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venerdì 27 ottobre 2023

Killers of the Flower Moon (2023)

Siccome è uscito al ridosso del ToHorror, ho dovuto aspettare fino a martedì per vedere il nuovo film diretto e co-sceneggiato da Martin Scorsese, Killers of the Flower Moon, tratto dal libro omonimo di David Grann. Ne è valsa la pena? (Che domande, ovviamente SI'!)


Trama: anni '20, città di Fairfax. Al ritorno dal fronte della Prima Guerra Mondiale, Ernest Burkhart trova una terra dove gli indiani Osage si sono arricchiti grazie al petrolio. Lavorando come autista, conosce la giovane Osage Mollie e la sposa, ma il ricco zio Bill Hale trama nell'ombra...


Tra poco Scorsese compirà 81 anni e io vorrei arrivarci, alla sua età, con questa coerenza e lucidità. Killers of the Flower Moon (film che, per inciso, non metterei mai nella lista dei suoi primi 5, ma ciò non vuol dire sia brutto) è l'ennesima conferma della solidità della poetica Scorsesiana, legata alle radici più profonde della nazione Americana, una nazione che affonda nel sangue fin dalle sue origini e che vive pregna di sangue e violenza, vittima di mille contraddizioni e destinata a dimenticare il proprio passato o rinnegarlo. E' anche, ovviamente, una storia di persone che sono condannate ad un destino orribile nel momento esatto in cui si allontanano dal loro ambiente originario, vittime di un mondo che non comprendono appieno, e questo vale sia per gli Osage che, neanche a dirlo, per il protagonista Ernest Burkhart. Nel corso degli anni Scorsese si è fatto più cinico e, se prima i suoi personaggi erano comunque dotati di un'intelligenza che veniva obnubilata dal "vizio" e dall'eccesso, ora ci troviamo spesso davanti dei babbei senza arte né parte, mossi come marionette da gente che se la crede e sicuramente sa come stare al mondo, ma dimostra lo stesso ben poco cervello in più. Ernest, in questo, è emblematico. Il "coyote dagli occhi azzurri" più che un coyote è un cojone, un fannullone assetato di soldi che, pur amando di cuore la sua sposa indiana, non riesce a spezzare la pesante influenza che ha su di lui lo zio Bill, il Re di Fairfax, e corre allegro verso il baratro della rovina sua e della sua famiglia senza quasi neppure capire le implicazioni di ogni suo gesto. D'altra parte, Re Bill non è più furbo. Sovrano di un piccolo regno fatto di bianchi buzzurri e indiani troppo ingenui o resi sicuri dalla ricchezza per capire chi hanno davanti, Bill è in grado di giocare solo secondo le sue regole, consapevole di avere le spalle coperte anche nell'eventualità di dover buttare all'aria la scacchiera, ma crolla come un castello di carte nel momento in cui subentrano giocatori esterni neppure troppo abili. La pietà di Scorsese è, piuttosto, riservata agli Osage, nonostante la "colpevolezza" di avere rinnegato (con dolore, come testimonia la commovente sequenza iniziale) buona parte del loro retaggio, sporcandolo con la ricchezza dell'oro nero; come buona parte dei "vinti" scorsesiani, gli Osage sono stati divorati da una società che ha sfruttato proprio il loro desiderio di fare parte di un altro mondo e, in seguito, dimenticati quando la storia è stata riscritta dai vincitori, ridotta a mero racconto per casalinghe o piccola nota a pié di pagina. 


L'andamento del racconto (sì, il film dura tre ore e mezza, no, a me sono passate in un lampo ma capisco che non siamo tutti uguali) è inevitabilmente quello di un'epopea, di un noir atipico dove il colpevole si conosce fin dall'inizio, e va in netta contrapposizione con la velocità con cui i protagonisti bianchi sembrano dimenticarsi delle vittime Osage; per lo stesso motivo, la violenza sulle vittime è ripresa in campo lungo, a rispecchiare la loro natura poco importante agli occhi della città di Fairfax, e il regista preferisce insistere invece sui primi piani e piani americani, indagando sulla natura dei protagonisti, sulle maschere che indossano, sul lampo brutale di disprezzo di occhi che si fingono amici, sulla malinconica, terribile dignità di chi è costretto a vivere terrorizzato nella sua stessa casa eppure ancora si affida, speranzoso, a un briciolo di amore e umanità. Killers of the Flower Moon è un mosaico di sequenze inaspettatamente poetiche che si inseriscono in un contesto spesso triviale, e in esso la storia vera (quella raccontata da foto in bianco e nero) si mescola ad embrioni di fiction spettacolarizzante (la sequenza dello show radiofonico è spettacolare), passando attraverso gli occhi di chi non capisce letteralmente nulla e rimane lì, a provare dolore senza capire bene perché, oggetto di una lunghissima sequenza di court drama dove i concetti vengono ribaditi più e più volte (nulla me lo toglie dalla testa) a suo uso e consumo, con sommo scorno di uno spettatore già provato. Per questo, l'interpretazione di Di Caprio è perfetta. Ernest passa il tempo a cercare di imitare il Re, a cui guarda come una divinità e come esempio da seguire, conseguentemente la sua mimica facciale è la versione distorta e quasi caricaturale di quella di De Niro, che invece è l'apoteosi del vecchio bastardo che ha in odio il mondo intero e pensa solo a se stesso. In una sfilata di facce davvero brutte (ma amate. Ciao Brendan, ciao John, ciao Martin, ciao Larry e Pat!!) spicca il volto bellissimo di Lily Gladstone, con la sua espressione compassata e gli occhi tristi e profondi, rappresentazione vivente di un popolo forte ma ridotto, con "amore", a folkloristico ricordo celebrato dai pochi che hanno ancora memoria, e danzano sotto la Flower Moon in un finale di inenarrabile tristezza. Dite quello che volete, ma per me Scorsese ha fatto centro anche stavolta, e quando avrà voglia di rapirmi per altre tre ore e mezza saprà sempre dove trovarmi.


