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venerdì 6 dicembre 2024

Bollalmanacco on Demand: Mary Reilly (1996)

Un po' mi addolora affrontare l'On Demand di oggi, perché Mary Reilly, diretto nel 1996 da Stephen Frears, è l'ultimo film richiesto da Arwen Lynch, ed è triste pensare che non mi chiederà di guardare più nulla. Oggi, più che mai, la sua natura profondamente cinefila mi manca tantissimo.


Trama: la giovane cameriera Mary Reilly si innamora del suo datore di lavoro, il dottor Henry Jekyll, e rimane turbata dall'arrivo del suo violento, ferale assistente, Edward Hyde...


Non ho mai letto il romanzo originale di Valerie Martin, pubblicato anche in Italia col titolo La governante del Dottor Jekill, ma mi è venuta in soccorso Lucia con un suo vecchio, prezioso articolo che mi ha fatta venire voglia di andare a caccia della versione Bompiani, mai vista su nessuna bancarella. Leggere il post di Lucia mi ha fatta anche un po' vergognare della mia ignoranza; non riguardavo Mary Reilly dai tempi dell'università ma l'ho sempre considerato (e l'opinione, dopo quasi 20 anni, non è cambiata) un bellissimo film, un gotico dalle sfumature sensuali con degli ottimi attori (salvo la protagonista, ahimé), che fa uno splendido uso della cupa fotografia, delle scenografie, persino degli oggetti di scena. In realtà, da ciò che ho letto mi sembra di capire che la sceneggiatura di Christopher Hampton banalizzi un po' il romanzo della Martin, trasformando le riflessioni di una donna del suo tempo nella classica battaglia tra innocenza e oscurità; in effetti, per chi come me ha amato Le relazioni pericolose (sempre frutto del sodalizio tra Frears e Hampton), il legame che si viene a creare tra Mary Reilly e Jekyll/Hyde, soprattutto quando subentra l'alter ego malvagio del dottore, ricorda molto quello tra la pura Madame de Tourvel e Valmont, fatto di assalti e resistenze sempre più deboli, ma anche di crisi di coscienza da parte del "cattivo", frastornato dalla dignitosa purezza dell'avversaria. Questo, nonostante Mary Reilly non sia cresciuta nella bambagia come Madame de Tourvel, anzi, l'esatto contrario. Mary ha subito, fin dall'infanzia, tutto l'orrore di avere a che fare con un uomo incapace di controllare i propri istinti violenti, e ne porta evidenti cicatrici sulla pelle. Il suo naturale distacco nei confronti di Jekyll deriva non solo dal rispetto dei rigidi codici vittoriani ma, probabilmente, anche da un'inevitabile terrore nei confronti degli uomini. Da qui, però, nasce anche l'attrazione verso un padrone di casa gentile, colto, che la sceglie, proprio in virtù del suo acume, come confidente privilegiata, elevandola dal resto del personale di servizio. Il naturale riserbo di Mary fa breccia anche nel violento alter ego di Jekyll, Hyde, e, anche in questo caso, l'impressione è che la cameriera venga "blandita" da una condizione di esclusività che nasce dall'essere l'unica ad avere avuto contatto diretto con l'uomo e la sola ad avere il potere di instillargli scrupoli morali. 


