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lunedì 23 dicembre 2024

Apartment 7A (2024)

Lo so, era uscito ad Haloween su Paramount + il prequel di Rosemary's Baby, ovvero Apartment 7A, diretto e co-sceneggiato dalla regista Natalie Erika James. Ma io ne parlo sotto Natale, dandovi appuntamento a venerdì prossimo per le consuete classifiche di fine anno e facendovi tanti auguri di Buone Feste, visto che il Bollalmanacco se ne va un po' in pausa! ENJOY!


Trama: Terry, giovane ballerina caduta in disgrazia dopo un infortunio, viene presa in simpatia dagli anziani coniugi Castevet, che le offrono di andare a vivere nel loro stesso palazzo, in un appartamento di loro proprietà. Dopo un primo periodo di felicità, Terry comincia a temere che il prezzo da pagare per una simile fortuna sia troppo alto...


Adoro Rosemary's Baby. E' uno di quei film che ho visto tante di quelle volte da saperlo quasi a memoria, eppure ogni volta me lo godo come se fosse la prima. Nonostante questo, l'idea che fosse in produzione un prequel non mi ha né sconvolta né indispettita e, appena Apartment 7A è diventato disponibile, mi sono fiondata a guardarlo. Forse mi dava delle buone vibrazioni l'idea che dietro la macchina da presa e alla sceneggiatura ci fosse Natalie Erika James, già molto apprezzata per il suo Relic, forse ero davvero curiosa di sapere cosa fosse successo al Bramford prima dell'arrivo di Rosemary e Guy; sia come sia, la mia fiducia è stata ricompensata da un film ottimo, che riguarderei volentieri anche una seconda volta. Per carità, qualche difetto ce l'ha. Il secondo atto è facilone a livello imbarazzante, perché Terry deve in qualche modo "investigare" su quello che le sta succedendo e quindi si ritrova ad incrociare persone anche troppo esperte di Satana e compagnia danzante per essere verosimili, mentre Jim Sturgess, che dovrebbe interpretare un affascinante e ambiguo seduttore, ha il carisma di un termosifone e non riesce a reggere la scena assieme alla brava Julia Garner. Questi difetti, pur presenti, per quanto mi riguarda non hanno inficiato la riuscita dell'opera, che è una dignitosissima rilettura/prequel del romanzo di Ira Levin e del film di Roman Polanski, omaggiato apertamente sul finale. Apartment 7A "rivela" il modus operandi della congrega impegnata a garantire la nascita dell'Anticristo, e mostra ciò che nelle opere precedenti è stato solo accennato, ovvero il modo in cui gli accoliti più o meno consenzienti arrivano ad ottenere ciò che desiderano. Certo, Guy giocava col culo degli altri, nella fattispecie della moglie Rosemary, mentre giustamente Apartment 7A si focalizza sulla forte volontà di rivalsa prima, e sulla disperazione poi, di una ragazza che, dalla vita, ha ricevuto solo merda, e che si scopre incinta di una persona che le fa palesemente schifo nel momento esatto in cui le cose cominciano ad andare per il verso giusto. Peggio ancora, la congrega si approfitta di Terry perché il destino l'ha privata dell'unico modo per avere il completo controllo di se stessa e della realtà, ovvero la danza, e per riottenerlo la riducono a mero burattino ed incubatrice del maligno, sottolineando più volte la natura esterna di un suo eventuale successo. 


