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mercoledì 3 gennaio 2018

Coco (2017)

Buon 2018 a tutti! Vi faccio gli auguri oggi perché il post di El Bar l'avevo già scritto mesi fa mentre questa è la prima volta che mi metto a scrivere sul blog con l'anno nuovo e spero di non essere arrugginita perché vorrei parlare bene di Coco, diretto e co-sceneggiato nel 2017 dal regista Lee Unkrich e co-diretto (nonché co-sceneggiato) da Adrian Molina. NO SPOILER, ovvio.


Trama: desideroso di diventare un musicista benché osteggiato dalla famiglia, il piccolo Miguel ruba una chitarra dalla tomba del famosissimo Ernesto de la Cruz proprio nel dia de los muertos e, a causa di una maledizione, finisce per rimanere bloccato nell'aldilà...


L'ho già scritto su Facebook ma lo ripeto anche qui: Coco è uno dei film più belli del 2017 e, come ha detto il buon Sauro di Solaris, ha fregato tutti i blogger che, come me, avevano già stilato le loro classifiche. Ben lontano dall'essere una pallida imitazione de La sposa cadavere o, come avrei temuto, del pregevole Il libro della vita, Coco è un'altra vittoria della Pixar, che è riuscita a confezionare l'ennesimo capolavoro non solo di animazione ma anche e soprattutto di sceneggiatura. L'idea di partenza, oltre alla caratterizzazione del protagonista, è in effetti molto simile a quella del film di Gutiérrez; ne Il libro della vita c'era un torero che voleva diventare musicista, qui abbiamo il piccolo rampollo di una famiglia di calzolai che vorrebbe intraprendere la stessa strada ma, mentre Manolo veniva da una stirpe di toreri che con la musica non avevano mai avuto nulla a che fare, Miguel sa che la sua antenata ha espressamente vietato ai propri discendenti di approcciarsi alla musica dopo essere stata abbandonata da un marito spinto dal desiderio di diventare famoso. Coco si apre dunque col triste racconto di Mamá Imelda, prima di una serie di matriarche forti e determinate, molto vicine all'immagine di "donna del sud" sdoganata dai simpatici sketch di Casa Surace, armate di ciabatta e pronte a rifocillare gli amati nipotini ma anche impossibili da contraddire e incredibilmente testarde e fiere, e continua nel modo più bello possibile. Coco infatti non parla solo di contrasti familiari e di desideri di libertà affidati al solito protagonista intraprendente e baciato dal talento ma è soprattutto una pellicola sulla Famiglia con la F maiuscola e su un concetto di morte che è quanto di più distante da quello cupo e disperato sdoganato in anni di animazione per bambini, una diversità che non si limita alla rappresentazione coloratissima di un aldilà da sogno; Coco, per la prima volta da che ricordi, parla della morte con naturalezza rendendola parte dell'inevitabile ciclo vitale e sottolinea l'importanza della commemorazione dei defunti come fonte di forza per chi è rimasto in vita, anche quando sembra che le memorie ad essi legate siano solo negative oppure terribilmente tristi. La testardaggine di Miguel, al quale vanno sin dall'inizio le simpatie dello spettatore, si trasforma nel corso del film in un'arma a doppio taglio che fa riflettere sulla necessità di "ascoltare tutte le campane" senza lasciarsi accecare da rabbia e pregiudizi e, soprattutto, senza allontanarsi da chi, benché sbagliando e per quanto in modo maldestro, ci ha comunque sempre voluto bene.


L'importanza di "ascoltare" e cercare di capire le ragioni degli altri si traduce, ironicamente, in un film a tema musicale che di musica, fortunatamente, ne ha ben poca all'interno. A differenza del corto che precede la pellicola, quel Frozen - Le avventure di Olaf sul quale tornerò più avanti, Coco non è zeppo di numeri musicali, anzi, è molto parco e si riduce a quattro, massimo cinque siparietti assolutamente funzionali alla trama ed importantissimi, brevi e molto accattivanti (senza parlare, ovviamente, dello score "di sottofondo", realizzato da un Michael Giacchino particolarmente ispirato). La musica, d'altronde, ha tenuto la famiglia di Miguel arroccata sulle sue posizioni per decenni e probabilmente ha costretto la maggior parte dei membri a prendere una strada diametralmente opposta alle loro aspirazioni ed è giusto che essa venga dosata con parsimonia nel corso del film, come qualcosa che Miguel, giovane ed entusiasta, deve ancora imparare a gestire... e anche come una magia capace di richiamare ricordi, emozioni e gioia di cantare. Quel che non manca a Coco è invece la bellezza di sequenze animate mozzafiato, all'interno delle quali spicca un aldilà non soltanto coloratissimo e soffuso della magica luce arancione del tagete messicano, ma anche strutturato in modo che ogni cosa all'interno dello skyline vintage della città dei morti (solcato da magnifici spiriti guida) ricordi il volto di un calavera; e se le citazioni a Frida Kahlo, favolosa nume tutelare del film, sono allo stesso tempo esilaranti e bellissime (il numero delle ballerine sulla papaya mi ha uccisa sulla poltrona) e il flashback iniziale realizzato animando i festoni di carta è un piccolo capolavoro, quello che mi ha colpita di più guardando Coco è stata la delicatezza del character design. Con questo non mi riferisco tanto agli eleganti teschi dipinti che popolano il regno dei morti, per quanto comunque bellissimi, ma piuttosto alla verosimiglianza con cui gli animatori hanno riportato in maniera stilizzata i tratti somatici tipici di un popolo fino a creare quel capolavoro di nonnina tutta rughe e lunghe trecce bianche che ha rischiato di strapparmi il cuore dal petto proprio ora che la mia, di nonna, non sta troppo bene; la nonna di Miguel è bellissima, con una faccia tenera tutta da amare come si farebbe con qualunque vecchina veneranda ed è la prima volta che mi capita, sempre in un film per bambini, di vedere la vecchiaia riproposta, pur con tutti i suoi difetti (malattie comprese, ché qui si parla di alzheimer), in maniera così dolce e rispettosa quando di solito gli anziani vengono usati o come delle specie di Yoda o messi a mo' di burberi rompiscatole. Quindi andate, andate a vedere Coco, portatevi manciate di fazzoletti, preparatevi a ridere, emozionarvi e piangere senza ritegno... e, soprattutto, armatevi di santa pazienza prima che inizi.


