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martedì 21 maggio 2024

Abigail (2024)

Prima di partire per la Borgogna sono corsa al cinema a vedere Abigail, diretto dai registi Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett.


Trama: una squadra di malviventi assortiti viene incaricata di rapire una ragazzina per una cifra spropositata. Purtroppo per loro, la piccola Abigail non è indifesa come sembra...


Abigail
è una deliziosa, piccola chicca che mi aveva attirata già dal trailer, per una volta affatto ingannevole, anzi, sincero relativamente a ciò che è la natura del film: tanto divertimento, tanto splatter, qualche brivido. In più, e questo è un valore aggiunto per me, coniuga due delle cose che più amo vedere al cinema, ovvero gli heist movies con un cast molto affiatato e, ovviamente, i vampiri. Abigail comincia, infatti, come il più classico esponente della prima categoria di film che ho citato: una banda di persone che non si conoscono tra loro, ed usano nomi falsi nel caso venissero colti in flagrante, devono fare un colpo. Ci vengono risparmiate le fasi organizzative, la vicenda comincia già all'ingresso della magione dove la banda dovrà rapire una ragazzina, e una rapida carrellata (alla quale si aggiungerà, più avanti, un simpatico "gioco" che consente allo spettatore di approfondire maggiormente le personalità dei singoli membri) ci mostra le abilità di ognuno dei rapitori. E' un'introduzione rapida e divertente, perché la ciccia vera consiste nell'arrivo dei protagonisti all'interno di una splendida villa ove dovranno passare la notte con la ragazzina rapita, nell'attesa che arrivino i soldi del riscatto. Lì dentro l'atmosfera da heist movie dura il tempo di un battito di ciglia, prima che entri a gamba tesa l'elemento gotico, veicolato da scenografie a dir poco splendide, zeppe di dettagli rivelatori (e di un omaggio artistico a Finché morte non ci separi, che ha più di un elemento in comune con Abigail), e quello horror tout court, quando la ragazzina si rivela un vampiro famelico che ama giocare con le sue prede prima di divorarle in un sol boccone. Abigail è "tutto qui". Non c'è la satira sociale di Finché morte non ci separi e i personaggi sono incasellabili, come ironicamente sottolineato a un certo punto, all'interno di cliché abbastanza banali, quindi tutto il film si gioca su un canovaccio vecchio come il mondo, quello del mostro che uccide, una dopo l'altra, le sue vittime. Tutto sta a rendere carismatico il mostro ed interessanti le vittime, e l'intera prima parte del film è focalizzata sul secondo obiettivo; tolti un paio di elementi sacrificabili, è dura sopportare l'idea che Abigail uccida i superstiti del Rat Pack (segnatevi questo nome perché tornerò sulla questione alla fine del post) e molta della tensione deriva non tanto dal terrore verso la pur cattivissima vampiretta, ma dal dispiacere che uno dei nostri personaggi preferiti faccia una brutta fine.



Il merito di tanto affetto va, in primis, al cast. Melissa Barrera sembra molto più a suo agio qui che sul set di Scream, forse perché lontana dall'eredità scomoda lasciata da Neve Campbell, in più attorno a lei ci sono caratteristi di lusso. Kevin Durand aggiunge un twist inedito al suo solito ruolo da duro, Kathryn Newton ormai è abbonata ai ritratti di ragazze weird dall'espressione stralunata ed è sempre più adorabile, Dan Stevens è figo anche con canottiera e occhialazzi da wog, ma a un certo punto diventa ancora più figo: dico solo che non mi veniva voglia di sventagliarmi così, a mo' di Maria Antonietta davanti a Fersen, dal 22 maggio 2001, e più non dimandate. E poi, ovviamente, c'è Abigail. Una leziosa ballerina dalla vocina delicata, capace di staccarti la testa con un morso. I due registi si divertono un sacco a mescolare senza soluzione di continuità elementi infantili e graziosi a topoi horror, e rendono ancor più "personaggio" la vampira costruendole attorno delle performance di danza di tutto rispetto, cosa che tocca il suo apice nell'esibizione simultanea col burattino umano di turno; in più, viene fatto un uso ottimo della splendida location, che può tranquillamente essere definita personaggio a se stante, con tutti quei piccoli elementi rivelatori, le singole stanze piene di personalità, e un aspetto esteriore ingannevole, che nasconde all'interno abissi (o piscine) di depravazione schifosa e tanto squallore. Infine, c'è il sangue. Tanto, tantissimo sangue, un bagno di liquido rosso godereccio e divertito, alla faccia dell'educata cenere in cui dovrebbero trasformarsi i vampiri di fronte alla morte ultima. Sogno, neanche a dirlo, un Radio Silence cinematic universe, magari un prequel condiviso tra Abigail e Finché morte non ci separi in cui la piccola vampira interagisca col demoniaco Le Bail, e chiedo a gran voce un film come questo a settimana, perché mi ha scaldato il cuore e ce n'è gran bisogno. Concludo, infine, con una chiosa da non traduttrice rosicona, sottolineando la pochezza dell'adattamento italiano. A un certo punto, Lambert definisce i rapitori "branco di ratti", questo dopo averli battezzati con i nomi dei componenti del Rat Pack: Frank Sinatra, Dean Martin, Sammy Davis Jr., Joey Bishop,  Peter Lawford e Don Rickles, che in realtà non faceva proprio parte ufficialmente del gruppo. Buona parte di loro era nel cast dell'heist movie Colpo grosso, quindi l'umorismo di Lambert è duplice, un po' dispregiativo, un po' giocoso, e in italiano non solo si perde il riferimento e il gioco di parole ma non si capisce nemmeno perché, a un certo punto, il personaggio di Kevin Durand si "svegli" e capisca un riferimento che, di fatto, in italiano non viene reso. Mi chiedo se non ci fosse un modo per tradurlo meglio nella nostra lingua, invece di costringermi a bestemmiare sonoramente in sala. 