Del regista e co-sceneggiatore Martin Scorsese (che compare nei panni del produttore radiofonico) ho già parlato QUI. Leonardo DiCaprio (Ernest Burkhart), Robert De Niro (William Hale), Jesse Plemons (Tom White), John Lithgow (Peter Leaward, avvocato dell'accusa), Brendan Fraser (W.S. Hamilton), Pat Healy (Agente John Burger), Michael Abbott Jr. (Agente Frank Smith) e Larry Fessenden (interprete radiofonico di Hale) li trovate invece ai rispettivi link.


Leonardo DiCaprio doveva inizialmente interpretare l'agente Tom White, ma il ruolo è andato a Jesse Plemons (che ha rinunciato così a partecipare a Nope nei panni di Jupe) perché Scorsese ha deciso di rendere il rapporto tra Mollie ed Ernest il fulcro del film. Ciò detto, se Killers of the Flower Moon vi fosse piaciuto, recupererei Gangs of New York, Quei bravi ragazzi, Casinò e The Irishman. ENJOY!

venerdì 22 ottobre 2021

We Need to Do Something (2021)

Il secondo giorno di ToHorror Film Fest ha portato con sé uno dei migliori horror dell'anno, We Need to Do Something, diretto dal regista Sean King O'Grady.


Trama: bloccati in bagno da una tempesta, i membri di una famiglia disfunzionale devono cercare di sopravvivere ma non è facile quando l'odio sopito a fatica viene a galla...


Da quanto tempo non andavo a letto, dopo aver visto un horror, con i nervi a fior di pelle e il terrore di addormentarmi con la testa scoperta, attenta ad ogni più piccolo rumore all'interno della stanza e fuori. Tale è stato il potere di questo piccolo film, We Need to Do Something, girato in piena pandemia con pochissimi spiccioli, tutti utilizzati per gli splendidi effetti speciali di un paio di scene assai gore, e con una rigorosa unità di spazio, visto che la pellicola è interamente ambientata in un bagno, salvo giusto un paio di concessioni necessarie ai flashback che interessano il personaggio di Melissa. We Need to Do Something è quel genere di film, a me tanto caro, dove viene spiegato giusto lo stretto necessario mentre il resto è lasciato all'intelligenza e alla sensibilità dello spettatore, che si ritrova preso in un vortice di angoscia causato non solo da una situazione esterna che non verrà mai chiarita del tutto, ma soprattutto dalle dinamiche interne a un gruppo di persone costrette in un ambiente ridotto per un tempo indefinito, sottoposte a pericoli fisici e, soprattutto, a molto stress psicologico. La famiglia protagonista del film è disunita, lo capiamo fin dalle primissime inquadrature: il padre si isola già dall'inizio, preferendo la compagnia della "coperta di Linus" alcoolica contenuta in un thermos a quella di moglie e figli, la giovane Melissa vorrebbe solo essere assieme alla fidanzata e non smette di guardare un attimo il cellulare (e il motivo di questa sua ansia verrà chiarito andando avanti), la madre e il figlioletto parrebbero dipendere l'uno dall'altra e formare un mondo a parte rispetto agli altri due, inoltre c'è tutta una serie di cose non dette e rancori legati al passato che metterebbero a dura prova persino la Famiglia Cuore, figuriamoci questa. Su una base di partenza già così esplosiva, Sean King O'Grady e lo sceneggiatore (nonché scrittore del romanzo da cui è tratto il film) Max Booth III aggiungono strati di disagio crescente, iniziando da una situazione di paziente attesa dei soccorsi per arrivare a momenti di terrore e paranoia da togliere il fiato.  


Buona parte del disagio provato dallo spettatore deriva dall'introduzione di un possibile elemento sovrannaturale che rende la situazione della famiglia ancora più precaria. Dico possibile perché We Need to Do Something è interamente presentato dal punto di vista della giovane Melissa, il tipico narratore inaffidabile le cui percezioni potrebbero essere state stravolte non solo dalla situazione terribile in cui viene a trovarsi, tra stress, stanchezza e fame, ma anche dalla forte personalità della fidanzata impelagata in culti necromantici e quant'altro, quindi non è detto che tutto ciò che si vede nel film sia reale. Purtroppo (per le mie coronarie) non importa granché che l'orrore sia reale o immaginario, perché a noi tocca vederlo o, ancor peggio, sentirlo: We Need to Do Something contiene la sequenza più terrificante dell'anno, il riaggiornamento della dannata leggenda metropolitana del cane con l'aggiunta di un elemento totalmente inaspettato e non importa quanto potreste essere preparati all'incoolata, è proprio la convinzione di sapere che vi fregherà com'è successo a me, che ho fatto venti metri di salto sulla poltrona. Non è l'unica sequenza di pregio della pellicola, ci mancherebbe, anche perché We Need to Do Something ci regala innanzitutto un Pat Healy in gran spolvero, più terrificante di tutto quello che potrebbe esserci fuori dal bagno, e poi un finale che rischia di abbracciare idealmente quello del capolavoro di Carpenter, Il seme della follia, e ti lascia lì con la voglia di morire e non uscire mai più dalla sicurezza illusoria data da una copertina sulla testa. Provare per credere, io intanto vado a cercare il racconto di Max Booth III per leggerlo!