Sì perché prima di Coco c'è, ahinoi, il "corto" Frozen - Le avventure di Olaf. VENTIDUE MINUTI difficili da sopportare persino per me (che ho adorato Frozen e mi sono divertita anche col corto precedente, Frozen Fever), durante i quali un bambino si è alzato è ha detto al padre "Ma papà, io mi sto annoiando!". E ne hai ben donde, povero patato! Il problema non è che Olaf, il pupazzo di neve con la voce da pittima che "ama i caldi abbracci", sia il protagonista praticamente assoluto, quanto piuttosto che i VENTIDUE MINUTI siano TUTTI cantati. Tutti, santiddio. L'unico momento in cui mi sono esaltata/commossa è stato quando le note di "Do You Want to Build a Snowman?" hanno fatto capolino, per il resto se nel 2019 mi daranno un Frozen 2 interamente cantato e imperniato per l'ennesima volta sulla tristezza derivante dall'infanzia perduta di Elsa e Anna andrò ad impiccarmi a un albero di Natale perché, signore mie, quanto ancora la vogliamo tirare avanti con sta storia di Elsa che si deprime perché per colpa sua Anna non ha mai avuto una famiglia, una festa, un legame fraterno, un chediaminenesò? E basta, dai, tiriamo fuori un po' di palle! Anche perché diverse catene cinematografiche americane hanno ritirato il corto, quindi non devo essermi rotta le scatole solo io... (e poi non avete idea di quanto sia piacevole guardare i colori di Coco dopo venti minuti di toni freddi)


Del regista e co-sceneggiatore Lee Unkrich ho già parlato QUI mentre Cheech Marin (la voce originale del poliziotto che parla con Hector) lo trovate QUA.

Adrian Molina è il co-regista e co-sceneggiatore del film. Americano, è alla sua prima esperienza come regista ma ha già lavorato in casa Pixar come sceneggiatore e animatore in Ratatouille, Monster University e Il viaggio di Arlo. Ha 32 anni.


Gael García Bernal è la voce originale di Hector. Messicano, ha partecipato a film come Amores perros, Y tu mamá también - Anche tua madre, I diari della motocicletta, La mala educación e a serie come Mozart in the Jungle. Anche produttore, regista, cantante e sceneggiatore, ha 40 anni e due film in uscita.


Benjamin Bratt è la voce originale di Ernesto de la Cruz. Americano, ha partecipato a film come Demolition Man, Catwoman, Doctor Strange e La fratellanza mentre come doppiatore ha lavorato in Cattivissimo me 2. Anche produttore e cantante, ha 55 anni.


La voce originale di Papá Julio è quella del regista Alfonso Arau. Se Coco vi fosse piaciuto, potete trovare su internet il corto Dante's Lunch: A Short Tail, avente per protagonista il cane guida di Miguel e, in aggiunta, potete guardare Ratatouille, Inside Out, Il libro della vita e Up. ENJOY!



domenica 25 settembre 2016

Alla ricerca di Nemo (2003)

In un mondo ideale questo post avrebbe dovuto essere già scritto e postato prima che io andassi a vedere Alla ricerca di Dory ma purtroppo il mio è un mondo fatto di minuti risicati. Quindi, oggi vi beccate con orrida mancanza di consecutio temporum la recensione di Alla ricerca di Nemo (Finding Nemo) diretto dai registi Andrew Stanton (anche sceneggiatore) e Lee Unkrich, vincitore nel 2003 dell'Oscar come Miglior Lungometraggio Animato.


Trama: a causa dell'attacco di un barracuda, il pesce pagliaccio Nemo si ritrova vedovo e con un unico figlio superstite, il piccolo Nemo dalla pinna atrofica. Quando il pesciolino viene pescato per essere messo in un acquario, Marlin parte alla sua ricerca, accompagnato dalla smemorata Dory...


