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mercoledì 4 dicembre 2024

Visioni dal Torino Film Festival 2024

Giovedì scorso sono partita alla volta di Torino per godermi gli ultimi giorni del Torino Film Festival. Con l'arrivo del nuovo direttore Giulio Base, il festival mi è parso un po' cambiato rispetto agli anni precedenti. Si è puntato parecchio sulle star, è aumentato il numero di film "vecchi", proiettati negli eventi speciali o nelle retrospettive, le filmografie alternative, soprattutto quelle asiatiche, sono finite in secondo piano e, cosa per me tremenda, è scomparsa la sezione "Crazies", che tanta gioia mi aveva dato negli anni precedenti. Forse per questo ho avuto un po' di difficoltà a scegliere i film da vedere (avevo anche un carnet da 5 spettacoli, che ha reso la mia scelta ancora più ardua), salvo un paio di punti fermi, ma alla fine posso dirmi abbastanza soddisfatta di quello che ho visto. Spulciate questo agile riassunto per sapere cosa attendere con trepidazione per la prossima stagione cinematografica e... ENJOY!


Les barbares di Julie Delpy
(2024)

Una piccola cittadina della Bretagna si offre di accogliere degli rifugiati ucraini ma, al loro posto, arriva una famiglia di siriani. Esistono immigrati di serie A e di serie B? Con la sua garbata, intelligente commedia, Julie Delpy (anche attrice) ci dice di sì, attraverso una satira abbastanza spietata, che coinvolge non solo i piccoli paesi e i fascistoni razzisti di ogni latitudine, ma anche chi pensa di essere sempre nel giusto e di compiere del bene, senza accorgersi del proprio egoismo. Pur essendo un film leggero, Les barbares non manca di momenti commoventi e veicola profonde riflessioni; inoltre, utilizza alla perfezione un cast corale di attori molto bravi, ai quali viene concesso tutto lo spazio che meritano. Il film non ha ancora una data di uscita italiana, ma mi aspetto che arrivi prima o poi, perché ha tutti gli ingredienti necessari per incontrare i gusti di un pubblico assai vasto!


The Assessment
 di Fleur Fortuné (2024)

Il primo film, tra quelli che ho visto, a trattare un tema che è stato il fil rouge del festival, ovvero la maternità. The Assessment è ambientato in un futuro distopico in cui alle persone non è più permesso avere figli; qualora li vogliano, le coppie devono sottoporsi, appunto, alla "valutazione" di un funzionario statale, che deciderà irrevocabilmente se i candidati sono idonei per adottare (attenzione, non mettere al mondo!) un bambino. Fleur Fortuné spinge a fondo sul pedale del grottesco, al punto che alcune scene le ho trovate forse troppo cringe, e ammetto che, a caldo, The Assessment mi ha fatto storcere il naso. Ripensandoci, credo sia il film più interessante visto al festival, sia per i temi trattati, sia visivamente (gli ambienti casalinghi, elegantissimi ma claustrofobici, ricordano quelli di Ex Machina, ma il setting esterno è altrettanto importante, e lo scontro tra natura e ingerenze umane è uno dei punti chiave della pellicola), sia a livello di attori: la Vikander è irriconoscibile e si carica sulle spalle un ruolo antipatico, sul filo sottile tra serietà e farsa, ed Elizabeth Olsen si conferma versatile, commovente e magnetica, grazie anche allo splendido sguardo che si ritrova. Himesh Patel, tra due dame, fa la figura del salame, e incarna un'umanità egoista, ormai allo sbando, schiava di una fredda scienza... insomma, un futuro non troppo distante dal nostro triste presente. Dubito che il film verrà distribuito prima del 2025, ma vi consiglio di non perderlo, qualora uscisse in Italia!  


