martedì 27 agosto 2019
Crawl - Intrappolati (2019)
Trama: nel bel mezzo di un tifone, Haley va nella vecchia casa d'infanzia per cercare il padre che non risponde al cellulare. Lì troverà una cantina completamente allagata ed infestata da alligatori.
Oh, credevo non lo avrei mai più potuto dire ma stavolta, davvero, "dove c'è Aja c'è gioia". Non può non esserci, in effetti, con un film zeppo di mostroni striscianti e assassini come questo, privato della stupidità congenita e alla American Pie di Piranha 3D (che, per inciso, mi aveva già divertita molto) o della sciatteria di uno Sharknado, ridotto all'osso con due personaggi cazzutissimi benché paradossali che devono fare solo una cosa: sopravvivere. Sopravvivere all'interno di una cantina o anfratto sotto le fondamenta (cosa c'è di bello nelle case americane è che sono fatte di cartamusica e hanno sti pertugi sotterranei dove può celarsi la qualsiasi) di una casa, all'interno della quale a un certo punto cominciano a riversarsi alligatori come se non bastasse lo schifo atavico di un luogo dal soffitto bassissimo, zeppo di escrementi e schifo assortito. Ecco, la cosa veramente più agghiacciante di Crawl è che all'ansia da soffocamento causata dalla presenza di ambienti ristretti e via via sempre più zeppi d'acqua, si aggiunge il disgusto di non sapere cosa toccheranno le mani e i piedi nudi dei protagonisti, costretti a dimenarsi all'interno di anfratti leppeghi, probabilmente maleodoranti, pieni di Dio solo sa cosa, tanto che talvolta gli alligatori mi sono sembrati davvero il male minore. Ma gli alligatori ci sono, mannaggia a loro, e sono infingardi come pochi, tanto da non dare scampo in qualsiasi ambiente li si metta, che sia una cantina soffocante, una strada trasformata nel giro di pochissimo in una palude o una casa utilizzata come quelle meravigliose cabine in cui i maghi a poco a poco vengono ricoperti d'acqua e col cavolo che riescono ad uscire. Il tutto, ovviamente, mentre i due protagonisti si fanno sempre più stanchi e sciancati (anche incauti, santo cielo. Accetto tutto ma che Haley si guardi le spalle ogni due secondi mentre il povero babbo a un bel momento pensi di essere al parco acquatico Le Caravelle e dimentichi che sott'acqua ci sono gli alligatori anche no, dai) ma mai domi, questo nemmeno per un secondo, ché forse nemmeno Rambo era così combattivo e desideroso di sopravvivere quanto lo sono la Scodelario e Pepper, entrambi straconvinti dei loro ruoli e impegnati in prove fisiche d'alta scuola, quelle belle performance alla Tremors dove non importa quanto siano assurdi i dialoghi che gli si mette in bocca, alla fine si arriva ad amare i due protagonisti.
In tutto questo, come ho detto, Aja e l'intero reparto tecnico chiamato a realizzare il film danno gioia. Il regista gioca alla perfezione con gli ambienti a sua disposizione, riversandoci addosso terrori claustrofobici ed agorafobici senza annoiare nemmeno per un secondo e mozzando il respiro dello spettatore sia quando lo spazio è limitato, come in cantina o in casa, sia quando c'è anche troppo spazio e Dio solo sa da dove arriverà la minaccia; le dinamiche da horror in cui l'alligatore si acquatta nell'oscurità, pronto ad uccidere lo spettatore con uno jump scare perfido e spesso inaspettato, si alternano così ad ampie panoramiche in cui le bestiacce si vedono benissimo e si può solo pregare per chi ha talmente tanta sfiga da ritrovarsi alla mercé delle loro fauci, con tutta la profusione di gore del caso, per fortuna. Voto dieci, inoltre, agli effetti speciali. Non mi intendo di alligatori, per carità, tuttavia quelli di Crawl sono molto realistici e soprattutto sono inseriti alla perfezione all'interno delle scene, offrendo un'interazione assolutamente veritiera con gli attori. Unico appunto che mi sento di muovere: ma gli alligatorini, perché non usarli? Già me li immaginavo come tanti piccoli critter ancora più malvagi, attaccarsi ai piedi della Scodelario e romperle le scatole a mo' di zanzare moleste, altroché. Ma pazienza, Crawl è divertentissimo e ansiogeno anche senza alligatori baby, una corsa sulle montagne russe con una frenata talmente brusca e una presa in giro sui titoli di coda così grande da meritare l'applauso. Ah, il buon cinema ignorante di una volta, realizzato con passione. L'ideale per le caldissime serate estive, altro che evitare le sale!