Non guardavo Alla ricerca di Nemo da qualche anno e, ovviamente, ho tirato fuori dalla libreria il DVD in occasione dell'uscita di Alla ricerca di Dory, uscendo estasiata dalla visione come già era successo la prima volta al cinema. La storia di Marlin e della sua disperata ricerca del figlio Nemo è un emozionante racconto di formazione che tocca più di un personaggio, tra momenti genuinamente tragici, sequenze commoventi e altre di puro, indimenticabile divertimento. La sceneggiatura del film parte da un'esperienza terribile come la perdita dei familiari e mostra un protagonista evidentemente traumatizzato, incapace di vivere per paura che qualsiasi cosa fuori dall'ordinario possa celare mortali pericoli; Marlin prova per Nemo ciò che probabilmente tutti i genitori provano per i propri figli (il timore di lasciarli andare per la loro strada, di permettere loro di vivere esperienze anche negative sulla loro pelle) ma ovviamente il tutto viene esasperato al punto che il pesciolino viene soffocato dall'amore genitoriale anche all'interno della relativa sicurezza di una scuola. Quando Nemo, portato all'imprudenza proprio dall'atteggiamento del padre, viene rapito, Marlin è costretto ad ignorare l'atavico terrore di ciò che sta "oltre" la barriera e a collaborare con altre creature per il bene del figlio, uscendo letteralmente dal guscio in cui si era rinchiuso al momento della morte dell'amata moglie. Allo stesso tempo, il piccolo Nemo scopre il significato della parola fiducia, imparando a credere in sé stesso (oltre che in quel papà troppo noioso e pavido agli occhi di un bambino) grazie ad un gruppo di pesci da acquario che arrivano a considerarlo loro pari, rendendolo la chiave del loro piano di fuga nonostante il suo difetto fisico. Alla crescita di Nemo e Marlin si aggiunge il percorso per nulla banale della "spalla" Dory, pesciolina afflitta da perdita di memoria a breve termine che in Marlin trova il punto fisso dal quale partire per costruirsi quel senso di appartenenza che la malattia le ha sempre precluso: attraverso Dory, gli sceneggiatori intavolano un meraviglioso discorso relativo alla natura di famiglia al di là del nucleo costituito da genitori e figli, innescando riflessioni che si estendono non solo agli spettatori, ma agli stessi personaggi, facendoli maturare.


Ai momenti squisitamente malinconici dei quali Alla ricerca di Nemo è pieno, si affiancano ovviamente sequenze di altissimo umorismo, perfettamente adatte sia ai grandi sia ai piccoli, affidate non solo a personaggi esilaranti quali gli squali "vegetariani", la stessa Dory oppure i gabbiani col loro favoloso verso "Mio! Mio! Mio!", ma anche a piccoli inside joke nascosti abilmente all'interno delle scene o (soprattutto nella versione originale) ai vari accenti e modi di dire dei singoli personaggi, strettamente legati alla loro origine Australiana. L'abilità tecnica della Pixar è in questo caso strabiliante anche dopo tredici anni. Non parlo solo dell'incredibile bellezza delle sequenze ambientate nei fondali marini, un trionfo di colori e forme talmente variegati da far venire voglia di indossare maschera e muta e tuffarsi nella barriera corallina (magari senza macchina fotografica per flashare i poveri pesci...), ma anche per l'espressività dei singoli personaggi e per la commistione perfetta di animazione e colonna sonora. Due esempi su tutti: sfido chiunque a non farsi venire l'ansia prima, e a morire di magone poi, davanti allo sguardo determinato della sfortunata Coral, che soppesa il pericolo del barracuda per poi lanciare un'occhiata determinata ai piccoli ancora nascosti, oppure a non disperarsi assieme a Marlin quando la barca porta via Nemo, accompagnata da un martellante score da film horror. Questi sono ovviamente solo alcuni degli importanti ingredienti della perfetta ricetta Pixar, casa di produzione dotata dell'intelligenza di creare film adatti ai bambini senza prenderli in giro addolcendo la pillola con scene consolanti o happy ending definitivi (obiettivamente, il destino dei pesci nell'acquario non è proprio quello di totale trionfo), offrendo loro film capaci di emozionare e far riflettere l'intera famiglia, magari su diversi livelli. Purtroppo, lo sapete già, questo non è successo con Alla ricerca di Dory che, scivolando nella concessione ai fan, si è rivelato privo di quella complessità che ha reso Alla ricerca di Nemo un capolavoro senza tempo in grado di non sfigurare accanto ai cosiddetti Grandi Classici Disney, che vivono imperituri nella memoria di chiunque abbia avuto la fortuna di vederli.


Del co-regista Lee Unkrich ho già parlato QUI mentre il co-regista e co-sceneggiatore Andrew Stanton lo trovate QUA. Albert Brooks (voce originale di Marlin), Ellen DeGeneres (Dory), Willem Dafoe (Gill/Branchia), Allison Janney (Peach/Diva), Geoffrey Rush (Nigel/Amilcare), Eric Bana (Anchor/Randa) e Bruce Spence (Chum/Fiocco) li trovate invece ai rispettivi link.

La voce originale del dentista è quella dell'attore australiano Bill Hunter, che ha interpretato Bob in Priscilla la regina del deserto, mentre tra i doppiatori italiani figurano invece Luca Zingaretti (Marlin) e Carla Signoris (Dory). William H. Macy aveva prestato la voce Marlin per una prima versione del film ma, dopo le proiezioni negative della stessa per i vertici della Disney, Andrew Stanton ha deciso di far ridoppiare il personaggio ad Albert Brooks (che, per inciso, era sempre stato la prima scelta del regista). Un'altra attrice ad aver perso la possibilità di partecipare al progetto è stata Megan Mullally dopo aver rifiutato di modulare la voce come quella del personaggio per la quale era famosissima all'epoca, la caustica Karen della serie Will & Grace. Il film è stato seguito, dopo la bellezza di tredici anni, da Alla ricerca di Dory: se Alla ricerca di Nemo vi fosse piaciuto recuperatelo e aggiungete Monsters & Co., Il re leone e la trilogia di Toy Story. ENJOY!

mercoledì 14 agosto 2013

Monsters & Co. (2001)

Nell'attesa che arrivino il 21 agosto e l'uscita italiana di Monsters University, qualche sera fa ho deciso di rinferscarmi la memoria e riguardare Monsters & Co. (Monsters, Inc.), diretto del 2001 dai registi Pete Docter, David Silverman e Lee Unkrich e vincitore di un Oscar per la miglior canzone originale (If I Didn't Have You).