Proprio la danza diventa, così, un mezzo espressivo che rappresenta la dimensione d'orrore in cui viene a ritrovarsi Terry. Sono tanti i numeri musicali all'interno di Apartment 7A, ed è uno degli aspetti del film che ho più apprezzato, soprattutto per l'ironia nera e la sottile inquietudine che veicolano. L'idea di rappresentare la classica violenza del demonio come un elegante numero sulle note di Heart di Peggy Lee, come nemmeno Ryan Murphy avrebbe osato nelle stagioni più camp di American Horror Story, è vincente, e la coreografia che vede impegnata Julia Garner sul finale, accompagnata da Be My Baby delle Ronettes, è un miracolo di tensione, soprattutto per chi ha visto Rosemary's Baby, ma in generale l'ambiente della danza, con tutta la crudeltà di cui è pervaso, è rappresentato davvero molto bene. Se però volete un solo motivo per dare una chance ad Apartment 7A senza pensarci due volte, è l'interpretazione di Dianne Wiest. Minnie Castevet, nel film di Polanski, era una vecchiaccia impicciona che fungeva da "schermo" per un marito ben più insidioso, ms qui è un vero mostro, e i suoi sorrisi falsi, le maniere leziose, la voce acuta, mettono i brividi. La Wiest ricorderebbe un po' la Annie Wilkes delle scene iniziali di Misery non deve morire, ma probabilmente l'attrice ha deciso di mollare il freno a mano e dare sfogo a tutto l'orrore nascosto nella vecchia proprio perché la maggior parte degli spettatori sa cosa rappresenti in realtà Minnie, e giocare a carte coperte non avrebbe avuto molto senso. Meglio così, ripeto, perché Dianne Wiest è la cosa migliore di Apartment 7A, film che, per inciso, riguarderei di nuovo; non è originale, non è una pietra miliare, ma per il tempo che dura è davvero "gradevole", se così si può dire! 


Della regista e co-sceneggiatrice Natalie Erika James ho già parlato QUI. Dianne Wiest (Minnie Castevet), Kevin McNally (Roman Castevet) e Jim Sturgess (Alan Marchand) li trovate invece ai rispettivi link.

Julia Garner interpreta Terry Gionoffrio. Americana, ha partecipato a film come Sin City - Una donna per cui uccidere. Ha 30 anni e un film in uscita, Wolfman


Se Apartment 7A vi fosse piaciuto recuperate Rosemary's Baby e 1BR. ENJOY!

martedì 23 febbraio 2021

I Care a Lot (2020)

Fresco di una nomination ai Golden Globe per Rosamund Pike come miglior attrice in una commedia o musical, la settimana scorsa è uscito su Prime Video (chissà perché in America ce l'hanno invece su Netflix) il film I Care a Lot, diretto e sceneggiato nel 2020 dal regista J Blakeson.


Trama: Marla è una tutrice legale il cui unico scopo e privare delle loro fortune gli anziani sotto la sua tutela. L'attività procede bene, finché tra le sue grinfie non finisce una donna dai legami insospettabili...


Non sarà facile spiegare il mix di sentimenti contrastanti derivati dalla visione di I Care a Lot, commedia nerissima che consiglio spassionatamente di guardare, ma con nervi saldi, pena la volontà costante di spaccare lo schermo a pugni. Lo consiglio, in primis per la presenza di signori attori, soprattutto Rosamund Pike, che con la sua performance gelida e cazzuta regge praticamente il film da sola, mettendosi negli scomodi panni (come se non le fossero bastati quelli della gone girl Fincheriana) di una donna senza scrupoli, una "leonessa" che mira a fare soldi sulla pelle degli anziani, sfruttando senza un battito di ciglia tutte le orribili gabole legali che rendono gli USA, Paese della libertà, un incubo kafkiano per chiunque finisca impreparato nelle maglie del sistema; ad affiancarla, c'è il sempre meraviglioso Peter Dinklage, una rediviva Dianne Wiest che finisce per essere più inquietante della stessa Pike, e la dolce bellezza di un'umanissima Eiza González, l'unica in grado di dare un minimo di credibilità al personaggio di Marla, che senza la partner (non solo in crime) sarebbe solo pura malvagità. Anche la trama di I Care a Lot è molto interessante, soprattutto nella prima parte, e mescola in maniera sfacciata elementi assai plausibili e altri decisamente più "spettacolari" ed improbabili, soprattutto dopo che le carte sono state scoperte e il film passa dall'essere una rocambolesca pellicola di denuncia sociale a un thriller con parecchi tocchi di humour nero, un cambiamento di registro che contribuisce a tenere molto alto il livello di adrenalina e di attenzione dello spettatore, che non passa un solo minuto senza chiedersi dove diamine potrebbe andare a parare I Care a Lot e cosa avrà voluto comunicare J Blakeson.


