giovedì 30 aprile 2015

K-Horror Day: Thirst (2009)


Aprile sta quasi finendo, quindi è tempo per un altro Day, nato stavolta da un interessantissimo progetto creato dal padrone di Obsidian Mirror. Sul blog in questione, da un mese a questa parte Obsidian sta sviscerando la saga horror Whispering Corridors (un post sul primo episodio, per la cronaca, lo trovate anche sul Bollalmanacco a queste coordinate), non solo con recensioni ma anche con interessanti articoli legati alla cultura e al folklore della Corea; per concludere dunque degnamente questo mega-speciale lungo un mese, Obsidian ha chiesto a noi blogger di dedicare un Day alla celebrazione del k-horror, ovvero l’horror coreano. Io ho aderito con l’affascinante Thirst (Bakjwi), diretto e co-sceneggiato nel 2009 dal regista Park Chan-Wook.


Trama: un prete decide di offrirsi come volontario per un esperimento che mira ad ottenere la cura per un virus mortale. L’uomo viene purtroppo infettato e muore ma una trasfusione lo trasforma accidentalmente in vampiro, risvegliando in lui una brama di sangue e un insano appetito per i piaceri della carne.



Tutto avrei pensato ma mai che un regista coreano si prendesse la briga di trasporre in chiave horror la Thérèse Raquin di Emile Zola. Se l’avessi immaginato o saputo, ovviamente, avrei riletto un romanzo che non apro dai tempi del liceo giusto per poter fare un confronto e arrivare più preparata a redigere questo post, invece vi toccherà subire l’ignoranza e la faciloneria tipiche di un concorrente di Avanti un altro e io farò finta di non aver mai cominciato la recensione di Thirst con questa affascinante premessa. Definire semplicemente la pellicola di Park Chan – Wook come una rilettura del romanzo di Zola oppure come un horror imperniato sulla figura del vampiro, comunque, sarebbe oltraggioso e riduttivo, visto che le più di due ore di pellicola offrono talmente tanti spunti di riflessione che servirebbe ben più di un breve post ignorante per parlarne. Innanzitutto, è interessante la scelta di spostare il fulcro della storia da “Thérèse” a “Laurent”, svestendo quest’ultimo dai panni dell’artista squattrinato e facendogli indossare quelli del prete. Padre Sang – Yeon è un giovane sacerdote cattolico, diventato tale forse non per vocazione ma semplicemente perché orfano e cresciuto da un altro prete; il suo compito principale è quello di raccogliere le confessioni dei fedeli ed elargire loro quel conforto che deriva semplicemente dal perdono, quella “remissione da ogni peccato” che, da non fervente cattolica, trovo quanto di più biasimevole, “comodo” ed ipocrita esista al mondo (anche Park Chan – Wook critica questo aspetto della religione cattolica, poi ci arriviamo). Giustamente, Sang – Yeon vorrebbe fare qualcosa di più utile e concreto per l’umanità e decide così di offrirsi come cavia per sperimentare un vaccino che dovrebbe contrastare un virus mortale; purtroppo l’esperienza finisce malissimo e Sang – Yeon muore ma in qualche modo una trasfusione di sangue fatta poco prima di spirare lo resuscita come vampiro. Come un novello Messia, Sang – Yeon torna a camminare tra i fedeli che, ovviamente, cominciano a richiedere miracoli e a considerarlo un santo, senza sapere che in realtà il povero prete non è un santo e non è più neppure umano, anzi, ha il suo bel da fare a tenere a bada le sue nuove pulsioni vampiriche… cosa che mi fa tornare, prima di proseguire esplorando il lato più “romantico” della vicenda, a quella feroce critica contro alcuni aspetti della religione cattolica di cui parlavo prima.


Sang – Yeon, una volta scoperta la sua natura di vampiro, comincia ovviamente a tormentarsi, schiacciato dall’impossibilità di conciliare le sue brame improvvise e la sua fede, quindi decide di affidarsi ai consigli di chi dovrebbe essere più competente e saggio di lui, ovvero il prete che lo ha cresciuto. Purtroppo questo anziano e cieco sacerdote predica bene ma razzola male e porta all'estremo quella convinzione, già fastidiosa di per se, di poter cancellare i peccati di una persona con una semplice parola di assoluzione e di poter adattare ad ogni situazione i dogmi del Vangelo (per esempio, secondo lui non è peccato che Sang - Yeon succhi sangue perché il Vangelo dice di mangiare per vivere e allo stesso modo gli dice che non è peccato amare e desiderare Tae - ju, basta solo che non si arrivi al rapporto fisico), arrivando fino al punto di provare a sfruttare il suo pupillo per i propri fini egoistici. Tutto questo terribile bailamme di profittatori, questuanti e consiglieri fraudolenti perlopiù cattolici porterà Sang – Yeon dritto tra le braccia di Tae – ju, la Thérèse Raquin della situazione nonché il personaggio più ambiguo ed interessante dell’intera pellicola; questa donna apparentemente timida e dimessa diventerà la causa principale della caduta di Sang – Yeon, insinuandosi nel debole cuore del sacerdote e minandone la forza di volontà prima attraverso i piaceri della carne, poi con bugie ed inganni sempre più pericolosi. Di regola, Tae – ju dovrebbe essere l’emblema della donna diabolica e corruttrice ma in realtà mi è sembrata una vittima tanto quanto Sang – Yeon, una ragazzina mai cresciuta del tutto e tenuta in uno stato di succube ignoranza da una matrigna severissima e da un marito senza palle, incapace persino di soffiarsi il naso; la ragazza, di fatto, non ha mai conosciuto l’amore (della famiglia, di un amante ma nemmeno di un amico), non è mai uscita dal negozio di stoffe gestito dalla matrigna e l’unica libertà che può concedersi sono le disperate corse a piedi nudi fatte la notte, di nascosto. E’ quindi comprensibile che Tae – ju cerchi in ogni modo di legarsi all’unica persona che abbia mai mostrato interesse per lei ma è altrettanto comprensibile il desiderio di liberarsene non appena la presenza di Sang – Yeon diventerà un ostacolo ai suoi desideri, alla sua ritrovata libertà e alla sua crudele ma infantile vendetta nei confronti della famiglia e dell'umanità intera.


Oddio, ho scritto un post lunghissimo, noiosissimo e sconclusionato. Purtroppo, come ho detto, liquidare Thirst in due righe non era possibile e mi sono lasciata trasportare sia dalla trama che dalla bellezza delle immagini che dimostrano, come al solito, quanto Park Chan – Wook sia un artista più che un semplice regista. Se devo essere sincera, l’estro di Park Chan – Wook si sbriglia soprattutto nella seconda metà del film, che diventa un delirio di visioni tra il grottesco e l’inquietante (quando il marito di Tae - ju comincia a spuntare dappertutto, portandosi dietro una scia d’acqua, ho creduto di morire dal ridere ma effettivamente la cosa mette anche i brividi…) e ricerca soluzioni registiche, scenografiche e di montaggio assai peculiari; la caccia all’interno di una casa ormai bianchissima ed asettica sulle cui pareti spiccano il rosso del sangue e il blu del bellissimo abito di Tae-ju, l’enigma rivelato dagli occhi e dal dito della matrigna ormai paralizzato (una sequenza che mi ha lasciata senza fiato nonostante sapessi benissimo quale fosse la soluzione del mistero), quel misto di sensazioni contrastanti provocate da quel triste e risolutivo tramonto alla fine sono tutti frammenti di un mosaico elegante e particolare che si sono conficcati nel mio cuore per non uscirne più. Park Chan – Wook si conferma ancora una volta uno dei miei Autori preferiti, uno dei pochi in grado di non lasciarmi indifferente e di trasformare le ore in minuti talmente veloci che è impossibile non essere presi dalla “sete” e volerne sempre di più! Se cercate un film di vampiri totalmente avulso da banalità e facilonerie assortite abbeveratevi alla fonte di un Maestro del cinema coreano, non ve ne pentirete!