Dei registi Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett ho già parlato QUI. Dan Stevens (Frank), Kathryn Newton (Sammy), Kevin Durand (Peter), Giancarlo Esposito (Lambert) e Matthew Goode (il padre) li trovate invece ai rispettivi link.

Melissa Barrera interpreta Joey. Messicana, la ricordo per film come Scream e Scream VI. Anche produttrice, ha 34 anni e un film in uscita. 


Se Abigail vi fosse piaciuto recuperate Finché morte non ci separi e Renfield. ENJOY!

venerdì 28 gennaio 2022

The King's Man - Le origini (2021)

E' stato un miracolo che lo tenessero tre settimane al multisala, quindi ho dovuto onorarlo battendo la sfiga e correndo a vedere The King's Man - Le origini (The King's Man) diretto e co-sceneggiato nel 2021 dal regista Matthew Vaughn.


Trama: alla vigilia della prima guerra mondiale, un'organizzazione segreta trama per seminare il caos e sta al pacifista Duca di Oxford, assieme a un pugno di fedeli alleati, evitare che la situazione precipiti ancora di più...


The King's Man
era uno dei film che attendevo con più ansia, perché ADORO la zamarrissima saga creata dal regista Matthew Vaughn partendo da un fumetto di Mark Millar che nemmeno ho mai letto (e, onestamente, non ci tengo a farlo). Kingsman - Secret Service era un action sboccato e pieno di momenti WTF ma anche genuinamente esaltanti e, nonostante Il cerchio d'oro fosse decisamente inferiore, ho voluto molto bene anche a quello; davanti a un trailer che mi metteva davanti un Rasputin folle fino al midollo e brutto come il peccato non ho avuto altra scelta che mettermi in paziente attesa anche del prequel, sebbene non ci fossero né Colin Firth Taron Egerton, e per quanto mi riguarda sono stata ripagata, perché con tutti i suoi difetti The King's Man si è rivelato divertente, caciarone ed esaltante quanto i suoi predecessori. L'idea, come immaginate, è quella di rivelare come sono nati i Kingsman partendo dai pochi indizi disseminati nel corso dei primi due film, e in questo caso i realizzatori hanno optato per un esempio di "fantastoria" che mescola eventi realmente accaduti (l'omicidio del duca Ferdinando, lo scoppio della prima guerra mondiale, il messaggio inviato al Messico dalla Germania) e personaggi realmente esistiti ad elementi di pura finzione destinati ad influenzarli. Fin dall'inizio, il Duca di Oxford interpretato da un magnetico Ralph Fiennes si propone come uomo d'altri tempi, elegante e onorevole, che sceglie di utilizzare una ricchezza nata col sangue e la sofferenza di altri per aiutare i più sfortunati, a mo' di compensazione; ad affiancarlo e "contrastarne" il pacifismo c'è il figlio, ancora giovane e quindi impossibilitato a capire cosa significhi immolarsi per la patria ed entrare in guerra, vittima di una concezione di "disonore" e "codardia" inculcata da chi ovviamente ha bisogno che la gente combatta per una causa. Oltre a fare da sfondo a una storia più grande e complessa, lo scontro generazionale tra i due diventa il cuore della futura fondazione dei Kingsman, cristallizzandosi in un momento decisamente inaspettato in cui, come sempre, Matthew Vaughn ribalta tutte le regole del genere lasciando lo spettatore con un palmo di naso dopo una sequenza così eroica e piena di "sentimento" da fare invidia a Spielberg. Ma non spoileriamo.


L'idea che offre The King's Man è quella di un'opera ad ampio respiro; si vede che Vaughn aveva voglia di sbragare, sia a livello di location che di sequenze eleganti, e anche i folli combattimenti dal montaggio serrato che hanno fatto la fortuna dei due film precedenti qui vengono centellinati, in favore di atmosfere più da film di avventura, à la Indiana Jones quasi, o à la James Bond ma senza gadget né inseguimenti in auto. Onestamente, questo cambio di rotta non mi è dispiaciuto, così come la maggiore "serietà" offerta dalla presenza di Ralph Fiennes a discapito di un protagonista più giovane e scavezzacollo, ma per gli amanti del "vecchio" Kingsman e dei suoi personaggi sopra le righe c'è la creatura migliore del film. No, non intendo Rasputin, ché altrimenti Mirco non mi rivolgerebbe più la parola, ma il capronetto protagonista della scena più apprezzata dal Bolluomo. POI c'è Rhys Ifans col suo Rasputin, che purtroppo mangia la scena a tutti, buoni o cattivi che siano, e sì che come cast The King's Man è messo più che benissimo. Ifans danza, gigioneggia, seduce, combatte come un derviscio e disgusta in una sequenza che è già il mio scult del 2022 e di cui vorrei assolutamente vedere il backstage per capire come diamine hanno fatto Fiennes ed Ifans a rimanere seri anche solo per un istante. Purtroppo, a rimetterci davanti a tanta meravigliosa esagerazione sono personaggi dalle altissime potenzialità ma un po' sciapi come la Polly di Gemma Arterton e il Shola di Djimon Hounsou (il figlio di Orlando Oxford, ahilui, è davvero privo di ogni speranza di essere interessante, invece), quanto a Daniel Bruhl ormai si è cucito addosso il personaggio di Barone Zemo e devo dire che gli calza benissimo, anche se vorrei tornare a vederlo in altri ruoli visto che è sempre stato un ottimo attore. Quindi, per concludere, come potete immaginare, aspetto con ansia il terzo capitolo cronologico della saga, che dovrebbe cominciare le riprese quest'anno, perché a mio avviso l'universo di Kingsman ha ancora molto da offrire!


