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venerdì 18 ottobre 2024

Hold Your Breath (2024)

Siccome mi piace molto Sarah Paulson, ho recuperato Hold Your Breath, uscito in queste settimane su Disney +, diretto e sceneggiato dai registi Karrie Crouse e William Joines.


Trama: nell'Oklahoma degli anni '30, Margaret e le sue figlie vivono in una fattoria isolata, in una zona colpita da ripetute tempeste di sabbia. La loro vita scorre più o meno tranquilla, finché un predicatore non arriva a sconvolgerla insinuando dubbi e paranoie nella mente di Margaret...


Ammetto senza troppi problemi di aver faticato tantissimo con Hold Your Breath, quindi vi do un consiglio spassionato: se siete stanchi, proni ad addormentarvi per un nonnulla, in cerca di un film dinamico, rimandate la visione di Hold Your Breath a un periodo più consono. Lo dico perché la pellicola di Karrie Crouse e William Joines impiega tantissimo prima di entrare nel vivo della vicenda, e nel corso della prima parte insiste molto (anche troppo) sulla lotta di Margaret contro la sabbia, in un avvicendarsi continuo di gente che ramazza e infila pezzi di stoffa nelle fessure tra le porte. E' una scelta sensata, ci mancherebbe, perché la cosiddetta Dust Bowl è una dei protagonisti principali del film, così come il paesaggio brullo che circonda le sfortunate donne Bellum. La Dust Bowl è uno dei primi disastri ecologici causati dall'uomo e dall'agricoltura intensiva, che riduceva le Grandi Pianure ad aride distese prive di erba; questo, combinato con una lunga siccità, ha portato alla comparsa di devastanti tempeste di sabbia che sono durate decenni e che hanno costretto moltissimi americani a migrare verso zone più favorevoli climaticamente ed economicamente. Così ha fatto il marito di Margaret, ma lei è rimasta nella fattoria di famiglia per non abbandonare la tomba della figlia Ada, morta di malattia in tenera età, e la speranza è quella di riunirsi all'uomo non appena ci saranno i soldi necessari a poter vivere tutti insieme. Nel frattempo, Margaret si carica addosso l'arduo compito di proteggere le due figlie superstiti (una adolescente in boccio, l'altra bambina segnata da una malattia che l'ha resa sordomuta) in una realtà che non perdona né gli incauti che si avventurano all'esterno senza precauzioni, né le donne sole, viste con sospetto da una comunità che non aspetta altro se non definirle pazze e incapaci a gestire i figli. Alla perenne ansia da "prestazione" di Margaret si aggiungono, inoltre, un passato già pregiudicato da comportamenti non proprio normali e l'arrivo di un misterioso predicatore proprio nel momento in cui, in famiglia, si comincia a leggere la terrificante storia del Gray Man, colui che riesce a trasformarsi in polvere e possedere le persone che lo respirano senza saperlo, spingendole a compiere le peggio nefandezze.


Hold Your Breath
dissemina, per tutta la sua durata, tante piccole micce che deflagrano (senza troppo clamore né danni, a dire il vero) sul finale, ma la vera forza del film è quella di avere un doppio setting claustrofobico, reso ulteriormente tale dall'utilizzo di colori desaturati che enfatizzano la cupezza dell'ambientazione e creano un contrasto disperato con le visioni solari e verdissime della protagonista. Da una parte, c'è la casa di Margaret, un luogo fragile che offre temporanea sicurezza dalla sabbia all'esterno, permeabile tuttavia non solo a quest'ultima, ma anche a una cabin fever alimentata da terrore, solitudine e diffidenza; dall'altra, c'è l'esterno fatto di praterie sconfinate ma impossibili da affrontare senza maschere protettive, privo di punti di riferimento e a rischio di venire sferzato da mortali tempeste di sabbia che cancellano in un attimo l'odiato sole, facendo piombare i personaggi in una cupa oscurità. Ambientazioni simili sono perfette per una storia di paranoia crescente, dove la sanità mentale dei personaggi viene invasa dal pulviscolo del dubbio, in un parallelo reso evidente dalle persistenti inquadrature della polvere che turbina nell'aria e contribuisce ad aumentare la disperazione della protagonista. Quanto a quest'ultima, Sarah Paulson è una garanzia, come sempre. Abbonata ai ruoli di donna sull'orlo di una crisi di nervi, alla quale basta una spintarella per diventare matta come un cavallo, fomentata dall'odio verso chi rifiuta di assecondare la sua follia (la scena in cui il predicatore brucia la lettera del marito per toglierle ancora più credibilità è allucinante), l'attrice ci si abbandona con consumata abilità e i suoi fan non potranno che apprezzare. A me piacerebbe che la bravissima Paulson riuscisse finalmente a staccarsi da quel genere di storie che vivono solo dello stereotipo dentro cui è stata incatenata, ma probabilmente sono in minoranza. In definitiva, come succede a molte delle produzioni streaming che escono durante la Spooky Season, non ho trovato Hold Your Breath  particolarmente entusiasmante ma neppure così brutto da sconsigliarne la visione, anzi, si vede che Karrie Crouse e William Joines sono autori eleganti, però mi è parso mancasse loro il coraggio. Comunque a molt* amic* della mia amata cerchia horror è piaciuto, quindi recuperatelo e fatemi sapere cosa ne pensate!


Di Sarah Paulson (Margaret Bellum) e Frances Lee McCain (Bertha Bell) ho già parlato ai rispettivi link.

Karrie Crouse e William Joines sono i registi della pellicola (la Crouse è anche sceneggiatrice). Americani, sono al loro primo lungometraggio.


Amiah Miller
, che interpreta Rose, era la Gretchen di My Best Friend's Exorcism. Se Hold Your Breath vi fosse piaciuto recuperate Run. ENJOY!

 

martedì 2 febbraio 2021

Run (2020)

Alcuni giorni prima delle feste di Natale ho recuperato Run, diretto e co-sceneggiato nel 2020 dal regista Aneesh Chaganty.

Trama: la giovane Chloe, afflitta da molteplici malattie che la costringono, tra le altre cose, sulla sedia a rotelle, arriva a sospettare che la madre nasconda degli oscuri segreti...


Ho cominciato Run giusto per passare un'ora e mezza ad ammirare la divina Sarah Paulson (di cui devo ancora recuperare Ratched, con calma, magari nel 2028, chissà), senza troppe aspettative e quando sono arrivata alla fine ero così in tensione che non mi ero nemmeno accorta del miracolo di averlo guardato tutto senza interruzioni né attacchi di sonno. Cosa è, in definitiva, questo "miracoloso" Run? Lì per lì parrebbe uno di quei bei thriller di una volta, una di quelle pellicole anni '90 piene di gente matta ed inquietante che fa subire le peggiori cose a persone che non se lo meritano, in realtà la sua struttura e la sua realizzazione, oltre alla presenza di due validissime interpreti, lo eleva dalla media di quelle vecchie produzioni (e vorrei ben vedere!) anche grazie ad un paio di elementi interessanti. La storia è molto simile a un Misery non deve morire: abbiamo la protagonista, Chloe, una ragazza piena di problemi di salute ma comunque felice di un'esistenza regolata nella quale riesce a gestire i suoi handicap, che a un certo punto comincia a sospettare che mamma Diane non sia così amorevole e centrata come sembra. I sospetti di Chloe nascono da piccolissime cose ma lo spettatore, vittima della malizia nell'occhio di chi "guarda", comincia a mangiare la foglia a partire da cose ancora più piccole e ha già capito che le speranze della protagonista di andare a un college non coincidono con i desideri di una madre possessiva. Non vi spoilero nulla, anzi, questo è solo l'incipit di un film che a poco a poco, sempre in maniera indiretta e scevra di spiegoni, diventa sempre più cupo ed inquietante, andando a peggiorare notevolmente la già precaria situazione di Chloe.