E se ancora non vi basta, vi ri-segnalo lo speciale su Whispering Corridor di Obsidian Mirror, oltre ad aggiungere i link ai post degli altri partecipanti a questo K-Horror Day... ENJOY!

mercoledì 29 aprile 2015

Housebound (2014)

La terribile lentezza con la quale sono costretta a recuperare i film On Demand o il prossimo Special TV di Lupin mi porta a proseguire con la visione dei Best Horror 2014 segnalati da Lucia! Oggi tocca al neozelandese Housebound, diretto e sceneggiato nel 2014 dal regista Gerard Johnstone.


Trama: condannata agli arresti domiciliari, Kylie si ritrova a dover vivere per 8 mesi nella sua vecchia casa natale, assieme alla madre chiacchierona e al patrigno. Subito, Kylie si accorge che i due non sono gli unici abitanti della casa…



Come accade sempre più spesso, il divertimento e le sorprese arrivano o dall’Australia o, come in questo caso, dalla Nuova Zelanda, nazioni dove l’umorismo e l’horror si sposano con incredibile naturalezza. Housebound in particolare si prende gioco di tutti i cliché degli home invasion e soprattutto degli ormai diffusissimi film sulle case infestate, dove i protagonisti sono sempre girati di schiena nei momenti meno opportuni, mentre alle loro spalle passano ombre sinistre e pericolose, pronte a ghermirli in ogni momento. Se la vittima di tali entità è però una come Kylie, grezzissima ragazzotta che entra ed esce di prigione praticamente una volta all’anno, i fantasmi (o presunti tali) rischiano di trovarsi davanti un muro di scetticismo e persino di prendersi qualche cazzotto ben dato, con buona pace di tutti gli orsetti demoniaci e mani putrefatte che gli spiriti inquieti possono scagliarle contro. Ora, voi penserete che Housebound sia una supercazzola parodica della peggior specie ma in verità la pellicola di Gerard Johnstone dimostra di conoscere molto bene i meccanismi del genere e proprio per questo riesce a prenderli in giro eludendo allo stesso tempo le aspettative dello spettatore (fomentate da quei personaggi comuni in questo tipo di pellicola, come l’espertone di fenomeni paranormali, il vicino di casa ambiguo, ecc.), interessandolo comunque al destino dei protagonisti e persino mettendogli addosso qualche brivido, pochini a dire il vero ma sempre graditi. Johnstone non ricerca né la soluzione facile né l’umorismo d’accatto e Housebound si rivela una visione allegra ed entusiasmante, piena di personaggi interessanti che probabilmente avrebbero molto altro da dire, tanto che alla fine quasi si rimpiange di non poter passare un po’ più di tempo con loro.


La cosa che più mi è piaciuta di Housebound, al di là della sua intelligenza, è però la scelta degli attori. So benissimo che il film è ambientato in Nuova Zelanda, ma guardandolo mi è sembrato di ritornare in Australia, in quelle cittadine sonnacchiose dove la gente è simpatica e chiacchierona ma anche noiosa, ancorata ad abitudini “da anziani” e di un’ignoranza abissale; la linguacciuta madre di Kylie è un esempio perfetto di questo tipo di persona e lo stesso vale per il suo patrigno, silenzioso al punto da risultare quasi ostile, quando in realtà è semplicemente il suo carattere schivo a farlo comportare così. Gli unici due personaggi un po’ più “universali” nella loro rappresentazione sono Kylie, insofferente a tutte quelle caratteristiche che ho elencato sopra, e l’agente ciccionetto Amos, molto “americano” nel suo modo di affrontare la situazione; ho tuttavia apprezzato molto il casting di Morgana O’Reilly per il suo non essere eccessivamente bella, né magra né, soprattutto, raffinata, cosa che la rende automaticamente perfetta per il ruolo della protagonista. Per finire, ormai sapete tutti che ho un debole per la miriade di accenti con cui viene pronunciata la lingua inglese nelle diverse parti del mondo, quindi non mi stancherò mai di ripetere che per godere appieno di questo genere di film occorrerebbe armarsi di tanta pazienza e guardarli in lingua originale; in questo caso particolare, le caratteristiche degli attori, la personalità dei personaggi e le rispettive differenze saltano ancora più all’occhio e i vari scambi di battute risultano molto più divertenti e piacevoli di quanto sarebbero se doppiate in italiano. A parte questo sproloquio da nerd linguista, Housebound è davvero un film simpatico e merita una visione: se vi va una serata horror ma non siete in vena di cose troppo pesanti o splatter recuperatelo, ne vale la pena!

Gerard Johnstone è il regista e sceneggiatore della pellicola. Neozelandese, è al suo primo lungometraggio ed è anche attore.


So che probabilmente non ve ne fregherà nulla ma Cameron Rhodes, che interpreta Dennis, ne Il signore degli anelli - La compagnia dell'anello era l'hobbit che risponde spaventato al Nazgul dicendo che tutti i Baggins abitano a Hobbiville. Forse vi interesserà maggiormente sapere allora che la New Line ha comprato i diritti del film e che l'anno prossimo potrebbe purtroppo uscire un remake americano di Housebound; nell'attesa della probabile fuffa, se il film vi fosse piaciuto recuperate i demenziali film d'esordio di Peter Jackson, ovvero Fuori di testa e Splatters - Gli schizzacervelli, ai quali aggiungerei La casa nera di Wes Craven. ENJOY!

martedì 28 aprile 2015

Avengers: Age of Ultron (2015)

E finalmente anche io sono riuscita ad andare a vedere l'attesissimo Avengers: Age of Ultron, diretto e co-sceneggiato da Joss Whedon! Questa seconda avventura dei Vendicatori sarà stata all'altezza della prima? Segue recensione senza spoiler!


Trama: desideroso di proteggere la Terra, Tony Stark da inavvertitamente vita ad un programma senziente chiamato Ultron che, contrariamente alle aspettative del suo creatore, diventerà una pericolosissima minaccia per gli Avengers...