Del regista e co-sceneggiatore Matthew Vaughn ho già parlato QUI. Ralph Fiennes (Orlando Oxford), Djimon Hounsou (Shola), Matthew Goode (Morton), Charles Dance (Kitchener), Gemma Arterton (Polly), Rhys Ifans (Grigori Rasputin), Daniel Brühl (Erik Jan Hanussen), Tom Hollander (Re Giorgio / Kaiser Guglielmo/ Zar Nicola), Aaron Taylor-Johnson (Archie Reid) e Stanley Tucci (Ambasciatore americano) li trovate invece ai rispettivi link.


Essendo un prequel, The King's Man - Le origini si può vedere anche da solo, ma perché perdervi i divertentissimi Kingsman: Secret Service e Kingsman: Il cerchio d'oro? ENJOY!

venerdì 21 gennaio 2022

The House (2022)

Siccome ne avevo letto benissimo prima ancora che uscisse su Netflix, non ho perso nemmeno un minuto quando ho saputo che era finalmente stato messo in catalogo The House, antologia in stop motion diretta dai registi Emma de Swaef, Marc James Roels, Niki Lindroth von Bahr e Paloma Baeza.


Il film raccoglie tre mediometraggi aventi per protagonista una casa nel corso di varie epoche. Il primo segmento, And heard within, a lie is spun, è ambientato in un'Inghilterra di fine ottocento e racconta com'è nata la casa del titolo e come una famiglia di nobili decaduti ha finito per andarci ad abitare. La prima cosa che salta all'occhio dell'episodio, diretto da Emma de Swaef e Marc James Roels, è il modo in cui tutti i personaggi, ma anche gli oggetti di uso comune come coltelli, penne, persino il fuoco, sono stati realizzati con lana cardata (i personaggi risultano pelosini) o con altri tipi di stoffe intessute in modo da conferire comunque una solidità agli oggetti; esteticamente, dei tre episodi è quello più interessante ed originale dal punto di vista della realizzazione e la scelta di utilizzare determinati materiali ha senso, visto che il fulcro della trama di And heard within, a lie is spun (ma in generale dell'intero The House) è l'incapacità dei personaggi di staccarsi dal desiderio di ricchezze materiali a discapito degli affetti, con risultati che scoprirete guardando l'episodio. E se pensate che dei pupazzetti di lana cardata non possano mettere un'ansia fotonica, non avete ancora avuto modo di venire fissati da quegli occhietti a capocchia di spillo che si ritrovano, né di sperimentare la labirintica sensazione di claustrofobia scaturita da una casa in grado di cambiare planimetria nel corso di una notte. Preparatevi anche a farvi spezzare il cuore, ché le piccole protagoniste sono deliziose, e non meritano nemmeno la metà di quello che capita loro. 


Dopo lo spezzettamento del muscolo cardiaco, giunge il momento di frantumarsi lo stomaco e vomitare persino il panettone del 1998. Then lost is truth that can't be won è l'angoscia kafkiana fatta orrore puro, tanto che preferirei riguardare in loop The Human Centipede piuttosto che dovere posare di nuovo gli occhi sul lavoro di Niki Lindroth von Bahr, che pure è un signor lavoro. In questo caso, il protagonista è un ratto antropomorfo che vive dentro la casa titolare ai giorni nostri. Anche qui, il protagonista è completamente ossessionato dalla casa; non tanto dalle ricchezze che contiene (ormai sparite), quanto dal trasformare la stessa casa in una fonte di ricchezza per poter abbandonare i creditori che rischiano di spolparlo vivo. Costretto a fronteggiare da solo la ristrutturazione, i mille problemi della gestione della casa, un'invasione di insetti e un'inaugurazione già nata sotto una pessima stella, il ratto si ritrova all'interno di un incubo fatto di stress e sopraffazione quando due strani, terrificanti acquirenti decidono di installarsi nell'edificio dietro la promessa di acquistarlo. Anche in questo caso, la morale dell'episodio è chiara, poiché il ratto (descritto come il tipico self made man dipendente da tecnologia, internet e telefonate-fiume) ha sacrificato ogni aspetto della sua vita per un'ossessione che lo ha reso solo e completamente distaccato dalla realtà, tanto da diventare terreno fertile di una follia insidiosa, tragicomica quasi (il balletto delle blatte, per quanto faccia schifo, è ipnotico), che lascia lo spettatore preda di un'angoscia indescrivibile. Complimenti a chi ha realizzato il character design dei personaggi e ad autori che, probabilmente, si sono ammazzati non solo di Kafka, ma hanno mandato a memoria le puntate più disturbanti di Leone il cane fifone. Guardatelo e fatemi sapere se siete sopravvissuti. 