Quanto alla protagonista, un'aspetto interessante di Run è che la brava Kiera Allen è davvero disabile, in quanto costretta su una sedia a rotelle fin dal 2014. Al di là di un realismo meramente "fisico", che le sfumature di un personaggio così sfaccettato vengano rese da un'attrice con i medesimi problemi è confortante: Chloe non è lo stereotipo della damigella paraplegica in pericolo, bensì una ragazza intelligente e capace, piena di risorse e decisa a metterle a frutto per avere una vita normale, un desiderio "banale" che la madre non rispetta, con tutte le conseguenze del caso. Il viaggio di Chloe consiste nel recuperare il controllo della sua esistenza quando questo le viene sottratto, liberandosi da un giogo sottile e da una dipendenza talmente delicata che la rivelazione di essere, in fin dei conti, prigioniera, arriva addosso alla ragazza come una doccia fredda. Poi, ovviamente, c'è Sarah Paulson e cosa si può dire di un'attrice semplicemente perfetta per questi ruoli borderline di matta fragile alla quale basta una spintarella per andare completamente in pezzi? La seconda metà del film è un capolavoro di tensione anche grazie a lei, ai suoi sguardi, ai suoi gesti, e la sinergia con Kiera Allen arriva dritta al cuore e agli occhi dello spettatore. Run è dunque perfetto per godersi un thriller ben fatto che richiede da parte del pubblico anche un po' di attenzione e cervello, soprattutto per apprezzarne appieno le sfumature. 


Di Sarah Paulson (Diane Sherman) e Pat Healy (Tom il postino) ho già parlato ai rispettivi link.

Aneesh Chaganty è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Americano, ha diretto il film Searching. Anche produttore e attore, ha 29 anni.


Tony Revolori
, lo Zero di The Grand Budapest Hotel, è la voce dell'uomo che Chloe chiama per avere informazioni sulle medicine. Se Run vi è piaciuto recuperate Misery non deve morire. ENJOY!

martedì 22 gennaio 2019

Glass (2019)

Ammetto che, nonostante l'ormai radicato disprezzo per M. Night Shyamalan, qui in veste di regista e sceneggiatore, quella di Glass era una delle uscite che aspettavo di più.


Trama: mentre l'Orda e la Bestia continuano a mietere vittime, David Dunn decide di sfruttare propri poteri per fermarli. I due non ci metteranno molto a incrociare il cammino con Elijah Price, l'"uomo di vetro"...



Diamo subito un contentino a tutti coloro che hanno sputato veleno e non solo sull'ultima fatica Shyamalana. E' vero, sì, Glass non è degno di allacciare le scarpe né ad Unbreakable né a Split. Unbreakable era innanzitutto la storia dolente di un uomo incapace di accettare la propria natura e lo Shyamalan Twist finale era la ciliegina sulla torta di una storia già bella di suo, uno strano ibrido tra dramma e stilemi tipici dei fumetti; Split, per contro, partiva come un horror e rimaneva tale fino alla fine, con un racconto neppure troppo banale imperniato su dolore, abusi ed infanzie negate. Insomma, due film che non avevano nulla da spartire, se non per la scena appena prima dei credits del secondo, eppure da lì è nata una delle trilogie più attese degli ultimi tempi e Glass riesce ad essere contemporaneamente sia un ribaltamento delle concezioni dei primi due capitoli sia una naturale prosecuzione degli eventi. E, per questo, un film inferiore, vuoi perché pretende di raccontare troppo tutto assieme, vuoi perché sia Unbreakable che Split erano in grado di fare storia "a sé", senza bisogno di aggiungere altro e, guardando Glass, sembra quasi che il concept di "fumetto inserito nella realtà e viceversa" venga stiracchiato in maniera inverosimile. Eppure, proprio per questo ho trovato Glass la degna conclusione della trilogia, un divertissement simpatico nonché il ribaltamento di Unbreakable, poiché qui si parte dalla convinzione dell'esistenza dei supereroi per cercare di ridimensionarli e portarli coi piedi per terra. Alla Dottoressa Staple viene infatti accollato l'ingrato compito di smontare pezzo per pezzo sia le convinzioni di Elijah Price che le manie di grandezza dell'Orda, l'allegro trio composto da Dennis, Patricia ed Hedwig convinti dell'esistenza della Bestia; ovviamente, la mente più permeabile, quella che già diciannove anni fa metteva in discussione la propria natura di supereroe, è quella di David Dunn, ormai rimasto vedovo ma con accanto il figlio Jacob, che come sempre lo adora. Altro non dirò sulla trama, ché sarebbe una bestemmia, tuttavia vorrei spendere due parole su quello che ho più apprezzato di Glass e cioé il palese desiderio Shyamalano di inserire in un contesto reale tutti i cliché dei fumetti supereroistici, anche i più inverosimili. Se in Unbreakable questi stilemi erano inseriti ma solo lo spettatore attento poteva coglierli, qui vengono sbattuti in faccia al pubblico e alla Dottoressa Staple, tanto che è impossibile infilare la testa sotto la sabbia e fingere di non vederli: c'è la prosecuzione di una origin story, con tutti gli improbabili collegamenti del caso, ci sono un sidekick, un'eminenza grigia, una bella che riesce a placare la bestia, l'idea di una love story tormentata, gli spiegoni interminabili dei villain, scontri finali (i cosiddetti showdown, che noi forse chiameremmo "resa dei conti" e che qui, per colpa di un adattamento scellerato che ha tradotto persino "comic books" con libri DI fumetti - albi a fumetti pareva brutto?- acquisisce un'accezione tortuosissima), momenti in cui si mescolano le alleanze, mentori e persino personaggi secondari talmente stupidi da fare il giro, imbarazzanti quanto la cosiddetta "sicurezza" di un centro di igiene mentale espugnabile persino da un bimbo di 5 anni.


Tutto questo può apparire ridicolo, fuorviante, sicuramente da l'impressione di appesantire il racconto, eppure la spiegazione ad ogni cosa, anche quelle apparentemente fuori posto, viene fornita in un dialogo rivelatore, che conferma M. Night Shyamalan come uno dei migliori illusionisti cinematografici (o, se siete detrattori fino in fondo, ancora peggio di me, uno dei peggiori "venditori di fumo e merda" dell'industria - cit.-) e, per quanto continui a volergli male per roba come Lady in the Water, E venga il giorno e The Last Airbender, uno degli autori più coerenti in circolazione. Quando Shyamalan ha un'idea, state pur certi che la porterà fino in fondo e Glass, con tutti i suoi difetti, è il frutto di questa determinazione testarda, il che mi porta a stimarlo a prescindere. Poi, ovviamente, ci sono tutti i rimandi ai film precedenti, a partire da quei colori che diventano sempre più pallidi, mescolati al grigiore della realtà, a mano a mano che i protagonisti perdono di fiducia in se stessi... e poi c'è James McAvoy, che giustamente si becca il primo posto nei credits. Ora, dopo aver guardato Split in originale non c'è doppiatore che tenga, quindi mi riservo di riguardare anche Glass in lingua, appena sarà disponibile, tuttavia adoro il modo in cui l'attore cambia nel giro di un secondo il linguaggio del corpo, la postura, lo sguardo, adattandosi ad abiti e situazioni differenti senza mai cadere nel ridicolo e trasformandosi letteralmente nelle 24 diverse personalità che abitano il corpo di Kevin. Samuel L. Jackson, muto per buona parte del film, non si lascia mettere i piedi in testa dall'inglesotto, ci mancherebbe, e basta con la sua sola carismatica presenza a ridurre al silenzio o all'incredulità persino la Bestia, mentre il povero Bruce Willis è penalizzato sia dal ruolo ai margini riservato a Dennis Dunn (quello di silente e poco convinta nemesi) sia da un paio di riprese ravvicinate nei momenti più concitati, che spezzano la tensione e la gloria dei corpo a corpo presenti nel film. Sarà che Bruccino ormai non è più Unbreakable come un tempo? A prescindere dalla vecchiaia di colui che comunque è e sarà sempre un grandissimo figone, sta di fatto che durante la visione di Glass mi sono divertita, entusiasmata e parecchio commossa quindi direi che, pur non potendo ancora testimoniare il ritorno di Shyamalan, se non altro posso affermare che Shyabadà, anche stavolta, è rimasto a casa. Al prossimo showdown, caro il mio indianino megalomane!