Di Sierra McCormick (Melissa) e Pat Healy (Robert) ho già parlato ai rispettivi link.

Sean King O'Grady è il regista della pellicola, al suo primo lungometraggio. Lavora soprattutto come produttore ed è anche attore e sceneggiatore.


Vinessa Shaw
interpreta Diane. Americana, ha partecipato a film come Hocus Pocus, Eyes Wide Shut, Il mistero dell'acqua, Le colline hanno gli occhi e a serie quali La signora in giallo, Dr. House e CSI - NY. Anche regista e produttrice, ha 45 anni. 


Occhio al cammeo vocale di Ozzy Osbourne in un ruolo che non vi spoilero. ENJOY!

martedì 2 febbraio 2021

Run (2020)

Alcuni giorni prima delle feste di Natale ho recuperato Run, diretto e co-sceneggiato nel 2020 dal regista Aneesh Chaganty.

Trama: la giovane Chloe, afflitta da molteplici malattie che la costringono, tra le altre cose, sulla sedia a rotelle, arriva a sospettare che la madre nasconda degli oscuri segreti...


Ho cominciato Run giusto per passare un'ora e mezza ad ammirare la divina Sarah Paulson (di cui devo ancora recuperare Ratched, con calma, magari nel 2028, chissà), senza troppe aspettative e quando sono arrivata alla fine ero così in tensione che non mi ero nemmeno accorta del miracolo di averlo guardato tutto senza interruzioni né attacchi di sonno. Cosa è, in definitiva, questo "miracoloso" Run? Lì per lì parrebbe uno di quei bei thriller di una volta, una di quelle pellicole anni '90 piene di gente matta ed inquietante che fa subire le peggiori cose a persone che non se lo meritano, in realtà la sua struttura e la sua realizzazione, oltre alla presenza di due validissime interpreti, lo eleva dalla media di quelle vecchie produzioni (e vorrei ben vedere!) anche grazie ad un paio di elementi interessanti. La storia è molto simile a un Misery non deve morire: abbiamo la protagonista, Chloe, una ragazza piena di problemi di salute ma comunque felice di un'esistenza regolata nella quale riesce a gestire i suoi handicap, che a un certo punto comincia a sospettare che mamma Diane non sia così amorevole e centrata come sembra. I sospetti di Chloe nascono da piccolissime cose ma lo spettatore, vittima della malizia nell'occhio di chi "guarda", comincia a mangiare la foglia a partire da cose ancora più piccole e ha già capito che le speranze della protagonista di andare a un college non coincidono con i desideri di una madre possessiva. Non vi spoilero nulla, anzi, questo è solo l'incipit di un film che a poco a poco, sempre in maniera indiretta e scevra di spiegoni, diventa sempre più cupo ed inquietante, andando a peggiorare notevolmente la già precaria situazione di Chloe.


Quanto alla protagonista, un'aspetto interessante di Run è che la brava Kiera Allen è davvero disabile, in quanto costretta su una sedia a rotelle fin dal 2014. Al di là di un realismo meramente "fisico", che le sfumature di un personaggio così sfaccettato vengano rese da un'attrice con i medesimi problemi è confortante: Chloe non è lo stereotipo della damigella paraplegica in pericolo, bensì una ragazza intelligente e capace, piena di risorse e decisa a metterle a frutto per avere una vita normale, un desiderio "banale" che la madre non rispetta, con tutte le conseguenze del caso. Il viaggio di Chloe consiste nel recuperare il controllo della sua esistenza quando questo le viene sottratto, liberandosi da un giogo sottile e da una dipendenza talmente delicata che la rivelazione di essere, in fin dei conti, prigioniera, arriva addosso alla ragazza come una doccia fredda. Poi, ovviamente, c'è Sarah Paulson e cosa si può dire di un'attrice semplicemente perfetta per questi ruoli borderline di matta fragile alla quale basta una spintarella per andare completamente in pezzi? La seconda metà del film è un capolavoro di tensione anche grazie a lei, ai suoi sguardi, ai suoi gesti, e la sinergia con Kiera Allen arriva dritta al cuore e agli occhi dello spettatore. Run è dunque perfetto per godersi un thriller ben fatto che richiede da parte del pubblico anche un po' di attenzione e cervello, soprattutto per apprezzarne appieno le sfumature. 


Di Sarah Paulson (Diane Sherman) e Pat Healy (Tom il postino) ho già parlato ai rispettivi link.