Del regista Alexandre Aja ho già parlato QUI. Kaya Scodelario (Haley) e Barry Pepper (Dave) li trovate invece ai rispettivi link.
Se il film vi fosse piaciuto recuperate The Shallows, Piranha 3D e Blu profondo. ENJOY!
venerdì 26 giugno 2015
La regola del gioco (2014)
Trama: il giornalista Gary Webb pubblica una serie di articoli dove accusa la CIA di avere collaborato in Nicaragua con i ribelli anti-governativi Contra, aiutandoli a spacciare cocaina e crack nei bassifondi di Los Angeles per finanziare la loro causa. All'inizio Webb viene trattato come un eroe, dopodiché le cose si fanno sempre più dure, per lui e per la sua famiglia...
Sarà che sto invecchiando ma, pur continuando ad avere qualche difficoltà nel tenere il filo di tutti i nomi e le facce che scorrono sullo schermo nell'arco di due ore, i film tratti da storie vere come La regola del gioco (altro titolo italiano imbecille: che regola sarebbe? Chi si fa i fatti suoi campa cent'anni?) mi intrigano sempre di più. Al di là delle parti palesemente romanzate, di "dettagli" aggiunti per rendere più umani i personaggi (come per esempio, in questo caso, il rapporto tra il protagonista e il figlio maggiore, cementato dal restauro di una moto d'epoca) e dell'ovvia scelta di rendere il sembiante dei coinvolti più glamour e piacevole di quanto non fosse in realtà, questi spaccati di vita vissuta mi interessano molto e in particolare mi affascina l'intricato mondo del giornalismo o, meglio, di quello che era una volta il giornalismo, fatto di professionisti appassionati e libero dal pressapochismo internettiano. Purtroppo per Gary Webb, non libero da influenze politiche né da diffidenza, invidia o ipocrisia; reporter di un giornale di provincia, il nostro è balzato agli onori della cronaca per un'inchiesta nata assolutamente per caso, che gli ha sì permesso di mettere in piazza gli altarini più squallidi ed ipocriti della CIA ma ha anche attirato su di sé le e ire e, conseguentemente, le sgradevoli attenzioni di persone prive di scrupoli e molto pericolose. Nel mondo dei media la credibilità è tutto ma, come già ci ha insegnato Fincher con il suo Gone Girl, è ancora più importante assecondare e fomentare la volubilità di un pubblico che ama sguazzare nel torbido e che in pochissimo tempo può passare dall'elevare una persona al rango di guru al reputarlo un truffatore della peggior specie per degli errori passati che nulla hanno a che fare con la sua professionalità. Nel corso di La regola del gioco a Gary Webb (reporter realmente esistito e morto in in circostanze misteriose, abbandonato dalla famiglia e senza avere avuto mai più la possibilità di lavorare per un giornale) succede proprio di passare dalle stelle alle stalle; la sua inchiesta desta molto scalpore ma viene insabbiata in brevissimo tempo e nonostante smuova parecchie acque ancora oggi il mistero sul reale coinvolgimento della CIA nella guerra civile in Nicaragua e, soprattutto, nella conseguente distribuzione della droga dei Contra a Los Angeles, è avvolta in una nube di mistero.