Lo "scontro" tra Mary e Jekyll deriva soprattutto da una diversa concezione di "male". Mary accetta l'oscurità del mondo, il dolore, come qualcosa di naturale, dignitoso ed inevitabile quanto la gioia; non lo subisce, ma neppure si dispera quando ne viene colpita, seguendo una mentalità molto pratica. Viceversa, Jekyll richiama Hyde per non soccombere all'orrore dell'esistenza (si parla di una "malattia", ma non è dato sapere se ci si riferisca alle tendenze licenziose di Jekyll, testimoniate dal suo rapporto di lunga data con Mrs. Farraday, o alla perdita di una persona amata), cercando un modo per diventare puro istinto e non venire più turbato da scrupoli di coscienza o vincoli legati alla morale o alle convenzioni sociali. Mentre John Malkovich incarna perfettamente questo dualismo, convincente com'è sia nei panni di tormentato, elegante gentiluomo, che in quelli di demone depravato, quella che fatica di più è Julia Roberts. Dopo il successo ottenuto con commedie romantiche palesemente a lei più consone, l'attrice ha cercato probabilmente di dimostrare che poteva anche reggere altri ruoli (e in futuro ci sarebbe riuscita); purtroppo, Mary Reilly non era forse il personaggio giusto, e per me è la Roberts l'unico, grande difetto del film. L'attrice non riesce a veicolare la naturalezza con cui Mary vive ed accetta le regole della sua società, la rende o un burattino rigido e perennemente immusonito, oppure uno spirito libero che scalpita per diventare altro, e anche i momenti di intimità con Malkovich funzionano poco, tanto è il carisma che l'attore trasuda anche nei panni del dimesso Jekyll. Ho sempre amato molto, invece, la regia di Frears, coadiuvata dalla fotografia plumbea di Philippe Rousselot, che imprigiona i personaggi all'interno della falsa sicurezza di quattro mura claustrofobiche e rappresenta alla perfezione l'ipocrisia dell'epoca vittoriana; la fredda, rigorosa gestione delle ville borghesi rispecchia l'esteriorità della gente perbene, ma appena girato l'angolo c'è lo schifo di sangue e sporcizia che infesta i vicoli della città, pronto ad esplodere ad ogni momento, come i sentimenti negativi che si nascondono nei suoi abitanti. Per tutti questi motivi, Mary Reilly è uno di quei film che rivedo sempre volentieri, e che mi rapiscono nonostante le imperfezioni. Recuperatelo, se non vi è mai capitato di guardarlo, soprattutto se vi piacciono le opere gotiche. Io intanto cercherò il romanzo!


Del regista Stephen Frears ho già parlato QUI. Julia Roberts (Mary Reilly), John Malkovich (Dr. Henry Jekyll / Mr. Edward Hyde), Michael Gambon (padre di Mary), Glenn Close (Mrs. Farraday), Michael Sheen (Bradshaw) e Ciarán Hinds (Sir Danvers Carew) li trovate invece ai rispettivi link.


Tim Burton
avrebbe dovuto dirigere il film ma ha rifiutato per scazzi produttivi, portando con sé anche la possibilità di una Winona Ryder protagonista. Niente di fatto anche per Daniel Day-Lewis, che ha declinato l'offerta di interpretare Jekyll/Hyde, e per Uma Thurman, che ha perso non solo il ruolo titolare ma anche la possibilità di venire candidata a un Razzie Award, onore invece toccato sia a Julia Roberts (quell'anno vinse però Demi Moore per Striptease) che al regista Stephen Frears. Il prossimo film On Demand sarà Little Sister. ENJOY!


mercoledì 1 novembre 2017

Vittoria e Abdul (2017)

Nonostante l'uscita di Thor: Ragnarok, lunedì ho scelto di andare a vedere Vittoria e Abdul (Victoria and Abdul), diretto dal regista Stephen Frears e tratto dal libro omonimo di Shrabani Basu.


Trama: negli ultimi anni del regno della regina Vittoria, la corte viene sconvolta dall'amicizia tra la sovrana e Abdul, scrivano indiano di religione mussulmana.