Si torna a respirare, sempre con parsimonia, durante l'ultimo episodio ambientato in un futuro dove l'acqua ha ormai inghiottito il pianeta, Listen again and seek the sun. Messi da parte topi e blatte, stavolta la protagonista è la gattina Rosa, il cui sogno sarebbe ristrutturare la casa ormai cadente, minacciata dalle acque e trasformata in un complesso di piccoli appartamenti dove abitano solo due persone che non le pagano l'affitto. Se l'atmosfera dei primi due episodi era angosciante e non lasciava spazio a un vago sorriso nemmeno per sbaglio, il segmento di Paloma Baeza, pur chiudendosi su un finale incerto, per quanto poetico, offre un'afflato di speranza alla protagonista, dandole i mezzi (per quanto strani) di voltare le spalle alla sua ossessione per la casa e aprire il cuore agli affetti. La stessa Rosa, così come i suoi inquilini, sono vivaci e propositivi, a differenza dei personaggi degli altri episodi, e in generale le luci e i colori degli sfondi e dei vari ambienti sono più tenui e colorati, tanto che persino l'acqua che dovrebbe essere minacciosa risulta quasi placida, malinconica. Dopo tanta angoscia e depressione, un episodio così ci voleva proprio, per chiudere in bellezza.


Tirando le somme, posso dire senza timore che The House è veramente un gioiellino. Certo, sono di parte perché ho sempre adorato la stop-motion, una tecnica affascinante e anche follemente perfezionista, visto il modo in cui ogni personaggio, ogni fotogramma, ogni dettaglio devono essere realizzati e posizionati con cura certosina, ma anche la stessa trama è qualcosa di particolare all'interno dell'animazione mainstream solitamente proposta da Netflix. Uniti, i tre episodi formano un'unica storia avente per antagonista una casa che farebbe invidia a Shirley Jackson e a King, oltre che a Kafka, una "bugia" in grado di promettere mari e monti che, invece, porta solo alla rovina e alla disperazione con la sua voce di sirena ingannevole. I protagonisti del primo episodio sono i primi ad ascoltarne la voce e a rimanerne in pare soggiogati, il ratto del secondo non ha neppure modo di difendersi visto che probabilmente è già perso in partenza, mentre Rosa riesce ad aprire il cuore a un'altra voce, che la porta a cercare una nuova fonte di luce, una nuova speranza. La speranza è che la casa venga finalmente inghiottita dalle acque per poi sparire, dopo aver mietuto troppe vittime, ma il risultato sarebbe quello di non avere più altre storie spaventevoli e angoscianti come quelle di The House, una potenziale serie che penso avrebbe ancora parecchio da dire. Non perdetelo assolutamente!


Di Matthew Goode (Raymond), Helena Bonham Carter (Jen), Mia Goth (Mabel) e Miranda Richardson (Zia Clarice) ho già parlato ai rispettivi link. 

Emma De Swaef e Marc James Roels sono i registi del primo episodio. Lei è belga e ha 37 anni, lui sudafricano e ne ha 44; assieme hanno diretto corti pluripremiati come Ce magnifique gâteau! e Oh Willy...


Niki Lindroth von Bahr
è la regista del secondo episodio. Svedese, ha diretto corti animati come Tord and Tord, Bath House e The Burden. Anche sceneggiatrice, produttrice e doppiatrice, ha 37 anni.


Paloma Baeza
è la regista del terzo episodio. Inglese, ha diretto il corto Poles Apart. Anche attrice e sceneggiatrice, ha 47 anni. 


Claudie Blakley
è la doppiatrice originale di Penelope. Inglese, la ricordo per film come Gosford Park, Severance - Tagli al personale e Il ragazzo che diventerà re. Ha 49 anni. 


Se The House vi fosse piaciuto potreste recuperare Coraline e la porta magica. ENJOY!


 






domenica 1 febbraio 2015

The Imitation Game (2014)

Continua il recupero in vista della Notte degli Oscar! A dire il vero, American Sniper a parte, finora sono rimasta un po' delusa dai film candidati per un motivo o per l'altro; per fortuna a salvare la baracca è arrivato The Imitation Game, diretto nel 2014 dal regista Morten Tyldum, tratto dal libro Alan Turing: Storia di un enigma di Andrew Hodges e candidato a otto premi Oscar (Miglior Film, Benedict Cumberbatch Miglior Attore Protagonista, Keira Knightley Miglior Attrice Non Protagonista, Miglior Regia, Miglior Sceneggiatura Non Originale, Miglior Montaggio, Miglior Scenografia e Miglior Colonna Sonora Originale).


Trama: durante la seconda guerra mondiale il matematico Alan Turing si propone all'esercito inglese per riuscire a decodificare Enigma, il codice con cui i tedeschi comunicano tra loro. Il compito è improbo ma Turing, guardato con sospetto da collaboratori e capi, è convinto di riuscire grazie ad un cervello elettronico da lui costruito..