The Rule of Jenny Pen di James Ashcroft
(2024)

L'ho puntato solo per un motivo, ovvero la presenza dell'adorato John Lithgow, e non sono rimasta delusa dalla performance di uno dei miei attori preferiti, molto più inquietante e cattivo della Jenny Pen titolare (altra ottima aggiunta alla già nutrita schiera di bambole cinematografiche da incubo). Purtroppo, il difetto del film è lo stesso di tante altre pellicole tratte da storie brevi, ovvero trascina all'infinito un ottimo spunto iniziale, facendosi sempre più ripetitivo mano a mano che la trama procede. Magari è così anche il racconto di Owen Marshall, che non ho letto e non riesco a trovare, ma a mio parere la riflessione sugli abusi di potere e sulla tremenda condanna di venire traditi da un corpo che invecchia, rendendoci prigionieri di noi stessi, avrebbe potuto essere più puntuale e persino più angosciante. Comunque, il duetto tra due grandi vecchi come Lithgow e Geoffrey Rush vale assolutamente la visione, e la grottesca cattiveria di alcune sequenze è da antologia. The Rule of Jenny Pen non ha ancora una data di uscita nei paesi anglofoni, quindi figuriamoci in Italia, dove temo non verrà mai distribuito.


Vena di Chiara Fleischhacker
(2024)

L'unico film in concorso che ho visto, nonché quello che ha portato a casa più premi (il Premio speciale della Giuria IWONDERFULL e il premio FIPRESCI), ma anche quello che mi è piaciuto di meno. Parto proprio dalla motivazione del secondo premio, per dirvi cosa penso di Vena: "Per la sua capacità di trasformare la storia intensa di una maternità in un percorso plausibile di salvezza dalle dipendenze grazie a un’interpretazione molto umana, una storia emotivamente forte e un montaggio che scandisce bene i tempi della narrazione, a tratteggiare complessivamente una maturità registica non comune per un’opera prima”. Sono completamente d'accordo con gli apprezzamenti alla regista e al montaggio, considerato che Vena è la tesi di laurea di Chiara Fleischhacker, cineasta al suo primissimo film. Nonostante ciò, sembra diretto da una regista dall'abilità consumata, da tanto ogni sequenza è necessaria alla narrazione, priva di fronzoli eppure elegante, con piccoli tocchi che raccontano, più di mille parole, la personalità della protagonista (adorabili i dettagli rosa, tutto quel glitter, la femminilità delle orchidee in un contesto di squallore totale). Il problema, purtroppo, è che io sono totalmente incapace di guardare pellicole imperniate su giovani drogati pronti a rovinare non solo il proprio futuro, ma anche quello di eventuali bambini innocenti, senza che mi vada il sangue alla testa. Sono consapevole che queste storie di emarginazione e degrado vadano raccontate, ma non riesco ad empatizzare con questo genere di protagonisti, il che influisce inevitabilmente sul mio apprezzamento complessivo dell'opera. Oggettivamente, però, riconosco che Vena è un gran film, e auguro a Chiara Fleischhacker una carriera folgorante, che possa incantare cinefili ben più competenti e sensibili della sottoscritta. A tal proposito, aspettate, e sperate che i premi del Torino Film Festival si traducano in una distribuzione italiana, perché al momento non ce n'è traccia.


Nightbitch di Marielle Heller
(2024)

Era un altro dei film che volevo assolutamente vedere. Purtroppo, anche in questo caso, è stato una mezza delusione, ancora più bruciante una volta conclusa la lettura del romanzo omonimo di Rachel Yoder. A difesa di Marielle Heller, anche sceneggiatrice, c'è da dire che non è facile tradurre in immagini lo stream of consciousness di una madre costretta ad affrontare i terribili cambiamenti che il suo ruolo le impone, e le riflessioni sulla natura della donna, tra richiami alla magia del femminino e fascinazioni antropologiche, nei quali indulge una protagonista sconvolta da trasformazioni fisiche e psicologiche. Inevitabilmente, la Heller semplifica, abbraccia in toto l'ironia pungente ed amara della prima parte del libro, e si concentra sugli aspetti più superficiali dello scontro tra madre casalinga e padre lavoratore, con tutto un codazzo di personaggi sui generis che, alternativamente, metteranno i bastoni tra le ruote alla protagonista, oppure la aiuteranno a trovare un equilibrio. Anche qui, come in The Rule of Jenny Pen, si ha purtroppo la sensazione di avere davanti una storia ripetitiva, che spesso gira a vuoto, nonostante l'abbondanza di momenti esilaranti e un paio di situazioni tristemente verosimili. In America, il film avrebbe dovuto uscire direttamente sul servizio streaming Hulu (Disney + da noi), ma alla fine la Searchlight ha deciso di distribuirlo al cinema proprio in questi giorni. In Italia arriverà di sicuro, prima o poi, ma chissà quando e come.