Aneesh Chaganty è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Americano, ha diretto il film Searching. Anche produttore e attore, ha 29 anni.


Tony Revolori
, lo Zero di The Grand Budapest Hotel, è la voce dell'uomo che Chloe chiama per avere informazioni sulle medicine. Se Run vi è piaciuto recuperate Misery non deve morire. ENJOY!

martedì 6 febbraio 2018

The Post (2017)

Domenica è giorno dedicato al cinema in sala e per l'occasione cosa è meglio di The Post, l'ultimo film diretto da Steven Spielberg e candidato a due Oscar (Miglior Film e Meryl Streep Miglior Attrice Protagonista)?


Trama: durante la presidenza Nixon una "talpa" diffonde le prove di come almeno quattro presidenti americani abbiano mentito relativamente a motivi e successi legati al conflitto in Vietnam. E mentre il Congresso si impegna per imbavagliare la stampa, la proprietaria del Washington Post e il suo editore alzano la testa non solo per amore di scoop...


Ah, il Vietnam! Ah, la presidenza Nixon! Probabilmente il binomio di questi due elementi rappresenta per ciascun americano "liberale" il peggiore degli spauracchi ma la verità è che, scavando neppure troppo in profondità, si viene a scoprire che nemmeno il "pistolero" JFK era esente da critiche e lo stesso vale per tutti e quattro i presidenti americani coinvolti nel conflitto vietnamita. The Post, l'ultimo film di Steven Spielberg, parte dal ritrovamento e conseguente diffusione di documenti compromettenti ed affermanti quanto sopra, i cosiddetti Pentagon Papers, per analizzare altre questioni spinose, dall'ovvia punta dell'iceberg rappresentata dalla lotta tra stampa e potere fino ad arrivare a toccare temi quali il conflitto d'interesse legato a questioni di amicizia/prestigio e persino il ruolo della donna nei luoghi di potere. Quest'ultimo punto in particolare mi ha colpita, soprattutto perché la questione della parità dei sessi è argomento di grande attualità. In The Post abbiamo due protagonisti, l'editrice del Washington Post Kay Graham e il direttore Ben Bradlee, ognuno impegnato sullo stesso fronte ma con due approcci ben diversi; quello di Ben, cosiddetto "pirata" del Post, è l'atteggiamento del giornalista rampante sempre a caccia di notizie succulente, mentre Kay deve fungere da mediatore tra pubblico, giornalisti e azionisti di una società appena presentata in Borsa, oltre a dimostrare costantemente di poter lavorare agli stessi livelli del padre e del defunto marito. Se quello di Ben è quindi un personaggio a tutto tondo ma comunque archetipico, così non è per Kay, apparente "oca grassa" dell'alta società, incapace (vuoi per timidezza, vuoi perché asservita al ruolo di donna imposto dalla società) di prendere decisioni sovversive, alla quale il paraocchi viene tolto molto lentamente nonostante le sue intelligenza e cultura elevate. Il dramma umano di Kay viene posto su un piano parallelo ma equivalente a quello dell'intera indagine giornalistica e i due aspetti del film lavorano in perfetta sinergia per offrire allo spettatore sia l'emozione di un'inchiesta seria, con echi da spy story e legal drama, sia quella di godersi un interessante racconto di formazione che evidenzia con garbo ma anche decisione la stupida disparità tra i sessi, promulgata spesso dalle stesse donne. Al di là delle tristissime dichiarazioni dei consiglieri di Kay e dell'appassionante monologo di Sarah Paulson, sono proprio gli atteggiamenti remissivi ed indecisi della facoltosa editrice e molti eventi di mero contorno a dare un quadro chiaro del terreno minato in cui erano costrette a muoversi donne potenti come la protagonista, considerate dai più nient'altro che bambine desiderose di fare "le grandi" senza tuttavia esserne in grado.


Non è "solo" la sceneggiatura (alla quale ha messo mano Josh Singer, lo stesso de Il caso Spotlight), ma anche la regia di Spielberg a fare emergere questo aspetto apparentemente secondario, attraverso inquadrature che separano le "brave mogli" dai mariti impegnati, lasciandole spesso sole in mezzo ad un lusso tanto simile a una gabbia, relegandole a figure di sfondo finché a qualcuna non viene in mente di alzare lo sguardo, rubare letteralmente la scena, porsi al centro della stessa calamitando in toto l'attenzione dello spettatore. E' lo stesso Spielberg che ha realizzato il film in nove, impensabili mesi riuscendo comunque ad omaggiare la settima arte (il film finisce praticamente nello stesso identico modo con cui inizia Tutti gli uomini del presidente), a confezionare sequenze dinamiche ed esaltanti (tutte quelle che tirano fuori il fuoco creativo di una redazione in fermento, con quei giri di macchina circolari e le carrellate rapidissime), altre fatte di pura paranoia (quelle che vedono impegnato Bob Odenkirk, ripreso a notevole distanza, o sovrimpongono la vera voce di Nixon alla sua immagine ripresa dietro le mura sicure della Casa Bianca), altre incredibilmente affascinanti (la cinepresa che entra letteralmente nel cuore del processo di stampa del Washington Post), altre infine di deliziosa leggerezza, ché il timbro di The Post è anche molto ironico, per fortuna. E poi ci sono gli attori, ovviamente. L'unico difetto "fastidioso" di The Post, ma non solo di questo film ahimé, è la reiterata e scellerata scelta di relegare l'adorabile Sarah Paulson in ruoli di secondo piano e per fortuna che le è stato "regalato" il monologo più bello del film altrimenti se fossi stata costretta a vederla impegnata solo a fare panini mi sarei messa ad urlare. Per il resto, Tom Hanks e Meryl Streep sono bravissimi come al solito ed effettivamente lei porta a casa l'ennesima interpretazione da applauso (che tuttavia non ho potuto godere appieno, filtrata ovviamente dal doppiaggio italiano) ma anche il cast di supporto non è affatto male e, in particolare, il Ben Bagdikian di Bob Odenkirk è decisamente sublime, oltre che l'unico personaggio ad essere riuscito a farmi venire un lieve groppo alla gola. Come già ne Il ponte delle spie, dunque, ci si trova davanti uno Spielberg impegnato ma "lieve", pronto a raccontare una storia vera e tremendamente seria, nonché importante, assecondando comunque le esigenze di spettacolo e facendo riflettere il pubblico coinvolgendolo come solo lo zio Spilby sa fare. E per questo non posso che volergli bene!