Benedetto Benedict e soprattutto benedetto il biopic mescolato alla spy story in grado di coinvolgere e far rimanere sveglio lo spettatore! Ecco cosa ho pensato, in lacrime, alla fine di The Imitation Game, guardato con incredibile sospetto fin dalle prime battute e film che invece mi ha conquistata in breve tempo a colpi di accenti britannici ed altrettanto inglese humor in grado di stemperare l'effettivamente drammatica storia vera rappresentata. Gli sceneggiatori sono stati molto furbi a dipingere Alan Turing come uno Sheldon Cooper degli anni '40, indisponente, disadattato, ingenuo per quel che riguarda le relazioni sociali ma incredibilmente intelligente nel suo campo di studi; è sicuramente un buon modo per catturare lo spettatore scettico oppure ignorante in materia (come nel caso della sottoscritta), quello che non sa di avere davanti la biografia del creatore delle basi dell'informatica moderna, il "nonno" dei computer come li conosciamo oggi. Attraverso il "filtro" del detective Nock, che rappresenta la curiosità di tutti noi, The Imitation Game prende per mano lo spettatore e lo porta sia a voler bene a Turing nonostante il suo brutto carattere, sia ad appassionarsi al rompicapo posto davanti al gruppo di scienziati da lui capitanato, a mordersi le dita davanti a fallimenti che hanno ahimé provocato innumerevoli vittime, a gioire e meravigliarsi davanti alle rivelazioni e ai progressi in grado di contrastare il terribile codice Enigma: la magia del cinema rende la storia appassionante quanto la finzione, cancellando gli inevitabili confini che le separano e facendo dimenticare per un istante che, fondamentalmente, Turing è davvero una delle persone da ringraziare per aver bloccato l'espansione nazista. E' un'illusione che, come ho detto, dura solo un istante e viene cancellata brutalmente dalle decisioni scomode e terribilmente reali che il vero Turing ha dovuto prendere, dal pianto spezzacuore di Cumberbatch sul finale e da un paio di lapidarie righe di testo che informano sul destino ingrato toccato al povero Turing, "graziato" da un perdono MOLTO postumo di Her Majesty in persona dopo essere stato trattato per anni peggio di un criminale a causa di sospetti pompati dalle angoscianti leggi omofobe dell'epoca. Della serie, vai a far del bene alla gente, vai.


Benedict Cumberbatch interpreta Turing con straordinaria sensibilità e una fisicità calzante, guida e sovrasta senza troppi problemi tutto il resto del cast senza però eclissarlo (cosa che invece succede in Still Alice) perché ogni personaggio ha la sua storia da raccontare e una caratteristica che lo distingue dagli altri. Sinceramente, nonostante Joan Clarke sia ben interpretata e decisamente simpatica e gradevole, non credo che la Knightley meriti l'Oscar come migliore attrice non protagonista, anche perché l'interpretazione mi sembra nella media e non dissimile da altre sue performance; tra i "caratteristi" spiccano invece il sempre affascinante Matthew Goode, il perfido vecchio leone Charles Dance e un Mark Strong sempre perfetto nei ruoli ambigui al limite della legalità. L'affiatamento degli attori ed il ritmo incalzante della sceneggiatura giovano anche alla regia del norvegese Morten Tyldum, che non spicca sicuramente per innovazione ma si limita ad assecondare con gusto "classico" i vari aspetti della vicenda mentre la colonna sonora di Alexandre Desplat ha riportato alla mia mente l'adorato Il discorso del re, mettendomi ancor più in condizione di guardare The Imitation Game con simpatia e relax. Ora che ho tirato in ballo Il discorso del re però mi pare brutto nascondermi dietro un dito quindi forse è meglio che prenda una decisione scomoda come ha fatto Turing e vi confessi una terribile verità: anche The Imitation Game è un giocattolone confezionato apposta per l'Oscar e in virtù di ciò farà sicuramente storcere il naso ai cinefili duri e puri. Detto questo, l'ho sicuramente preferito a La teoria del tutto perché, sempre dall'alto della mia ignoranza, mi pare sia stato dato più spazio alle effettive scoperte di Turing piuttosto che ai suoi rapporti familiari/amorosi, riuscendo nel miracoloso intento di rendere "appetibile" il personaggio anche ai non appassionati di scienza o informatica senza tuttavia snaturarlo troppo. E dopo una scomoda "confessione" tocca porre anche una scomoda domanda: fanciulle, Cumberbatch è bravo, bravissimo... ma dove cavolo lo vedete bello?


Di Benedict Cumberbatch (Alan Turing), Keira Knightley (Joan Clarke), Matthew Goode (Hugh Alexander) e Mark Strong (Stewart Menzies) ho già parlato ai rispettivi link.

Morten Tyldum è il regista della pellicola. Norvegese, ha diretto film che assolutamente non conoscevo ma comunque arrivati anche in Italia come Buddy e Headhunters. Ha 47 anni e un film in uscita.


Rory Kinnear interpreta il detective Robert Nock. Inglese, ha partecipato a film come Quantum of Solace, Skyfall e a serie come Black Mirror e Penny Dreadful. Ha 36 anni, tre film in uscita e comparirà anche nell'imminente miniserie The Casual Vacancy, tratta dall'omonimo romanzo di J.K. Rowling.


Charles Dance (vero nome Walter Charles Dance) interpreta il comandante Denniston. Inglese, ha partecipato a film come Il bambino d'oro, Alien3, Last Action Hero - L'ultimo grande eroe, Michael Collins, Gosford Park e a serie come Flying Doctors, Bleak House e Il trono di spade. Anche regista, sceneggiatore e produttore, ha 68 anni e cinque film in uscita tra cui Orgoglio e pregiudizio e zombie.