Waltzing with Brando di Bill Fishman
(2024)

Chi mi conosce bene sa che AMO Billy Zane, fin dai tempi di Twin Peaks. Non stupitevi, dunque, del fatto che sia corsa ad accaparrarmi i biglietti per la proiezione con l'attore presente in sala, e che mi sia emozionata come una bambina nel vederlo (non troppo vicino, ahimé. La sala era praticamente riservata tranne per le ultime tre file, quindi non sono riuscita a raggiungerlo per una foto prima del film e sono stata calcioruotata fuori dal Massimo a fine proiezione, CACCA sugli organizzatori insensibili). Di conseguenza, non stupitevi nemmeno che sia andata a vedere un film che parla di Marlon Brando pur non sapendo quasi nulla del grande attore. Fortunatamente, Waltzing with Brando è una commedia che parla del rapporto tra Brando e Bernard Judge, l'architetto che lo ha aiutato a realizzare l'utopico progetto di creare un villaggio sostenibile sull'isola di Tetiʻaroa, ed è perfettamente fruibile anche da chi è poco interessato a una pellicola biografica. Anzi, diciamo che il film di Fishman dipinge Brando come un eccentrico attivista, un affascinante spirito libero, al limite un esasperante testa di cazzo, al quale però si può perdonare tutto, e si guarda bene dall'accennare alle controversie che, col tempo, hanno gettato ombre sull'attore (però persino io, che di Brando so pochissimo, mi sono sentita in imbarazzo davanti all'atmosfera giocosa e allegra della sequenza ambientata sul set di Ultimo tango a Parigi). Se la cosa non vi infastidisce, riuscirete a godervi un film simpatico e interessante, dove Billy Zane gigioneggia a più non posso, dando vita a un Marlon Brando impossibile da distinguere, fisicamente almeno, da quello reale. Però adesso cerchiamo di non consacrarlo a grande attore solo per questa interpretazione, ché Billyno era bello e bravo anche prima!!!



domenica 29 novembre 2020

Visioni dal Torino Film Festival (ultima parte)

Si è concluso ieri il Torino Film Festival versione online, giusto in tempo per cominciare il mese di dicembre, che vedrà un'attività del blog di nuovo ridotta, sia per le imminenti festività, sia perché continuo ad avere pochissimo tempo per vedere film. Di base, le recensioni usciranno martedì e venerdì, poi se riuscirò a infilare qualche pellicola "sul pezzo" e attuale, ben venga, ma senza ansia da scadenza, ché quest'anno meglio ansia c'è, meglio è. Ma torniamo al Torino Film Festival e agli ultimi due film visti, tra i quali il vincitore recuperato alla bisogna, un Festival che, a onor del vero, a differenza dell'anno scorso non mi ha dato particolari gioie... ENJOY!

The Oak Room di Cody Calahan (2020)

Dopo For Sama, il film che ho preferito. Un thriller ottimamente girato che si concentra sull'arte di raccontare storie e infiocchettarle alla bisogna, un gioco di scatole cinesi fatto di omissioni e salti temporali, ambientato all'interno di un bar, anzi, di due bar. Ben diretto, ottimamente recitato e con una bella colonna sonora, The Oak Room è uno di quei film di cui è meglio non sapere assolutamente nulla prima di guardarlo e che sarebbe meglio non seguire con un occhio allo schermo e l'altro sul telefonino, come spesso fa la gente di questi tempi, pena il perdersi il nocciolo del discorso.