Trama: Sulley e Mike lavorano alla Monsters & Co., fabbrica dove i mostri, spaventando i bimbi del mondo reale, riescono a ricavare energia dalle loro urla. I bambini vengono visti come esseri spaventosi e mortali e strettissime regole impediscono il passaggio tra i due mondi, ma un giorno nelle vite di Sulley e Mike piomba la piccola Boo... e i due devono riuscire a riportarla a casa senza essere scoperti. 


Rivedere Monsters & Co. è sempre un grandissimo piacere perché ad ogni visione il film si riconferma un piccolo capolavoro. Innanzitutto per la storia, una delle prime a sfruttare l'idea di mostrare il lato "normale" di esseri sovrannaturali o negativi, dando una motivazione alla loro presenza nel mondo umano, un cambiamento radicale di punto di vista sfruttatissimo nei decenni a venire e ormai quasi inflazionato. Non è questo il caso di Monsters & Co., che offre allo spettatore chicche geniali come il terrore dei bimbi trasformato in energia per la normalissima Mostropoli, le porte collegate agli armadi del mondo umano o mostri "storici" come lo Yeti, Nessie e Bigfoot esiliati nella nostra dimensione come punizione per i loro sbagli. Giocando con questi elementi fantastici e parodistici gli sceneggiatori hanno messo su il classico racconto di formazione disneyano, focalizzandolo sul protagonista Sulley e sulla piccola Boo; il primo è lo spaventatore per eccellenza, così preso dal suo lavoro e sviato dalle regole del proprio mondo da non accorgersi che il suo bene deriva dalla sofferenza di migliaia di bambini urlanti e traumatizzati, mentre la seconda è una dolcissima bimbetta di tre anni al massimo che, come tutti i suoi coetanei, dovrà superare le paure irrazionali dell'infanzia e diventare, a modo suo, forte e decisa per riuscire a crescere.


A fare da spalla a questi due personaggi ci sono ovviamente l'indispensabile spalla comica e il fondamentale villain. Il monocolo Mike Wazowsky è il migliore amico di Sulley nonché suo motivatore ed è forse il personaggio con cui maggiormente il pubblico può identificarsi: non particolarmente portato per il suo lavoro, sbadato, ingenuo, sfigato, buffo ma nonostante questo dotato di un grandissimo cuore è sicuramente il mostro più indimenticabile della pellicola e noi italiani avremo sempre da ringraziare il bravissimo Tonino Accolla per questo. Dall'altra parte della barricata c'è poi il terribile Randall che, invece, incarna tutto ciò che riesce a renderlo mostro anche tra i suoi stessi simili e rivela la propria natura abietta e insinuante attraverso il potere dell'invisibilità. I battibecchi tra questi due "estremi" richiamano quelli delle tipiche commedie americane ambientate negli ambienti lavorativi e sono resi ancora più esilaranti dalla presenza di personaggi apparentemente secondari come la burbera Roz, la frizzante Celia e tutto il codazzo di altri mostri, ognuno con una propria incredibile peculiarità. Non crediate però che in Monsters & Co. si rida e basta! L'ultimissima scena del film, basata interamente su un unico scambio di battute e sull'espressione di Sulley, è una delle più commoventi e belle che siano mai state girate e sfido chiunque a non sentirsi spezzare il cuore quando Boo fugge inorridita davanti al suo amicone peloso, vedendolo mostro per la prima e unica volta.


Se la storia e i personaggi sono praticamente degli evergreen, tecnicamente parlando si vede invece che Monsters & Co. soffre il passare del tempo. Il coloratissimo pelo di Sulley risulta ancora oggi incredibile e morbidissimo ma le espressioni dei vari personaggi sono a volte rigide e, soprattutto, il design degli esseri umani è irreale e spigoloso. A farne le spese è soprattutto Boo che, purtroppo, non appare più così carina e adorabile come un tempo (non a caso per metà film viene comunque infilata in un costumino da mostro, probabilmente più facile da animare), tuttavia il doppiaggio riesce in parte a frenare quest'impietoso avanzare del tempo: Monsters & Co. è infatti uno degli ultimi film che ho deciso di guardare esclusivamente in italiano nonostante il fior fior di attori che prestano le loro voci nella versione originale perché la nostra è incredibilmente piacevole da ascoltare e non solo per il grande Tonino Accolla ma anche per l'abilità di Marina Massironi, Loretta Goggi e della piccola (tre anni appena!!) doppiatrice di Boo. Insomma, avrete capito che Monsters & Co. mi è piaciuto davvero molto e per questo temo un confronto impari con l'imminente Monsters University (che tra l'altro parte da un presupposto sbagliato visto che in questo film Mike dice di essere il miglior amico di Sulley dalla terza elementare!). Recuperatelo in tempo, se riuscite, e ovviamente non sognatevi di perdere gli esilaranti titoli di coda con le "papere" dal set e la realizzazione del finto musical che Sulley e Mike usano come scusa per ingannare i colleghi perché sono l'ennesima dimostrazione di quanto la Pixar abbia curato fin nei minimi dettagli questo suo piccolo capolavoro.


Del co-regista Lee Unkrich ho già parlato qui. John Goodman (James P. "Sulley" Sullivan), Billy Crystal (Mike Wazowski), Steve Buscemi (Randall Boggs), Frank Oz (Fungus) e Bonnie Hunt (Flint) li trovate invece ai rispettivi link.

Pete Docter è regista e cosceneggiatore della pellicola. Americano, ha diretto anche La nuova macchina di Mike e Up. Anche doppiatore, produttore e animatore, ha 45 anni e un film in uscita.