La pellicola si concentra quindi più sull'aspetto umano di Gary Webb che sull'effettiva validità della sua inchiesta ed offre un inquietante spaccato di quello che sta dietro le quinte di quella che dovrebbe essere un'informazione imparziale, fatta in realtà di giochi politici, compromessi ed ipocrisia: la lunga sequenza in cui Webb ritira comunque un premio come "giornalista dell'anno" mentre né il suo capo né il suo redattore hanno il coraggio di guardarlo in faccia dopo avere rinnegato pubblicamente i suoi articoli mette i brividi e lascia impotenti davanti al peso di una realtà così tragicamente e schifosamente negativa. Essere tacciato di falsità e pressapochismo ma ricevere comunque un premio per l'eccellenza del lavoro svolto è il culmine di una tragedia umana che si mescola in maniera molto naturale alla spy story, elementi che trasformano La regola del gioco in un thriller d'inchiesta privo di momenti "morti" e capace d'inchiodare lo spettatore alla poltrona. Merito della storia narrata, sì, ma anche di un bravissimo Jeremy Renner, che si carica sulle spalle tutta l'ambizione, la sfrontatezza e la fragilità di Gary Webb senza risultare mai posticcio o forzato. Accanto a lui c'è tutta una ridda di comprimari che incarnano le due anime di La regola del gioco: a mio avviso funzionano molto bene attori come Mary Elizabeth Winstead o Oliver Platt, che ancorano la storia alla sua parte maggiormente "reale", mentre altri grandi nomi quali Ray Liotta o Andy Garcia (due attoroni quasi sprecati per quel che compaiono sullo schermo e lo stesso vale per Robert Patrick e Barry Pepper, per quanto ottimi caratteristi di lusso) risultano un po' fasulli nei loro ritratti di malviventi quasi leggendari, come se interpretassero le caricature dei loro personaggi più famosi. A parte questo trascurabile, piccolissimo difetto, La regola del gioco è un solido film dal sapore quasi anni '70, una di quelle pellicole intelligenti in grado di spingere lo spettatore a volersi documentare ulteriormente sui fatti narrati. In questa torrida estate di dinosauri, orsacchiotti e futuri post-apocalittici sarebbe bene ritagliare uno spazio anche per il film di Michael Cuesta!
Di Jeremy Renner (Gary Webb), Robert Patrick (Ronald J. Quail), Mary Elizabeth Winstead (Anna Simons), Barry Pepper (Russel Dodson), Tim Blake Nelson (Alan Fenster), Michael Kenneth Williams (Ricky Ross), Oliver Platt (Jerry Ceppos), Andy Garcia (Norwin Meneses), Michael Sheen (Fred Weil) e Ray Liotta (John Cullen) ho già parlato ai rispettivi link.
Michael Cuesta è il regista della pellicola. Americano, ha diretto film episodi delle serie Six Feet Under, Dexter, True Blood e Homeland. Anche produttore e sceneggiatore, ha 52 anni.
Paz Vega (vero nome Paz Campos Trigo) interpreta Coral Baca. Spagnola, ha partecipato a film come Lucía y el sexo, Parla con lei, The Spirit, Vallanzasca - Gli angeli del male, Gli amanti passeggeri, Grace di Monaco e doppiato Madagascar 3 - Ricercati in Europa. Ha 39 anni e cinque film in uscita.
Durante le primissime fasi di produzione del film, erano stati fatti i nomi di Brad Pitt e Tom Cruise per il ruolo di Gary Webb mentre Spike Lee si era dimostrato molto interessato a finire dietro la macchina da presa. Detto questo, se il film vi fosse piaciuto recuperate Tutti gli uomini del presidente, Good Night, and Good Luck. e Insider - Dietro la verità. ENJOY!
domenica 14 luglio 2013
The Lone Ranger (2013)
Trama: il futuro procuratore John Reid “muore” assieme al fratello nel corso di un’imboscata. “Riportato in vita” dal Comanche Tonto, Reid prende l’identità del Lone Ranger e cerca di assicurare alla giustizia i responsabili della strage…
The Lone Ranger equivale a più di due ore di infantile, godurioso divertimento estivo; assai più simpatico e meno pretenzioso di Alice in Wonderland o Il grande e potente Oz (giusto per fare due nomi eccellenti), meglio diretto e molto meno tamarro de La leggenda del cacciatore di vampiri, l’ultimo film di Verbinski è l’equivalente western dei film dedicati alla serie Charlie’s Angels, ovvero un alternarsi ininterrotto di momenti esilaranti e scene d'azione. Intendiamoci, il Lone Ranger televisivo non l’ho mai visto quindi parto da un’ignoranza crassa per quanto riguarda il mito del personaggio, ma devo ammettere che questa versione slapstick mi è piaciuta parecchio, soprattutto perché il protagonista è un damerino impedito e ligio al dovere che si ritrova, suo malgrado, a vestire i panni del fuorilegge mascherato mentre la sua folle spalla indiana avrebbe preferito il fratello defunto (kemosabe, fratello sbagliato!). In mezzo, il canovaccio della trama inserisce qualsiasi topos del genere western: indiani, ranger, sordidi inganni per ottenere le terre dei poveri Comanches, damigelle in pericolo, uomini d’affari ancora più pericolosi dei fuorilegge, la caccia ai metalli preziosi e chi più ne ha più ne metta.