Botox di Cody Kaved Mazaheri (2020)

Ecco il vincitore del festival, il racconto di due sorelle (una delle quali con problemi mentali) che, dopo la morte del fratello, cercano di sviare l'attenzione di chi cerca l'uomo, inventando bugie sempre più improbabili. Ora, salvo la bravura delle interpreti e una certa bellezza degli ambienti naturali, posso dire di non aver trovato nulla di trascendentale in un film che, di base, richiama delle atmosfere Coeniane al femminile senza però impegnarsi per invogliare lo spettatore ad interessarsi alle due protagoniste; certo, essendo un film iraniano, la rivincita delle donne su un "fratello padrone" non può essere che da applaudire e non è priva di un certo umorismo nero, ma sui titoli di coda l'unica cosa che ho pensato è stata "e quindi?". Proprio vero che di cinema non capisco una mazza. 



venerdì 27 novembre 2020

Visioni dal Torino Film Festival (parte 3)

Oggi parlerò di due horror visti al Torino Film Festival, uno assai spassoso, l'altro deprimente e fastidioso, ahimé. Lo so, purtroppo più il festival prosegue più io divento monogenere, ma come al solito i problemi sono: il tempo che mi consente di vedere solo un film al giorno e il fatto che dopo 48 ore i film scompaiono, quindi recuperarne altri magari nel weekend risulta quasi impossibile. Ciò detto... ENJOY!

Fried Barry di Ryan Kruger (2020)

L'inevitabile quota horror-trash del festival, una roba spassosissima che si ammoscia giusto sul finale, durante il quale effettivamente subentra un po' di noia nel vedere il povero Barry vagare senza capire bene che succede attorno a lui. Ryan Kruger dev'essersi innamorato del Dougie di Kyle MacLachlan o non si spiega perché abbia deciso di girare un film avente per protagonista un alieno nel corpo umano di uno streppone, impegnato a strafarsi di roba nelle strade di una Città del Capo popolata da esseri immondi della peggior specie, e, inaspettatamente, a portare improbabili sprazzi di felicità a quanti (soprattutto quante) sono così "fortunati" da incrociarlo; Barry sembrerebbe cattivo ma in realtà sperimenta gioie e dolori della vita umana, senza preconcetti di sorta, assieme a tutte le inevitabili difficoltà di indossare un "Edgar-abito" non propriamente in forma. L'Edgar-abito in questione è l'esilarante Gary Green, già protagonista del corto omonimo da cui il film è stato tratto, che tra facce smascellate, movimenti spastici e sguardi pallati, riesce a conquistare lo spettatore più dello stile "da trip" e delle melodie con cui il regista trasforma il film nel viaggio mentale di chi già prima di venir posseduto da un alieno non riusciva più a connettersi con la realtà. Fried Barry non è sicuramente un film per tutti, visto che in alcune sequenze è abbastanza gore ed esplicito, ma un'occhiata la merita, soprattutto se vi piace il genere horror psichedelico. Sicuramente vi farete delle grassissime risate. 


Breeder di Jens Dahl (2020)

Non il film giusto da vedere nella giornata contro la violenza sulle donne, decisamente. Breeder parte come un thriller/horror in odor di fantascienza genetica, per poi rivelarsi come un torture porn dove le vittime sono povere criste seviziate da un matto e dove l'idea di cercare una cura per la vecchiaia diventa giusto una scusa: perché mai, infatti, torturare donne che dovrebbero ragionevolmente venire lasciate in salute per motivi che non spoilero? Peggio ancora, Breeder, inspiegabilmente scritto da una donna, sbaglia completamente il finale. La protagonista, come ci viene spiegato attraverso un monologo all'inizio, adora la sensazione di avere il controllo assoluto ma ama anche subire violenze dal marito, mossa da una vena masochistica; ora, sarebbe stato sbagliato farle perdere questa "perversione" dopo essere stata seviziata da un maniaco, perché un conto è il desiderio, un conto è essere vittime, ma arrivare a rimanere col marito mollo, infame e bastardo solo per avere un padre con cui crescere una bambina e continuare a farsi frustare da lui no, cazzo, non lo accetto, è il messaggio più sbagliato che si potrebbe dare. E al diavolo i "100 motivi che non vi sto a dire". Film pessimo e scorretto, che mi stupisco sia diventato materiale per il festival. 



mercoledì 25 novembre 2020

Visioni dal Torino Film Festival 2020 (parte 2)

Anche se ieri sono riuscita a vedere solo un film e un corto ho deciso di mantenere, almeno per questa volta, la struttura "in pillole", vuoi per mancanza di tempo, vuoi perché il film in questione mi ha lasciata un po' perplessa... ENJOY!