Del regista e sceneggiatore M.Night Shyamalan, che interpreta anche Jai, ho già parlato QUI. James McAvoy (Patricia / Dennis / Hedwig / La Bestia / Barry / Heinrich / Jade / Ian / Mary Reynolds / Norma / Jalin / Kat / B.T. / Kevin Wendell Crumb / Mr. Pritchard / Felida / Luke / Goddard / Samuel / Polly), Bruce Willis (David Dunn), Samuel L. Jackson (Elijah Price), Anya Taylor-Joy (Casey Cooke), Sarah Paulson (Dr. Ellie Staple) e Spencer Treat Clark (Joseph Dunn) li trovate invece ai rispettivi link.

Charlayne Woodard interpreta Mrs. Price. Americana, ha partecipato a film come La seduzione del male, The Million Dollar Hotel, Unbreakable - Il predestinato e a serie quali Pappa e ciccia, Willy il principe di Bel Air, Frasier, E.R. Medici in prima linea e Medium. Ha 65 anni.


Neanche da dire, non andate a vedere Glass senza prima aver recuperato Unbreakable - Il predestinato e Split. sono due film molto belli, soprattutto il primo, quindi non ve ne pentirete a prescindere. ENJOY!


domenica 13 gennaio 2019

Bird Box (2018)

Inaspettatamente, prima della fine dell'anno Netflix ha messo a segno un altro colpaccio mettendo in catalogo Bird Box, diretto nel 2018 dalla regista Susanne Bier e tratto dal romanzo La morte avrà i tuoi occhi di Josh Malerman.


Trama: il mondo viene funestato da un'epidemia di suicidi causati da misteriose entità. Tra i pochi sopravvissuti c'è Malorie, madre di due bambini assieme ai quali tenta una disperata traversata alla cieca lungo il fiume...



Netflix fa una pubblicità spudorata a rumenta come Sabrina e poi lascia passare gioiellini come Bird Box in secondo piano, al punto che se non avessi letto della presenza di Sarah Paulson nel cast probabilmente non avrei nemmeno dato una chance al film di Susanne Bier. Poi l'ho guardato, ho scoperto che c'era anche John Malkovich e ovviamente ho ri-bestemmiato contro Netflix. Detto questo, Bird Box è un inquietante horror post-apocalittico che priva i personaggi principali di uno dei cinque sensi, rendendo ancora più ardua la sopravvivenza. Benché il romanzo da cui è tratto risalga al 2014, è inevitabile pensare subito a A Quiet Place, all'interno del quale i protagonisti venivano messi in pericolo dai suoni, ma la mente durante la visione è corsa anche al quasi sconosciuto ma pregevole From Within; all'interno di Bird Box, infatti, chi utilizza la vista rischia di scorgere qualcosa di terribile che lo spinge a suicidarsi e i personaggi sono dunque costretti a rimanere chiusi in casa con le finestre oscurate oppure tentare una fuga disperata con gli occhi bendati, a rischio di finire malissimo sia che si incroci lo sguardo con le creature invisibili sia che ci si rompa l'osso del collo perché impossibilitati a vedere (cosa che, per inciso, non succede a nessuno, un'ingenuità a livello di trama che effettivamente fa un po' sorridere visto che, io per prima, come minimo sarei volata in un dirupo). In tutto questo, la protagonista è una donna incinta dotata dello stesso senso materno che potrei avere io la quale, già provata dalla sua indesiderata condizione, si ritrova a un certo punto a dover garantire la sopravvivenza sua e di ben due bambini e ad affrontare scelte che la renderebbero ancora meno umana delle creature che danno loro la caccia. La storia di Malorie e dei sue due figli viene narrata con una serie di flashback che fungono da intermezzo per la loro  fuga disperata verso la salvezza, affidata alla corrente di un fiume, scelta narrativa che divide il film in due "generi" ideali: il survival apocalittico in senso stretto e qualcosa di più simile al The Mist di Stephen King, all'interno del quale fanno più paura le dinamiche che intercorrono tra i sopravvissuti piuttosto che la minaccia che li affligge.


La bellezza di Bird Box, dunque, risiede non solo nella storia ma anche nel modo in cui vengono tratteggiati i vari personaggi. Mi verrebbe da dire che il tocco femminile alla regia si percepisce, perché la protagonista viene costretta ad affrontare se stessa prima ancora che la minaccia sovrannaturale incombente ma anche perché persino i personaggi secondari hanno qualcosa da dire, come per esempio un John Malkovich sopra le righe ma capace di regalare almeno un interessante confronto a base di "saggezza popolare", per non parlare dei primi piani di due bimbi tanto espressivi quanto disperati e del modo in cui Sandra Bullock si rapporta con loro. L'attrice, poi, è bellissima e brava come non mai. Il personaggio di Malorie è infatti una protagonista nella quale ci si può ritrovare sotto molti aspetti, è eroica ma anche umanissima ed imperfetta, oltre ad essere pervasa da un dolore che la spinge a comportarsi da stronza persino con i due bambini che si è ritrovata tra le mani, un "boy" e una "girl" ai quali viene letteralmente impedito di affezionarsi alla madre, fino a rischiare inevitabili, nefaste conseguenze. In generale, comunque, mi è parso che ogni dialogo, ogni gesto, ogni interazione non fosse lasciata al caso e il risultato è che, oltre ad avere il cuore in gola durante le sequenze più concitate e prettamente horror (e ce ne sono moltissime), di tanto in tanto guardando Bird Box si riesce anche a riflettere e a commuoversi, soprattutto sul delicato finale che, mi si dice, è molto diverso da quello del libro. Quindi il mio consiglio è quello di recuperare Bird Box per incominciare l'anno cinematografico su Netflix nel migliore dei modi!


Di Sandra Bullock (Malorie), John Malkovich (Douglas), Sarah Paulson (Jessica), Jacki Weaver (Cheryl), Tom Hollander (Gary), Pruitt Taylor Vince (Rick) e David Dastmalchian (Predone che fischia) ho parlato ai rispettivi link.

Susanne Bier è la regista del film. Danese, ha diretto film come Non desiderare la donna d'altri, Dopo il matrimonio, In un mondo migliore e Love Is All You Need. Anche sceneggiatrice, produttrice e attrice, ha 58 anni.