Nel 2012 The Avengers era stato il colpaccio definitivo della Marvel che, dopo una serie di film poco esaltanti dedicati ai singoli personaggi (a parte quelli di Iron Man), era riuscita ad imbroccare il giusto mix di azione, divertimento ed introspezione creando una pellicola a dir poco epica nel suo genere (e sottolineo nel suo genere, non stiamo a raccontarci di aver davanti un capolavoro della cinematografia mondiale). Logico pensare che le aspettative per questo Age of Ultron fossero alle stelle ma sarei una bugiarda se dicessi di averlo apprezzato quanto il suo blasonatissimo fratello maggiore. Il problema, neanche a dirlo, è una sorta di naturale ripetitività delle situazioni e il fatto che i personaggi, bene o male, fanno quello che ci si aspetta da loro, con conseguente perdita di quella sensazione di freschissima novità che mi aveva colpita come il pugno di Hulk durante la visione di The Avengers. Nonostante quest'inevitabile e soggettiva "perdita di meraviglia" mi sono però goduta alla grandissima Age of Ultron proprio per il fatto che avesse dentro tutto quello che volevo e che mi sarei aspettata da Joss Whedon, ovvero fantasmagoriche scene d'azione condite da abbondante morte e distruzione soprattutto durante le grandiose sequenze finali ambientate nell'immaginaria città di Sokovia (ma anche l'Hulk scatenato in Wakanda non scherza affatto, anzi!!), mirabolanti effetti speciali sempre più impressionanti e perfetti, ironia dosata in tempi e modi capaci di dare vita a piccole sequenze cult (al di là delle battute di Tony Stark, davanti alle quali bisogna sempre levarsi il cappello, quanto è mortale la gag del martello?), riferimenti nerd piazzati al punto giusto e senza esagerare e, soprattutto, un'innata capacità di dare a tutti i personaggi lo spazio necessario per esprimersi al meglio. Sotto i riflettori ci sono sì i "soliti" pezzi grossi Iron Man, Capitan America, Thor e Hulk che, come sempre, fanno faville, ma il bello di Age of Ultron è che questa volta c'è spazio anche per approfondire la personalità di personaggi "minori" ma non per questo meno affascinanti.


Joss Whedon ha giustamente sentito il bisogno di dare identità e coesione a questi Vendicatori che, ricordiamolo, non sono gli X-Men uniti da una causa comune ma un gruppo di egocentrici o solitari che perseguono ognuno i propri scopi; l'aspetto più intelligente di Age of Ultron nonché quello che lo diversifica a The Avengers è dunque la scelta di spingere questi eroi a scavare dentro sé stessi e mettersi in discussione rispetto al gruppo, mostrando lati inediti e sorprendenti di personaggi misteriosi come Vedova nera o Occhio di falco, dotati di abilità meno "eclatanti" rispetto a quelle dei loro compagni ma non per questo meno indispensabili alla squadra. Molto introspettivo è anche lo stesso Ultron, un Pinocchio 2.0 che appena nato è già colmo di risentimento e dolore nei confronti del suo un creatore e di una specie che vorrebbe sì salvare, ma a suo modo, portandola prima all'estinzione totale. Nonostante gli intenti grandiosi, questo nuovo villain a dire la verità è privo di quella caratteristica di "minaccia definitiva", di quell"aura potentissima" in grado di angosciare protagonisti e spettatori che lo avrebbe reso indimenticabile, però mi è piaciuto tantissimo per l'incredibile umanità che si riusciva a scorgere appena sotto la superficie metallica (d'altronde parliamo di James Spader, mica pizza e fichi). Sicuramente mi è piaciuto più del pur interessante ed ambiguo "fratello buono" Visione, che secondo me mostrerà tutto il suo potenziale nei prossimi film dedicati ai Vendicatori, e delle new entry Wanda e Pietro Maximoff; la Scarlet Witch ha dei poteri anche troppo somiglianti a quelli della Jean Grey degli X-Men (d'altronde, è anche vero che rendere visivamente qualcosa di potenzialmente invincibile e complicato come l'"alterazione delle probabilità" sarebbe stato un casino) ma la sua commovente ed esaltante evoluzione "Willowesca" verso il finale mi fa ben sperare per il futuro, mentre il povero sfighé Quicksilver perde pesantemente la sfida col suo omonimo di X-Men: Giorni di un futuro passato, nonostante sia sicuramente più vicino al Pietro cartaceo. Diffettucci a parte, posso quindi affermare tranquillamente che Whedon ce l'ha fatta anche stavolta e che continuerò a volergli bene ancora a lungo... oltre, ovviamente, ad aspettare con gioiosa e nerdissima trepidazione la prossima avventura degli Avengers!


Del regista e co-sceneggiatore Joss Whedon ho già parlato QUI. Robert Downey Jr. (Tony Stark/Iron Man), Chris Hemsworth (Thor), Mark Ruffalo (Bruce Banner/Hulk ma ovviamente la voce di Hulk trasformato è quella di Lou Ferrigno), Chris Evans (Steve Rogers/Capitan America), Scarlett Johansson (Natasha Romanoff/Vedova nera), Jeremy Renner (Clint Barton/Occhio di falco), James Spader (voce originale di Ultron), Samuel L. Jackson (Nick Fury), Don Cheadle (James Rhodes/War Machine), Aaron Taylor Johnson (Pietro Maximoff/Quicksilver), Paul Bettany (Jarvis/Visione), Cobie Smulders (Maria Hill), Anthony Mackie (Sam Wilson/Falcon), Hayley Atwell (Peggy Carter), Idris Elba (Heimdall), Stellan Skarsgard (Erik Selvig), Thomas Kretschmann (Strucker), Andy Serkis (Ulysses Klaue) e Josh Brolin (Thanos) li trovate invece ai rispettivi link.

Elizabeth Olsen (vero nome Elizabeth Chase Olsen) interpreta Wanda Maximoff/Scarlet. Sorella minore delle vajassissime gemelle Olsen, ha partecipato a film come Red Lights, Oldboy, Godzilla e Captain America: The Winter Soldier. Americana, ha 26 anni e film in uscita tra cui Captain America: Civil War, che dovrebbe uscire l'anno prossimo.


Julie Delpy interpreta Madame B. Francese, la ricordo per film come Killing Zoe, I tre moschettieri, Prima dell'alba, Un lupo mannaro americano a Parigi, Prima del tramonto, Broken Flowers e Before Midnight, inoltre ha partecipato a serie come E.R. Medici in prima linea. Anche sceneggiatrice, regista, produttrice e musicista, ha 46 anni e due film in uscita.


Linda Cardellini (vero nome Linda Edna Cardellini) interpreta Laura. Americana, la ricordo per film come Scooby - Doo, Scooby-Doo 2: Mostri scatenati e I segreti di Brokeback Mountain, inoltre ha partecipato a serie come Una famiglia del terzo tipo, Clueless, Una bionda per papà, E.R. Medici in prima linea e doppiato episodi di Robot Chicken. Ha 40 anni e due film in uscita.