Qui è però scattato, almeno per me, il problema di I Care a Lot, ovvero le "troppe" domande, la pretesa di un qualche messaggio serio da comunicare. Personalmente credo che I Care a Lot avrebbe funzionato alla perfezione se fosse stata una commedia nerissima al 100%, con una protagonista sì immorale, ma senza giustificazione, una villainess tout court completamente priva di appigli per poter in qualche modo empatizzare con lei. Invece, quegli accenni di tirate femministe, di donna costretta a subire gli insulti sessisti degli uomini che non riescono a batterla ad armi pari, di essere umano con qualche problemino accennato alle spalle (esempio: della madre non le frega nulla, uno intuisce che la sua mancanza di scrupoli verso gli anziani derivi da un rapporto meno che idilliaco) hanno contribuito, almeno nel mio caso, a farmi odiare Marla al punto da augurarmi che le succedessero le peggio cose, questo nonostante il suo antagonista sia senza scrupoli e detestabile quanto lei; Marla e Fran, novelle Thelma & Louise, si imbarcano in una ribellione contro la società e il maschilismo imperante ma ai danni di vecchietti indifesi, tanto che per renderle un pochino meno immorali lo sceneggiatore ha dovuto connotare in maniera incredibilmente negativa tutti quelli che provano a opporsi a loro, un escamotage cheap, se mi consentite il termine, che onestamente con me non ha attecchito. Piuttosto che questo colpo al cerchio e un altro alla botte, avrei preferito una cosa completamente demenziale e staccata dalla realtà come un La signora ammazzatutti, oppure una cosa serissima, di denuncia, ma così I Care a Lot non è né carne né pesce e vale davvero solo per le notevoli interpretazioni degli attori, quelle sì imperdibili... ma magari voi riuscite a non farvi montare l'odio e ad apprezzarlo più di quanto abbia fatto io, chissà.


Di Rosamund Pike (Marla Grayson), Peter Dinklage (Roman Lunyov), Eiza González (Fran), Dianne Wiest (Jennifer Peterson), Chris Messina (Dean Ericson), Macon Blair (Feldstrom) e Alicia Witt (Dr. Amos) ho già parlato ai rispettivi link.

J Blakeson (vero nome Jonathan Blakeson) è il regista e sceneggiatore della pellicola. Inglese, ha diretto film come La scomparsa di Alice Creed e La quinta onda. Anche attore e produttore, ha 43 anni.


Se I Care a Lot vi fosse piaciuto recuperate Promising Young Woman. ENJOY!


martedì 12 febbraio 2019

Il corriere - The Mule (2018)

Avrei voluto recuperare Il primo re ma a Savona, quando salti la prima settimana di programmazione, sei letteralmente foutu e ti ritrovi a dover andare al cinema ad orari improponibili. A salvarmi la domenica cinefila ci hanno pensato però Clint Eastwood e il suo Il corriere - The Mule (The Mule).


Trama: Earl, floricoltore novantenne, si ritrova in gravi ristrettezze economiche e, anche un po' per gioco, accetta la proposta di fare da corriere per un cartello messicano, diventando presto uno dei "dipendenti" più quotati.