Machine Gun Kelly (vero nome Colson Baker) interpreta Felix.  Rapper americano, ha partecipato a film come Nerve e Viral. Anche compositore e produttore, ha 28 anni e quattro film in uscita.


Parminder Nagra interpreta la dottoressa Lapham. Inglese, la ricordo per film come Sognando Beckham, inoltre ha partecipato a serie quali E.R. Medici in prima linea e Agents of S.H.I.E.L.D.. Ha 43 anni e un film in uscita.


Se Bird Box vi fosse piaciuto recuperate The Mist e A Quiet Place. ENJOY!



martedì 31 luglio 2018

Ocean's 8 (2018)

Per una volta il cinemino albisolese mi è venuto in soccorso e domenica sera sono riuscita a vedere Ocean's 8, diretto e co-sceneggiato da Gary Ross, alla faccia delle ferie del multisala savonese.


Trama: dopo essere uscita di prigione, Debbie Ocean organizza un audace colpo al Metropolitan Museum di New York.


Doverosa premessa: sono passati 17 anni da Ocean's Eleven e io credo di non averlo mai più riguardato dopo quella lontanissima sera al cinema del 2001, ergo se sperate che durante la visione di Ocean's 8 abbia colto non solo i riferimenti al suo predecessore (salvo il nome Danny Ocean, grazie al piffero!) ma anche le somiglianze a livello di trama (c'era un cinese acrobata anche lì mi pare, giusto?) cascate malissimo e, sempre in virtù di ciò, non riuscirei nemmeno a confrontare la qualità dei due film. Di fatto, non sono andata a vedere Ocean's 8 per una sorta di nostalgia o per vedere "come mi avessero rovinato l'infanzia anche se all'epoca avevo già 20 anni" ma solo per il cast zeppo di attrici che adoro, salvo la Bullock, e perché in generale mi piacciono gli heist movies, come ama chiamarli oggi la critica, benché quelli americani finiscano per assomigliarsi un po' tutti. Come da programma, quindi, sono andata al cinema giusto per godermi un furto perpetrato da un gruppo di donne cool e quello ho avuto, niente di più e niente di meno; Ocean's 8 fila dritto e liscio dall'inizio alla fine, con qualche complicazione all'acqua di rose, un paio di garbati "colpi di scena", una lunga e necessaria introduzione per presentare tutte le otto protagoniste e qualche forzatura della trama che probabilmente sfuggirà agli spettatori meno spaccapalle e che, effettivamente, in questo genere di pellicola deve necessariamente finire in secondo piano. Si potrebbe definire Ocean's 8 un film "leggero", un divertissement estivo che lascia il tempo che trova, non entusiasmante quanto ci si potrebbe aspettare da un ensemble di prime donne potenzialmente carismatico e quindi facilmente dimenticabile nel giro di un paio di settimane o anche meno, con parecchie potenzialità sprecate e fiaccato da una mancanza di coraggio imperdonabile. Banalmente, giusto per fare un esempio, manca un villain degno di questo nome (oh, quanto avrei sperato che "qualcuna" facesse il doppio gioco, invece ciccia, bisogna accontentarsi di una sciapa vendetta ai danni di un povero sfighé...), manca un po' di sano pericolo, manca, per citare Alex De Large, una sana dose di ultraviolenza e un po' di dolce su e giù i quali, se non rammento male, mancavano anche nei vari Ocean's precedenti ma perlomeno c'era l'umorismo guascone e fighetto di Clooney e compagnia a farla da padrone.


Ocean's 8 è invece un vorrei ma non posso. Non so come spiegarmi al meglio ma pare davvero pensato e realizzato "solo" per un pubblico femminile, a partire da quelle sequenze palesemente imperniate su lusso e glamour, fatte di gioielli da sogno e abiti da capogiro, come se le spettatrici stessero sfogliando una di quelle riviste alla Vanity Fair invece di vedere un film; non è che le protagoniste non siano carismatiche, intelligenti o toste, però mi è sembrato che queste tre caratteristiche fossero subordinate ad una superficialità concretizzata nell'apparenza, in sogni di evasione fatti di cinema, gossip, lavori a contatto col mondo della moda ecc. e questo non accadeva in Ocean's Eleven, fatto per piacere e divertire a partire dal "gender" dello spettatore. Detto questo, le donne che passano sullo schermo sono effettivamente lontane anni luce da noi povere mortali quindi forse ci sta che alle spettatrici venga lasciata giusto la possibilità di sognare. La boss Sandra Bullock non ha il carisma del "fratello" George Clooney ma comunque il personaggio di Debbie Ocean è un perfetto esempio di criminale veterana che riesce a farsi rispettare dal gruppo pur mantenendo i suoi piccoli segretucci, ed è degnamente spalleggiata da una Cate Blanchett alla quale vengono riservate le mise migliori nonostante la sua Lou non spicchi come dovrebbe, vincendo la palma di co-protagonista sprecata e tenuta stupidamente nell'ombra; divertentissima Anne Hathaway nei panni di un'attrice oca, ignorante e superba, un ruolo sciocchino che tuttavia l'attrice interpreta con incredibile grazia, e sorprendente Rihanna che risulta una gnocca colossale anche conciata come l'ultima delle streppone di Piazza del Popolo (con l'unico difetto di un adattamento italiano imbarazzante, come sempre accade quando si è costretti a riportare uno slang "cciofane"), mentre Helena Bonham Carter passa alla cassa senza impegnarsi più di tanto, portando a casa la solita interpretazione da weirdo un po' attempata. La Paulson, il motivo principale che mi ha spinta al cinema, è invece una signora come sempre, attrice tra le più duttili esistenti, brava sia nei ruoli drammatici che in quelli leggeri come questo. Definirla passepartout non le rende giustizia, visto tutto il bene che le voglio, sta di fatto che ogni volta che la vedo a me pare perfetta e calzante, a prescindere dal ruolo. In soldoni, quindi, non è che Ocean's 8 sia un brutto film ma forse è un po' anonimo e piatto, incapace di sfruttare al meglio tutti gli elementi positivi di cui è dotato, un budget della Madonna e un incredibile cast in primis. E poi, mi chiedo: ma perché Richard Armitage è figo solo quando fa il nano?


Del regista e co-sceneggiatore Gary Ross ho già parlato QUI. Sandra Bullock (Debbie Ocean), Griffin Dunne (Responsabile libertà vigilata), Cate Blanchett (Lou), Elliott Gould (Reuben), Richard Armitage (Claude Becker), Anne Hathaway (Daphne Kluger), Helena Bonham Carter (Rose Weil), Dakota Fanning (Penelope Stern), Sarah Paulson (Tammy) e James Corden (John Frazier) li trovate invece ai rispettivi link.

Mindy Kaling interpreta Amita. Americana, ha partecipato a film come 40 anni vergine, Una notte al museo 2 - La fuga e Facciamola finita, come doppiatrice ha lavorato invece in Cattivissimo me, Ralph Spaccatutto ed Inside Out. Anche produttrice, sceneggiatrice e regista, ha 39 anni e un film in uscita.


Rihanna (Robyn Rihanna Fenty) interpreta Palla Nove. Nativa delle Barbados, ovviamente famosissima come cantante, ha partecipato a film come Battleship, Facciamola finita, Valerian e la città dei mille pianeti e a serie come Bates Motel; come doppiatrice ha lavorato in Home - A casa. Anche regista, sceneggiatrice e produttrice, ha 30 anni.