In costante bilico tra pretesa di realismo e delirio fantastico, The Lone Ranger viene presentato in maniera assai intelligente, perché la storia viene raccontata da un Tonto ormai vecchio e completamente inattendibile, un narratore costantemente interrotto e sviato dalla sua audience. Attraverso questo escamotage, tutto quello che viene mostrato sullo schermo diventa quindi plausibile perché frutto della mente dell'indiano matto e quindi lo spettatore può accettare con gioia anche che un cavallo si arrampichi su un albero, per dire. Azione e goliardia a palate, quindi, ma anche (attenzione!!) una cattiveria inusitata per un film prodotto dalla Disney. La pellicola non mostra un goccio di sangue, d'accordo, ma si parla senza troppe remore di cannibalismo, il body count si avvicina pericolosamente a quello di Django Unchained e, soprattutto, verso la fine del film si assiste ad uno sterminio insensato e crudele ai danni dei poveri indiani, una sequenza devastante che fatica a venire dimenticata nonostante la seneggiatura si riassesti poi su toni più allegri e scanzonati. Cambiano inoltre i tempi per quel che riguarda la vedovanza e l'amore, anche se alla fine a rimetterci sono sempre le povere donne con figli a carico, maledetta Casa del Topo.
Sproloqui a parte,The Lone Ranger mi è piaciuto parecchio anche per il respiro quasi epico di alcune riprese, per il citazionismo dei grandi classici, per lo scarso uso di effetti digitali e per le coreografie ad orologeria di sparatorie, inseguimenti e combattimenti (ho adorato ogni scena accompagnata dal Guglielmo Tell di Rossini, leggermente riarrangiato). Quanto agli attori, Johnny Depp mi è risultato molto meno indigesto rispetto agli ultimi film (certo, il personaggio è simile a Jack Sparrow nella sua cialtroneria, ma a modo suo fa anche tanta tenerezza ed è stranamente malinconico), Arnie Hammer è bambascione da morire e verrebbe voglia di prenderlo fortissimamente a pugni nella faccetta belloccia, la Bonham Carter porta a casa la solita, weirdissima comparsata di gran classe e i malvagi fanno la loro porchissima figura, soprattutto il cannibale William Fichtner e quel Barry Pepper che non ti aspetti nei panni del soldato privo di nerbo ma avidissimo. Quindi, porca miseria! Mi aspettavo di scrivere una recensione piena di strali, invece mi sono proprio divertita e consiglio The Lone Ranger, rigorosamente in 2D, a tutti quelli che hanno voglia di passare una serata fanciullesca senza pretesa di aver davanti IL filmone del secolo. Quello, a quel che sto leggendo in giro, è Pacific Rim, che dovrei proprio veder stasera.
Del regista Gore Verbinski ho già parlato qui. Johnny Depp (Tonto), Armie Hammer (John Reid/Lone Ranger), Helena Bonham Carter (Red Harrington), James Badge Dale (Dan Reid) e Barry Pepper (Fuller) ho già parlato ai rispettivi link.
William Fichtner interpreta Butch Cavendish. Americano, ha partecipato a film come Malcom X, Strange Days, Heat – La sfida, Insoliti criminali, Contact, Armageddon, La tempesta perfetta, Pearl Harbor, Equilibrium, Il cavaliere oscuro e alle serie Baywatch e Prison Break, inoltre ha lavorato come doppiatore per American Dad!. Ha 57 anni e quattro film in uscita tra cui Elysium e Teenage Mutant Ninja Turtles, dove interpreterà Shredder.
Tom Wilkinson interpreta Cole. Inglese, lo ricordo per film come Nel nome del padre, Ragione e sentimento, Spiriti nelle tenebre, Full Monty, Wilde, Rush Hour – Due mine vaganti, Shakespeare in Love, Michael Clayton, The Eternal Sunshine of the Spotless Mind, Batman Begins, In the Bedroom e The Exorcism of Emily Rose. Ha 65 anni e sei film in uscita.