Ammetto di non essere molto esperta del cinema di Clint Eastwood ma da lui tutto mi sarei aspettata tranne la "leggerezza" che permea Il corriere nel corso del primo tempo. Leggerezza senza superficialità, si badi bene, ché il grande vecchio del cinema americano ci mette di fronte a un mezzo road movie dolceamaro filtrato dagli occhi di un novantenne pronto a recuperare tutte le mancanze nei confronti della famiglia attraverso una ca**ata ancora più grande e, così facendo, ci spinge a riflettere sul modo in cui spesso sprechiamo il tempo che ci viene concesso. Protagonista di questa storia vera (basata sull'articolo del New York Times "The Sinaloa Cartel's 90-Year Old Drug Mule") è Earl, anziano coltivatore di Emerocallidi caduto in disgrazia dopo un'esistenza passata a concentrarsi solo sul proprio lavoro, al punto da dimenticarsi ricorrenze importanti come il matrimonio della figlia. Aperta parentesi sui day lily coltivati da Earl. Il fatto che questi gigli siano stati scelti come oggetto della passione del protagonista, a mio avviso, ha un senso, perché dicono molto della personalità di Earl, uomo convinto che tutto possa rigenerarsi e rimanere lì, immobile e perenne, ad aspettarlo; assai simili, per ciclo vitale, alle Belle di notte, i fiori delle Emerocallidi durano solo un giorno e vengono rimpiazzati subito da altri sullo stesso stelo, quindi virtualmente non smettono mai di essere splendidi. Non così, ovviamente, per la vita di Earl, uomo che della noncuranza e della perdita di tempo ha fatto un vanto, tanto da accettare con leggerezza il fatto di poter fungere da corriere della droga in virtù della sua esperienza e del suo innegabile fascino, che porta persino i narcos a chiudere un occhio sulle sue stramberie o i suoi strappi alla regola. Persona fondamentalmente di buon cuore (persino il suo razzismo e la sua ignoranza sono talmente ingenui da non causare neppure scandalo), il vegliardo accetta il lavoro di corriere per procurarsi soldi destinati ad altri, al matrimonio della nipote o al circolo dei reduci, poi ovviamente si ritrova sempre più invischiato in un mondo da cui è impossibile uscire ed è lì che qualcosa "scatta", sia nel personaggio che nel film. Il lavoro, di qualunque genere, si priva di fascino davanti alla prospettiva concreta di perdere definitivamente ciò che di importante c'è nella vita, davanti alla consapevolezza che ciò che va non torna più, a differenza dei fiori perenni, e capirlo a novant'anni, quando il tempo è ormai agli sgoccioli, è qualcosa di talmente doloroso da spezzare il cuore. Il viaggio verso la consapevolezza di Earl è il fulcro de Il corriere. Il resto, gli agenti della DEA in crisi, la lotta interna al cartello, l'aspetto "crime" della pellicola, è tutto mero contorno alla figura fragile e granitica di Clint Eastwood.


Sarà questa l'ultima performance del "texano dagli occhi di ghiaccio"? Non lo so ma, a prescindere, è una bellissima performance, sia dietro che davanti la macchina da presa. Clint Eastwood, nonostante siano passati anni dalla sua ultima prova di attore, non si nasconde dagli anni impietosi che passano, mette al servizio del film la sua figura esile, un passo strascicato, la debolezza di carni flaccide e segnate dal tempo, un sorriso che indubbiamente, pur non essendo più quello ammaliante di un tempo, non passa inosservato, capelli radi, una voce arrochita e stonata (ma oh, quanto accattivante!) e un po' di demenza senile a completare il quadro. Talvolta non gli si perdona, diciamolo pure, scivoloni da anziani, quelle inquadrature lascive su chiappe mulatte e ben tornite, momenti di umorismo forse eccessivo e altrettanto eccessivo melò, benché a un certo punto mi sia ritrovata piangere lacrime copiose per una delle morti più realistiche e naturalmente inevitabili viste sullo schermo. Eppure, sul finale, con quel sole che gli colpisce il volto insanguinato e tumefatto, quella smorfia amarissima di chi ormai non ha più nulla da perdere, avrei pensato che Bradley Cooper sarebbe stato colpito da una pallottola sparata a freddo dall'ultimo grande pistolero di Hollywood, un vecchio che avrà anche perso tutto ma non la dignità di andarsene nel modo a lui più consono, un regista e un attore capace di tirare ancora delle belle zampate e fare emozionare con questa improbabilissima storia vera. Da sottolineare anche la presenza di attori assai validi ad accompagnare Eastwood nel percorso, soprattutto per quel che riguarda le "quote rosa", sostenute da una dolcissima Taissa Farmiga, da una rediviva Dianne Wiest e da una delle tante figlie di Clint Eastwood, la bionda Iris, che chissà non abbia insinuato un che di autobiografico nell'odio del personaggio verso il papà. E con questa bassissima insinuazione chiuderei, consigliando di dare ancora una chance a questo quasi novantenne sempre arzillo e mai banale.