Tra le celebrità che hanno partecipato non accreditate nel ruolo di loro stesse ci sono Katie Holmes, Kim Kardashian, Jaime King, Olivia Munn, Serena Williams, Anna Wintour e Common; tra quelle che invece "non ce l'hanno fatta" ci sono Jennifer Lawrence, rimpiazzata da Anne Hathaway a causa di impegni pregressi, ed Elizabeth Banks. Siccome Ocean's 8 è lo spin-off di Ocean's Eleven - Fate il vostro gioco, se il genere vi piace recuperatelo e aggiungete Ocean's Twelve, Ocean's Thirteen e magari anche Colpo grosso e The Italian Job. ENJOY!

martedì 6 febbraio 2018

The Post (2017)

Domenica è giorno dedicato al cinema in sala e per l'occasione cosa è meglio di The Post, l'ultimo film diretto da Steven Spielberg e candidato a due Oscar (Miglior Film e Meryl Streep Miglior Attrice Protagonista)?


Trama: durante la presidenza Nixon una "talpa" diffonde le prove di come almeno quattro presidenti americani abbiano mentito relativamente a motivi e successi legati al conflitto in Vietnam. E mentre il Congresso si impegna per imbavagliare la stampa, la proprietaria del Washington Post e il suo editore alzano la testa non solo per amore di scoop...


Ah, il Vietnam! Ah, la presidenza Nixon! Probabilmente il binomio di questi due elementi rappresenta per ciascun americano "liberale" il peggiore degli spauracchi ma la verità è che, scavando neppure troppo in profondità, si viene a scoprire che nemmeno il "pistolero" JFK era esente da critiche e lo stesso vale per tutti e quattro i presidenti americani coinvolti nel conflitto vietnamita. The Post, l'ultimo film di Steven Spielberg, parte dal ritrovamento e conseguente diffusione di documenti compromettenti ed affermanti quanto sopra, i cosiddetti Pentagon Papers, per analizzare altre questioni spinose, dall'ovvia punta dell'iceberg rappresentata dalla lotta tra stampa e potere fino ad arrivare a toccare temi quali il conflitto d'interesse legato a questioni di amicizia/prestigio e persino il ruolo della donna nei luoghi di potere. Quest'ultimo punto in particolare mi ha colpita, soprattutto perché la questione della parità dei sessi è argomento di grande attualità. In The Post abbiamo due protagonisti, l'editrice del Washington Post Kay Graham e il direttore Ben Bradlee, ognuno impegnato sullo stesso fronte ma con due approcci ben diversi; quello di Ben, cosiddetto "pirata" del Post, è l'atteggiamento del giornalista rampante sempre a caccia di notizie succulente, mentre Kay deve fungere da mediatore tra pubblico, giornalisti e azionisti di una società appena presentata in Borsa, oltre a dimostrare costantemente di poter lavorare agli stessi livelli del padre e del defunto marito. Se quello di Ben è quindi un personaggio a tutto tondo ma comunque archetipico, così non è per Kay, apparente "oca grassa" dell'alta società, incapace (vuoi per timidezza, vuoi perché asservita al ruolo di donna imposto dalla società) di prendere decisioni sovversive, alla quale il paraocchi viene tolto molto lentamente nonostante le sue intelligenza e cultura elevate. Il dramma umano di Kay viene posto su un piano parallelo ma equivalente a quello dell'intera indagine giornalistica e i due aspetti del film lavorano in perfetta sinergia per offrire allo spettatore sia l'emozione di un'inchiesta seria, con echi da spy story e legal drama, sia quella di godersi un interessante racconto di formazione che evidenzia con garbo ma anche decisione la stupida disparità tra i sessi, promulgata spesso dalle stesse donne. Al di là delle tristissime dichiarazioni dei consiglieri di Kay e dell'appassionante monologo di Sarah Paulson, sono proprio gli atteggiamenti remissivi ed indecisi della facoltosa editrice e molti eventi di mero contorno a dare un quadro chiaro del terreno minato in cui erano costrette a muoversi donne potenti come la protagonista, considerate dai più nient'altro che bambine desiderose di fare "le grandi" senza tuttavia esserne in grado.


Non è "solo" la sceneggiatura (alla quale ha messo mano Josh Singer, lo stesso de Il caso Spotlight), ma anche la regia di Spielberg a fare emergere questo aspetto apparentemente secondario, attraverso inquadrature che separano le "brave mogli" dai mariti impegnati, lasciandole spesso sole in mezzo ad un lusso tanto simile a una gabbia, relegandole a figure di sfondo finché a qualcuna non viene in mente di alzare lo sguardo, rubare letteralmente la scena, porsi al centro della stessa calamitando in toto l'attenzione dello spettatore. E' lo stesso Spielberg che ha realizzato il film in nove, impensabili mesi riuscendo comunque ad omaggiare la settima arte (il film finisce praticamente nello stesso identico modo con cui inizia Tutti gli uomini del presidente), a confezionare sequenze dinamiche ed esaltanti (tutte quelle che tirano fuori il fuoco creativo di una redazione in fermento, con quei giri di macchina circolari e le carrellate rapidissime), altre fatte di pura paranoia (quelle che vedono impegnato Bob Odenkirk, ripreso a notevole distanza, o sovrimpongono la vera voce di Nixon alla sua immagine ripresa dietro le mura sicure della Casa Bianca), altre incredibilmente affascinanti (la cinepresa che entra letteralmente nel cuore del processo di stampa del Washington Post), altre infine di deliziosa leggerezza, ché il timbro di The Post è anche molto ironico, per fortuna. E poi ci sono gli attori, ovviamente. L'unico difetto "fastidioso" di The Post, ma non solo di questo film ahimé, è la reiterata e scellerata scelta di relegare l'adorabile Sarah Paulson in ruoli di secondo piano e per fortuna che le è stato "regalato" il monologo più bello del film altrimenti se fossi stata costretta a vederla impegnata solo a fare panini mi sarei messa ad urlare. Per il resto, Tom Hanks e Meryl Streep sono bravissimi come al solito ed effettivamente lei porta a casa l'ennesima interpretazione da applauso (che tuttavia non ho potuto godere appieno, filtrata ovviamente dal doppiaggio italiano) ma anche il cast di supporto non è affatto male e, in particolare, il Ben Bagdikian di Bob Odenkirk è decisamente sublime, oltre che l'unico personaggio ad essere riuscito a farmi venire un lieve groppo alla gola. Come già ne Il ponte delle spie, dunque, ci si trova davanti uno Spielberg impegnato ma "lieve", pronto a raccontare una storia vera e tremendamente seria, nonché importante, assecondando comunque le esigenze di spettacolo e facendo riflettere il pubblico coinvolgendolo come solo lo zio Spilby sa fare. E per questo non posso che volergli bene!


Del regista Steven Spielberg ho già parlato QUI. Meryl Streep (Kay Graham), Tom Hanks (Ben Bradlee), Sarah Paulson (Tony Bradlee), Bradley Whitford (Arthur Parsons), Bruce Greenwood (Robert McNamara), David Cross (Howard Simons), Pat Healy (Phil Geyelin) e Michael Stuhlbarg (Abe Rosenthal) li trovate invece ai rispettivi link.

Bob Odenkirk (vero nome Robert John Odenkirk) interpreta Ben Bagdikian. Americano, famoso per il ruolo di Saul Goodman/Jimmy McGill nelle serie Breaking Bad e Better Call Saul, ha partecipato a film come Fusi di testa 2 - Waynestock, Il rompiscatole, Nebraska, The Disaster Artist e ad altre serie quali Pappa e ciccia, Una famiglia del terzo tipo, Perfetti... ma non troppo, Weeds, How I Met Your Mother e Fargo; come doppiatore ha lavorato in Futurama e American Dad!. Anche sceneggiatore, produttore e regista, ha 56 anni e un film in uscita, Incredibles 2.