David Silverman è il co-regista della pellicola. Marito di Nancy Cartwright, la doppiatrice originale di Bart Simpson, ha diretto I Simpson - Il film, il corto The Longest Daycare e alcuni episodi della serie animata. Americano, anche produttore, animatore e doppiatore, ha 56 anni.


James Coburn (vero nome James Harrison Coburn Jr.) presta la voce a Henry J. Waternoose. Americano, ha partecipato a film come I magnifici sette, La grande fuga, Giù la testa, Pat Garret e Billy the Kid, Hudson Hawk - Il mago del furto, Sister Act 2 - Più svitata che mai, Il professore matto, Affliction (che gli è valso l'Oscar come miglior attore non protagonista) e a serie come Alfred Hitchcock presenta, Perry Mason, Ai confini della realtà e La signora in giallo, inoltre ha lavorato come doppiatore per Capitan Planet e i Planeteers. Anche sceneggiatore, produttore e regista, è morto nel 2002 all'età di 74 anni.


Jennifer Tilly (vero nome Jennifer Elizabeth Chan) presta la voce a Celia. Americana, come doppiatrice ha lavorato anche in Stewart Little - Un topolino in gamba, Mucche alla riscossa e I Griffin, inoltre la ricordo per film come High Spirits - Fantasmi da legare, Bound - Torbido inganno, Bugiardo bugiardo, La sposa di Chucky, La casa dei fantasmi e Il figlio di Chucky. Ha partecipato anche alle serie Moonlighting e CSI - Scena del crimine. Anche sceneggiatrice, ha 55 anni e due film in uscita. 


Bill Murray era stato preso in considerazione per doppiare Sulley ma siccome i realizzatori non sono riusciti a mettersi in contatto con lui alla fine non se n'è fatto nulla... in compenso la parte di Mike è andata a Billy Crystal, che aveva rifiutato di doppiare Buzz Lightyear ai tempi del primo Toy Story e a cui la Pixar aveva promesso la possibilità di cimentarsi in un personaggio più adatto a lui. Doppiatori a parte, ci sono voluti diversi tentativi per arrivare al Monsters & Co. e soprattutto al Sulley che conosciamo: il protagonista del film all'inizio avrebbe dovuto essere il mostro che viene costantemente rapato dagli agenti del CDA, Sulley sarebbe stato invece un banalissimo lavoratore dal pelo marrone, Mike l'assistente del terribile Randal e Boo una bambina di sei anni. Infine, nell'attesa che esca il prequel Monsters University, sappiate che esiste anche un corto, nato come scena eliminata e poi inserito nella collectors edition di Monsters & Co., intitolato La nuova macchina di Mike... e ovviamente, se il film vi fosse piaciuto, non perdetevi la trilogia di Toy Story, Monster House, Shrek, A Bug's Life e The Nightmare Before Christmas. ENJOY!!

martedì 3 agosto 2010

Toy Story 3 (2010)

Ce l’ho fatta! Ho finito la trilogia, e finalmente posso dire senza ombra di dubbio che quella di Toy Story è una delle più belle che esistano, e farebbe degna figura accanto a quella del Padrino e a quella dei Guerre Stellari originali. Quando sono uscita dal cinema dopo aver visto Toy Story 3 di Lee Unkrich volevo rientrare per rivederlo, e non sto scherzando!

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La trama: sono passati 10 anni dall’ultimo film. Ridendo e scherzando Andy è cresciuto, ha abbandonato i giocattoli di sempre e ora sta per andare al college. Per un errore tutti i giocattoli meno Woody arrivano quasi ad essere buttati nella spazzatura, quindi Buzz e compagnia decidono di fuggire dal padroncino ingrato e di trovare rifugio in un asilo. Naturalmente, anche quello che sembra tutto rose e fiori in realtà nasconde qualcosa di torbido, e starà a Woody aiutare gli amici nella grande fuga…

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Come nel film, anche nella realtà sono passati 10 anni. Ovviamente in questo lasso di tempo la CG è migliorata tantissimo, così che ora non si riesce più a scorgere un solo difetto grafico in Toy Story 3, le cui immagini sono di una bellezza e di una nitidezza incredibili, anche senza l’ausilio del sempre inutile 3D (ma almeno questa volta non viene male agli occhi come davanti all’Alice in Wonderland di Tim Burton…), ma chi pensava che la forma avrebbe superato la “sostanza”, e che dopo 10 anni gli sceneggiatori si sarebbero limitati a cavalcare la nostalgia per i due film precedenti, come spesso accade, si è sbagliato di grosso. Toy Story 3 è un gioiello assolutamente superiore ai primi due, che regala momenti di pura commozione e di devastante ilarità, assieme ad una trama che lascia a bocca aperta ed incerti sul finale in più di un momento.

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Come sempre, quello che adoro di tutti i Toy Story, compreso questo, è che nonostante la storia sia ovviamente di fantasia, la realtà si avverte con tutta la sua spietatezza. L’inizio è un colpo al cuore per tutti i fan. Dopo una splendida sequenza ambientata nel glorioso passato in cui Andy creava incredibili avventure da vivere assieme ai suoi amici giocattoli, ci viene mostrato il bimbo ormai cresciuto, con Woody e compagnia che cercano in tutti i modi di richiamare la sua attenzione e farlo tornare a giocare con loro. Andando avanti si scopre che, col passare degli anni, non tutti i giocattoli “ce l’hanno fatta”, e sono stati buttati via o venduti: il pinguino Wheezy, la pastorella Bo Peep, la lavagna magica, i piccoli trolls. Nessuna concessione alla nostalgia dunque (anche se è vero che sono stati eliminati i personaggi più deboli…), neppure ai sentimenti del povero Woody che nutriva una forte simpatia per la procace pastorella. Vero è che, dal punto di vista pratico, una simile scelta consente agli sceneggiatori di concentrarsi su un ristretto gruppo di personaggi iperaffiatati e sicuramente divertenti e di aggiungerne di nuovi, in grado di non fare assolutamente rimpiangere chi non c’è più: l’orso Lotso è un villain molto più carismatico del debole Stinky Pete, Barbie e Ken sono semplicemente esilaranti e molte delle gag più azzeccate sono quelle che li riguardano, e il gruppetto di giocattoli di Molly è delizioso (il riccio shakespeariano e i pisellini nel baccello in primis, senza contare che il Totoro che la pargola tiene in camera mi ha fatta sbavare d’invidia…).

