Trama: in una società distopica dove le televisioni detengono il potere effettivo, Ben Richards si ritrova a dover partecipare al mortale gioco a premi The Running Man, per poter curare la figlioletta malata...
L'uomo in fuga è un romanzo del 1982, scritto da Stephen King sotto lo pseudonimo di Richard Bachman. Senza scendere troppo nei dettagli, Bachman era la "scommessa" di uno scrittore già famoso che voleva capire se sarebbe riuscito a scalare le classifiche anche privo di un nome importante, e che voleva essere libero di sperimentare, sfogarsi con opere un po' più grezze, rimaste magari nel cassetto per anni. Mi ritengo una kinghiana di ferro ma ammetto che tendo a dimenticarmi de L'uomo in fuga, perché è un romanzo scoperto in età più tarda e non è tra i miei preferiti dell'autore; non voglio essere antipatica ma è l'equivalente di uno di quei romanzetti di fantascienza mordi e fuggi, da Autogrill se vogliamo, ed è zeppo di situazioni surreali e personaggi tagliati con l'accetta, con qualche intuizione interessante che si perde in una trama abbastanza ordinaria, almeno per il mio gusto. Ritengo giusto che Edgar Wright abbia aggiornato il materiale di partenza, pur rimanendogli comunque molto fedele, calcando il pedale sul lato più grottesco ed umoristico della vicenda, perché così The Running Man diventa uno specchio della superficialità di cui siamo costantemente circondati. Il pugno di ferro pessimista, il nichilismo che governa il romanzo, qui viene diluito (ma, attenzione, non completamente cancellato!) accentuando la natura ridicola e baracconesca degli spettacoli vomitati addosso alle masse per addomesticarle attraverso la promessa di soldi facili, dando loro uno sfogo perverso verso chi "sta peggio" e muore in TV. Lo stesso Ben Richards, incazzato col mondo e duro come l'acciaio, accentua nel film quelle caratteristiche latenti di showman ed eroe suo malgrado che gli erano proprie anche nel romanzo, diventando più plausibile rispetto ad un superuomo malnutrito che riesce a fare fessa un'intera nazione. Il film punta il dito in maniera non banale sia sulla sovraesposizione mediatica che sulla facilità con cui le masse possono venire manipolate, ma anche sul pericolo dell'AI e dei deepfake, e lo fa con la leggerezza di un ottimo film d'azione, che non offre il fianco neppure a un minuto di noia e, pur seguendo la struttura di base del romanzo, reinventa ed arricchisce le "tappe" della corsa mortale di Ben Richards.
La riuscita di The Running Man poggia, per buona parte, sulle larghe spalle di Glenn Powell, che aveva già dimostrato con Hitman - Killer per caso di saper reggere quasi da solo un intero film, grazie a un mix tra l'effettivo phisique du role, un'ottima versatilità e, soprattutto, quell'umorismo che me lo ha fatto adorare fin da subito in Scream Queens (mi spiace ma, per me, Powell sarà sempre il "Chad"). Qui l'attore riceve lo scomodo scettro di Arnold Schwarzenegger e poi se ne va per la sua strada, eclissando tutti gli altri pur bravi attori che lo affiancano, ad eccezione di Michael Cera, che mi da l'occasione per parlare di un altro aspetto del film, ovvero la regia di Wright. Ecco, il vero difetto di The Running Man è che è un po' anonimo. Questo non nel senso di "brutto" o "piatto", quanto piuttosto che risulta quasi impossibile percepire la mano di Edgar Wright, se non per la cura dedicata alla colonna sonora, al montaggio e ad alcune sequenze in particolare come, appunto, quella ambientata nella casa di Perrakis. Nonostante la maggior parte delle scene siano notevoli, anche a livello di effetti speciali e ambientazioni (in particolare, spiccano la sede dell'emittente televisiva e, ovviamente, il palcoscenico dello show, ma anche l'aereo non scherza), tutto il segmento che coinvolge Parrakis e la madre è un mix perfetto di umorismo e azione, con booby traps dai risultati esplosivi e una fantastica sinergia tra la colonna sonora e quello che passa sullo schermo secondo dopo secondo. Insomma, The Running Man è un buon action distopico, ma privo di quella zampata autoriale perfettamente riconoscibile che riusciva a rendere indimenticabili le opere più famose del regista. A mio avviso, è un ottimo adattamento, perfetto per i tempi attuali, e smussa un paio di caratteristiche del romanzo che, ad oggi, sarebbero non solo anacronistiche, ma anche irricevibili. Di sicuro, anche se so di essere una brutta persona ad ammetterlo, l'ho apprezzato molto più de L'implacabile, di cui spero di parlare nei prossimi giorni.