Tracy Letts interpreta Fritz Beebe. Americano, ha partecipato a film come La grande scommessa, Christine, Lady Bird e a serie quali Quell'uragano di papà e Prison Break. Anche sceneggiatore e produttore, ha 53 anni.


Jesse Plemons interpreta Roger Clark. Americano, ha partecipato a film come Paul, The Master, Black Mass - L'ultimo gangster, Il ponte delle spie e a serie quali Walker Texas Ranger, Sabrina vita da strega, CSI - Scena del crimine, Grey's Anatomy, Cold Case, Breaking Bad, Fargo e Black Mirror. Ha 30 anni e due film in uscita, tra i quali The Irishman.


Tra le mille comparse, spunta la figlia del regista Sasha Spielberg, ovvero la donna che consegna la scatola coi documenti al Washington Post. Se The Post vi fosse piaciuto recuperate Tutti gli uomini del presidente, Il caso Spotlight e Il ponte delle spie. ENJOY!


domenica 17 gennaio 2016

Carol (2015)

La prima settimana di "superlavoro" pre-Oscar si conclude con la visione di Carol, diretto nel 2015 dal regista Todd Haynes e tratto dal romanzo omonimo di Patricia Highsmith, già pubblicato sotto pseudonimo nel 1952 col titolo The Price of Salt. Prima di andare avanti vi invito a leggere le splendide recensioni di Lucia e Silvia, alle quali il mio post non sarà neppure degno di baciare i piedi.


Trama: nella New York degli anni '50 due donne si incontrano e a poco a poco s'innamorano. Therese è una giovane commessa che aspira a diventare fotografa, fidanzata con un uomo che vorrebbe sposarla, mentre Carol è già madre e in procinto di divorziare da un marito che non accetta il suo stile di vita. Le due partiranno per un viaggio alla scoperta di sé stesse e del loro legame...


Siccome i due post che vi ho linkato su contengono tutto ciò che dovete sapere per poter fruire al meglio di un film come Carol, compresi indispensabili chiarimenti su alcuni aspetti tecnici e alcuni retroscena legati al romanzo di Patricia Highsmith che, purtroppo e molto colpevolmente, non ho mai letto, qui mi limiterò a raccontarvi come mai il film di Haynes mi sia piaciuto molto e perché non lo ritenga affatto freddo come si legge praticamente ovunque in questi ultimi giorni. Di Carol ho adorato proprio il modo sussurrato, progressivo ma inequivocabile col quale il sentimento tra le due protagoniste nasce e si consolida dopo un incontro casuale durante il quale al regista basta inquadrare un gioco di sguardi per esprimere tutta la sorpresa e la curiosità di un sentimento improvviso e inaspettato ma anche inconfondibile. Carol e Therese si piacciono fin dall'inizio, è palese. Magari la prima è più consapevole del significato di questo "piacersi" mentre Therese, lo svagato "angelo caduto dallo spazio", accoglie la cosa più come una sorta di fascinazione legata alla sua natura di aspirante fotografa oppure all'insoddisfazione di frequentare un fidanzato e degli amici beoni e poco stimolanti, chissà. Nessuno può sapere come nasce un amore, forse neppure le persone che lo stanno vivendo: sta di fatto che Carol e Therese si cercano, si piacciono, si capiscono e scelgono di andare contro tutto e tutti pur di assecondare ciò che probabilmente nasce come un capriccio e finisce per diventare un sentimento reale e ovviamente non accettato da tutti. La storia di Carol e Therese segue ritmi lenti, quasi oziosi e perché non dovrebbe? Le relazioni omosessuali non vengono quasi accettate neppure nel 2016 nonostante chi le viva sia consapevole di avere tutti i diritti di farlo, immagino quindi che negli anni '50 fosse ancora più difficile superare non solo i preconcetti della società ma anche i propri, quelli inculcati dalla famiglia e dall'ambiente in cui si era cresciuti: avrei trovato MOLTO fastidioso guardare Carol e vedere le due protagoniste consumarsi nel fuoco della passione come se fosse la cosa più naturale del mondo, senza dubbi né timidezza, senza il desiderio di sondare l'altra persona prima di lasciarsi andare. Così invece tutto è verosimile, oltre che molto dolce e intenso.


Questa dolcezza, questa calma voluta nasce da un profondo rispetto per l'opera di Patricia Highsmith, dall'alchimia perfetta delle due attrici protagoniste e dalla perfetta unione tra la perizia tecnica di Todd Haynes e la sua grande sensibilità, insieme all'utilizzo di una bellissima e commovente colonna sonora. Le immagini di Carol sono di una bellezza struggente, "sgranate" quasi come se l'Amore permeasse davvero l'aria nella quale sono immerse le protagoniste, come se la realtà circostante sparisse lasciandole sole, a viversi e cercarsi. La capacità del regista di "creare" il sentimento l'ho avvertita palpabile durante la ripetizione della stessa sequenza all'inizio e alla fine del film, che mi ha suscitato emozioni completamente differenti; quando Carol appoggia la mano sulla spalla di Therese durante un frettoloso ed imbarazzante congedo l'impressione che ho avuto era quella di un legame esistente ma non consolidato, mentre sul finale il gesto si carica di così tanti significati che ho fatto fatica a ricacciare indietro le lacrime. Quindi, ben venga il tanto vituperato lieto fine, per una volta. Quanto alle attrici, due meraviglie. Cate Blanchett è elegantissima, quasi divina, il suo sguardo e l'atteggiamento delle sue labbra dicono da soli più di mille, inutili righe di dialogo ma la vera rivelazione è una dolcissima Rooney Mara che a tratti mi è sembrata l'incarnazione di Audrey Hepburn. Rooney Mara vivacizza il film col suo atteggiamento da folletto curioso, agghindato con gli abiti più adorabili e belli mai visti in un film, e nel corso della pellicola il suo personaggio cresce, diventando più forte e meno inconsapevole ma non per questo meno amabile, tanto che a tratti verrebbe voglia di abbracciarla; non stupisce che anche quella stupenda megera di Sarah Paulson alla fine se ne innamori, almeno un pochino. Carol e Therese io me le voglio immaginare così, belle e felici fino alla fine dei loro giorni, chiuse nel loro piccolo appartamentino newyorkese o pronte per partire per l'ennesimo road trip, in barba alle convenzioni, agli avvocati, agli investigatori privati e ai musoni rompiscatole. D'altronde, il Cinema è fatto soprattutto per sognare, no?


Di Cate Blanchett (Carol Aird), Rooney Mara (Therese Belivet), Kyle Chandler (Harge Aird), Sarah Paulson (Abby Gerhard) e John Magaro (Dannie McElroy) ho già parlato ai rispettivi link.

Todd Haynes è il regista della pellicola. Americano, ha diretto film come Velvet Goldmine e Lontano dal paradiso. Anche sceneggiatore, produttore e attore, ha 55 anni e un film in uscita.


A Rooney Mara era già stato offerto il ruolo di Therese alla fine delle riprese di Millenium - Uomini che odiano le donne ma aveva rifiutato a causa dell'eccessivo affaticamento; era subentrata così Mia Wasikowska che ha però rinunciato per partecipare a Crimson Peak, cosa che ha consentito ad una riposata e bravissima Rooney Mara di tornare in pista! Detto questo, se il film vi fosse piaciuto recuperate Lontano dal paradiso. ENJOY!

