Agbaje (l'elfo nero Algrim) che, in Lost, interpretava Mr. Eko mentre il solito, immancabile Stan Lee è il vecchietto che in manicomio presta una scarpa a Stellan Skarsgard; rimanendo in tema "attori seri costretti a fare i cretini", ringraziamo la Madonna e gli impegni con la serie Hannibal o Mads Mikkelsen si sarebbe sputtanato la carriera interpretando Malekith. Passiamo ora al regista: Natalie Portman vi è sembrata svogliatella? Certo, perché dietro la macchina da presa avrebbe dovuto esserci la regista Patty Jenkins, che alla fine ha rinunciato per "divergenze creative", e l'attrice ci è rimasta così male che, non fosse stato per il contratto che prevedeva il suo ritorno nei sequel, avrebbe dato forfait senza pensarci un istante. E invece anche lei è rimasta a nel variopinto universo cinematografico Marvel che, al netto dei film mutanti, al momento comprende L'incredibile Hulk del 1998, Iron Man, Iron Man 2, Thor, Capitan America - Il primo Vendicatore, The Avengers, Iron Man 3la serie Agents of S.H.I.E.L.D. e gli imminenti Capitan America: The Winter Soldier, Guardians of The Galaxy (introdotto dalla prima scena post credits di Thor: The Dark World) e The Avengers: Age of Ultron. Ovviamente, se Thor: The Dark World vi fosse piaciuto recuperate tutto. ENJOY!

* P.S.: Ogni dialogo, per quanto idiota, è stato riportato fedelmente.






venerdì 29 novembre 2013

Thor (2011)

Siccome giovedì è uscito Thor 2: The Dark World e che The Avengers mi era piaciuto parecchio, in questi giorni ho deciso di recuperare Thor, diretto nel 2011 da Kenneth Branagh e Joss Whedon e, all’epoca, pesantemente snobbato dalla sottoscritta.


Trama: nel regno di Asgard Thor, Dio del Tuono ed erede al trono, viene bandito dal padre Odino a causa delle macchinazioni del fratello Loki. Scagliato sulla Terra senza poteri, il Dio dovrà imparare ad essere un vero eroe prima di poter reclamare la sua eredità…


Cominciando la visione di Thor la prima cosa da cui sono stata attirata è stata la lunghezza della pellicola: quasi due ore. Che, mi direte, non è proprio una lunghezza esagerata ma già mi sentivo morire al sol pensiero delle "epiche" belinate di cui immaginavo infarcito questo ennesimo cinecomic. Ed effettivamente, dopo il prologo iniziale con quegli orrendi Giganti di Ghiaccio (odio i mostri in CG, per quanto siano fatti bene mi sanno di posticcio, non posso farci nulla...) ero già pronta a spegnere la TV e dare il benservito a biondone figaccione e moretto ancor più figo ma proseguendo nell'impresa ho dovuto ricredermi. Thor non è uno di quei film che ricorderò finché campo, anche se, In My humble Opinion, è molto meglio di quell'orrore di Thor: The Dark World (di cui parlerò domenica), ma è comunque un intrattenimento dignitoso e piacevole almeno per chi, come me, conosce giusto sommariamente il fumetto da cui è stato tratto e, di conseguenza, non è interessato alla fedeltà per quel che riguarda  personaggi, storie ed atmosfere.


La storia è la quintessenza della "banalità" (e mi perdoni il Bardo) Shakespeariana, dove un Re severo ma giusto manda in esilio il figlio buono grazie all'intervento ingannevole del figlio malvagio e, nel far questo, lo mette alla prova per renderlo una persona migliore e più adulta, in grado di diventare un sovrano responsabile e saggio; a questo canovaccio sempre valido ed entusiasmante aggiungete la visione aMMeregana del pantheon di dei Asgardiani, vari riferimenti ad altri cinecomic, un paio di apparizioni speciali per accontentare i nerd più esigenti, un pizzico di umorismo, una storia d'aMMore e avrete un'idea di cosa aspettarvi da Thor. Nulla di nuovo, come ho detto, nessun colpo di scena inaspettato  o twist che non si possa ampiamente predire con almeno mezz'ora di anticipo, ma come racconto in grado di presentare i personaggi e rendere le cose comprensibili sia ai fan sia allo spettatore casuale direi che la pellicola funziona alla grande e, tra combattimenti, scaramucce, effetti speciali e qualche spiegone, non cala di ritmo nemmeno per un istante.