Il motivo principale per cui sono andata a vedere Vittoria e Abdul, a parte l'essere una vecchia carampana con una passione per i film in costume ambientati possibilmente nell'Inghilterra vittoriana, è stato la presenza di Judi Dench. Dal trailer, il ritratto della Regina realizzato dall'attrice dava l'idea di una Vittoria imperfetta, anziana, malinconica e disperata oltre che forte e altera e non sono rimasta delusa, per fortuna. L'umanità instillata dall'attrice in un'icona della storia mondiale è sicuramente il merito principale del film, nel corso del quale si arriva a provare un'enorme simpatia nei confronti di Vittoria, persino in barba alla consapevolezza di avere davanti il capo di un impero che ha fatto più danni del colera, soprattutto in India. L'unico timore era quello che mi sarei trovata davanti una storiella zuccherosa a base di amicizie indissolubili e sermoni antirazzisti ma così, fortunatamente, non è stato. Benché inevitabilmente adattata per l'intrattenimento del pubblico e infiocchettata da siparietti anche esilaranti (in un modo tutto british, of course...) la storia raccontata in Vittoria e Abdul conserva uno (s)gradevole tocco di ambiguità interamente imperniato sulla figura di Abdul, diventato in pochi anni indispensabile Mushi, ovvero maestro, dell'anziana regina. Nel film di Frears non viene mai detto apertamente che questo scrivano indiano si sia approfittato di una sovrana magari non più lucidissima, tuttavia Abdul non viene neppure ritratto come un uomo dalla virtù adamantina, anzi: benché i sospetti giungano all'orecchio dello spettatore "dalle labbra" di corte, servitù e primi ministri inviperiti, quindi di parte, non è difficile provare un'istintiva antipatia verso una persona che, nonostante molti suoi compatrioti e seguaci della sua stessa religione si siano ribellati apertamente contro l'impero indiano, sceglie di "servire" la regina nemica arrivando persino a mentire pur di rimanere in Inghilterra. Il compare di sventura di Abdul, Mohammed, da voce alla speranza di vedere cadere le convenzioni e l'intero impero proprio grazie all'influenza del Mushi ma l'idea che mi ha dato quest'ultimo è stata quella di un ottimo affabulatore affatto intenzionato a cambiare lo status quo, anzi, ben deciso a tenersi stretto il suo ruolo di indiano di corte senza chiedere nulla per il suo popolo. D'altronde, da uno che non nomina la moglie perché convinto che l'esistenza di quest'ultima non possa interessare alla regina, e che segue i suoi principi religiosi che vedono le donne inferiori solo quando gli fa comodo, non mi sarei aspettata niente di meglio.


Momento "razzista" a parte, la storia di amicizia viene raccontata ed è comunque profonda e coinvolgente com'è giusto per un film simile. Victoria e Abdul contiene molti momenti commoventi e altri in grado di fare riflettere su cosa significhi rapportarsi al "diverso" da sé senza preconcetti, perché se è vero che l'indiano soffre perché vessato, è anche vero che, più in piccolo, c'è una donna altrettanto sofferente proprio per il suo essere a capo di mezzo mondo, circondata da persone servili e uccisa a poco a poco dalla rigida etichetta di corte; in questo, Abdul, con tutti i suoi difetti, viene a rappresentare per Vittoria non solo un diversivo ma anche la finestra verso un mondo paradossalmente a lei sconosciuto ed incredibilmente ricco di arte, storia, cultura ed insegnamenti. Nel raccontare questa storia Frears non esagera in barocchismi scenografici e non si appoggia a costumi sontuosi se non quando è strettamente necessario (si vedano gli abiti nuovi del Mushi), piuttosto predilige concentrarsi sulle porte chiuse dietro le quali i personaggi origliano e l'immensità di un paio di splendidi paesaggi naturali all'interno dei quali vanno a rifugiarsi Victoria e Abdul per fuggire da tutto ciò che li circonda. L'immagine più bella catturata dal regista è però quella di una Vittoria oppressa da una corona pesantissima, terribilmente vecchia e fragile, al punto che parrebbe quasi dovesse spezzarlesi il collo. Avendo visto il film doppiato sicuramente qualcosa si è perso sia a livello di interpretazione che di traduzione, tuttavia mi è parso che, oltre a Judi Dench, anche il resto del cast fosse all'altezza, per quanto un paio di attori siano costretti a recitare un po' sopra le righe, conferendo ai loro personaggi una sfumatura comica che probabilmente le loro controparti reali non avevano (per esempio Paul Higgins e il suo agitatissimo Dr. Reid) ma che personalmente ho apprezzato. Vero è che Frears ha fatto di meglio, tuttavia Vittoria e Abdul è una pellicola molto interessante che racconta una storia scoperta recentemente e sconosciuta ai più; a voi, ovviamente, decidere come considerarla, se edificante oppure soltanto paracula.


Del regista Stephen Frears ho già parlato QUI. Judi Dench (Regina Vittoria), Michael Gambon (Lord Salisbury), Olivia Williams (Lady Churchill) e Simon Callow (Puccini) li trovate invece ai rispettivi link.

Eddie Izzard interpreta il principe Bertie. Nato in Yemen, ha partecipato a film come L'agente segreto, Velvet Goldmine, L'ombra del vampiro, Blueberry, Ocean's Twelve, My Super Ex-Girlfriend, Ocean's Thirteen e a serie quali I racconti della Cripta e Hannibal; inoltre, ha lavorato come doppiatore per I Simpson e Lego Batman - Il film. Anche produttore e sceneggiatore, ha 55 anni e un film in uscita.