Update: leggete anche il bellissimo articolo di Hell, QUI!

domenica 7 settembre 2014

Mud (2012)

Proseguendo col recupero dei film usciti la settimana scorsa arriviamo al pregevole Mud, diretto e sceneggiato nel 2012 (giusto per farvi capire a che livelli di distribuzione siamo in Italia...) dal regista Jeff Nichols.


Trama: due ragazzini incontrano su un'isola uno sconosciuto di nome Mud. Affascinati dai suoi racconti e dal sentimento d'amore che lo lega alla bellissima Juniper, i due ragazzi decideranno di aiutarlo a uscire da una situazione assai pericolosa...


Mud è un film particolarissimo che, a tratti, mi ha ricordato le atmosfere degli ultimi romanzi di Joe Lansdale, una strana storia di formazione che non si lascia andare ad eccessiva indulgenza nei confronti dei due giovani protagonisti né punta all'happy ending forzato. Tutto ruota attorno a Mud, un uomo misterioso, imbevuto di strane superstizioni, con lo stesso background dei due ragazzi che un giorno se lo trovano davanti su un'isola, armato di pistola e con una storia da raccontare che mescola amore e morte; impossibile, per Ellis e Neckbone, non rimanere affascinati da questo adulto così diverso da tutti gli altri, ancora in qualche modo bambino ma avvolto da quell'aura mitica che solo gli eroi, i criminali e i gatti randagi possono avere. A rimanere colpito da Mud è soprattutto Ellis, il vero protagonista della vicenda nonché vittima di una situazione familiare che a poco a poco si sta sfaldando. Sua madre e suo padre non si amano più come dovrebbero ed Ellis sta cominciando a capire che nulla è per sempre, che l'amore non è necessariamente eterno così come non lo sono la fanciullezza e i luoghi dove viene vissuta; di fronte a questa incombente consapevolezza il ragazzo si aggrappa a Mud e al sentimento profondo che lo lega a Juniper, donna bellissima e volubile, e si convince che aiutando i due innamorati anche la sua vita troverà il giusto binario e si riaggiusterà come per magia. Jeff Nichols confeziona una pellicola dolceamara, pregna di nostalgia e dal sapore antico, con personaggi che sembrano usciti da un film di Sam Pekimpah e che a tratti sembrano quasi irreali, come se fossero fantasmi del passato per nulla interessati ad adattarsi alla realtà moderna, mentre la vicenda dei due ragazzi ha lo stesso sapore dei libri che leggevamo da bambini, dove l'avventura poteva trovarsi persino nell'angolo subito dietro casa e serbava trionfi e pericoli in egual misura.


Visivamente, quello che colpisce di Mud è una fotografia splendida che racchiude in sé tutti i colori di una fine estate in un luogo di confine che dovrebbe essere l'Arkansas e che invece somiglia tanto alla Louisiana, col sole abbacinante che filtra tra gli alberi e si riflette sulle acque dei fiumi e sulle pelli dei serpenti. Jeff Nichols e la sua macchina da presa celebrano quest'incredibile natura attraverso immagini grandiose (stupenda quella degli uccelli in volo) che si mescolano a quelle più "squallide" dei motel, dei bar e dei piccoli paesi tipici della provincia americana o delle baracche galleggianti dove vivono Ellis e Neckbone, pronte a venire crivellate da colpi di fucile o inghiottite dal progresso che avanza inesorabilmente. Questa commistione di antico e nuovo viene mantenuta da un cast praticamente perfetto. Ai visi freschi ed accattivanti dei due giovani protagonisti si affiancano infatti quelli segnati e in qualche modo irreali di un Matthew McConaughey bello, scapestrato e cialtrone, una Reese Witherspoon talmente "stravolta" nel suo essere bionda e all-american da risultare quasi irriconoscibile e da un pugno di caratteristi schivi, violenti e perfetti, figure leggendarie anche nel loro essere fondamentalmente degli uomini sconfitti dalla vita (come il padre di Ellis, un favoloso Ray McKinnon). Jeff Nichols con Mud era stato nominato nel 2012 per la Palma d'oro a Cannes ed è un peccato che un film simile non abbia vinto questo o altri prestigiosi premi perché sicuramente ciò gli avrebbe concesso una distribuzione migliore e più rapida mentre ora, a ridosso dell'estate, rischia di non essere guardato che da un manipolo di spettatori. Siccome di film così ben fatti ed emozionanti se ne vedono ormai pochi cercate di fiondarvi nei cinema che lo proiettano o recuperatelo per una visione casalinga perché Mud merita davvero!


Di Matthew McConaughey (Mud), Reese Witherspoon (Juniper) e Sarah Paulson (Mary Lee) ho parlato ai rispettivi link.

Jeff Nichols è il regista e sceneggiatore della pellicola. Americano, ha diretto anche il film Take Shelter. Anche produttore e attore, ha 36 anni e un film in uscita.


Sam Shepard (vero nome Samuel Shepard Rogers) interpreta Tom. Americano, ha partecipato a film come I giorni del cielo, Fiori d'acciaio, Il rapporto Pelican, Codice: Swordfish, Cogan - Killing Them Softly, I segreti di Osage County e Il fuoco della vendetta. Anche sceneggiatore e regista, ha 71 anni e due film in uscita.


Ray McKinnon interpreta Senior. Americano, ha partecipato a film come A spasso con Daisy, Sommersby, Cose preziose, Un mondo perfetto, L'ombra dello scorpione, Apollo 13, Fratello dove sei?, Take Shelter e a serie come Roswell, Jarod il camaleonte, Nash Bridges, N.Y.P.D., X-Files e Sons of Anarchy. Anche sceneggiatore, produttore e attore, ha 57 anni.


Michael Shannon interpreta Galen. Americano, ha partecipato a film come Ricomincio da capo, Perl Harbour, Vanilla Sky, 8 Mile, World Trade Center, Take Shelter e L'uomo d'acciaio. Ha 40 anni e un film in uscita.


Tye Sheridan, che interpreta Ellis, era già stato figlio di Brad Pitt in The Tree of Life. Se Mud vi fosse piaciuto recuperate anche Re della terra selvaggia e Stand By Me - Ricordo di un'estate. ENJOY!

mercoledì 26 febbraio 2014

12 anni schiavo (2013)

Aspettando la fatidica notte degli Oscar sono riuscita a recuperare anche l'attesissimo 12 anni schiavo (12 Years a Slave), diretto nel 2013 dal regista Steve McQueen e tratto dall'omonima biografia di Solomon Northup.


Trama: Solomon Northup è un violinista di colore che viene rapito con l'inganno, privato dell'identità e venduto come schiavo. La sua terribile odissea testimonierà orrori indicibili e ben pochi momenti di serenità...