Del regista Steven Spielberg ho già parlato QUI. Meryl Streep (Kay Graham), Tom Hanks (Ben Bradlee), Sarah Paulson (Tony Bradlee), Bradley Whitford (Arthur Parsons), Bruce Greenwood (Robert McNamara), David Cross (Howard Simons), Pat Healy (Phil Geyelin) e Michael Stuhlbarg (Abe Rosenthal) li trovate invece ai rispettivi link.

Bob Odenkirk (vero nome Robert John Odenkirk) interpreta Ben Bagdikian. Americano, famoso per il ruolo di Saul Goodman/Jimmy McGill nelle serie Breaking Bad e Better Call Saul, ha partecipato a film come Fusi di testa 2 - Waynestock, Il rompiscatole, Nebraska, The Disaster Artist e ad altre serie quali Pappa e ciccia, Una famiglia del terzo tipo, Perfetti... ma non troppo, Weeds, How I Met Your Mother e Fargo; come doppiatore ha lavorato in Futurama e American Dad!. Anche sceneggiatore, produttore e regista, ha 56 anni e un film in uscita, Incredibles 2.


Tracy Letts interpreta Fritz Beebe. Americano, ha partecipato a film come La grande scommessa, Christine, Lady Bird e a serie quali Quell'uragano di papà e Prison Break. Anche sceneggiatore e produttore, ha 53 anni.


Jesse Plemons interpreta Roger Clark. Americano, ha partecipato a film come Paul, The Master, Black Mass - L'ultimo gangster, Il ponte delle spie e a serie quali Walker Texas Ranger, Sabrina vita da strega, CSI - Scena del crimine, Grey's Anatomy, Cold Case, Breaking Bad, Fargo e Black Mirror. Ha 30 anni e due film in uscita, tra i quali The Irishman.


Tra le mille comparse, spunta la figlia del regista Sasha Spielberg, ovvero la donna che consegna la scatola coi documenti al Washington Post. Se The Post vi fosse piaciuto recuperate Tutti gli uomini del presidente, Il caso Spotlight e Il ponte delle spie. ENJOY!


domenica 25 gennaio 2015

Starry Eyes (2014)

Tornando ai recuperi horror del 2014 tocca oggi al particolare Starry Eyes, diretto e sceneggiato proprio l'anno scorso dai registi Kevin Kolsch e Dennis Widmyer.


Trama: un'attricetta di belle speranze viene notata durante un'audizione a cui seguono però prove sempre più degradanti e folli...



Gli occhi, si dice, sono lo specchio dell'anima. E gli occhi di chi vorrebbe a tutti i costi entrare nel mondo glamour del cinema sono colmi di stelle, le stesse che decorano la famosa Hall of Fame, le stesse che abbagliano ingannevoli con la loro luminosa freddezza rispecchiando un'altrettanto fredda ambizione. Lo sa bene la protagonista di Starry Eyes, Sarah, divorata da un desiderio di successo talmente forte e piegata da una frustrazione talmente grande da portarla ad auto-punirsi per ogni audizione andata male. Gli scatti d'ira di Sarah, benché rivolti verso i suoi capelli, rivelano un indescrivibile odio verso tutto quello che la circonda, come il suo lavoro e, soprattutto, i suoi amici. Voglio dire, quelli li odierei anche io: ficcanaso, molli, fighètti, convinti anche loro di poter diventare qualcuno solo perché riescono a scrivere due sceneggiature o a tenere in mano una videocamera e pronti a farti le scarpe o a prenderti in giro per ogni inezia. Ma Sarah non è migliore, è solo che i due sceneggiatori ci presentano la storia dal suo punto di vista e allora siamo costretti ad empatizzare un minimo per lei almeno finché la protagonista, sentendosi tradita dagli amici, dal mondo e dall'universo intero, getta alle ortiche ogni briciolo di dignità seguendo la chimera di un successo facile nonostante tutto all'interno della casa di produzione Asterus urli "PERICOLO!" fin dal primo momento. E' una scelta consapevole quella di Sarah, dettata dalla disperazione e da un senso di vergogna per essere una fallita agli occhi degli altri (in questo mondo d'apparenza che l'horror non sembra mai pago, giustamente, di distruggere) ed è una scelta che la porterà ad esternare tutto il marciume che si porta dentro prima di brillare, ingannevole e perfetta, come le stelle di cui parlavo all'inizio.