Thanos avrebbe dovuto essere il villain della situazione al posto di Ultron ma giustamente Joss Whedon si è opposto e riusciremo a vederlo scatenarsi solo nel 2018 e 2019, quando usciranno i due film in cui sarà diviso Avengers: Infinity War che, tra l'altro, dovrebbero essere gli ultimi in cui comparirà Robert Downey Jr. nei panni di Iron Man; tagliato fuori da Age of Ultron anche Abominio, visto ne L'incredibile Hulk e interpretato da Tim Roth, che sarebbe dovuto tornare o come villain principale oppure come alleato del robottone. Dai personaggi che non ce l 'hanno fatta passiamo ora agli attori, con Saoirse Ronan che era stata brevemente presa in considerazione per il ruolo di Wanda Maximoff e Lindsay Lohan che non ha giustamente nemmeno passato l'audizione (bella Scarlet drogata!). Detto questo, pronti per il consueto riassuntone della continuity? Daje! Avengers: Age of Ultron segue Iron Man, L'incredibile Hulk, Iron Man 2, Thor, Captain America - Il primo vendicatore, The Avengers, Iron Man 3, Thor: The Dark World, Captain America: The Winter Soldier, Guardiani della Galassia e la serie Agents of S.H.I.E.L.D: se il film vi fosse piaciuto recuperateli e tenetevi pronti per l'arrivo di Ant-Man, Captain America: Civil War, Dottor Strange, Guardiani della Galassia 2, Thor: Ragnarok, Avengers: Infinity War - Part I, Avengers: Infinity War - Part 2 e probabilmente anche Pantera Nera. ENJOY!

domenica 26 aprile 2015

Bolle di ignoranza: Fruits of Passion (1981)

Torna la rubrica Bolle di Ignoranza, dove si parla essenzialmente di quei film che, per un motivo o per l’altro, non ho seguito come si deve, non ho avuto cuore di finire e non penso di recuperare per una seconda visione, soprattutto in questo caso particolare. In realtà questo post nasce per sfida, dal momento che chi ha avuto la sfortuna di incappare in questo “capolavoro” assieme a me ha esclamato “Ma mica lo recensirai sul blog, dai!!”. Ma come no?! State pronti al resoconto ignorante della mezza, scioccante visione di Fruits of Passion (Les fruits de la passion) diretto nel 1981 dal regista Shuji Terayama.

La locandina meno z0zza che ho trovato
Trama: per provare il suo amore ad un uomo ben più anziano di lei, una ragazza accetta di andare a lavorare in un bordello cinese mentre lui, per torturarla ulteriormente, si lega a un’altra donna…


Dietro c'è il ritratto di un goblin. Ma forse è sempre Klaus.
Il karma esiste. Qualche sera fa la TV era accesa e io, credendo di giocare un tiro mancino al mio compagno di visione (che d’ora in poi chiamerò Vittima) e costringerlo a beccarsi almeno una scena horror/splatter per non farlo dormire la notte, gli ho chiesto di cambiare canale e mettere su Cielo. Ovviamente, intendevo MTV o Italia 2, le due reti che solitamente al sabato deliziano lo spettatore con qualche supercazzola horror ma, come ho detto all’inizio, karma. Mi volto verso lo schermo col sorriso bastardo di chi già pregusta il godimento orrorifico e rimango di sale nel trovarmi davanti non già una testa mozzata, bensì una patata. E quando dico patata, non intendo un tubero. Ignoro lo “ah, peròòò!!!” di Vittima e mi avvicino rapida al telecomando per togliere l’immondo segno XXX nella parte alta dello schermo, mentre il piccolo membro del MOIGE che è in me urla furente “Sono le 21.30! I bambini! Perché non pensate ai bambiiiniii??”, quand’ecco che sullo schermo compare LUI. Klaus. Kinski. Con un’orrida parrucchetta giallo paglierino, un ventaglio e la faccia schifata di chi ha mangiato un chilo di letame. Il membro del MOIGE viene zittito dalla mia parte cinefila/trashofila, che subito fa scattare la ricerca su Imdb: Fruits of Passion, DRAMMATICO, di tale Shuji Terayama. E sì, quello è proprio Kinski. Quello che adesso si sta bombando, come se non ci fosse un domani ma sempre con la stessa faccia di chi ha mangiato un chilo di letame, una cavallona bionda (o si dice Wacca?) che sembra non averne mai preso uno in vita sua. Eeeew. (intanto Vittima, in barba alla mia cinefilia, è sempre più interessato all’opera, ma per altri motivi) Sicura di avere trovato IL film trash per eccellenza, rimango ancor più basita leggendo le recensioni dei vari utenti di Imdb che, forse per giustificare la tendinite seguita alla visione di siffatto capolavoro, ne magnificano la fotografia, la regia eclettica, persino la commozione suscitata in loro dalla storia di O. Storia di…? Dove ho già sentito questo titolo...? Mah. Bando alle ciance, gli utenti di Imdb potranno dire quel che vogliono ma questo è un soft core con velleità autoriali. E Kinski. Dai che ti ridai (come peraltro sta facendo Kinski. Eww) tutto questo bailamme di informazioni e disgustata fascinazione, per non parlare della natura giapponotta dell'opera, mi inchioda in poltrona per un’ora buona e io rimango lì, incapace di distogliere lo sguardo finché il disgustorama finale, condiviso da Vittima, non ha portato entrambi a spegnere la TV e giocare alla X-Box.

La poesia. L'arte. L'assenza di tuberi. 
Questo, ovviamente, era il preambolo. Segue ora il brevissimo resoconto dell’ “ora buona di disgustata fascinazione” e il mio enorme fangool agli utenti onanisti di Imdb. In pratica, c’è questa tizia francese perennemente nuda (salvo quando deve uscire di cas.. ehm, di bordello) che, con la morte nel cuore, la lacrima nell’occhio come Demetan, l’occhio spento e il viso di cemento, SCEGLIE di andare a lavorare in un bordello gestito da un travone, zeppo di prostitute cinesi una più caso umano dell'altra e, quel che è peggio, di vecchi, bavosissimi clienti gialli, solo per compiacere Klaus. Che passa tutto il tempo a fare il guardone, bombarsi donne (eew), sventolarsi col ventaglio e concertare inenarrabili “torture” psico-erotiche nei confronti di questa povera demente perennemente con la patata al vento (dico, ma un raffreddore mai?). Siccome pareva brutto far vedere solo (mostruosa) gente nuda che tromba, Fruits of Passion pensa bene di darsi un tono e aggiungere elementi di politica rivoluzionaria (!), la morte che si aggira per le strade (!!), visioni di infanzie spezzate racchiuse all’interno di un onnipresente rettangolo (!!!), immagini di uccelli morti nel fiume, a simboleggiare l’innocenza perduta (!!!!), insomma roba che avrebbe tratto in inganno solo il Von Trier di Nymphomaniac. E sì, non nego che i colori, la fotografia e alcune scelte “autoriali” in fase di scrittura e regia siano inusitatamente curate per questo genere di film ma, sinceramente, prima di arrivare anche solo lontanamente a PENSARE di considerarli elementi fondamentali per la pellicola devo dimenticare:

- Klaus Kinski e la sua parrucchetta gialla.
- La protagonista che viene “adoperata” da un vecchio rachitico sopra una giostra a forma di papero (sic) prima di cadere addormentata (o forse le si spegne il cervello, chissà. La cavallona bionda bombata da Kinski ha parlato di "incredibile godimento" ma, come direbbe l'onorevole Razzi, "io, questo, non creTo").
- Klaus Kinski e il suo ventaglio.
- La protagonista che piange, piange, piange di lungo, piange come un vitello e sospira per Klaus, profondendosi in un continuo, tediosissimo monologo interiore che si poteva tranquillamente riassumere in “Io lo amo, lui non mi vuole anche se farebbe schifo al porco, sono forse scema?” Risposta: sì.
- Klaus Kinski che bomba “cose” indossando orridi pedalini bianchi.
- L’apice del disgusto: il primo piano della protagonista che chupa con la morte nel cuore (e non solo) un vecchio cinese laido, macellaio e pure “puzzolente di sangue” mentre Kinski guarda l'orrenda imago compiaciuto o, meglio, col solito scazzo. E questo è stato il punto di non ritorno che ci ha portati a decidere che era meglio giocare alla X-Box.