E ora, un paio di curiosità. Per il ruolo di Rebecca erano stati fatti i nomi di Jessica Chastain ed Abbie Cornish, ma alla fine la parte è andata a Ruth Wilson, già vista in Anna Karenina. La serie televisiva, che è nata negli anni '30 come serie radiofonica prima e fumetto poi, è approdata anche in Italia col titolo Il cavaliere solitario, mentre a metà anni '60 ne è uscita una versione animata. Se, come immagino, non avete voglia di recuperare tutto questo materiale nonostante The Lone Ranger vi sia piaciuto, consiglierei di guardare la prima trilogia dei Pirati dei Caraibi e magari Rango, che devo ancora vedere. ENJOY!!
venerdì 25 febbraio 2011
Il Grinta (2011)
Trama: la quattordicenne Mattie Ross arriva nella città dov’è stato ucciso suo padre, decisa a cercare vendetta contro il suo assassino, il bandito Tom Chaney. Per riuscire nell’intento ingaggia il vecchio sceriffo Cogburn, un ubriacone dalla fama di duro, e alla strana coppia si unisce il ranger texano LaBoeuf. Comincia così una caccia all’uomo che metterà alla prova la “grinta” di tutti i coinvolti…
Tra i generi cinematografici, quello western è probabilmente quello che conosco di meno. Mi è capitato di guardare il bellissimo Un dollaro d’onore e l’altrettanto bello Il buono, il brutto e il cattivo (anche se quest’ultimo rientra già nel campo degli spaghetti western se non sbaglio), e come tutti i bambini degli anni ’80 sono stata cresciuta da Trinità, ma non vado oltre a questo. Quindi, non conosco nemmeno Il grinta originale, diretto nel 1969 dal regista Henry Hathaway, che ha fatto vincere l’Oscar a John Wayne proprio grazie al ruolo di Cogburn. Proprio per questo non posso fare un confronto tra l’originale ed il remake dei Coen, né parlare dall’alto di una conoscenza del genere: posso solo dire che Il Grinta è uno splendido film, che supera qualsiasi “etichetta”.
Guardandolo, mi sono resa conto che probabilmente il “vecchio west” è qualcosa di talmente connaturato ormai nei nostri miti e nel nostro immaginario che un film simile risulta quasi rilassante, amichevole, “accogliente”. Le praterie sconfinate, le stellette sul petto, gli abiti polverosi quasi tutti sui toni del nero, dell’ocra, del marrone, i volti sporchi dei banditi, gli speroni, i cavalli, sono tutti elementi che risultano familiari a qualunque spettatore, e anche la storia è universale, con il protagonista che desidera vendetta nei confronti di chi ha fatto del male ad un suo caro. Però fin dall’inizio Il grinta si mostra come qualcosa di particolare, e lo fa non tanto per il protagonista che da il titolo al film, quanto per la piccola e tostissima presenza femminile. Mattie Ross è un’adorabile, insopportabile so-tutto-io dalla faccia tosta, una quattordicenne che da dei punti sia al vecchio sceriffo ubriacone che al ranger texano, e lo fa mantenendo sempre e comunque un’aria credibile. Non è una supereroina, una ninja prodigio o qualsiasi altra idiozia del genere, ma una ragazzina dalla salda educazione scolastica , dalla fede incrollabile e dai saldi principi morali. E i Coen di tanto in tanto ci ricordano l’età di Mattie, mostrandocela colma di pietà per il giovane bandito, capricciosa, impaurita dai serpenti, legata all’amatissimo cavallo Tuttomatto (SPOILER: Ho preso in giro Toto per anni sapendo che si era disperato per la morte del cavallo di Atreiu ne La storia infinita… ora posso dire di avere pianto anche io per un cavallo. La morte di Tuttomatto è semplicemente straziante e un pezzo di cinema d’autore.) e anche, secondo me, un po’ cotta di LaBoeuf.