Del regista e co-sceneggiatore Edgar Wright ho già parlato QUI. Glen Powell (Ben Richards), Karl Glusman (Frank), Lee Pace (Evan McCone), Sean Hayes (Gary Greenbacks), Josh Brolin (Dan Killian), Colman Domingo (Bobby T), William H. Macy (Molie) e Michael Cera (Elton Perrakis) li trovate invece ai rispettivi link.
Jayme Lawson, che interpreta Sheila, ha partecipato a I peccatori nei panni di Pearline. Prima che Glen Powell venisse scelto come protagonista, la rosa di candidati per il ruolo di Ben Richards comprendeva Ryan Gosling, Chris Evans e Chris Hemsworth. ENJOY!





Nella trasposizione cinematografica di un’opera letteraria inevitabilmente si deve tener conto del budget, del mezzo artistico e più in generale della poetica. Ricordo le polemiche quando uscì Jurassik Park perché le specie di dinosauri di Spielberg erano la metà del romanzo di Crichton (ma penso anche al compromesso che fu costretto a trovare De Palma per il suo finale di Carrie). Ora però nelle ultime due trasposizioni di King si è preferito conservare solo il soggetto per farne opere originali che ne tradiscono il senso originario. Niente di male ma niente mi toglie il dubbio che gli adattamenti e i cambiamenti di The Long Walk siano a uso e consumo del pubblico (v. la cicatrice di Pete) e non per una precisa scelta di poetica; peccato perché quel paesaggio apocalittico, il deserto morale dove si consuma la marcia dei Cinquanta e che è il vero protagonista del film fa a pugni con un finale che ribalta le premesse che prometteva. E anche The Running Man non è distante da questa discutibile idea di recuperare il soggetto di un’opera ma rivederne il contenuto non per aggiornarlo alla contemporaneità bensì per venire incontro a un pubblico il più vasto possibile. Anche a me era piaciuto molto il Glenn Powell di Hitman ma più guardavo il film e subivo la scelta del registro (registro che mi lascia perplesso: quando P. T. Anderson negli untimi quaranta minuti lo centellina in Una Battaglia dopo l’Altra per me il film vola) più pensavo a Bruce Willis e a quanto l’attore de L’Esercito delle 12 Scimmia trent’anni fa sarebbe stato perfetto per questo ruolo e a quanto si sarebbe mangiato il pur bravo Powell. L’Implacabile resta nel mio cuore (ecco, Schwarzy è un altro grande attore che ha saputo giocare e prendersi gioco del machismo anni Ottanta con grande intelligenza). Mi dispiace ma da un regista che ha tirato fuori Scott Pilgrim vs The World e Ultima notte a Soho questo The Running Man è un po’ una delusione.
RispondiEliminaTu mi nomini Bruce Willis e io cosa ti devo dire, se non che questo film sarebbe stato perfetto per lui?
EliminaPer il resto, nei prossimi giorni parlerò anche de La lunga marcia, che ho amato e che, a mio avviso, non tradisce affatto lo spirito tragico e pessimista del romanzo.