Non ho guardato 'sta monnezza fino alla fine quindi no, non so se alla fine O ha coronato il suo terrificante sogno d'amore col vecchio Klaus. Se dovessi fare previsioni d'accatto, secondo me Fruits of Passion finisce con lui che viene ucciso dal ragazzino innamorato di O e lei che si suicida per la disperazione, ma anche no, cazzumene. E ribadisco, soprattutto: eeeeeeew!

Riassunto per immagini delle scene clou.





venerdì 24 aprile 2015

La regina dei dannati (2002)

Dopo l'epica disfatta di Scemo & più scemo, il mio peculiare metodo di scelta film mi ha purtroppo ancorata agli anni '90/2000, che hanno sì dato i natali a qualche cult ma anche a moltissime ciofeche. A quest'ultima categoria appartiene La regina dei dannati (Queen of the Damned), diretto nel 2002 dal regista Michael Rymer e tratto da due romanzi di Anne Rice, Il vampiro Lestat e La regina dei dannati.


Trama: il vampiro Lestat si sveglia dal suo sonno secolare, attirato dalla musica di un gruppo di sbandati. Rinvigorito dalla melodia, il vampiro decide di diventare una rockstar e, soprattutto, di rivelare a tutto il mondo l'esistenza della sua specie, attirando l'odio di parecchi suoi simili e risvegliando l'antichissima Akasha, Regina dei Dannati...


Prima di cominciare a parlare de La regina dei dannati, è bene premettere una cosa. Della pluripremiata e famosissima saga Cronache dei vampiri di Anne Rice ho letto solo Intervista col vampiro, per pura curiosità, e l'ho trovato pesante come una mattonata sui marroni. La mia reazione inconsulta, nonostante il vampiro sia sempre stata una figura a me molto cara, è stata il conseguente rifiuto di proseguire nel recupero degli altri volumi che compongono l'affresco letterario della Rice. Questo per dire che le trame di romanzi come Il vampiro Lestat e La regina dei dannati mi erano sconosciute prima della visione della pellicola... eppure, nonostante questo, il film di Rymer mi ha talmente ammorbata e perplessa che sono stata costretta a documentarmi su Wikipedia, riuscendo così a provare ancora più schifo. Non starò a tediarvi parlando delle differenze tra film e romanzi, sappiate solo che il film La regina dei dannati è un fiacco antenato di Twilight, completamente asservito ad un pubblico di donnette sospiranti che nel vampiro cercano solo l'emblema del bello e maledetto, possibilmente semi-nudo, irraggiungibile ma non troppo e che desiderano identificarsi con un'eroina bella, intelligentissima e dal passato misterioso, pronta a gettare al vento la propria natura mortale nonostante i suoi antenati abbiano cercato in tutti i modi di proteggerla dal virus della bimbominkitudine. Gli sceneggiatori imperniano interamente la pellicola su una storia d'amore che, se non ho capito male, è quasi del tutto assente nell'opera originale e mettono in piedi un coacervo di cliché vecchi come il mondo, affossati da lunghissimi dialoghi improntati sul male di vivere, sul dolore della solitudine e sulla caducità della bellezza umana (ma se TUTTI gli umani sono effimeri e di conseguenza belli perché, o mio caro Lestat, ti devi invaghire solo della gnocca depressa mentre tutti gli altri li tratti come cibo? Solo perché ha letto il tuo diario? Santo cielo...), concludendo il tutto con un finale consolatorio e un "cliffhanger" fastidiosi come l'orticaria. Tutto lo spleen, il reale sentimento, il disagio che si percepivano palpabili in quel capolavoro che è Intervista con vampiro, diventano qui meri elementi di uno stile volutamente "maledetto" e l'interesse che si prova per le vicende del protagonista è pari a zero.

I giornali dicono di me che ho un alito importante.... E' vèro. E' mòlto vèro.
Certo, fare un confronto con Intervista col vampiro è spietato da parte mia. La regia di Neil Jordan era elegante quanto l'ambiente dove si muovevano i suoi bellissimi vampiri, i costumi di Sandy Powell rasentavano la perfezione, il cast vantava attori capaci e all'apice della forma, mentre qui ci sono solo sciatteria e tamarreide. Michael Rymer sceglie di girare un videoclip più che un horror e ogni tot lo spettatore è costretto a sorbirsi orride visioni virate in rosso oppure dei video musicali dove Stuart Townsend si dimena credendosi molto ma molto fico, un po' come succedeva a Fabius di Mai dire Gol; ora, io non voglio essere superficiale ma il Lestat di Tom Cruise, attore che a me ha sempre fatto sesso tanto quanto un sasso, era talmente carismatico da diventare automaticamente bello come un dio, senza dover rimanere costantemente a torso nudo o a fissare la telecamera con sguardo da piacione gotico. La regia di Rymer e l'interpretazione di Townsend sono sciatte tanto quanto gli effetti speciali utilizzati in abbondanza dal momento in cui compare Akasha e quanto le orrende scene di lotta tra vampiri, con quel fastidioso "effetto scia" che segue i personaggi ogni volta che si muovono. Tornando a parlare di attori, La regina dei dannati è il trionfo dei giovani di belle speranze che, dopo un esordio stratosferico, sono tornati giustamente nelle retrovie dei figuranti (vedi lo stesso Townsend, ma anche il secondo corvo Vincent Perez) o degli ex attori di culto che sono finiti a recitare in filmacci commerciali (vedi Paul McGann o Lena Olin) e la sfortunata Aaliyah era sicuramente una gnocca stratosferica perfetta per interpretare Akasha, peccato abbia scelto di passare metà del tempo a muoversi come un burattino scoordinato e con la bocca spalancata per mostrare i canini. L'unica cosa bella del film, e per fortuna visto che Lestat canta di lungo, è la colonna sonora quasi interamente scritta dal cantante dei Korn, Jonathan Davis, il cui stile inconfondibile impregna tutta la pellicola (se i Korn non vi sono mai piaciuti questo però rischia di non essere un pregio, sorry) e rimane in testa anche dopo qualche giorno dalla visione. Il resto, per fortuna, è già scivolato via come acqua dalla mia mente... tutto, maledizione, tranne l'orrida mise di Jesse che, per entrare in un nightclub discotecaro zeppo di vampiri, decide di farsi i codini come Sailor Moon. A proposito dello sbagliare completamente stile ed atmosfere, eh?