Se The Imitation Game vi fosse piaciuto e foste interessati alla figura di Alan Turing, sappiate che esiste un film per la TV del 1996 intitolato Breaking the Code che ripercorre la vita del matematico, altrimenti buttatevi su La talpa o La teoria del tutto. ENJOY!

domenica 7 luglio 2013

Stoker (2013)

Qualche settimana fa è uscito (ovunque tranne a Savona) Stoker, il primo film americano del regista coreano Chan-wook Park e, tra l'altro, l'unica sua pellicola che sono riuscita a vedere. Accolto da pareri discordanti ma soprattutto negativi, mi ha incuriosita moltissimo, ça va sans dire...


Trama: l'adolescente India si ritrova orfana di padre e costretta a vivere con una madre che, palesemente, non la sopporta. Durante il funerale arriva lo zio Charles, fratello del padre, da anni in giro per il mondo... e strani eventi cominciano a rendere la vita della famiglia Stoker assai inquietante.


Adesso passerò per essere spocchiosa, ma sono contenta a volte di essere come San Tommaso e di voler guardare i film che mi intrigano a prescindere dai giudizi di colleghi ben più esimi di quanto potrò mai essere io. Stoker è un thriller bellissimo, con l'unico difetto di avere un paio di colpi di scena facilmente prevedibili e non troppo entusiasmanti... ma alla fine quello che più conta non è tanto l'effetto sorpresa, perché la pellicola deve venire letta come un film sull'adolescenza e sul difficile passaggio dall'infanzia all'età adulta. Tutto ruota, fin dall'inizio, sulla figura di India, una strana ragazza che vediamo ferma su bordo strada ad osservare un campo apparentemente sterminato, indossando la gonna della madre e la cintura del padre; India è un'adolescente schiva, dotata del potere di "sentire" quello che altri non possono (e non c'è nulla di sovrannaturale in questo) e di un'anima oscura che, a poco a poco, si rivela allo spettatore e anche a lei stessa, sia attraverso le parole del padre defunto ("A volte le persone devono fare qualcosa di brutto per evitare di fare qualcosa di peggio") sia attraverso il rapporto che arriva a legarla allo strano zio, un rapporto costantemente sul filo dell'incesto che riesce a risvegliare la ragazza anche sessualmente. L'elegantissima tensione di Stoker verte tutta sui legami di sangue, sui conflitti tra genitori e figli, sui piccoli, orribili segreti che possono nascondere le famiglie e sulla naturale reticenza di chi vorrebbe proteggere i propri cari dalla verità, anche a costo di peggiorare la situazione.


Il modo in cui Chan-wook Park riesce a mettere in scena tutte queste dinamiche rasenta il capolavoro. Fin dall'inizio, ci rendiamo conto che è proprio la sua regia, oltre all'indubbia bravura degli interpreti, a strappare Stoker dall'anonimato, basti solo pensare a come allucinazioni, realtà, passato e presente si mescolino in un modo così fluido da riuscire tranquillamente a trarre in inganno lo spettatore, ma non solo: alcune sequenze sono dei gioielli, fatte di immagini di incredibile bellezza che, da sole, dicono più di quanto farebbero dei dialoghi, come per esempio l'intelligentissima scena che mostra un ragno arrampicarsi lungo la gamba di India per poi scomparire sotto la sua gonna lunga e antidiluviana. A tal proposito, da donna mi sono innamorata dei costumi, vintage e dimessi ma contemporaneamente elegantissimi, perfetti per rappresentare la personalità schiva ed inquieta di India e quella raffinata ma indolente della madre Evelyn, interpretata da una Nicole Kidman perfettamente a suo agio nei panni di algida stronza.


Il modo in cui Evelyn civetta con Charles, il costante bisogno di ottenere l'amore della figlia senza desiderarlo davvero ma solo per poter "competere" col defunto marito, l'orgoglio per la propria educazione unito alla pigrizia conseguente al proprio status sociale, la sfuriata finale in cui, finalmente, l'odio per la figlia, per la propria condizione di vedova e madre e la conseguente invidia vengono sviscerati in modo crudele, concorrono a rendere il personaggio della Kidman quello forse meglio costruito, quasi più della protagonista. Da par suo, la Wasikowska dimostra di aver mandato (giustamente) a quel paese Burton, Depp e la loro deliranza e si conferma un'attrice matura, in grado di sostenere un ruolo scomodo ed ambiguo come quello di India, mentre Matthew Goode è sufficientemente affascinante per rendere credibile il suo Charles, sebbene nel ruolo avrei visto meglio un Fassbender (vedi note finali). De gustibus, lo so. Così come so che Stoker è un film che mi ha soddisfatta parecchio, grazie anche alla bella colonna sonora e alla splendida fotografia, quindi mi sento di consigliarlo senza remora alcuna.


Di Nicole Kidman (Evelyn Stoker), Matthew Goode (Charles Stoker) e Dermot Mulroney (Richard Stoker) ho già parlato ai rispettivi link.

Chan-wook Park è il regista della pellicola. Coreano, ha diretto film come Mr. Vendetta, Old Boy, Three… Extremes e Lady Vendetta. Anche sceneggiatore e produttore, ha 50 anni.