Il resto è pura magia Coen, con dialoghi allo stesso tempo profondi e divertenti, quel pizzico di violenza che squarcia la calma apparente, e quella spolverata di neve, che mi riporta alla mente Fargo e che sempre mi meraviglia in un western: non fa sempre caldo in quei posti? Un western “invernale” è doppiamente affascinante, a mio avviso. La regia poi è semplicemente emozionante (bellissima la sequenza della corsa notturna del Grinta in sella a Tuttomatto, cavaliere e cavalcatura che si stagliano neri contro un cielo color indaco mentre, a poco a poco, appare il primo piano col profilo del cavallo sfiancato, ma anche l’epico scontro finale dove lo sceriffo tira fuori finalmente le palle e la sfida al ranger per decretare chi dei due è il tiratore più abile sono momenti indimenticabili e perfettamente girati) e splendidamente accompagnata da una colonna sonora azzeccatissima, che tocca il suo apice sul finale, dolce e amaro allo stesso tempo, una conclusione coerente e nostalgica che riesce a dire ancora qualcosa sui personaggi e sui rapporti che li legava. Voto dieci, ovviamente, a tutti gli attori coinvolti. Jeff Bridges era già uno dei miei miti da tempo, ma qui a tratti sembra posseduto dallo spirito di John Wayne ed il risultato è un personaggio discutibile, rozzo, insopportabile e allo stesso tempo irresistibile, reso vivo e reale dalle migliori caratteristiche di questi due grandi interpreti; stupenda, ovviamente, la piccola Hailee Steinfeld alla quale auguro la migliore delle carriere, e interessante anche Matt Damon, che ho amato soprattutto nei battibecchi con lo sceriffo. Josh Brolin, nonostante il suo personaggio sia il motore del film, si vede poco e conferisce al bandito un alone di miseria, squallore e pochezza tali che verrebbe voglia di mandare a quel paese la bambina per essersi impegnata tanto ad ucciderlo. Ma d’altronde, non erano così sfigati anche i rapitori di Fargo? Spesso l’Empio, come viene scritto a inizio film, non solo fugge sempre anche quando nessuno lo insegue, ma è meno affascinante e scafato di quel che ci si aspetti… quasi banale, e anche goffo. Non certo come i film dei Coen.
Dei registi e sceneggiatori del film, Joel ed Ethan Coen, ho parlato in questo post. Di Jeff Bridges, che interpreta Rooster Cogburn, ho già parlato qui. Quest’anno è candidato all’Oscar come miglior attore protagonista proprio per questo ruolo, dopo averne già vinto uno nel 2010 per il film Crazy Heart; per il 2011 speriamo che Colin Firth possa rubargli la statuetta, ma se dovesse rivincere Bridges sarei contenta lo stesso. Di Matt Damon, che interpreta il ranger texano Laboeuf ho parlato qui, mentre Josh Brolin, che recita nei panni di Tom Chaney, lo trovate qua. Anche Barry Pepper, qui irriconoscibile nel ruolo di Lucky Ned Pepper, ha già goduto del suo momento di gloria sul Bollalmanacco.
Hailee Steinfeld interpreta la piccola Mattie Ross. Prima di partecipare a Il Grinta ha lavorato per alcuni corti e alcune serie TV che non conosco. Americana, ha 15 anni e quest’anno è candidata all’Oscar come miglior attrice non protagonista proprio per questo film. Auguri!
Tra gli altri interpreti, segnalo la presenza del già citato (in questo post) figlio di Brendan Gleeson, Domhnall, nei panni del giovane bandito chiacchierone che viene ucciso dal compare. Nell’originale, questo personaggio era interpretato nientemeno che da Dennis Hopper, mentre nei panni di Lucky Ned Pepper c’era Robert Duvall. Per quanto riguarda il “totoOscar”, Il Grinta quest’anno ha portato a casa ben 10 nominations, tra qui quelle importantissime di miglior film, miglior regia, miglior attore protagonista, migliore attrice non protagonista e miglior sceneggiatura non originale. Sinceramente, spero che Hailee Steinfeld si porti a casa la statuetta (con buona pace di Helena Bonham Carter) e lo stesso per i Coen: nonostante come film abbia apprezzato di più Il discorso del re e Inception, come regia i fratellini battono Tom Hopper, almeno quanto Colin Firth batte Jeff Bridges. Come premio di consolazione ci sta tutto anche l’Oscar per miglior sceneggiatura non originale, ovviamente! E ora vi lascio col trailer originale del vecchio Il Grinta con John Wayne! ENJOY!!
venerdì 5 marzo 2010
Il miglio verde (1999)
Siccome di pianti a dirotto davanti allo schermo non ne ho mai abbastanza, ecco che poco dopo Amabili Resti sono riuscita a commuovermi e piangere come un vitello ostinandomi a rivedere più o meno per la quinta volta Il miglio verde, film tratto dall’omonimo romanzo a puntate di Stephen King e diretto nel 1999 da Frank Darabont. Come avrete capito è un film che mi piace davvero molto, e ora vi spiego il perché.
