mercoledì 4 novembre 2020

Visioni dal Trieste Science + Fiction Film Festival (Parte III)

Si va verso la fine del Festival e, in tutta sincerità, dopo l'apice toccato con Benny Loves You le ultime visioni sono state un po' "stanche"... o forse sono io che non reggo più un'overdose quotidiana di film? ENJOY!


Coma (Nikita Argunov, 2019)

Si comincia con l'Inception russo, ibridato con Matrix. L'idea di partenza è ottima, ovvero l'esistenza di un mondo condiviso da pazienti in coma, dove ognuno sviluppa particolari "poteri" necessari per sopravvivere agli attacchi di creature oscure non meglio identificate. Perché, in un mondo dove virtualmente ognuno potrebbe essere chi vuole, fatto di sogni, ricordi, incubi e quant'altro, vada ancora di moda il look "scappato di casa/guerrigliero affamato", è un mistero al pari del motivo del fastidio che provo davanti a questi blockbuster ipertecnologici russi, all'interno dei quali la CGI mi ferisce occhi e cuore in un modo inspiegabile. Sarà per questo che, durante la visione del film, sono finita spesso e volentieri in coma, nonostante la bellezza incredibile delle scenografie e dell'immaginario visivo del regista, e mi sono ritrovata spesso a sbadigliare per la noia causata da un gruppo di personaggi non particolarmente accattivanti né simpatici, "architetto" compreso. Fortunatamente il Phantom Anton Pampushnyy è davvero un bel pezzo di figliolo che mi ha portata spesso a ringraziare la Grande Madre Russia.


Lapsis (Noah Hutton, 2020)

Altra pellicola lunghetta e non particolarmente entusiasmante. Vi lamentavate del mumblegore? Al confronto del mumblescifi con velleità di critica al capitalismo (e senza scomodare le invettive delle canzoni balcanose) i mumblegore scorrono veloce come gli slasher: assistere alle peripezie di un cablatore italoamericano a spasso per i boschi, costretto da necessità di denaro a lavorare per una multinazionale pronta a tenere in pugno il mondo con la sua tecnologia quantica, diciamo che è abbastanza pesantuccio. Fortunatamente il protagonista è assai simpatico ma, di base, nella storia non c'è mordente, non c'è inquietudine, non c'è una particolare illuminante riflessione che si distacchi da una superficialità da Facebook. Con buona pace dell'ambigua scena finale, che ha perplesso non pochi spettatori, me compresa. 


Post Mortem (Péter Bergendy, 2020)

Mannaggia. Con un po' più di perizia negli effetti speciali (a tratti purtroppo buffi, è facilissimo immaginare il regista che urla agli attori "muovetevi come dei tarantolati" e loro giù a sbattere le braccia, senza sapere bene che fare quando "qualcosa" li trascina via per le gambe) e un pelo di coerenza a livello di sceneggiatura, avremmo avuto il capolavoro del Festival, un gotico malinconico fatto di ambientazioni e costumi perfetti, imperniato sulla pratica delle foto post mortem. In effetti, la parte più interessante del film è proprio quella introduttiva, durante la quale il Ryan Reynolds ungherese (ma molto più espressivo) si ingegna nel macabro lavoro di fotografo di cadaveri, mentre nella parte ghost story la pellicola si perde un po', tra cliché e buchi narrativi. Come ho detto, peccato, ma comunque è stata una visione molto interessante, nonché il film migliore della tripletta. 



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