Mia Wasikowska interpreta India Stoker. Australiana, la ricordo per film come Alice in wonderland, Jane Eyre e Albert Nobbs. Anche regista, ha 24 anni e sei film in uscita, tra cui il vampiresco Only Lovers Left Alive


Tra le candidate al ruolo di India c’erano Kristen Stewart (see vabbééé, ahhahahaah!! XDXD), Rooney Mara, Emily Browning e Carey Mulligan. Alla fine quest’ultima aveva ottenuto la parte assieme a Jodie Foster, scritturata per interpretare Evelyn, ma entrambe hanno dovuto rinunciare per motivi pregressi. Allo stesso modo, Colin Firth l’aveva spuntata su Michael Fassbender e James Franco per il ruolo di Charlie ma anche lui ha dovuto rinunciare. Se Stoker vi fosse piaciuto direi che potreste buttarvi sull’Hitchcockiano L’ombra del dubbio. Non l’ho mai visto ma la trama è molto simile, quindi… ENJOY!!

sabato 7 marzo 2009

Watchmen (2009)

Da parecchio tempo non uscivo dal cinema col sorrisone stampato sulle labbra e la consapevolezza di aver visto un bel film che, a mio avviso, sarebbe potuto durare anche un'altra ora, tanto il tempo è passato veloce. Premesso che non ho ancora letto il fumetto da cui è tratto, scritto dal britannico Alan Moore e disegnato dal collega Dave Gibbons a partire dal 1986, quindi non posso esprimere molto probabilmente un giudizio completo, Watchmen, dell'ormai espertissimo Jack Snyder, è il film più bello che ho visto quest'anno.

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La trama è abbastanza complessa, non è facile seguire gli sbalzi temporali e la marea di personaggi, almeno all'inizio: Siamo nei primi anni '80 e il buon presidente Nixon, dopo anni di gloriose battaglie, ha deciso di far mettere al bando la seconda squadra di supereroi americana, eredi dei Minutemen: i Watchmen. Quando un assassino misterioso uccide un membro di entrambe le squadre, il Comico, un altro vigilante, ovvero Rorschach, comincia ad indagare, scoprendo un complotto che unisce la minaccia atomica alla guerra fredda e coinvolge la vecchia squadra di supereroi, adesso impegnati a vivere le proprie vite “normali”. 


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Per chi, come me, è abituato a leggere gli X-men la cui prima regola è “non uccidere il nemico (nemmeno se è il figlio di puttana assassino più infame che ci sia)” e i quali ogni volta che infrangono questa regola si flagellano/separano dal gruppo, questo Watchmen, seppur scritto negli anni '80, è una boccata d'aria fresca. In un mondo come il nostro è impossibile agire con i guanti di velluto ed è coerente e realistico pensare che dei supereroi (che poi sono semplicemente uomini un po' più forti del normale, tranne il semidivino Mr. Manhattan) diventino dei sociopatici, o degli assassini o persino dei pazzi squilibrati nell'affrontare le brutture della società.


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Watchmen rappresenta l'incubo del supereroe medio, quello sdoganato soprattutto dalla Marvel (che infatti ultimamente si sta rimodernizzando anche in tal senso): ci sono supereroi che uccidono senza remore donne e bambini solo perché sono comunque nemici di guerra, che non si fanno scrupolo a far esplodere l'avversario, a cercare “il male minore” del sacrificio di alcuni per la salvezza dei più, ci sono addirittura supereroi ai quali del genere umano non importa un fico secco, privi di emozioni e sentimenti proprio nei confronti di chi dovrebbero salvare.


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Il bello di Watchmen è che le turbe psichiche di questi supereroi si intrecciano a vicende storiche realmente accadute, come la guerra fredda, la presidenza di Nixon, la guerra del Vietnam e tutte le fasi che hanno trasformato il sogno americano in un incubo, come ben dice il tremendo Comico al Gufo. Stupenda in questo senso la carrellata iniziale di Jack Snyder, che ci mostra in dieci minuti scanditi dalle note di “The Times Are A'Changing” di Bob Dylan (la colonna sonora di questo film va oltre ogni aspettativa, è splendida) appunto il cambiamento all'interno della società americana. La sequenza parte dagli anni '50, una nuova età dell'oro libera dalla crisi economica e dalla guerra mondiale, l'apice del successo di questi Minutemen, e continua con una lenta, progressiva e triste decadenza fino ad arrivare ai giorni nostri: le foto di gruppo nostalgiche, i sorrisi, i trionfi si mescolano alla pazzia, alla morte, all'omicidio, alla vecchiaia, il tutto unito all'arrivo della guerra fredda, le vicende di Cuba, la guerra in Vietnam, i figli dei fiori, immagini emblematiche che rendono perfettamente l'inesorabile scorrere del tempo verso gli sterili e orribili anni '80 e la definitiva messa al bando dei Watchmen.