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Senza rovinare la sorpresa a chi non ha ancora visto il film, Toy Story 3 riprende tutti i temi accennati nei primi due film (l’amicizia, il senso di appartenenza ad un gruppo, l’inesorabilità del tempo che passa, l’accettazione di sé stessi e dei propri limiti) e tira le somme del discorso, arrivando ad una conclusione logica, per quanto malinconica. Il finale e le immagini che vengono mostrate poco prima, con i giocattoli che si tengono per mano uniti da un comune destino, sono talmente emblematiche ed emozionanti che mi viene il magone ancora adesso a scriverne. Un perfetto circolo che si chiude, e che ci riporta al primo, lontano episodio: spero davvero che a nessuno venga in mente di spezzare questo equilibrio miracoloso con un quarto episodio o partirò personalmente ad inibire eventuali sacrileghi registi o sceneggiatori. Tornando a temi più faceti, invece, vorrei far notare un paio di cose che ho adorato. Innanzitutto l’aspetto horror della pellicola, che veniva giusto accennato nei primi due film, nel terzo esplode con i personaggi della bambolina priva di un occhio che ruota la testa nemmeno fosse posseduta e soprattutto con l’orrenda scimmia urlante che batte i piatti, è identica a quella descritta dal buon Stephen King in uno dei racconti della raccolta Scheletri. Seconda cosa, l’aspetto vintage. Innanzitutto vorrei far notare che la Barbie del film indossa la stessa tutina con cui veniva venduta Barbie Aerobica, la prima che mi hanno comprato, datata 1984, e tutto l’immenso guardaroba dell’ambiguo Ken (Lovin’animal Ken, per la cronaca, figlio di una linea di pupazzi talmente trash che all’epoca non avevo nemmeno chiesto a mamma di comprarmi la Barbie in pendent) è ispirato ad abitini realmente esistiti, alcuni dei quali tra l’altro li ho anche visti di persona e ci ho persino giocato. Tra gli altri giocattoli conosciuti anche da noi segnalo il telefono della Fisher Price doppiato da Jerry Scotti e la Fattoria Parlante (qui genialmente utilizzata come roulette per le scommesse d’azzardo con i soldi del Monopoli) della Mattel con la quale ho giocato fino alla nausea da piccina.

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Toy Story 3 ha anche delle gag che possono venire capite solo da chi ha visto i primi due film. Innanzitutto i piccoli alieni verdi diventano finalmente padroni del “Dio Artiglio” che tanto venerano e riescono anche a salvare il loro “papà” Mr. Potato Head, ricambiando il gesto compiuto dalla patata in Toy Story 2. Buzz viene resettato, e riportato alla condizione di borioso e antipatico Ranger Spaziale che tanto odio aveva causato in Woody nel primo film. A proposito di Buzz, la sua versione spagnola è semplicemente strepitosa (come la canzone Hay un amigo en mi cantata dai Gipsy Kings nei titoli di coda..) e lo rende uno dei personaggi migliori del film, anche se i miei preferiti sono, oltre agli ovvi Barbie, Ken e alieni verdi, un Mr. Potato Head che in questo terzo episodio, assieme alla moglie novella Cassandra, da davvero il bianco (la gag della tortilla e del cetriolo sono da antologia) e le new entry: Chuckles il clown triste, i tre pisellini nel baccello e il riccio teatrante. Uno stuolo di guest star tra i doppiatori italiani; intelligentemente ripescati Fabrizio Frizzi e Massimo D’Apporto, rispettivamente nei panni di Woody e Buzz, al già citato Gerry Scotti si aggiungono Claudia Gerini nel ruolo di Barbie, il mitico Fabio De Luigi nel ruolo di Ken e l’inaspettato Giorgio Faletti nel ruolo del clown triste. Siete ancora qui a leggere?? Andatelo a vedereeee!!!!!

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Di Tom Hanks, che in originale doppia Woody, ho già parlato qui, Tim Allen lo trovate qua; Lee Unkrich, finalmente promosso regista, è stato nominato qui mentre un breve profilo di Joan Cusak, la voce di Jessie, lo trovate qua. Tra le guest star che prestano la voce ai personaggi secondari figura anche Timothy Dalton, di cui ho già parlato qui, in questo caso doppiatore del riccio attore Mr. Pricklepants.

Michael Keaton in originale presta la voce a Ken. Geniale attore americano legatissimo al primo Burton (come dimenticare la sua meravigliosa performance come Beetlejuice in Beetlejuice – Spiritello porcello o come Bruce Wayne in Batman e Batman Returns?), negli ultimi tempi purtroppo la sua carriera è finita un po’ sotto tono. Lo ricordo comunque in film come Quattro pazzi in libertà, My Life – questa mia vita, Mi sdoppio in quattro, Jackie Brown, Out of Sight, Jack Frost, White Noise, Herbie – Il supermaggiolino e telefilm come Frasier. Come doppiatore ha lavorato nei film Porco Rosso, Cars – Motori ruggenti e per la serie I Simpson. Ha 59 anni e un film in uscita.