Se Victoria e Abdul vi fosse piaciuto recuperate La mia regina, dove Judi Dench aveva già interpretato la Regina Vittoria. ENJOY!

mercoledì 4 gennaio 2017

Florence (2016)

Ha stentato ad uscire dalle mie parti ma alla fine sono riuscita a vedere Florence (Florence Foster Jenkins), diretto nel 2016 dal regista Stephen Frears e già candidato a quattro Golden Globe (Miglior commedia/musical, Hugh Grant, Meryl Streep e Simon Helberg candidati rispettivamente come miglior attore, migliore attrice e miglior attore non protagonista).


Trama: la ricca Florence Foster Jenkins ama la musica e non esita a patrocinare concerti di ogni genere ma ha un fatale difetto, quello di essere stonata come una campana. Nonostante questo, la donna riuscirà ad esibirsi come cantante persino alla Carnegie Hall...


"People may say I couldn't sing, but no one can ever say I didn't sing". Queste sono le parole con le quali la Florence Foster Jenkins interpretata da Meryl Streep si congeda dal pubblico e sono parole di comprensibile soddisfazione e persino orgoglio, le stesse sensazioni che probabilmente proverà lo spettatore alla fine del film, sentendosi un po' più motivato a perseguire eventuali sogni impossibili. Sì perché Florence Foster Jenkins, quella vera e vissuta in America all'inizio del '900, è stata universalmente riconosciuta come la peggiore cantante d'opera al mondo, eppure nessuno può dire né che non avesse i suoi fan, tra i quali nientemeno che Cole Porter, né che non si sia esibita nei circoli più esclusivi di New York. Certo, Lady Florence aveva i soldi per poterlo fare e anche, come suggerisce il film, per comprare eventuali critici, eppure la signora aveva a quanto pare soprattutto una gigantesca passione per la musica, una passione che l'ha portata prima a fare da mecenate a concertisti, direttori d'orchestra o persone che condividevano i suoi stessi gusti, poi a "onorare" questi ultimi con esibizioni ad hoc. Questo non vuol dire che l'ultima pellicola di Frears sia un inno alla libertà di fare ciò che si vuole nonostante la manifesta incapacità, per carità: Florence era una pessima cantante e non esiste redenzione per lei nel corso del film né arriva a soccorrerla un improvviso miglioramento delle sue doti dato dalla "practice, practice, practice" da lei tanto citata, però c'è l'indubbia celebrazione di uno spirito indomito, di una persona capace di farsi volere bene nonostante tutti i suoi difetti, di un'amore per la vita alla faccia di tutte le sfortune subite. Quello che Florence lascia intendere, così come suggeriscono le biografie della cantante, è che quest'amante all'ultimo stadio della musica fosse impossibilitata a percepire i suoi difetti vocali a causa degli effetti della sifilide, contratta dal primo marito e diventata nel tempo una bomba ad orologeria che rischiava di privarla della vita da un momento all'altro e non sorprende quindi che amici e secondo marito (per quanto donnaiolo) facessero tutto ciò che era in loro potere per assecondare le manie di questo ciclone fatto a donna. Per questo, Florence non può che starci simpatica e lo stesso vale per tutti coloro che hanno avuto la fortuna (o sfortuna?) di avere a che fare con lei.