 


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La scelta di Snyder di rispettare il fumetto, raccontando la storia dal punto di vista del controverso diario di Rorscharch è azzeccatissima. La sua è una voce delusa, negativa, sarcastica, triste: triste come tutti i flashback, peraltro perfetti e necessari, quasi tutti legati alla figura del Comico tranne quando viene narrata la genesi di Mr. Manhattan, il personaggio più deprimente e pietoso di tutta la saga. Attraverso il Comico, personaggio chiave della prima metà del film, Snyder ci mostra l'effettiva pericolosità di questi supereroi e l'ipocrisia che li muove, che poi è la chiave di volta di tutto il film: i supereroi non sono diversi da noi, anzi. I nostri difetti sono alterati ed incrementati dalla visione quasi onnipotente della loro condizione e le mille domande che ci siamo sempre fatti leggendo i comics qui trovano un'inquietante risposta. Perché mai i nemici vengono sempre lasciati vivere, e tornare? Ma semplicemente perché senza nemici gli eroi sono dei falliti, degli esseri soli, alienati e privi di scopo. Qual è il motivo per cui le supereroine portano costumi di latex che nulla lasciano all'immaginazione? Ma semplicemente perché sono delle zoccole frustrate, come ben dimostra la patetica figura della vecchia Spettro di Seta, violentata e protagonista di libretti porno eppure lusingata da tutto ciò, perché la rimanda a un tempo di successi e giovinezza. E i supereroi uomini, costantemente sollecitati dalla presenza di tutto sto ben di Dio, perché non dovrebbero fregarsene ed approfittarsene visto che tutto suggerisce loro di essere ben al di sopra della legge? Alla fine, anche chi parrebbe buono e normale è imperfetto e falso, mentre l'unico ad essere quasi un reietto perché considerato completamente pazzo alla fine è il solo ad incarnare l'essenza del supereroe come lo vorremmo tutti: determinato, spietato con i “cattivi” e coerente fino al midollo. Il buon Rorschach, il cuore di film e fumetto. 


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La seconda parte del film, più legata alla tradizione supereroistica e ai film d'azione alla Michael Bay è leggermente inferiore e anche un po' kitsch: il tempio egizio in antartide, una strana tigre in CGI dalle orecchie a punta priva di scopo o funzione, la ridondanza del rifugio di Mr. Manhattan stonano un pochino ma sono effettivamente una gioia per gli occhi, così come scene emblematiche come il rapporto consumato dal Gufo e Spettro di Seta all'interno di Archi, sulle note di Hallelujah di Jeff Buckley con la luna e il cielo notturno sullo sfondo. I combattimenti, le esplosioni, gli effetti speciali sono praticamente perfetti, la fotografia nitida e coloratissima, gli attori sono decisamente in parte (soprattutto Jackie Earle Haley, che interpreta Rorschach, e Jeffrey Dean Morgan, il Comico, ma anche il Gufo di Patrick Wilson non è affatto male) e il film è condito da una vena splatter/horror inedita per questo genere di pellicola, nonché da sano e cinico umorismo (la temporanea impotenza del Gufo, le scene in carcere tra Rorscharch e il suo nemico nano, Mr. Manhattan che scopa la fidanzata e con altre 5 copie di sé stesso fa altri lavori...).


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In definitiva, un film assolutamente da andare a vedere, sia che piaccia il genere o meno. Un 9 pieno, e ora aspetto con ansia di leggere la graphic novel.


Zack Snyder, il regista di cotanta pellicola, ha al momento solo due film famosi all'attivo: il pregevole L'alba dei morti viventi, remake del cult di Romero, e 300, sempre tratto da una graphic novel. Ha 33 anni e sei film in uscita.


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Jackie Earle Haley interpreta Rorschach, col volto coperto per la maggior parte del film da un cappuccio di lana decorato da macchie in movimento. Per la televisione, l'attore californiano ha lavorato in Love Boat, La signora in giallo, McGyver, Renegade. E' stato nominato all'Oscar nel 2007 come migliore attore non protagonista per il film Little Children, soffiatogli giustamente da Alan Arkin che faceva il nonno in Little Miss Sunshine. Ha 48 anni e tre film in uscita. Se mai girassero un film su Preacher spero che lui possa fare Cassidy.


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Jeffrey Dean Morgan interpreta il folle Comico. Premesso che costui è un incrocio tra Javier Bardem e Robert Downey Jr., quindi un fico pauroso, per la televisione l'attore americano ha lavorato in Walker, Texas Ranger, ER, Angel, CSI, Tru Calling, Weeds, Supernatural, Gray's Anatomy. Ha 43 anni e cinque film in uscita.


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Malin Akerman, attrice svedese, interpreta la seconda Spettro di Seta. Al cinema ha recitato perlopiù in filmetti come The Skulls – I teschi ed American Trip – Il primo viaggio non si scorda mai. Ha 31 anni e tre film in uscita.


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Billy Crudup interpreta l'azzurrissimo e semidivino Dr. Manhattan. L'attore, che è stato sposato con la protagonista di Weeds, Mary Louise Parker, ha recitato in Sleepers, Quasi famosi, Big Fish, Mission Impossible III, e ha dato la voce nella versione USA de La principessa Mononoke. Ha 41 anni e un film in uscita.


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Matthew Goode interpreta il pacato Ozymandias. L'attore inglese ha partecipato a Match Point, di Woody Allen. Ha 31 anni e un film in uscita.


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Patrick Wilson interpreta il Gufo. L'attore ha partecipato alla splendida serie Angels in America, ha recitato nel Phantom of The Opera di Joel Schumacher nei panni di Raoul e nel controverso Hard Candy. Ha 36 anni e un film in uscita.


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Ora vi lascio con un video particolare: il Trailer cinematografico fatto con le immagini prese dal comic book. ENJOY, e andatelo a vedere!!


 








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