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Woopi Goldberg spunta a sorpresa come doppiatrice di un personaggio molto secondario, quasi invisibile, il polpo Stretch. Eppure questa attrice (che definire solo comica è riduttivo...) è una delle più grandi in assoluto e ha persino vinto l’Oscar come migliore attrice non protagonista per il film Ghost. Tra le sue altre pellicole ricordo Il colore viola, Jumpin’ Jack Flash, Il grande cuore di Clara, Sister Act – Una svitata in abito da suora, Palle in canna, sister Act 2 – Più svitata che mai, Una moglie per papà, Bordello of Blood, Bogus – L’amico immaginario, la versione televisiva di Alice nel Paese delle Meraviglie, Ragazze interrotte e Rat Race; ha inoltre partecipato a un episodio de La Tata, doppiato Il re leone, Pagemaster – Un’avventura meravigliosa, Rugrats – Il film e parecchi episodi di Capitan Planet e i Planeteers. Newyorchese, ha 55 anni e due film in uscita.

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Ned Beatty in originale presta la voce all’orsacchiotto Lotso. Americano, lo ricordo per film come l’inquietante Un tranquillo weekend di paura, Nashville, Tutti gli uomini del presidente, Quinto potere (per il quale è stato nominato all’Oscar come Miglior attore non protagonista), L’Esorcista II: L’eretico, Superman, 1941: Allarme a Hollywood, Superman II, Giocattolo a ore e l’esilarante Riposseduta; ha inoltre partecipato ad episodi delle serie Il tenente Kojak, MASH, Hunter, La signora in giallo, Alfred Hitchcock presenta, Pappa e ciccia, e CSI: Scena del crimine. Ha 78 anni e un film in uscita, Rango: un cartone animato di Gore Verbinski doppiato, tra gli altri, da Johnny Depp, che ha per protagonista un camaleonte in crisi d’identità perso per il deserto… mah!

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Jodi Benson in originale presta la voce a Barbie. Mi sembrava carino spendere due parole per questa attrice americana dalla splendida voce, visto che grazie a lei, nel 1989, ha preso vita la Ariel de La Sirenetta, personaggio a cui è rimasta legata per tutti i seguiti e spin – off nati da quel primo film. Inoltre, ha doppiato personaggi di Nausicaa della Valle del vento, Thumbelina – Pollicina, Flubber – Un professore tra le nuvole, A Bug’s Life, Toy Story 2, Giuseppe il re dei sogni e della serie Hercules, inoltre ha recitato in un episodio del telefilm Hunter. Ha 49 anni.

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E ora, siccome il post è particolarmente lungo, vi lascio semplicemente con il trailer del film… ENJOY!



giovedì 22 luglio 2010

Toy Story 2 (1999)

Prosegue la visione dei Toy Story, in previsione della spedizione cinematografica della settimana prossima, quando finalmente andrò a vedere il terzo capitolo. Toy Story 2, diretto nel 1999 sempre da John Lasseter, non è assolutamente inferiore al primo film, anzi.


Toy Story 2


La trama: l’arrivo di Buzz è stato ormai “metabolizzato” da Woody e gli altri giocattoli, e la vita nella cameretta di Andy pare scorrere in armonia. Woody non vede l’ora di accompagnare il padroncino al campo dei Cowboy, ma una giocata dell’ultimo minuto gli danneggia il braccio e lo costringe a stare a casa; peggio ancora, per salvare un vecchio giocattolo che sta per essere venduto al mercatino, finisce nelle mani di un collezionista senza scrupoli che ha in mente di venderlo al proprietario di un museo giapponese assieme ad altri giocattoli, protagonisti assieme al cowboy di un vecchia serie tv. Ovviamente, Buzz e gli altri partono decisi a liberare l’amico…


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Dopo il successo di Toy Story è accaduto che, come per mille altri film Disney o Pixar, si decidesse di crearne un seguito da distribuire direttamente nel circuito dell’home video. Per fortuna, le prime prove del film sono venute così bene che il progetto è stato ampliato e Toy Story 2 è diventato un film da cinema in grado di sfatare il mito dei seguiti inferiori agli originali. A dire il vero non riesco ancora a decidere se mi è piaciuto più il primo o il secondo, perché sono entrambi bellissimi, ma forse Toy Story 2 è un po’ più “adulto” ed ironico, quindi più vicino ai miei gusti attuali.


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La cosa bella del film è che i personaggi vengono ripresi con una coerenza assoluta; l’effetto è quello che si avrebbe andando a trovare dei vecchi amici dopo qualche tempo, con la curiosità di capire cosa è accaduto loro mentre non li abbiamo visti. Buzz è finalmente venuto a patti con la sua natura di giocattolo, ed è diventato molto più simpatico di Woody che, paradossalmente, pur essendo il protagonista è l’unico a non essersi evoluto, continuando a rimanere bloccato nella sua fobia di venire abbandonato dal padroncino Andy per qualche giocattolo migliore o, peggio, a causa del tempo che passa. Toy Story 2 è incentrato proprio su questa domanda: siccome i bambini non rimangono tali per sempre, cosa accade ai giocattoli quando i loro padroni crescono e si stancano di giocare con loro? La risposta la danno i nuovi personaggi: il laido proprietario del negozio di giocattoli, interessato solo ai soldi che può fare con gli oggetti da collezionismo, la cowgirl Jessie, abbandonata dalla padroncina e terrorizzata all’idea di tornare nel buio di uno scatolone, e il minatore Stinky Pete. E’ un punto di vista più adulto e malinconico, che ci mostra la perdita dell’infanzia, lo snaturamento della natura delle cose, l’accettazione finale di un inevitabile destino e l’idea di vivere comunque con ottimismo il tempo che ci viene concesso, assieme agli amici e alla famiglia.