La sceneggiatura di Nicholas Martin tratteggia una semi-biografia ironica e romanzata ma tuttavia anche garbata, venata da un senso di malinconica tristezza che non sfocia mai nel patetico, neppure quando la trama passa dalla leggerezza a tratti esilarante dell'inizio ai toni più cupi del finale; come le esibizioni della protagonista, Florence possiede dignità anche nei momenti più volutamente ridicoli (povera Regina della notte!!) e tocca le corde dello spettatore più sensibile mettendogli in bocca un riso amaro, che a tratti fatica ad uscire. Su un palcoscenico fatto di splendide scenografie e reso ancora più bello dalle ricostruzioni abbastanza fedeli sia degli spettacoli che degli abiti indossati dalla vera Florence, si aggirano tre attori capaci di ricreare tra loro un'alchimia tutta particolare. Meryl Streep è la solita Merylona che tutti ormai amiamo odiare (oppure odiamo amare? Che dilemma!), non ha paura di lasciarsi ingrassare dalle costumiste né di mettersi in gioco in un ruolo che talvolta mette a dura prova il senso del ridicolo del pubblico ed è degnamente spalleggiata da Simon Helberg, che tuttavia non riesco a guardare senza vedere comunque un antenato di Wolowitz con inaspettate abilità di pianista, strumento che l'attore suona davvero; le loro interpretazioni mi hanno coinvolta e vederli duettare è uno spettacolo, eppure tra i tre attori l'unico al quale darei il Golden Globe è Hugh Grant, semplicemente strepitoso nel ruolo di marito fedifrago eppure tanto innamorato della moglie, armato di incrollabile aplomb inglese, sguardi che parlano da soli e talmente invecchiato da essere quasi irriconoscibile. So che Hugh Grant stava meditando di ritirarsi dalle scene ma se dovessero capitargli altri ruoli simili gli suggerirei di accettarli senza indugio, ché non tutti gli ex sex symbol della sua età riescono a portare a casa delle interpretazioni valide come questa. Molto probabilmente domenica se lo mangerà Ryan Gosling visto che La La Land viene salutato già come capolavoro anche da chi non lo ha ancora guardato ma la speranza, come insegna Florence, è sempre l'ultima a morire. La gente potrà dire che non capisco un cavolo di attori ma nessuno potrà dire che non ho tifato Hugh Grant anche contro tutti i pronostici.


Del regista Stephen Frears ho già parlato QUI. Meryl Streep (Florence Foster Jenkins), Hugh Grant (St Clair Bayfield) e Rebecca Ferguson (Kathleen) li trovate invece ai rispettivi link.

Simon Helberg interpreta Cosmé McMoon. Famoso per il ruolo di Howard nella serie The Big Bang Theory, ha partecipato anche a film come Mumford, Good Night, and Good Luck., Un'impresa da Dio e ad altre serie quali Sabrina, vita da strega, Perfetti... ma non troppo e Joey. Anche sceneggiatore, produttore e regista, ha 37 anni.


Se Florence vi fosse piaciuto recuperate Marguerite, film francese che non ho mai visto ma che è a sua volta liberamente tratto dalla vita di Florence Foster Jenkins. ENJOY!

lunedì 13 giugno 2011

Alta Fedeltà (2000)

Ho un rapporto di amore e odio con lo scrittore Nick Hornby. L’unico suo libro che ho letto, Non buttiamoci giù, è qualcosa che vorrei dimenticare, da tanto l’ho trovato brutto ed insipido. Per contro ho adorato questo Alta fedeltà (High Fidelity), diretto nel 2000 da Stephen Frears e tratto dall’omonimo romanzo dell’autore inglese.



Trama: dopo essere stato mollato dalla fidanzata Laura, Bob stila la Top 5 delle storie sentimentali che gli hanno spezzato il cuore e cerca di capire cosa non va nella sua vita costellata di fallimenti…



Non intendendomi affatto di musica, mi rendo conto che non sono in grado di apprezzare appieno un film come Alta Fedeltà, che cita a piene mani e vive su album, autori più o meno storici, band conosciute che hanno segnato generazioni. Mi rendo anche conto che, non avendo mai letto il libro, probabilmente avrò capito meno della metà di quello che Hornby voleva comunicare. Però, è anche vero che, se tanto mi da tanto, al mondo ce ne saranno parecchie di persone come me e, considerato che Alta Fedeltà mi è piaciuto tantissimo, uno dei vantaggi del film è quello di essere comunque “universalmente” godibile. Il merito, sicuramente, è da ricercarsi nella trama (particolare ma “semplice”, molto umana), negli attori (semplicemente eccelsi, soprattutto John Cusak, perfetto nel ruolo, e Jack Black, qui in una delle sue prime apparizioni ma già in grado di rubare la scena a tutti gli altri protagonisti e dotato di un’abilità canora sorprendente) e nella colonna sonora, importantissima per la trama stessa di Alta Fedeltà, che conta canzoni come I Want Candy, Walking on Sunshine, Crocodile Rock, Baby I love Your Way, We Are the Champions, e artisti come Elton John, Bruce Springsteen, Lou Reed, Aretha Franklin, i Queen, Elvis Costello, Bob Dylan, Stevie Wonder e Burt Bacharach.