Saailor Moon, amica Saaaaailor Moon!
Di Paul McGann, che interpreta David Talbot, ho già parlato QUI.

Michael Rymer è il regista della pellicola. Australiano, ha diretto episodi di serie come American Horror Story e Hannibal. Anche produttore e sceneggiatore, ha 52 anni.


Stuart Townsend interpreta Lestat. Irlandese, lo ricordo per film come La leggenda degli uomini straordinari; inoltre, ha partecipato a serie come Will & Grace e ha lavorato come doppiatore in Robot Chicken. Anche regista, sceneggiatore e produttore, ha 43 anni.


Vincent Perez interpreta Marius. Svizzero, lo ricordo per film come Cyrano di Bergerac e Il corvo 2. Anche regista, sceneggiatore e produttore, ha 51 anni.


Lena Olin (vero nome Lena Maria Jonna Olin) interpreta Maharet. Svedese, la ricordo per film come L'immagine allo specchio, Fanny & Alexander, La nona porta e Chocolat; inoltre, ha partecipato a serie come Alias. Ha 60 anni e due film in uscita.


La regina dei dannati è stato il secondo e ultimo film della cantante Aaliyah, morta in un incidente aereo poco dopo la fine delle riprese (la pellicola è dedicata alla sua memoria), cosa che ha costretto il fratello a dare una mano per l'overdubbing; a proposito di voci, chi ha avuto modo di passare l'adolescenza ascoltando i Korn avrà capito che le canzoni di Lestat non le esegue Stuart Townsend, bensì Jonathan Davis, che ha scritto parecchi pezzi della colonna sonora. Detto questo, La regina dei dannati ha fatto schifo veramente a tutti, sia ai fan de Le cronache dei vampiri, sia alla stessa Anne Rice, sia a Tom Cruise, che ha rifiutato di tornare come Lestat (per il ruolo era stato contattato anche Wes Bentley, che a sua volta ha declinato l'invito); a tal proposito, molto meglio recuperare il "prequel" Intervista col vampiro. ENJOY!

giovedì 23 aprile 2015

(Gio)WE, Bolla! del 23/4/2015

Buon giovedì a tutti! Questa è la settimana di Age of Ultron, non ce n'è per nessuno. E infatti al multisala esce solo un altro film nuovo ad affiancare l'ultima fatica di Joss Whedon... ENJOY!

Avengers - Age of Ultron
Reazione a caldo: Spacca.
Bolla, rifletti!: O, almeno, speriamo che spacchi. Le aspettative sono altissime, già questo è un brutto punto di partenza perché si sa che più si parte fomentati più rischia di fare male l'eventuale diludendo. Ovviamente, non leggerò nessun post/recensione prima della visione che, ahimé, non ci sarà fino a domenica.. quindi, con simpatia, dico CACCA a chi lo ha già visto e lo vedrà prima di me. Sì, CACCA anche su di te, che stai leggendo queste righe.

Adaline - L'eterna giovinezza
Reazione a caldo: Mah.
Bolla, rifletti!: Storia di una DorianA Grigia con le fattezze della bellissima Blake Lively, temo una pellicola tutta apparenza e poca sostanza. Lascio ad altri blogger l'ardua sentenza.

Al cinema d'élite arriva invece un film italiano...

I bambini sanno
Reazione a caldo: Mmh...
Bolla, rifletti!: Che un politico, nella fattispecie Veltroni, si metta a fare cinema un po' mi spaventa (per me è come quando i calciatori si mettono a "scrivere" libri) e un documentario imperniato sulle opinioni dei bambini può risultare un'arma a doppio taglio: da un lato, un punto di vista innocente sui problemi della nazione è sicuramente interessante, dall'altro però si rischia la stucchevole strumentalizzazione. Come ho detto sopra, lascio ad altri blogger l'ardua sentenza.


mercoledì 22 aprile 2015

The Town That Dreaded Sundown (2014)

Ultimamente avevo un po' abbandonato il recupero dei Best Horror 2014 According to Lucia ma qualche sera fa ho deciso di riprendere il listone e guardare The Town That Dreaded Sundown, diretto nel 2014 dal regista Alfonso Gomez - Rejon.


Trama: Nel 1947 la cittadina di Texarkana è stata la sede di efferati omicidi compiuti da un maniaco mai catturato e durante gli anni '70 i delitti sono stati trasposti nel film The Town That Dreaded Sundown, riproposto ogni anno ad Halloween. Ai giorni nostri, il killer ricomincia a mietere vittime, cominciando proprio durante l'annuale proiezione del film...



Quando credevo che ormai lo slasher non mi potesse più sorprendere, ecco arrivare The Town That Dreaded Sundown che, con tutte le sue imperfezioni, è comunque un film che si dimostra intelligente fin dalle prime battute. Sì perché la pellicola di Alfonso Gomez - Rejon è un remake sui generis che non nasconde la sua natura di omaggio, anzi; per tutta la durata le immagini dell'originale La città che aveva paura si affiancano e si alternano a quelle degli eventi che stanno "realmente" accadendo e il film di Charles B. Pierce diventa così una parte fondamentale della trama, un protagonista al pari del killer incappucciato che torna a terrorizzare gli adolescenti infoiati di Texarkana. I personaggi si documentano sul caso non solo scartabellando archivi ma soprattutto riguardandosi ininterrottamente un filmaccio girato negli anni '70, spaventandosi o ridendo assieme agli spettatori, intervistando registi, speculando sui pensieri di una cittadina che sul nome di un serial killer ha fatto fortuna ma ha anche vissuto nel terrore, con tutte le conseguenze del caso. Tutto questo contorno metacinematografico che, a tratti, sfocia nel documentario, è ovviamente molto più interessante della parte slasher, soprattutto considerato quanto deludente e tirata per i capelli sia la scoperta dell'identità del killer ma c'è da dire che, per una volta, la protagonista non è una povera sciocchina senza cervello né spina dorsale e che la presenza di adolescenti imbecilli è ridotta all'osso, con i realizzatori che preferiscono concentrarsi sui pittoreschi "vecchi" che popolano la peculiare città di Texarkana, metà texana e metà dell’Arkansas, con due consigli comunali, due diversi corpi di polizia e conseguenti, inevitabili rivalità tra le sue due nature (e io che, scioccamente, pensavo che l'esotico nome Texarkana derivasse da chissà quale misterioso ed esoterico passato…).