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Ovviamente, siccome gli argomenti trattati diventano più maturi, anche l’animazione e le gag evolvono di pari passo. Il personaggio di Andy rimane sempre statico e spigoloso, ma gli animali e i due adulti presenti sono molto più realistici, soprattutto il laido ciccione che si becca dei favolosi e dettagliatissimi primi piani quando Woody cerca di rubargli la chiave mentre dorme. Inoltre ora i personaggi riescono a chiudere tutti e due gli occhi contemporaneamente, il che non è poco! Carinissimi gli intermezzi con il cartone animato di Buzz Lightyear a inizio film e soprattutto lo show stile anni ‘50 di Woody & company, fatto con delle marionette (non vere, purtroppo, ma ricreate con la CG) e virato in seppia, ogni puntata conclusa con il tipico “cliffhanger” che andava tanto di moda all’epoca. Azzeccatissima l’introduzione di Mrs. Potato nel cast e, soprattutto, di Barbie, sogno “erotico” di ogni giocattolo, deliziosamente oca e assolutamente professionale nella sua versione Guida Turistica, mentre l’omaggio a Linux, con l’arrivo di un pinguinetto di gomma sfiatato, è abbastanza fiacco, così come i compagni di Woody; Jessie è fin troppo stordita e inutilmente chiassosa (anche se la canzone in cui ricorda l'amicizia con la sua padroncina mette il magone da tanto è triste...), mentre Stinky Pete viene sfruttato troppo poco. Assolutamente da Oscar invece le citazioni cinematografiche: il dinosauro che insegue la Jeep come in Jurassic Park, Buzz che salta su mattonelle sospese ricavando le note del Così parlò Zarathustra, colonna sonora di 2001 Odissea nello spazio; ma la mia preferita è quella, tratta da Guerre Stellari, in cui Zorg, arcinemico di Buzz Lightyear, prima di venire sconfitto gli confessa:”Io sono tuo padre!” con conseguente, esilarante gag finale. Altra cosa pregevolissima, durante i titoli di coda, sono le finte “papere” dal set, con la partecipazione speciale dei carinissimi personaggi di A Bug’s Life. Insomma, un altro film da vedere assolutamente… aspetto con ansia di gustarmi il 3!   


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Di Tom Hanks, che in originale doppia Woody, ho già parlato qui, mentre Tim Allen lo trovate qua assieme a John Lasseter, regista.


Ash Brannon è co – regista del film. Americano, in seguito ha girato da solo Surf’s Up, e ha in progetto un altro cartone animato, Turkeys, che dovrebbe venire doppiato dai fratelli Wilson e Woody Harrelson, incentrato sulla storia di due tacchini che viaggiano indietro nel tempo fino al primo giorno del ringraziamento per evitare che lo storico menu preveda il tacchino come piatto forte. Innegabilmente trash!


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Lee Unkrich è il terzo co – regista del film. Americano, ha proseguito la carriera di regista “ombra” con Monsters & Co. e Alla ricerca di Nemo, prima di venire promosso proprio con Toy Story 3, il primo film ad avere diretto da solo. Ha 43 anni.


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Joan Cusack presta la voce, in originale, alla cowgirl Jessie. Sorella del più famoso John Cusak (con il quale recita spesso in coppia), è una delle mie attrici preferite, in particolare la adoro ne La famiglia Addams 2, dove interpreta la moglie di zio Fester, la folle Debbie. Tra gli altri suoi film ricordo Una donna in carriera, Toys – Giocattoli, Una moglie per papà, Nine Months – Imprevisti d’amore, In & Out, lo splendido ed inquietante Arlington Road – L’inganno, Alta fedeltà, Looney Tunes: Back in Action e ovviamente Toy Story 3. Americana, ha 48 anni e tre film in uscita.


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Wayne Knight presta la voce, in originale, al laido collezionista Al. Per la serie: “Carneade, chi era costui?”, il ciccionissimo caratterista americano interpretava lo sbirro innamorato dell’aliena nel (almeno per me) meraviglioso telefilm Una famiglia del terzo tipo e l’infame ladro di DNA giurassico in Jurassic Park. Tra gli altri suoi film ricordo Dirty Dancing, Nato il quattro luglio, Detective coi tacchi a spillo, JFK – Un caso ancora aperto, Basic Instinct, Space Jam e Rat Race, mentre per la TV lo troviamo in episodi di That’s 70s Show, CSI: NY, CSI e Nip/Tuck. Come doppiatore ha lavorato in Tarzan e Kung Fu Panda. Ha 55 anni e un film in uscita, senza contare che farà parte del cast di doppiatori della serie animata tratta da Kung Fu Panda.  


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E ora un paio di curiosità: l’attore Kelsey Grammer, che presta la voce al vecchio Stinky Pete, è lo storico doppiatore originale di Telespalla Bob de I Simpson. Fate inoltre attenzione ad un piccolo, “insignificante” particolare che differenzia la versione USA da quella passata in Italia e nel resto del mondo: durante il discorsetto che Buzz propina agli altri giocattoli, motivandoli ad andare a salvare Woody, alle spalle dell’astronauta compare un’animazione con il mondo e dei fuochi d’artificio, ma in America alle sue spalle c’era la bandiera a stelle e strisce. Ringraziamo la Pixar che ci ha intelligentemente evitato un simile stucchevole e trashissimo patriottismo. E ora vi lascio con le già citate "papere" del film... ENJOY!


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