Alta Fedeltà è la storia di un uomo “qualunque”, forse più intelligente di altri, sicuramente più egocentrico e psicolabile. La cosa bella del film è che il punto di vista della vicenda, per come ci viene mostrata, è quello assolutamente parziale di Bob, che ammicca costantemente allo spettatore rivolgendosi direttamente all’audience, come se il filtro dello schermo non esistesse. Detto questo, è ovvio che fin dall’inizio parteggiamo per lui: Bob è simpatico ma sfigato, è stato mollato per ben cinque volte da delle donne che, chi più chi meno, lo hanno trattato come un deficiente, tradito, preso in giro… e poi, la goccia che ha fatto traboccare il vaso, Laura, che lo ha abbandonato quasi per capriccio dopo una storia durata anni. Se consideriamo che, in aggiunta, il povero Bob lavora in un negozio di dischi assieme a un pazzo fanatico di musica e ad uno sfigatello che ha paura persino della propria ombra, non possiamo fare altro che esser solidali. Purtroppo per il protagonista, però, il punto di vista soggettivo a poco a poco viene insidiato dalle testimonianze di amici, parenti ed ex fidanzate che ci mostrano una realtà ben diversa, costringendo anche Bob, spesso e volentieri, a fare dietrofront e a scusarsi quasi con il pubblico che fino a quel momento era stato ingannato dalla sua autocommiserazione. Ma, del resto, non siamo un po’ tutti come Bob? Non ci fissiamo su quello che non possiamo avere, magari tralasciando stupidamente quel che abbiamo e mitizzando un passato che forse non è proprio come lo ricordiamo? Meditate, gente, meditate… e magari stilate anche voi una Top 5 di quello che vi piace o non vi piace, non sia mai che serva come valvola di sfogo!



Di John Cusack, che interpreta Rob, ho già parlato qui, mentre la sorella Joan, qui nei panni della sorella di Rob, Liz, la trovate qua. Immancabile anche la presenza di Jack Black, che interpreta il folle Barry e che è già stato nominato qua. Comparsata anche per l’eclettico Tim Robbins, ovvero Ian, che già trovate in questo post. Last but not Least, Lili Taylor, già nominata qui, che in Alta Fedeltà interpreta una delle ex di Rob, Sarah.

Stephen Frears è il regista della pellicola. Inglese, ha diretto uno dei miei film preferiti in assoluto, il sontuoso Le relazioni pericolose, oltre a Mary Reilly. Anche produttore, attore e sceneggiatore, ha 70 anni e un film in uscita.



Catherine Zeta – Jones interpreta una delle ex di Rob, Charlie. Da anni moglie di Michael Douglas e vincitrice di un Oscar come miglior attrice non protagonista (per il musical Chicago), la ricordo per film come La maschera di Zorro, Entrapment, Haunting – Presenze, Traffic, Chicago (con cui ha vinto l’Oscar come miglior attrice non protagonista) e Ocean’s Twelve. Gallese, ha 42 anni e due film in uscita.



Lisa Bonet (vero nome Lisa Michelle Boney) interpreta la cantante Marie De Salle. L’attrice americana deve sicuramente la sua popolarità al telefilm I Robinson, dove interpretava Denise, e la sua carriera si è espansa poi anche in campo cinematografico, dove ha recitato per film come Angel Heart – Ascensore per l’inferno e Nemico pubblico. Anche regista, ha 44 anni.



Todd Louiso interpreta il timido Dick. Americano, lo ricordo per film come Scent of a Woman – Profumo di donna, Apollo 13, The Rock, Jerry Maguire e Snakes on a Plane; inoltre, ha partecipato alle serie Weeds, Dr. House e Medium. Anche regista, sceneggiatore e produttore, ha 41 anni.



Impossibile non citare tra le guest star il cantautore Bruce Springsteen, guru dei sogni di Rob (anche se nelle intenzioni di John Cusak avrebbe dovuto esserci Bob Dylan al posto suo). Se il film vi è piaciuto, comunque, io vi consiglio spassionatamente di guardare anche I Love Radio Rock e ovviamente di cercare la colonna sonora da ascoltare quando volete. Intanto vi lascio al trailer originale di Alta fedeltà... ENJOY!!!

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