Lucky di Natasha Kermani (2020)

Un po' Auguri per la tua morte, un po' horror di denuncia sociale, un po' un casino, soprattutto verso la fine, Lucky è una bestia strana che all'inizio vi farà ridere e poi comincerà a sembrarvi uno scherzo un po' tirato per le lunghe risolto con un tragico spiegone sul pre-finale, spiegone subito cancellato per lasciare spazio alla locura più incredibile. La storia verte su un'autrice di manuali di autoaffermazione, quelle cose orribili che vanno tanto di moda negli USA, che una sera viene aggredita da un uomo in maschera, davanti, peraltro, allo sguardo annoiato del marito. Da qui in avanti non spoilero nulla ma in pratica la situazione della protagonista si fa sempre più surreale, tra mariti fuggitivi e persone ambigue o inutili, il tutto asservito (almeno da quanto ho capito io) a una metafora sulla fondamentale solitudine della donna in un mondo che non le risparmia mai violenze quotidiane, in nessun ambito, né critiche o giudizi superficiali, da cui il titolo originale del film. Secondo me a Lucky avrebbe giovato meno voglia di sperimentare e più coerenza in fase di scrittura, anche se le scenografie, i colori e un brevissimo momento musical, oltre alla faccia del marito della protagonista, potrebbero godere di momentanea memorabilità.


Regret di Santiago Menghini (2020)

In aggiunta a Lucky c'era questo corto imperniato sui sensi di colpa di un uomo davanti alla morte di un padre non proprio simpatico. In un quarto d'ora il corto cattura grazie ad angoscianti atmosfere à la Shining e a un paio di jump scare ben piazzati (diciamo che in uno ho urlato, anche perché il regista è talmente abile da sviare l'attenzione dello spettatore per poi fregarlo), oltre al make-up del "demone" che perseguita il protagonista. Peccato che l'attore che interpreta quest'ultimo sia un po' cane maledetto.



martedì 24 novembre 2020

Visioni dal Torino Film Festival 2020 (parte I)

In quest'anno un po' "così" anche il Torino Film Festival è diventato online: la programmazione potete trovarla QUI così come tutte le informazioni per fruire dei vari film in concorso e non: nel weekend sono riuscita a vederne ben quattro (tra cui The Dark and the Wicked di Bryan Bertino, di cui ho parlato QUA), il che per me è un miracolo, quindi ve ne parlerò in un post cumulativo. ENJOY!


The Evening Hour di Braden King (2020)

Tratto dal romanzo omonimo di Carter Sickels, inedito in Italia, il film è uno sguardo su un'America ai margini, dove l'ignoranza e lo squallore la fanno da padroni e dove per tirarsi un po' su si ricorre agli antidolorifici spacciati con garbo da un giovane infermiere impiegato in una casa di riposo. Quando il passato tornerà a mordere i calcagni del ragazzo, sotto forma di vecchio amico dal q.i. assimilabile a quello di una trota di lago ma con ambizioni di gran spacciatore, il mondo idilliaco del protagonista finirà in pezzi assieme alla sua vita. The Evening Hour è un film che fa delle atmosfere e dei paesaggi, sia naturali che urbani, il suo punto di forza, e priva lo spettatore di qualsiasi desiderio di vivere in America, soprattutto non nei luoghi descritti all'interno della pellicola. Gli attori sono tutti assai bravi, la storia in alcuni punti è un po' farraginosa (perché Cole non possa prendere a sberle Terry e cacciarlo subito a pedate dal paese con l'ausilio del ras di zona è qualcosa che mi sfugge) ma nel complesso è un film assai godibile.