Starry Eyes è un film angosciante ed angoscioso (e i liguri capiranno la sottile differenza), talvolta poco originale per i temi che tratta e anche troppo didascalico e telefonato, soprattutto per i cultori dell'horror, ma è anche molto affascinante per quel che riguarda le immagini e la musica. Kolsch e Widmyer se la prendono con calma, costruiscono la tensione e danno corpo al personaggio di Sarah con una prima parte lenta, piena di immagini emblematiche e rimandi al glorioso passato del Cinema glamour, poi affondano la lama nello stomaco dello spettatore sconfinando sereni e spietati nel territorio del body horror zeppo di sangue, sporco e decadenza fisica. Prima ancora della macellata che prelude al finale sono le scene che vedono Sarah come unica protagonista a disturbare, a stridere quasi con una prima parte realizzata sul filo dell'allucinazione, dove l'inquietante musica di un carillon sfuma spesso e volentieri in melodie elettroniche anni '80, dal sapore Fulciano, e con la conclusione pulita e raffinata, il malefico trionfo dell'apparenza. Validissimi tutti gli attori coinvolti, a partire dalla protagonista Alex Essoe che, se dobbiamo dare retta alle leggende metropolitane che girano in rete, ha messo letteralmente corpo ed anima a servizio della sceneggiatura, sopportando anche esigenze di copione parecchio disgustose, e sempre gradita la comparsa di Pat Healy, nume tutelare delle produzioni indipendenti più recenti. E, come mi ritrovo sempre più spesso a dire in questi ultimi tempi, Dio benedica il cinema indipendente, che riesce a reinventare anche il più banale dei cliché. Starry Eyes è dunque un film che consiglio soprattutto agli amanti di un certo tipo di horror nostalgico, più concentrato sull'analisi psicologica dei personaggi che sullo spavento fine a sé stesso... ma non lasciatevi ingannare come Sarah, la pellicola non è affatto adatta ai deboli di stomaco!


Di Pat Healy, che interpreta Carl, ho già parlato QUI.

Kevin Kolsch e Dennis Widmyer sono i registi e sceneggiatori della pellicola. Entrambi anche produttori, hanno diretto il film Absence.


Due parole due sui giovani attori che compaiono nella pellicola: Amanda Fuller (Tracy) aveva già partecipato a Cheap Thrills, Fabianne Therese (Erin) era nel cast di John Dies at the End mentre Nick Simmons (Ginko) è il figlio di Gene Simmons dei KISS. Detto questo, se il film vi fosse piaciuto magari recuperate Society di Brian Yuzna. ENJOY!


venerdì 30 maggio 2014

Cheap Thrills (2013)

Spinta dalla lettura di recensioni molto positive e dalla presenza dell'adorabile David Koechner, l'altra sera ho deciso di guardare Cheap Thrills, diretto nel 2013 dal regista E.L. Katz.


Trama: Craig, sposato e padre di famiglia, si ritrova improvvisamente senza lavoro e con un avviso di sfratto sulla porta. La stessa sera incontra il vecchio amico Vince e un'eccentrica coppia di ricchi annoiati che, con la promessa di soldi facili, coinvolge i due in un vortice sempre più perverso di prove e scommesse...


Cheap Thrills rientra di diritto in quel prospero, intrigante filone di commedie nerissime dove la risata va spesso e volentieri a braccetto con orrore, disagio ed angoscia, più o meno accennati; tra gli esempi più alti del genere o, meglio, tra quelli che più ho amato, mi vengono giusto in mente Piccoli omicidi tra amici, Cose molto cattive o Una cena quasi perfetta (Cheap Thrills assomiglia più alla vecchia pellicola di Danny Boyle che a quelle con Cameron Diaz tra l'altro). Tuttavia, sarà perché mala tempora currunt, sarà perché nel frattempo sono entrata negli Enta, ho riso davvero poco guardando il film di E.L. Katz e non perché mancasse il divertimento, anzi: Cheap Thrills nel corso della sua prima metà scodella una serie di situazioni grottesche da manuale, che non avrebbero affatto sfigurato in una di quelle tipiche commedie idiote americane... però, anche durante questi momenti esilaranti, si avverte palpabile IL DISAGIO. IL DISAGIO, scritto a caratteri cubitali, esplode prepotentemente nel finale che, per quanto prevedibile (come tutto il film del resto), riesce a lasciare lo spettatore con un soverchiante senso di vergogna ed impotenza. Diciamoci infatti la verità: per tutto il film il nostro ruolo coincide con quello di Violet e Colin, i due ricchi annoiati che scommettono su cosa sarebbero disposti a fare due poveracci disperati per avere dei soldi facili e, come loro, trepidiamo tra lo schifato e il divertito nell'attesa di scoprire quali saranno le reazioni di Craig e Vince davanti alle proposte sempre più estreme della coppia. IL DISAGIO però nasce dal fatto che noi non saremo MAI come Violet e Colin ma, molto più facilmente, rischieremmo di trovarci nei panni di Craig e Vince, disperati e con l'acqua alla gola, disposti a rinunciare a dignità, umanità e amicizia per riuscire a sopravvivere in una società che non ci uccide con guerre, carestie o epidemie, bensì con un semplice avviso di sfratto o licenziamento, con una sudata laurea che ci consente a malapena di diventare meccanici sottopagati, con aspirazioni e sogni di grandezza schiacciati dall'impietosa natura "pratica" del mondo che ci circonda mentre ci chiediamo diffidenti cosa pensino di noi i nostri amici e come fare per ottenere approvazione, riscatto o affermazione sociale. In una società come questa nascono i mostri peggiori e basta un solo attimo di debolezza per morire, non necessariamente in senso fisico, e diventare talmente orribili, così brutti "dentro" e fuori da terrorizzare persino i nostri figli. Capirete quindi che, nonostante le premesse, c'è davvero poco da ridere e qui sta l'intelligenza di un film che è molto più di quel che appare.