L'anno scorso c'erano Django Unchained e Lincoln a raccontare, ognuno a modo loro, la terribile vergogna dello schiavismo americano, quest'anno ci sono 12 anni schiavo e The Butler (per quanto quest'ultima pellicola affronti un tema diverso ma altrettanto vergognoso, quello della segregazione razziale), segno che l'America continuerà ancora per molti anni e, si spera, secoli a ricordare uno dei suoi momenti più bui. Steve McQueen è un englishman in New York, per così dire, e ciò gli ha consentito di realizzare 12 anni schiavo senza ricorrere a patriottismo o sermoni buonisti e focalizzando l'attenzione, molto semplicemente, su un uomo. Non sull'umanità in generale ma su un uomo anche troppo ingenuo e gentile che, suo malgrado e senza un perché, viene spogliato dell'identità, trasformato letteralmente in un oggetto e privato di una famiglia, di una casa, della dignità che dovrebbe essere propria di ogni essere umano. Senza fare sconti, il regista ci mostra il tortuoso cammino di Solomon Northup verso una libertà bramata ma irraggiungibile, un agghiacciante viaggio fatto di stupore, rabbia, paura, ribellione, diffidenza e, soprattutto, triste rassegnazione, dove non esistono eroi che si battono per una giusta causa ma solo persone crudeli o timorose e campi “minati” dove l'insidia si nasconde dietro ogni parola, ogni gesto, ogni sguardo. 12 anni schiavo è un film d'orrore ben più efficace di ogni pellicola di genere perché la morte e la paura diventano compagne di Solomon dal momento stesso in cui viene rapito e, automaticamente, si insinuano nell'animo dello spettatore che non può fare a meno di immedesimarsi nel protagonista e in tutti i suoi sfortunati compagni.


Steve McQueen costruisce un affresco soffocante ed inquietante e lo fa innanzitutto partendo dalle immagini, sia quelle terribili che si imprimono indelebilmente nella mente dello spettatore sia quelle di "raccordo". Mi ha particolarmente colpita, infatti, il modo in cui i luoghi dove viene condotto Solomon non vengano mai mostrati per intero; all'inizio vediamo una cella e il cortile di una prigione (con Washington che, beffardamente, si staglia sullo sfondo ad indicare quanto sia lontana ma allo stesso tempo vicina la salvezza), poi l'interno di un'imbarcazione e, soprattutto, l'acqua del fiume, ripresa in modo quasi ossessivo, dopodiché boschi, campi sterminati e interni di abitazioni. Gli occhi degli schiavi non si posano mai sul cielo o su orizzonti ampi, perché il loro mondo viene brutalmente delimitato dai confini imposti dal padrone e dalla consapevolezza di dover non vivere, ma sopravvivere un giorno dopo l'altro. Diversamente da quanto succedeva col pornografico La passione di Cristo, inoltre, McQueen non indugia sui corpi martoriati e frustati, sebbene il sangue non manchi, come conferma il terribile piano sequenza che documenta la punizione di Lupita Nyong'o, bensì si sofferma sulla violenza psicologica e sull'orrore di chi accetta simili atti come parte della propria quotidianità, come quando il protagonista viene lasciato appeso a una corda per l'intera giornata mentre alle sue spalle i bimbi giocano. Ad accompagnare queste sequenze scioccanti ce ne sono altre più "sottili" ma non per questo meno angoscianti e la mia preferita, in tal senso, è quella che mostra il confronto notturno tra Solomon ed il crudele Epps, costruita con maestria e degna di comparire nel più teso dei thriller per la sua capacità di lasciare lo spettatore col fiato sospeso.


Un'altra scena bellissima è quella in cui Solomon, finalmente, si unisce agli altri schiavi nel canto, forse per disperazione, forse perché ormai è riuscito a perdere completamente la sua individualità; il primo piano di Chiwetel Ejiofor è incredibilmente intenso e l'attore, bravissimo per tutta la durata della pellicola, qui tocca indubbiamente l'apice della sua interpretazione. Lo stesso vale per ogni attore presente in 12 anni schiavo, fenomenali tutti tranne Brad Pitt, che compare pochissimi minuti in un ruolo fondamentale ma esibendo un fastidiosissimo accento fasullo. Purtroppo lui è l'unica guest star a deludere perché, differenza di The Butler che sfoderava assi, re e regine come se piovessero, sprecandoli, in 12 anni schiavo anche i piccoli ruoli di Paul Giamatti, Paul Dano e Benedict Cumberbatch  diventano importantissimi ed indimenticabili. A farla da padrone e mangiarsi l'intero cast però è il cattivissimo, disgustoso Fassbender che, in tempo zero, è riuscito a farsi perdonare quello scherzo della natura che era The Counselor, ma anche le interpretazioni di Sarah Paulson (se Jessica Lange in American Horror Story le ha insegnato qualcosa, è stato come interpretare una stronza di prim'ordine!!) e della commovente Lupita Nyong'o sono a dir poco incredibili. Insomma, avrete capito che 12 anni schiavo è un film che mi è piaciuto molto e che ho apprezzato soprattutto, come già era successo con Dallas Buyers Club, per l'onestà con cui si rapporta allo spettatore, senza cercare di accattivarselo ma conquistandolo con una storia già di per sé terribile, che non necessita di essere "gonfiata" ulteriormente. Non è magari il capolavoro che mi aspettavo e patisce di qualche ingenuità, ma è sicuramente un film che VA visto, senza se e senza ma.


Di Dwight Henry (Zio Abram), Quvenzhané Wallis (Margaret Northup), Paul Giamatti (Freeman), Benedict Cumberbatch (Ford), Paul Dano (Tibeats), Michael Fassbender (Edwin Epps) e Brad Pitt (Bass) ho già parlato ai rispettivi link.

Steve McQueen (vero nome Steve Rodney McQueen) è il regista della pellicola. Inglese, ha diretto film come Hunger e Shame. Anche sceneggiatore, attore e produttore, ha 45 anni.


Chiwetel Ejiofor interpreta Solomon Northup. Inglese, ha partecipato a film come Love Actually, Melinda e Melinda, Serenity, I figli degli uomini, Parla con me, American Gangster, 2012 e Salt. Anche regista e sceneggiatore, ha 37 anni e due film in uscita.


Sarah Paulson (vero nome Sarah Catharine Paulson) interpreta la Signora Epps. Incredibile interprete di tre gloriose stagioni di American Horror Story, la ricordo per film come What Women Want, Bug, Serenity, The Spirit, Mud e altre serie come American Gothic, Nip/Tuck, Grey’s Anatomy e Desperate Housewives. Ha 40 anni e un film in uscita.   


Alfre Woodard interpreta la Signora Shaw. Americana, ha partecipato a film come S.O.S. Fantasmi, 4 fantasmi per un sogno, Mumford, Lost Souls – La profezia e a serie come Frasier, Desperate Housewives, Grey’s Anatomy e True Blood. Anche produttrice, ha 62 anni e tre film in uscita.


Garret Dillahunt interpreta Armsby. Americano, ha partecipato a film come Non è un paese per vecchi, L’ultima casa a sinistra, Cogan – Killing Them Softly, Looper- In fuga dal passato e a serie come NYPD, X-Files, Millenium, CSI: NY, The 4400, E.R. – Medici in prima linea, Numb3rs, Terminator: The Sarah Connor Chronicles, Criminal Minds, CSI – Scena del crimine e Lie To Me. Ha 50 anni e tre film in uscita.


Il film ha ottenuto ben nove nomination all'Oscar: miglior film, miglior attore protagonista, miglior attore non protagonista (Michael Fassbender), migliore attrice non protagonista (Lupita Nyong'o), migliori costumi, miglior regia, miglior montaggio, miglior scenografia e miglior sceneggiatura non originale. Leggenda vuole che il bravissimo Chiwetel Ejiofor abbia tentennato fino all'ultimo e rifiutato il ruolo di protagonista perché non si sentiva all'altezza, mentre la cattivissima Sarah Paulson è stata praticamente "scelta" dalla figlia del regista, inquietata dalla registrazione del suo provino. A parte queste facezie, se 12 anni schiavo vi fosse piaciuto, recuperate anche Django Unchained, The Help, The Butler - Un maggiordomo alla Casa Bianca, Amistad e magari lo storico sceneggiato Radici. ENJOY!!

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