La tanto vituperata regia di Kenneth Branagh a me non è sembrata poi tanto diversa da quella di qualsiasi altro cinecomic, forse addirittura meno fracassona/videoclippara e sicuramente più ambiziosa per quello che riguarda i momenti ambientati ad Asgard, dove l'unione di scenografie grandiose, CG e costumi esagerati sfiora picchi di barocchismo esagerato ma, stranamente, non kitsch. Tanto, a mio avviso, fanno anche le interpretazioni dignitose degli attori coinvolti che, pur calati nei panni di personaggi a serio rischio di cadute nel trash, riescono a mantenersi credibili per tutta la durata della pellicola. A Chris Hemsworth non si può dire nulla perché lui E' Thor, nato per questo ruolo, mentre Idris Elba nei panni del guardiano Heimdall è a dir poco magnetico, ma i veri pilastri del film sono Anthony Hopkins, Tom Hiddleston e Stellan Skarsgård: il primo è semplicemente emozionante, riesce ad infondere a Odino la dignità di un personaggio Shakespeariano e con un solo gesto (peraltro improvvisato sul momento) riesce a zittire i figli e gelare il cuore dello spettatore; Tom Hiddleston, fino a quel momento illustre sconosciuto, interpreta il personaggio più sfaccettato dell'intera pellicola, un malvagio impossibile da odiare, tanto goffo e triste quanto ingannevole e viscido, con un'apparizione finale che lo rende praticamente identico al killer Bob di Twin Peaks, quindi ancor più subdolo e terrificante; l'Erik Selvig di Stellan Skarsgård, infine, è l'umano più umano e verosimile che mi sia mai capitato di vedere in un film tratto da un fumetto, assolutamente perfetto nel suo essere normalman. Non pervenuti, invece, i personaggi femminili, a partire dalla madre di Thor, un pezzo di carta da parati, continuando poi con l'inutile Natalie Portman, bellina ma scema come un tacco, per concludere con la "spalla comica" Kat Dennings, CCioFFane annoiata buona solo per sparare qualche triste battutina sarcastica. In conclusione, pensavo molto peggio. Peccato, se Thor fosse stata un'immane ciofeca avrei evitato Thor: The Dark World e invece...


Dei registi Kenneth Branagh e Joss Whedon (che ha diretto solo la scena post credit) ho già parlato qui e qui. Chris Hemsworth (Thor), Natalie Portman (Jane Foster), Tom Hiddleston (Loki), Anthony Hopkins (Odino), Stellan Skarsgård (Erik Selvig), Clark Gregg (Agente Coulson), Idris Elba (Heimdall), Tadanobu Asano (Hogun), Dakota Goyo (Thor da bambino) e i non accreditati Samuel L. Jackson (Nick Fury) e Jeremy Renner (Clint Barton/Occhio di falco) li trovate invece ai rispettivi link.

Colm Feore interpreta Re Laufey. Americano, ha partecipato a film come Face/Off, City of Angels, Titus, Changeling e a serie come Oltre i limiti, La tempesta perfetta, Nikita e 24. Anche sceneggiatore, ha 55 anni e tre film in uscita, tra cui The Amazing Spider-Man 2.


Rene Russo interpreta Frigga. Americana, la ricordo per film come Arma letale 3, Virus letale, Get Shorty e Arma letale 4. Anche produttrice, ha 59 anni e due film in uscita.


Tra gli altri attori segnalo Josh Dallas, il Prince Charming della serie Once Upon A Time, qui nei panni del guerriero Fandral (che in Thor: The Dark World verrà interpretato da Zachary Levi, prima scelta dei produttori assieme a Stuart Townsend, che però ha abbandonato il progetto per disaccordi coi realizzatori) e, ovviamente, l’immancabile Stan Lee che, se non ho visto male, dovrebbe essere il vecchino che cerca di spostare Mjolnir con l’aiuto di un pickup e una catena... anche se avrebbe voluto interpretare Odino! Tra gli scartati per il ruolo di Thor, invece, segnalo Daniel Craig, Tom Hiddleston e il povero Chris Hemsworth, a cui è stato alla fine preferito il fratello. Narra infine la leggenda che Sam Raimi avrebbe voluto dirigere un film su Thor subito dopo Darkman, ma alla fine al Dio del tuono ha preferito l’Arrampicamuri Spider-Man; destino simile è stato riservato a Matthew Vaughn, che nel 2005 era stato designato come regista ma è poi finito a girare Kick-Ass e X-Men - L'inizio. Facciamo ora un po' d'ordine sull'ormai complicatissimo Universo cinematografico Marvel: Thor si colloca cronologicamente dopo L'incredibile Hulk del 1998Iron Man, Iron Man 2 e Capitan America - Il primo Vendicatore ma prima di The Avengers, Iron Man 3, Thor: The Dark World, della serie Agents of S.H.I.E.L.D. e degli imminenti Capitan America: The Winter Soldier, Guardians of The Galaxy e The Avengers: Age of Ultron. Ovviamente, se Thor vi fosse piaciuto recuperate tutti questi film che ho nominato e che sono già usciti! ENJOY!

mercoledì 27 marzo 2013

Fly with the Gold (2012)

Anche durante il viaggio ai Caraibi non mi sono preclusa la visione di qualche film. Sull'aereo, per esempio, mi è capitato di guardare questo Fly with the Gold (Ôgon o daite tobe - 黄金を抱いて飛べ) diretto nel 2012 dal regista Kazuyuki Izutsu e tratto dall'omonimo romanzo di Kaoru Takamura.