La trama: negli anni ’30 Paul Edgecomb lavora come capo delle guardie nel cosiddetto “Miglio Verde”, ovvero quel braccio del penitenziario dove i condannati a morte aspettano di venire uccisi sulla sedia elettrica. Tra i tanti prigionieri, un giorno ne arriva uno molto speciale, il gigante nero John Coffey, condannato per un crimine orribile eppure stranamente buono, remissivo… e soprattutto in grado di guarire le persone con il semplice tocco delle mani.
Parlare de Il miglio verde è molto facile perché, a differenza di tanti altri registi, Frank Darabont ha la capacità di annullarsi completamente e mettersi semplicemente a raccontare quello che lo scrittore di turno ha messo su carta, senza alterarne né la trama né il senso. Per chi, come me, detesta gli adattamenti troppo liberi, soprattutto per quel che riguarda i libri che ha amato, un simile approccio è una manna dal cielo. Se il libro o il racconto già di per sé sono belli, Darabont è in grado di lasciarli come sono, impreziosendoli con l’ausilio di una regia semplice e classica ma non banale, sfoltendoli giusto dove è necessario ed aggiungendo piccole modifiche che non snaturano l’idea originale ma, anzi, arricchiscono l’opera. Bisogna dire che Stephen King è un grande narratore, ma come critico cinematografico e “tutore” delle sue opere è veramente una capra (e qui per fare ammenda andrò fino nel Maine in ginocchio sui ceci, con sette palmi di lingua strasciconi sul selciato…): il Re infatti da bravo americanaccio burino semplicemente adora l’idea che i registi rovinino con inutili troiate trash i suoi romanzi, come per esempio nell’orrido adattamento dello splendido romanzo L’acchiapasogni (che già aveva un inizio trash di suo…), e disconosce opere magistrali come il capolavoro Shining di Kubrick, che dev’essere stato l’unico regista al mondo in grado di migliorare quello che a parer mio è il libro di King più brutto e noioso; non a caso poi il Re ha pensato bene di crearne una versione televisiva, sulla quale non mi soffermo per pietà, più vicina all’idea originale.
Ma tralasciando gli sproloqui, Il miglio verde è come dicevo fedelissimo al libro e cattura alla perfezione lo spirito Kingiano che inserisce da sempre persone normali in un contesto a dir poco assurdo, e ci mostra le loro reazioni. L’aspetto sovrannaturale infatti c’è ma è perfettamente inserito nella descrizione della vita quotidiana all’interno del braccio della morte di un penitenziario; il regista ci introduce all’interno di un luogo così triste attraverso la delicata voce narrante di un Paul Edgecomb ormai vecchio, che decide di raccontare la sua vita all’amica “speciale” dell’ospizio. Impossibile per lo spettatore non innamorarsi all’istante dei protagonisti, che siano guardie o condannati a morte, e non diventare partecipe delle loro vicende, intenerendosi per un topolino che arriva a portare felicità ad un convitto cajun, ridendo del cameratismo che c’è tra le guardie, arrivando ad odiare con forza i due personaggi negativi, Percy e Wild Bill Wharton, trattenendo il respiro meravigliati ogni volta che compare sullo schermo John Coffey, il gigante buono; illudendosi, fino alla fine, che la conclusione della pellicola sarà positiva, nonostante tutto.
Fa molto il regista, che nonostante tutto cerca di non indugiare sui particolari macabri, anche se le esecuzioni sono molto realistiche, soprattutto quella di Delacroix, e anche se l’introduzione e il racconto della morte delle due bambine è da brividi con quel ralenti che rende tutto più ineluttabile; ma anche gli attori ci mettono del loro. In un film così fedele al libro, infatti, l’unico modo di arricchirlo ed invogliare lo spettatore a farsi catturare anche dopo aver letto il romanzo, è quello di rendere i personaggi ancora più vivi. E così anche Tom Hanks riesce ad essere un po’ meno bolso e ad interpretare un Paul Edgecomb praticamente perfetto, ma i migliori sono i “personaggi secondari”, che tanto secondari non sono: senza di loro infatti il film perderebbe gran parte della sua bellezza. David Morse e Barry Pepper sono due “spalle” d’eccezione, Michael Clarke Duncan riesce ad interpretare il gigante buono John Coffey senza renderlo patetico e ridicolo, nonostante sia in lacrime per i tre quarti del film, e il Wild Bill di Sam Rockwell è divinamente abietto. Ho amato davvero molto poi l’idea di fare scaturire il ricordo di tutta la vicenda dalla canzone “Cheek to cheek”, il pezzo più famoso della colonna sonora di Cappello a cilindro con Fred Astaire, mentre nel libro la storia parte dalla decisione del vecchio Paul Edgecomb di fissare i ricordi nella memoria scrivendoli in una sorta di diario. In poche parole, un film molto bello, di stampo classico, che potrebbe davvero piacere a tutti.