Altro punto a favore di The Town That Dreaded Sundown è la sua natura indubbiamente stilosa. Il film è davvero bello e gradevole da vedere, Alfonso Gomez - Rejon mostra un gusto accattivante per la composizione delle immagini, la fotografia è nitida anche durante le sequenze notturne, i colori sono molto saturi ma non fastidiosi, il montaggio mixa sapientemente immagini vintage (tratte da La città che aveva paura ma non solo) a riprese "moderne" e il killer compare sempre in modi e luoghi inaspettati, come se avesse sempre fatto parte del paesaggio e noi ce ne accorgessimo solo quando è ormai troppo tardi. A proposito del killer, The Town That Dreaded Sundown è abbastanza gore e l'assassino particolarmente fantasioso (nonostante l'omicidio più eclettico venga ripreso praticamente identico all'originale e l'omaggio venga ribadito poco prima mostrando la stessa scena mentre uno dei personaggi guarda La città che aveva paura); le scene più sanguinose non sono molte, è vero, ma sono ben realizzate e tanto basta. Gli attori sono tutti abbastanza validi; come ho detto prima, la protagonista non è fastidiosa quanto altre sue "colleghe" anzi, a tratti ricorda la storica Sidney di Scream per il carico di sfiga che si porta appresso, ma gli elementi più pregevoli del cast sono fior di caratteristi come Anthony Anderson, Gary Cole e soprattutto il meraviglioso Denis O'Hare, professionisti in grado di prendere i loro personaggi "secondari" e renderli più tridimensionali di quelli principali. Per tutti questi motivi "tecnici" e non, ho trovato The Town That Dreaded Sunlight particolarmente piacevole. Sicuramente non è stato il film più innovativo del 2014 ma nel suo genere è comunque un piccolo gioiellino, da recuperare e vedere!


Di Veronica Cartwright (Lillian), Anthony Anderson (Lone Wolf Morales), Joshua Leonard (Agente Foster), Gary Cole (Capo Tillman), Ed Lauter (Sceriffo Underwood) e Denis O'Hare (Charles B. Pierce Jr.) ho già parlato ai rispettivi link.

Alfonso Gomez - Rejon è il regista della pellicola. Americano, ha diretto episodi di serie come Glee, Red Band Society e American Horror Story. Anche produttore, assistente alla regia e attore, ha 43 anni.


Addison Timlin interpreta Jami. Americana, ha partecipato a film come Derailed - Attrazione letale e Uomini di parola. Ha 24 anni e due film in uscita.


Edward Herrmann interpreta il reverendo Cartwright. Americano, ha partecipato a film come Ragazzi perduti, Richie Rich - Il più ricco del mondo, The Aviator, The Wolf of Wall Street e a serie come MASH, Oz, Una mamma per amica, Grey's Anatomy, 30 Rock, CSI - Scena del crimine e How I Met Your Mother; come doppiatore ha inoltre lavorato per serie come American Dad!. E' morto nel 2014, all'età di 71 anni.


Siccome The Town That Dreaded Sundown è un particolare "meta-sequel" di La città che aveva paura, se vi fosse piaciuto vi direi di recuperare il film del 1976 (che devo ancora vedere) e aggiungerei Venerdì 13 e Scream. ENJOY!

martedì 21 aprile 2015

Black Sea (2014)

Nonostante il genere “suBBaquo” non faccia proprio al caso mio, qualche sera fa ho deciso di guardare Black Sea, diretto nel 2014 dal regista Kevin MacDonald.


Trama: abbandonato dalla moglie e licenziato dalla ditta per cui lavora, l’ex marinaio Robinson decide di riunire una ciurma per recuperare un’enorme quantità di lingotti d’oro che dovrebbero trovarsi all’interno di un sottomarino affondato nel corso della seconda guerra mondiale…


Come saprete se seguite da qualche tempo il mio blog, riassumere i film in tre righe di trama non è il mio forte. Questo per dire che, rileggendo quello che ho scritto sopra, sembrerebbe che Black Sea sia un film d’avventura imperniato su un’allegra caccia al tesoro, magari una tamarreide con Nicolas Cage, invece non è affatto così. Black Sea è uno dei film più cupi, coinvolgenti, tesi e persino commoventi che mi sia capitato di vedere negli ultimi tempi e se è vero che quella raccontata nel film è un’avventura, bisogna considerare soprattutto i motivi che hanno spinto i protagonisti ad intraprenderla. Il film diretto da MacDonald è infatti un triste figlio della crisi globale e mette in scena dei personaggi ruvidi, segnati dalla vita, arrivati ad un età in cui un licenziamento si tradurrebbe in una ricerca ininterrotta di lavori svilenti (quando va bene) o in una perenne condizione di indigenza e solitudine. Accettare una missione potenzialmente mortale, finanziata da un riccone al quale ovviamente spetterebbe la parte più sostanziosa del bottino, è l’unico modo per tornare ad avere un po’ di respiro e tornare ad essere “umani” agli occhi di figli e mogli che li disprezzano o che a loro volta soffrono per la condizione disagiata di chi dovrebbe mantenerli ed assicurare loro un futuro; sperando per il meglio o spinti, come nel caso di Robinson, da un bruciante misto di rimpianti, desiderio di rivalsa e odio nei confronti della società, questo branco di derelitti si immerge nelle acque oscure del titolo. Da questa premessa si dipana una pellicola difficile da guardare serenamente, per più di un motivo. In primis, perché l’abilità con cui lo sceneggiatore definisce in pochi tratti le personalità dei coinvolti ci spinge ad immedesimarci maggiormente con questi esperti marinai, rendendo ancora più insostenibili i vari “inconvenienti” di navigazione; secondariamente, quegli stessi “inconvenienti” rischiano di uccidere uno spettatore mediamente claustrofobico come la sottoscritta. Black Sea, come ho detto sopra, è infatti un film molto teso, costruito in modo da non dare un attimo di tregua pur rimanendo credibile in ogni twist, anche il più inaspettato. Inoltre, all’isolamento creato dal sottomarino, dall’oscurità delle acque profonde e dalla necessità di rimanere in incognito si aggiungono l’imprevedibilità di tutti i membri dell'equipaggio (uno è psicopatico, uno ha un enfisema, uno è un ragazzino, uno è un ambiguo topo di scrivania e lo stesso Robinson è troppo coinvolto a livello personale per essere un capitano obiettivo) e l’ulteriore isolamento provocato dalla compresenza di metà equipaggio anglofono e metà formato da russi, cosa che, inevitabilmente, richiede mediatori in grado di capire entrambe le lingue, prima che le inevitabili differenze linguistiche e un malcelato razzismo facciano precipitare una situazione già molto delicata.


Essendo Black Sea un film che da molta importanza all’elemento umano, linguistico e culturale ma anche una pellicola fatta di sequenze concitate e claustrofobiche riprese sottomarine, lo spettatore italiano rischia di trovarsi in una bruttissima situazione di impasse. Da un lato, infatti, io ho amato alla follia i peculiari accenti degli attori (tutti bravissimi, non ce n’è uno che mi abbia fatto considerare il suo personaggio come una banale macchietta, neppure i russi), a partire da quello di Jude Law che parla con una pesantissima inflessione aberdoniana, un ulteriore “indizio” della mentalità chiusa, ruvida, tradizionalista e anche un po’ “ignorante” non solo del protagonista ma di tutto il resto della ciurma; in italiano quest’incredibile varietà linguistica è andata inevitabilmente perduta, col risultato che Black Sea già dal trailer convince davvero poco e da l’erronea impressione di essere l’ennesima copia di film come Caccia a ottobre rosso o simili (senza contare il fatto che ogni russo, come mi hanno detto, è stato doppiato con la cadenza tipica degli imitatori di Putin). Vi direi quindi di guardare Black Sea in lingua originale ma l’altro lato della medaglia è che sicuramente al cinema, con un grande schermo e un bel sonoro spacca timpani, la sensazione di trovarsi all’interno del sottomarino o a centinaia di metri dalla superficie del mare, immersi nell’oscurità e privi di ossigeno, dev’essere un’esperienza ancora più emozionante e terribile, nonché il modo migliore per apprezzare la bella regia di MacDonald. Se, a differenza mia, siete persone in grado di resistere ai fortissimi stimoli che potrebbe procurarvi la visione in sala di Black Sea, la cosa migliore da fare sarebbe probabilmente guardarlo due volte, prima al cinema in italiano e poi a casa in lingua originale (o viceversa), così da godere al meglio di entrambi gli aspetti della pellicola. In ogni caso, non lasciatevi fuorviare da pregiudizi o recensioni negative; nonostante l’impianto abbastanza tradizionale che mi impedisce di elevarlo a cult o capolavoro, Black Sea è un gran bel film che vi consiglierei di vedere senza indugio!