Del regista Clint Eastwood, che interpreta Earl Stone, ho già parlato QUIBradley Cooper (Colin Bates), Michael Peña (Trevino), Taissa Farmiga (Ginny), Andy Garcia (Laton), Laurence Fishburne (Agente Speciale DEA), Dianne Wiest (Mary) e Clifton Collins Jr. (Gustavo) li trovate invece ai rispettivi link.


sabato 12 settembre 2009

Ragazzi perduti (1987)

I vampiri degli anni ’80 hanno lasciato il segno per essere stati leggermente contaminati da una patina di infantilismo trash, che infilava nelle trame elementi di teen movies e commedie avventurose alla Goonies per intenderci. Esempio eclatante è Ammazzavampiri, esilarante horror dove un ragazzino ed una vetusta e disillusa star di un programma horror per ragazzi devono allearsi per sterminare dei veri vampiri. Oppure Scuola di mostri, la cui trama era molto simile, con il branco di ragazzini horrorofili impegnati a salvare la terra da Dracula e compagnia bella. Non si distacca da questi clichè Ragazzi perduti, girato nel 1987 da Joel Schumacher.





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La trama: Michael è un ragazzotto che si trasferisce dal nonno in California con la mamma e il fratellino. Una sera, seguendo una ragazza, viene coinvolto in una sorta di “festino” da una banda di motociclisti guidata dal biondo David. Alla fine della notte brava, dopo essersi scolato una bottiglia di quello che altro non era se non sangue, Michael si risveglia.. vampiro. Con l’aiuto del fratellino e dei fratelli Frog, le massime autorità in fatto di vampirismo di tutta la città, dovrà cercare di tornare normale e di debellare David con tutta la sua banda di succhiasangue.






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Come ho detto all’inizio, questo Ragazzi perduti è un horror un po’ atipico. La trama si concentra più sull’aspetto avventuroso legato alla caccia ai vampiri piuttosto che sulla rappresentazione di come, effettivamente, un ragazzo possa sentirsi se venisse trasformato in un non morto, oppure sulle razzie degli stessi vampiri. Questa è la particolarità ed il difetto principale del film, che non mi ha lasciata molto entusiasta, effettivamente. Diciamo che al posto dei vampiri poteva esserci qualsiasi altro mostro da debellare, visto che loro stessi si vedono poco: David e compagnia vengono rappresentati o come invisibili entità che calano dall’alto sulle vittime ignare, oppure come bikers bulletti e modaioli. Solo in un paio di scene, soprattutto verso la fine, gli effetti speciali si sprecano e la natura vampirica dei nostri si palesa al meglio, regalando anche qualche sano spavento… peccato che nel frattempo la pellicola si sia trascinata lenta e fiacca tra madri disperate in cerca di lavoro, infatuazioni adolescenziali, smorfie deprimenti del patetico fratellino di Michael e gli animali imbalsamati del nonno.



 



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Quello che assolutamente risolleva il film e lo ha reso, nonostante i mille difetti, un cult oltreoceano, sono i due fratelli Frog, interpretati rispettivamente da Corey Feldman, ovvero il “Mouth” dei Goonies, e Jamison Newlander. Questi due personaggi sono meravigliosi, dei nerd che gestiscono un enorme negozio di fumetti grazie ai quali sono diventati i massimi esperti della città sui Vampiri e sui metodi per sconfiggerli. Il modo che hanno di parlare è esilarante, da esperti consumati, veri supereroi senza macchia e senza paura… se nonché le citazioni da geek ci scappano sempre, come quando chiamano il vampiretto “Eddie Munster” o paragonano un altro succhiasangue alle Twisted Sisters... o quando, alla proposta del capovampiro di fare della madre di Michael la madre dei suoi “ragazzi”, uno dei Frog ribatte:”Oh yes, the bloodsucking Brady Bunch!” Due pazzi completi, che incarnano il sapore adolescenziale del film, ma anche la sua parte più interessante.