Di Tom Hanks ho già parlato qui. Presto nei cinema italiani Toy Story 3, che in originale ha lui come doppiatore del cowboy Woody, e purtroppo per tutti noi stanno per cominciare le riprese del terzo film tratto dai libri di Dan Brown, ovvero The Lost Symbol, dove ancora una volta Hanks vestirà i panni del bolsissimo Robert Langdon.
Frank Darabont è il regista e sceneggiatore del film, nonché uno dei miei preferiti vista la bravura con cui ha girato uno dei film più belli della storia del cinema, Le ali della libertà, sempre tratto da un libro di King, come l’altro suo film che devo ancora vedere, The Mist. Ha diretto anche un episodio di The Shield, per la tv. Di origine francese, ha 51 anni.
David Morse interpreta il mitico Brutal. Attore di straordinaria bravura, anche se sempre relegato in ruoli di coprotagonista, lo ricordo in L’innocenza del diavolo, nel film TV I Langolieri (sempre tratto da Stephen King), Tre giorni per la verità, l’interessante L’esercito delle 12 scimmie, The Rock, Extreme Measures, Il negoziatore, Dancer in the Dark, Cuori in Atlantide (sempre di Stephen King) e Disturbia. Ha inoltre partecipato ad episodi di Racconti di mezzanotte, Dr. House e Medium. Ha 57 anni e tre film in uscita.
Michael Clarke Duncan interpreta il gigantesco John Coffey, interpretazione che gli è valsa la nomination all’Oscar . Attore non poi tanto gigantesco (alla fine, in realtà, è alto come David Morse!!) e rinomato doppiatore, grazie alla sua voce profonda, ha recitato in Armageddon, FBI protezione testimoni, Planet of the Apes – Il pianeta delle scimmie, Sin City, Talladega Nights: The Ballad of Ricky Bobby, e in episodi dei telefilm Renegade, Willy il principe di Bel Air; Zack e Cody al Grand Hotel e Due uomini e mezzo; ha inoltre prestato la voce per Kung Fu Panda e alcuni episodi de I Griffin. Ha 53 anni e quattro film in uscita.
Barry Pepper interpreta la guardia Dean Stanton. Negli anni in cui uscì il film non c’era film in cui non si vedesse il buon Barry, al che immaginavo una carriera sfolgorante per l’attore, che invece ultimamente s’è un po’ perso. Tra i suoi film ricordo Salvate il soldato Ryan, Nemico pubblico, il vergognoso volantino pubblicitario di Scientology ovvero Battaglia per la terra, Compagnie pericolose e La 25ma ora, mentre in tv lo si può vedere recitare nei telefilm Highlander, Oltre i limiti e Sentinel. Canadese, ha 40 anni e un film in uscita.
Sam Rockwell interpreta il disgustoso Wild Bill Wharton. Attore assai particolare, tra i suoi film ricordo Tartarughe Ninja alla riscossa (!!), Alla ricerca di Jimmy, Sogno di una notte di mezza estate, Charlie’s Angels e Confessioni di una mante pericolosa, mentre tra i telefilm da lui interpretati cito Law and Order e NYPD. Ha 42 anni e due film in uscita tra cui Iron Man 2.
Tra gli altri attori ci sono Bonnie Hunt (protagonista di film storici della mia infanzia come Beethoven e Jumanji) nei panni della moglie di Paul, James Cromwell (il pastore che adotta il maialino in Babe!) nei panni del capo Warden ed infine, per tutti i Lost – addicted, comunico che Doug Hutchinson, che interpreta l’odioso Percy, nel nostro telefilm preferito si è fatto crescere un bel po’ di capelli e ha rotto per parecchio le uova nel paniere a Sawyer/La Fleur durante la quinta serie, nei panni di Horace. E ora vi lascio con la parodia dei Simpson, con una qualità che definire disgustosa è poco ma... dovevo metterlo!! Se ne trovate una versione migliore ditemelo, thanks! E... ENJOY!