For Sama di Waad Al-Ketab e Edward Watts (2019)

Di solito non guardo documentari ma di questo ne parlavano tutti così bene che domenica mattina mi sono accinta alla visione e sono stata felicissima della scelta. Felicissima ma distrutta, perché For Sama è talmente crudele e doloroso che ci si chiede come sia possibile vivere nelle condizioni di Waad e di tutti i suoi compaesani, assediati in una Aleppo sempre più piccola e pericolosa; come sia possibile ridere, mettere al mondo figli, trovare una nicchia di normalità. Soprattutto, ci si chiede come sia possibile che, nell'epoca "moderna", si permetta l'esistenza di aberrazioni come il regime siriano. Come ho scritto su Facebook, vergognatevi di parlare di "dittatura sanitaria" quando vi sentite depressi per il mancato aperitivo o perché siete costretti a portare la mascherina, e magari cominciate anche a smetterla di urlare che "nessuno in Italia pensa ai bambini": vedere una donna al colmo della felicità perché il marito le ha regalato un caco oppure un bambino chiedere a Dio di perdonare i suoi amici che lo hanno abbandonato ad Aleppo sono due ottimi punti di partenza per ringraziare il destino di averci concesso praticamente tutto e per ricominciare un po' a mettere le cose nella giusta prospettiva. E se volete saperne di più e magari dare una mano: https://www.actionforsama.com/

Wildfire di Cathy Brady (2020)

Un altro film che parla di piccoli paesi e grande disagio, stavolta ambientato in un'Irlanda che non ha dimenticato il suo recente passato di divisioni, terrorismo e morte. La storia di Wildfire è quella di due sorelle, Lauren e Kelly; quest'ultima è stata data per dispersa per un anno e quando torna a casa stravolge la vita della sorella, scoperchiando un passato fatto di dolore, follia latente, crimini e cose che gli abitanti vorrebbero dimenticare per comodità. Wildfire si regge sulle interpretazioni delle protagoniste (il film è dedicato alla memoria della giovane Nika McGuigan, morta di cancro nel 2019) e sull'angoscia che deriva dal vedere una realtà all'apparenza solida sgretolarsi sotto il peso di una crescente disperazione, con violenza e senza possibilità di mettere un freno. Come The Evening Hour, nemmeno Wildfire è un film entusiasmante o memorabile al 100 % ma è sicuramente un'altra visione interessante.  



domenica 1 dicembre 2019

TFF 2019: A White White Day - The Lodge - Greener Grass - El Hoyo - Bina

Con questo post ho deciso di combinare il secondo e terzo giorno di visioni al Torino Film Festival 2019, tanto mi pare non siano articoli molto seguiti e servono giusto a me per ricordare, nel tempo, cosa ho visto. Di Knives Out, film di chiusura del festival, parlerò a ridosso della sua uscita italiana mentre due parole su La lunga notte dell’orrore le scriverò in un post a parte. ENJOY!

A White, White Day di Hlynur Palmason
Inaspettatamente, è il film che ha vinto il Festival, a dimostrazione di quanto io sia una bestia ignorante. Non posso dire che non mi sia piaciuto, tuttavia gli ho preferito di gran lunga altri film e sinceramente l’ho trovato “normale”, nulla per cui gridare al miracolo, a meno che il lunghissimo time lapse iniziale, che ha fatto bagnare più di uno spettatore in sala, non rientri nella definizione di miracolo. A parte questo, l’elaborazione del lutto e della rabbia di un poliziotto ritrovatosi vedovo senza un perché, costretto a scoprire segreti spiacevoli sulla moglie dopo la di lei dipartita, è piuttosto interessante e si arriva a voler bene a quest’uomo di mezza età, con tutti i rospi che deve inghiottire quotidianamente, e anche alla sua ciarliera nipotina, seguendo le cui vicende sono arrivata spesso a chiedermi come facciano i bimbi svedesi a sopravvivere visto che i genitori li fanno persino giocare coi coltelli. Il finale ripaga ampiamente di tutte le lungaggini (e ce ne sono) che lo precedono, esplodendo in una catarsi di rabbia, commozione e poesia. Mi piacerebbe riguardarlo, magari con occhi più convinti e meno fiaccati da mancanza di sonno e stanchezza accumulata in due giorni.