IL. DISAGIO.
Come in un'opera teatrale di alta caratura, pochi sono i protagonisti e ancora meno gli ambienti in cui si muovono, ma ovviamente entrambi gli elementi sono ottimi. Tra le quattro mura di un bar prima e di una villa poi si consuma il dramma che vede coinvolti degli attori in stato di grazia che non fanno mai dubitare, nemmeno per un attimo, della verosimiglianza delle persone portate su schermo. Pat Healy è il perfetto medioman, l'uomo della strada che non farebbe male a una mosca né rimarrebbe impresso durante un incontro: la contrapposizione con lo scapestrato strozzino interpretato da Ethan Embry è palese e diventa la chiave del gioco al massacro rappresentato nella pellicola dal momento in cui Healy si abbruttisce fisicamente e mentalmente, spillando sangue dall'anima e dal corpo, mentre Embry risulta sempre più sfigato e patetico, disperatamente invidioso della vita apparentemente perfetta dell'amico di un tempo e disposto a qualunque bassezza pur di mostrarsi "superiore" e degno agli occhi dei due ricconi. Dall'altra parte della barricata, invece, si trova la coppia incarnata da David Koechner e Sarah Paxton, lei bellissima, annoiata ed eterea e lui caciarone ed inquietante come pochi, semplicemente inarrivabili e perfetti, la moderna rappresentazione del "male". Per quel che li riguarda, il regista indugia sui dettagli, sui gesti, sulle espressioni appena accennate (soprattutto della Paxton) e sul sottile gioco di sguardi che, fin dall'inizio, lascia intuire che sotto l'atteggiamento indolente di lei e quello compagnone di lui c'è molto di più. Anzi, c'è molto meno di quello che ci aspetteremmo. Perché i due riccastri, a dirla tutta, si limitano a sventolare soldi e proporre scommesse, senza forzare la mano, senza essere violenti o subdoli, con una sincerità di intenti e, soprattutto nel caso dell'inarrivabile Koechner, con una simpatia che ha del disarmante. Non c'è nessuna "tela del ragno", nessun complotto, nessuna machiavellica macchinazione ed è questa la cosa terribile e bellissima di un film che vi consiglio spassionatamente di vedere... per poi magari riflettere su quello che si nasconde dentro di voi, tra una risata a denti stretti e l'altra.


Di Pat Healy (Craig), Ethan Embry (Vince), Sarah Paxton (Violet) e David Koechner (Colin) ho già parlato ai rispettivi link.

E. L. Katz è il regista della pellicola, al suo primo film. Presto uscirà The ABCs of Death 2, che includerà anche un episodio diretto da lui. Americano, anche sceneggiatore, produttore e attore, ha 33 anni.


Se Cheap Thrills vi fosse piaciuto, non perdetevi 13 Beloved (o 13: Game of Death, i titoli variano) e magari le altre commedie nere che ho citato qui e là durante il post. ENJOY!


domenica 5 febbraio 2012

The Innkeepers (2011)

Il bello di essere blogger è che si viene a conoscenza di film che, altrimenti, sarebbero molto probabilmente passati inosservati. Questo è sicuramente il caso del bellissimo The Innkeepers, diretto nel 2011 dal regista Ti West. Quindi, prima di cominciare la recensione, mi sento in dovere di ringraziare i “padroni” dei blog Il giorno degli zombi, Book and Negative e A rip in the fabric, in primis per avere scritto delle recensioni talmente interessanti ed entusiastiche su The Innkeepers da avermi fatto venire voglia di superare la mia atavica pigrizia e di sbattermi a cercarlo. E poi, come direbbe Maccio Capatonda, perché sono sicuramente dei blogger MEGLIO. Grazie!