Di Jude Law (Robinson), Scoot McNairy (Daniels) e Ben Mendelsohn (Fraser) ho già parlato ai rispettivi link.

Kevin MacDonald è il regista della pellicola. Scozzese, ha diretto film come L'ultimo re di Scozia, State of Play, The Eagle e il documentario One Day in September, col quale ha vinto un premio Oscar. Anche produttore e sceneggiatore, ha 48 anni e sta dirigendo i primi episodi della miniserie 11/22/63, tratta dall'omonimo libro di Stephen King.


Michael Smiley interpreta Reynolds. Irlandese, ha partecipato a film come Shaun of the Dead, Profumo - Storia di un assassino, The ABCs of Death, La fine del mondo e a serie come Black Mirror e Doctor Who. Ha 52 anni e quattro film in uscita.


Se Black Sea vi fosse piaciuto recuperate Abissi, The Abyss e Leviathan, gli unici film "sottomarini" o acquatici che sono riuscita a vedere fino alla fine prima di passare a miglior vita per l'ansia! ENJOY!

Qui trovate la recensione de Il giorno degli zombi, che mi ha invogliata tantissimo nel recupero!

domenica 19 aprile 2015

L'uccello dalle piume di cristallo (1970)

La danza macabra di King questa volta mi ha portata in Italia a vedere L'uccello dalle piume di cristallo, opera prima di Dario Argento che il regista ha diretto e sceneggiato nel 1970.


Trama: uno scrittore assiste ad un tentativo di omicidio e da quel momento decide di portare avanti le indagini per conto suo, finendo inevitabilmente nel mirino del killer...



Devo averlo già accennato nel vecchissimo post dedicato a 4 mosche di velluto grigio: io e il giallo all'italiana non andiamo troppo d'accordo, soprattutto quando si parla di Dario Argento. Gli riconosco i meriti ma troppo spesso, soprattutto per quel che riguarda la natura pretestuosa delle trame, lo trovo sciocco e noiosino e L'uccello dalle piume di cristallo non fa eccezione. Qui abbiamo il solito assassino senza volto, vestito con pastrano e guanti neri (stile sdoganato e codificato dal divino Mario Bava), che si imbarca in una serie di uccisioni vagamente efferate e abbiamo uno scrittore particolarmente tignoso che, invece di farsi una bella barcata di affari suoi, decide di scoprire l'identità del serial killer perché "c'è qualcosa che non quadra nei suoi ricordi". Ora,  quel "qualcosa" che non gli torna, rivelato alla fine, è roba da facepalm, qualcosa che potrebbe spingere le vittime a risorgere solo per prenderlo a schiaffi, mentre il fantomatico uccello dalle piume di cristallo del titolo è quanto di più deus ex machinoso si possa trovare in una sceneggiatura ma, oh, si era negli anni '70 e Argento era alla sua prima opera come regista e sceneggiatore: non si può andare a spaccare il capello. Infatti non lo spaccherò, tranquilli. Anche perché, come ho detto, L'uccello dalle piume di cristallo ha comunque una sua oggettiva personalità che travalica le mie antipatie per il genere e l'ingenuità d'insieme; per esempio, come già in 4 mosche di velluto grigio ho molto apprezzato l'abbondanza di elementi weird e volutamente ironici, come l'intermezzo "felino" con un peculiare pittore interpretato dal grande Mario Adorf o i due delinquentucoli che aiutano il protagonista, ovvero il pappone balbuziente "Addio" e lo spione che fa tutto il contrario di quello che dice.


Al di là di questi elementi "folkloristici", devo anche riconoscere come Dario Argento, all'epoca, pur essendo alla sua prima opera avesse già la mano santa che avrebbe caratterizzato i suoi capolavori più blasonati. L'omicidio iniziale l'ho trovato geniale ed angosciante, girato in piena luce, visibile da qualsiasi passante perché commesso dietro un'enorme vetrata e, soprattutto, silenzioso, con l'urlo della vittima che viene bloccato da un doppio vetro; l'altra sequenza da brividi coinvolge invece una rampa di scale che all'improvviso diventa buia per metà, con la vittima costretta a passare dalla luce all'oscurità mentre una ripresa dall'alto trasforma la tromba delle scale in un abisso perfettamente geometrico. Questi sono due tocchi di classe non da poco, che fanno il paio con l'intelligente montaggio che mescola gli eventi presenti ad improvvisi e brevissimi flash del delitto di cui il protagonista è stato testimone; a completare il tutto, poi, ci pensa l'inquietante score di Ennio Morricone, un mix di melodie "d'atmosfera" ed insinuanti sospiri femminili che si accentuano ogni volta che l'assassino è nei paraggi. Per quel che riguarda gli attori invece non c'è molto da dire: tutti i coinvolti portano a casa dignitosamente la pagnotta, il protagonista è aitante ed espressivo quanto basta ma viene spesso surclassato dalla bravura dei caratteristi che gli vengono affiancati mentre le donzelle trucidate devono solo essere belle ed eleganti, cosa che riesce loro benissimo. Ho solo una domanda a tale proposito: ma perché davanti ad un cadavere con la testa spaccata c'è una tizia che pensa bene di pettinarsi per cinque minuti buoni i lunghi capelli biondi? Mistero. Guardate anche voi L'uccello dalle piume di cristallo, poi ne riparliamo.


Del regista e sceneggiatore Dario Argento ho già parlato qui.

Enrico Maria Salerno interpreta l'ispettore Morosini. Nato a Milano, ha partecipato a film come L'armata Brancaleone, Scuola di ladri e Scuola di ladri - Parte seconda. Anche regista e sceneggiatore, è morto nel 1994 all'età di 67 anni.


Mario Adorf interpreta Berto Consalvi. Nato in Svizzera, ha partecipato a film come Dieci piccoli indiani, Milano calibro 9, State buoni se potete, Momo e a serie televisive come Le avventure di Pinocchio, Mino, La piovra 4, Fantaghirò e Fantaghirò 2. Anche sceneggiatore, ha 85 anni.


Se L'uccello dalle piume di cristallo vi fosse piaciuto recuperate gli altri film della cosiddetta "Trilogia degli animali" (Il gatto a nove code e 4 mosche di velluto grigio) e aggiungete Profondo Rosso, Inferno, Opera, Phenomena e Suspiria. ENJOY!

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