Il motivo per cui sono andata al festival, a essere sincera. Aspettavo da tempo che gli autori di Goodnight Mommy tornassero al lavoro e non sono rimasta delusa. The Lodge è un film che trae nuovamente la sua forza dalle dinamiche familiari disfunzionali, con l’aggiunta, stavolta, di un po’ di “true crime” a sfondo religioso, perfetto per rendere il tutto ancora più ambiguo. Immerso nella neve e in una luce abbacinante, talvolta reso ancora più claustrofobico grazie alla presenza di un’inquietante casa di bambole, The Lodge riflette sulla fragilità della psiche umana e sull’orrore di un passato che non concede seconde opportunità, non per molto tempo almeno, ed è graziato dalla presenza di un’attrice bravissima Riley Keough, e dalla capacità dei due registi di cambiare le carte in tavola nel giro di un’inquadratura. Le sequenze iniziali e quelle finali sono tremendamente angoscianti, non le dimenticherete per molto tempo se avrete la fortuna di guardare The Lodge, che uscirà il 16 gennaio 2020 per la gioia di tutti gli appassionati!

Greener Grass di Jocelyn DeBoer e Dawn Luebbe
Perfetto antidoto all’angoscia provocata da The Lodge, Greener Grass è stato sicuramente il mio guilty pleasure all’interno del festival. Ambientato in una suburbia che pare un incrocio tra la cittadina di Edward mani di forbice e Stepford, racconta le vicende surreali di due casalinghe disperate in serrata competizione, tra mariti clueless, figli regalati, feste in piscina ed eventi sovrannaturali, senza dimenticare serial killer a piede libero. Si ride a denti stretti, come insegnano gli splendidi titoli di testa, con quel primissimo piano di un sorriso ostentato e tenuto a forza, tanto da sembrare quasi un ringhio, e spesso si urla al WTF ma alcune sequenze sono geniali (Kids with Knives su tutti) e non sfigurerebbero in una puntata de I Griffin o in uno sketch dei Monty Python. Probabilmente in Italia non verrà mai distribuito ed è un vero peccato.

El Hoyo di Galder Gaztelo-Urrutia
Per me il titolo di miglior film sarebbe dovuto andare a El Hoyo ma alle mie spalle ho spesso sentito urlare allo schifo da torme di cinefili “bene” che parlavano di becero splatter. In realtà, El Hoyo è una bellissima allegoria della società odierna, una distopia a base di persone costrette a vivere all’interno dei vari livelli di un edificio dove quotidianamente viene calata una tavola imbandita che si svuota a mano a mano che scende ai piani inferiori, lasciando gli abitanti di questi ultimi in preda all’inedia e alla disperazione. Vero, c’è molto sangue e anche una violenza spesso grottesca ma la sceneggiatura non sbaglia un dialogo che sia uno e si inorridisce non tanto per quello che viene mostrato, quanto per le riflessioni che il film porta con sé. D’altronde, viviamo già in un Hoyo, inutile tapparsi gli occhi e fare finta di non vedere o pretendere di essere buoni come il protagonista Goreng quando, facilmente, siamo cinici ed egoisti come il vecchio e maledetto Trimagasi, eletto, assieme all’attore che lo interpreta, a personaggio preferito di tutto il TFF. C’è speranza di vederlo su Netflix, prima o poi. Incrociate le dita.