Trama: ultimi giorni di attività dello storico hotel Yankee Pedlar Inn. Mentre gli ospiti si presentano col contagocce, i receptionist Claire e Luke cercano le prove dell’esistenza di fantasmi nell’edificio…


Dopo i doverosi ringraziamenti ai blogger, c’è un’altra persona che devo ringraziare, ed è il regista e sceneggiatore Ti West. Incurante delle leggi di mercato che vogliono gli horror moderni come delle stupide ed economiche sagre dello spavento facile, lui ha deciso infatti di girare un film lento, curato, ben diretto, ancor meglio recitato, che diventa horror solo negli ultimi dieci minuti. Un bel fangool di proporzioni cosmiche ad Oren Peli e alla sua franchise Paranormal Activity, insomma. Sì perché di base il “tema” è comunque quello della casa infestata e dei poveri pirla che decidono di immolarsi per testimoniare eventuali fenomeni paranormali. Solo che la cosa splendida di The Innkeepers è che lo spettatore si affeziona a questi poveri pirla, proprio come ogni lettore si affeziona ai personaggi dei libri di Stephen King, seguendo la massima “gente ordinaria in situazioni straordinarie”… inoltre, cosa assolutamente non scontata nell’attuale cinema di genere, il film non si limita a spaventare (come il viral video che Luke mostra a Claire…), ma RACCONTA una storia, catturando l’attenzione e la curiosità dello spettatore dall’inizio alla fine.


La bontà di The Innkeepers si può godere fin dall’inizio, con la bellissima colonna sonora che accompagna le immagini della Yankee Pedlar Inn, dalla costruzione fino ad oggi. Poi il film comincia, introdotto dal titolo del primo capitolo della storia (in totale sono tre, più l’epilogo)… e noi siamo già irrimediabilmente persi. Catturati dall’assoluta simpatia e verosimiglianza di Claire e Luke, che non sono stupide e vuote vittime sacrificali come quelle di Paranormal Activity, né fighetti arrapati come nella maggior parte dei film horror, ma due colleghi, due amici che cazzeggiano, parlano, si prendono in giro, palesano tic, desideri, simpatie ed antipatie come potrebbe fare chiunque nei loro panni, come tutti noi facciamo quotidianamente, in effetti. West non tralascia nulla e si concentra nel caratterizzare e rendere “viva” soprattutto Claire, con le sue smorfie, la sua incapacità di gettare un enorme saccone della spazzatura, il suo scazzo davanti alla barista che le racconta dei dubbi sul fidanzato, la sua delusione nell’essere trattata male dall’attrice di cui è una grande fan, e tanti altri piccoli dettagli che, in definitiva, costituiscono l’ossatura stessa del film e che sono portati su schermo con incredibile sensibilità dall’attrice Sara Paxton. E l’orrore, direte voi, quando arriva quindi e cosa c’entra?


L’orrore c’è. La paura incombe sui due poveri malcapitati, sugli altri ospiti dell’hotel e sullo spettatore, appena percepita, come una stonatura in una melodia oppure come un suono di sottofondo, che solo un potente microfono potrebbe captare. C’è la storia di Madeline O’Malley, che sarebbe morta in circostanze assai misteriose e il cui fantasma infesterebbe l’hotel, tanto che Luke giura di averlo visto; c’è un’attrice riscopertasi medium che dice a Claire, in buona sostanza, di farsi gli affari suoi e non andare a curiosare in cantina; c’è uno strano vecchietto che desidera a tutti i costi dormire nella vecchia Honeymoon Suite; infine, c’è un pianoforte che suona da solo. E questo è solo l’inizio, ovviamente, questi sono solo gli strumenti che vengono accordati prima della brevissima, intensa sinfonia finale, dove l’orrore vero, ineluttabile ed inarrestabile come il destino, esplode con l’infrangersi di un cristallo. Per poi aleggiare a lungo nelle menti e nei cuori degli spettatori, danzando a braccetto con una tristezza e un senso di perdita che raramente si provano alla fine di un horror. In due parole, The Innkeepers è un gioiello che difficilmente verrà “esposto” in Italia ma che merita di essere recensito da ogni blogger cinematografico che si rispetti. Chissà, forse per una volta il passaparola funzionerà e sarà il buon cinema a vincere.

Ti West è il regista e sceneggiatore della pellicola. Americano, ha diretto film come The House of the Devil e Cabin Fever 2 – Spring Fever. Anche attore e produttore, ha 32 anni e due film in uscita.


Sara Paxton interpreta Claire. Americana, ha partecipato a film come Bugiardo bugiardo, Aquamarine, Superhero – Il più dotato fra i supereroi, L’ultima casa a sinistra e Shark Night 3D, oltre a serie come Lizzie McGuire, CSI: Scena del crimine, CSI: Miami, Malcom, Will & Grace. Ha anche doppiato degli episodi di Spongebob Squarepants. Ha 24 anni e cinque film in uscita.


Pat Healy interpreta Luke. Americano, ha partecipato a film come Magnolia e Ghost World, oltre a serie come NYPD, Angel, CSI: Miami, Streghe, Six Feet Under, Cold Case, Senza traccia, CSI: Scena del crimine, Grey’s Anatomy e 24. Anche sceneggiatore, regista e produttore, ha 41 anni.


Kelly McGillis interpreta Leanne. Americana, ha partecipato a film come Witness – Il testimone, Top Gun e Stakeland, oltre ad un episodio della serie Oltre i limiti. Anche produttrice, ha 55 anni e due film in uscita.


Aggiungo un ringraziamento anche al curatore del bellissimo blog Pensieri Cannibali, che ha pubblicato un’ancor più bella recensione dopo che io avevo già visto il film! Menzione d’onore, insomma. ENJOY!!

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