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Il resto del film, come ho detto, è piuttosto piatto. Merito anche di una realizzazione che molto ricorda i patinati videoclip dell’epoca, l’orribile moda pre Beverly Hills 90210. Persino l’idea di rappresentare i vampiri che calano dall’alto mostrando la loro soggettiva delle vittime non contribuisce a sollevare il piattume generale. Tuttavia gli effetti speciali, non abbondanti a dir la verità, sono molto ben fatti: il trucco di David e dei suoi compagni è sufficientemente inquietante e anche le scene di “volo”, comprese le battaglie aeree tra buoni e cattivi non risentono dell’usura del tempo. Trovo però stupidi sia l’idea di lasciare i mezzivampiri liberi di vagare alla luce del sole solo con un paio di occhiali da sole, sia il finale, talmente sbrigativo che anche la rivelazione prima dei titoli di coda non riesce a lasciare il pubblico stupito. Però ha dato vita ad un seguito uscito solo per il mercato dell’home video, Lost Boys: The Tribe, del 2008. Nel 2010 è previsto un altro seguito, se servisse un’ulteriore prova del fatto che ormai il cinema USA sta davvero raschiando il fondo del barile.

 


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Di Joel Schumacher ho già parlato qui. Kiefer Sutherland, invece, potete trovarlo qua.

 

Jason Patric interpreta Michael. L’attore americano ha cominciato la sua carriera negli anni ’80, ma non è mai diventato troppo famoso, nonostante un paio di film di discreto successo. Tra le sue pellicole ricordo Frankenstein oltre le frontiere del tempo (se la memoria non mi inganna l’ultimo film di Corman…), Sleepers, Speed 2 – Senza limiti. Ha 43 anni e un film in uscita.

 

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Corey Feldman, come ho già accennato, interpreta il folle Edgar Frog. Figlio degenere degli anni ’80, nel senso che dopo moltissimi, storici film, si è impantanato in abusi di droghe e altre stronzate da star demente, è impossibile dimenticare il suo Mouth dei Goonies, quello che terrorizzava la povera colf spagnola con le sue macabre traduzioni. Tra i suoi film ricordo, con assoluta nostalgia due capolavori come Gremlins e Stand By Me – ricordo di un’estate, con un accenno di tristezza invece cose come Venerdì 13: capitolo finale, Venerdì 13: Il terrore continua (ma non doveva essere finito nel capitolo precedente??), il pur esilarante Palle in canna, Il piacere del sangue, The Toxic Avenger IV – Citizen Toxie, Puppet Master vs Demonic Toys, Lost Boys: The Tribe, mentre ha dato la voce alla volpina di Red & Toby nemiciamici e a Donatello in Tartarughe Ninja alla riscossa e Tartarughe Ninja III (nel secondo film Donatello era muto?). Per la TV ha partecipato a La Famiglia Bradford, Mork & Mindy, Love Boat, Casa Keaton, I racconti di mezzanotte. Il nostro ha 38 anni e ben cinque film in uscita.

 

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Dianne Wiest interpreta la madre di Michael, Lucy. L’attrice americana ha vinto due Oscar come migliore attrice non protagonista, uno per Hannah e le sue sorelle e l’altro per Pallottole su Broadway. Tra i suoi altri film ricordo Footlose, Radio days, lo splendido Edward mani di forbice, Il mio piccolo genio, Piume di struzzo, Amori e incantesimi, mentre per la TV ha lavorato in Law and Order. Ha 61 anni e tre film in uscita.






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E ora vi lascio con il trailer originale, giusto per darvi un'idea!! ENJOY!!




 

 

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