Trama: una banda di ladri, in cui figura anche una spia coreana che si finge studente, decide di rubare i lingotti d'oro contenuti nel caveau di una banca. Ovviamente non sarà una passeggiata...


Sarò molto sincera. L'aereo, se il volo è tranquillo, mi mette addosso un sonno incredibile. Grande errore, dunque, quello di vedersi un film della durata di più di due ore, in giapponese e con sottotitoli in inglese. Grande errore perché visto in condizioni normali sono convinta che questo Fly With the Gold sarebbe stato un gran filmone, lento e ragionato come la maggior parte dei film "seri" provenienti da Oriente, in grado di offrire un punto di vista assai particolare per quanto riguarda la tipica storia di un gruppo di persone che si improvvisano ladri con tutte le conseguenze del caso. Invece ammetto di essermi addormentata più volte, vuoi per i motivi di cui sopra, vuoi perché su uno schermo grosso come due mie mani messe insieme le facce dei protagonisti sembravano davvero tutte uguali, come si suol dire, cosa che mi ha provocato più di uno scompenso. Non sarà facile quindi buttare giù una recensione sensata di qualcosa che ho visto a spizzichi e bocconi, con un occhio aperto e uno chiuso, condannata a dover mandare indietro la pellicola più di una volta per essermi addormentata durante dei passaggi fondamentali. E dopo quanto detto non sarà facile nemmeno convincervi del fatto che, secondo la mia modesta opinione, varrebbe la pena cercare e guardare questo Fly with the Gold.


A differenza dei film occidentali, infatti, è interessante vedere come la pellicola passi con una disinvoltura incredibile dall’ultraviolenza che ci si potrebbe aspettare da una crime story, a dei momenti di introspezione quasi lirica, per finire con delle sequenze al limite dell’assurdo e parecchio esilaranti. Per dire, un paio di morti e di pestaggi sono scioccanti e fulminei, specchio di una malavita che non è quella regolata della yakuza, bensì quella incarnata da teppaglia svogliata e desiderosa di rifarsi a miti occidentali completamente distorti; altre scene, soprattutto quelle legate al coreano Momo e al cruento passato del protagonista, sono invece immensamente tristi e malinconiche e vengono inserite all’interno della narrazione come fossero uno stream of consciousness dei personaggi, con risvolti e significati che lo spettatore arriverà a scoprire solo con molta pazienza. Fly With the Gold è inoltre un film quasi interamente maschile (l’unica presenza femminile è la silenziosa e servile moglie di Kitagawa), dove le dinamiche tra i personaggi sono varie e ben approfondite, tra amici di lunga data, semplici colleghi, uomini legati da uno scomodo passato che arrivano a diventare quasi fratelli, genitori perduti e sensi di colpa mai sopiti. Gli attori sono tutti molto bravi e solo uno, quello che interpreta il codardo e nervosissimo Noda, si permette un'interpretazione un po' più sopra le righe che stride coi toni drammatici della pellicola, per il resto invece tanto di cappello. Insomma, credo proprio che verrà il giorno in cui recupererò questa pellicola e la guarderò con l'attenzione che merita, voi fate altrettanto e ditemi se ho scritto delle castronerie!

Kazuyuki Izutsu è il regista della pellicola. Giapponese, ha diretto una ventina di pellicole tra cui Miyuki, versione live action di un manga di Mitsuru Adachi. Anche sceneggiatore, attore e produttore, ha 61 anni.


Satoshi Tsumabuki interpreta Koda. Giapponese, ha partecipato a film come GTO, Tomie: Re-Birth, The Fast and the Furious: Tokyo Drift, Dororo e For Love’s Sake. Ha 33 anni e due film in uscita.


Tadanobu Asano (vero nome Tadanobu Satou) interpreta Kitagawa. Giapponese, ha partecipato a film come Tabu – Gohatto, Ichi the Killer, Zatoichi, Thor e Battleship. Anche regista, compositore e animatore, ha 40 anni e quattro film in uscita, tra cui l’imminente Thor – Il mondo delle tenebre.






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