Bina (o The Antenna) di Orcun Behram
Altra distopia, risultato assai diverso, anche se il pubblico pare aver gradito visti gli applausi tributati all’opera sul finale. Se El Hoyo era un’allegoria del mondo, Bina critica pesantemente la politica e la società turche e lo fa sfruttando l’idea di antenne che corrompono, attraverso telecomunicazioni chiuse e fluidi neri, gli abitanti di sperduti condominii, costretti ad aspettare la mezzanotte per ascoltare le dichiarazioni folli di governanti misteriosi. Un po’ Kafka e un po’ Cronenberg, Bina offre allo spettatore ambienti claustrofobici e ineluttabili mutazioni psicofisiche, ma anche innumerevoli sequenze di mero autocompiacimento autoriale che rallentano parecchio l’azione e non aggiungono nulla al significato del film in sé. Peccato, perché l’idea di partenza è schifosetta ed interessante quanto basta ma siamo ben lontani dai tempi della Nuova Carne.

venerdì 29 novembre 2019

TFF 2019: Mientras dure la guerra - Tito

Sfruttando la tecnologia fornita dal Bolluomo tenterò anche io di fare come i cinèfili dell'internet come si deve, che seguono in tempo reale le loro performance festivaliere. Infatti, da giovedì a sabato, sarò al Torino Film Festival e ieri, giovedì, ho già visto due pellicole (avrei dovuto vedere anche El Hoyo ma grazie alla mortale combinazione Trenitalia/disagi post-allerta rossa sono arrivata in ritardo...). Ne parliamo di seguito, soprattutto di una, che l'altra... ENJOY!


Mientras dure la guerra di Alejandro Amenabar

Amenabar è maturato ancora. La Spagna all'alba della dittatura di Franco, teoricamente dotato di pieni poteri solo "per la durata della guerra", poi sappiamo com'è andata a finire, vista attraverso gli occhi dello scrittore e saggista Miguel De Unamuno. Sostenitore del colpo di stato di destra, avrà modo di pentirsi delle sue scelte e della sua indole volubile e testarda.
Amenabar racconta una Spagna ancora "sana", dove monarchici e socialisti, fascisti e comunisti litigano e discutono ma si rispettano senza odiarsi, un po' come facevano i nostri Don Camillo e Peppone, che minaccia di scomparire sotto l'ignoranza salviniana di chi si limita a discriminare e lottare per il potere, senza altro modo di esprimersi se non slogan e banalità nazionaliste.
Il film non glorifica Unamuno né lo rende un martire, bensì mette sullo stesso piano d'importanza la storia personale di un uomo pieno di difetti e la riflessione sulla condizione della Spagna e sulle sue radici, diventando così un'opera universale, necessaria oggi più che mai.
Vero, c'è del melodramma, ma anche molto realismo, e ci si commuove più per la frustrazione e l'idea di ciò che è davvero successo a migliaia di persone innocenti che per il dramma umano di Unamuno, peraltro splendidamente interpretato da Karra Elejalde.
Ovviamente, di  questo bellissimo film non si ha ancora notizie relative a una distribuzione italiana. Incrociamo le dita.


Tito di Grace Glowicki

E dopo un film meraviglioso ci voleva la schifezza indipendente messa per raggiungere la quota minima festivaliera di film girati col culo ma originalissimi. Per carità: Grace Glowicki dirige, sceneggia, produce, RECITA nei panni di un ragazzo traumatizzato e problematico, quindi tanto di cappello, ma il film in sé fa pena. O meglio, inizia citando Mysterious Skin e, nella colonna sonora, Shining, il che mi potrebbe stare bene, si mantiene su accettabili livelli di pochezza arrivando al punto di coinvolgere lo spettatore sia sfruttando stilemi tipici dell'horror sia attraverso l'introduzione di un ragazzo che apparentemente servirebbe per capir che caspita sia successo di preciso a Tito, ma alla fine la riflessione sui postumi da trauma lascia davvero il tempo che trova e si perde in scene ininterrotte di gente che si fa le canne. In compenso, poi, peggiora, con una lunghissima sequenza finale a base di rohypnol che lascia il pubblico lì sulle poltrone, come l'aratro nel maggese (i pochi aratri che sono rimasti, in quanto tra gente che ha dormito e se n'è andata abbiamo toccato un record...). Mi si dice che non sia nemmeno il film peggiore del festival, il che mi consola, temevo di aver beccato la vera sòla del TFF!


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