venerdì 24 gennaio 2025

2025 Horror Challenge: Blood Feast (1963)

Il tema della challenge della settimana era "Il film che si trova da più tempo all'interno della tua watchlist" e la scelta è caduta su Blood Feast, diretto e co-sceneggiato nel 1963 dal regista Herschell Gordon Lewis.


Trama: Fuad Ramses, proprietario di un servizio di catering egizio, decide di far rinascere la dea Ishtar attraverso un rito che prevede un banchetto a base di organi di giovani ragazze...


Blood Feast
è universalmente riconosciuto come il primo film splatter della storia del cinema. Impegnato, a inizio carriera, a dirigere i cosiddetti nudie cuties, ovvero dei soft core simili a quelli sdoganati da Russ Meyer, a un certo punto Lewis ha intuito che quel genere di film stava per trovare terreno più fertile nel privato delle case degli americani e, cercando qualcosa che le majors non avrebbero mai distribuito, ha deciso di "sfidare" nientemeno che Hitchcock, reo di avere realizzato Psyco, un thriller - horror privo di sangue. L'idea geniale, dunque, è stata quella di arrivare a mostrare il mostrabile, di attirare la gente nelle sale cinematografiche promettendo viscere e sangue in technicolor, e Blood Feast è proprio ciò che il titolo promette, un banchetto di organi e fluidi umani condito da efferatezze riprese senza troppe censure. Sia chiaro, Blood Feast non è un bel film. Non arriverei, come fece Stephen King, a definirlo il più brutto che io abbia mai visto (me ne sono capitati sotto mano di ben peggiori!), ma la sceneggiatura è puerile quanto la recitazione e tantissime ingenuità fanno davvero sorridere. La storia è quella di Fuad Ramses, proprietario di una bottega di alimenti con catering annesso. Il tizio, che viene definito vecchio in virtù di una zoppia pronunciata e del borotalco nei capelli (l'attore aveva 30 anni all'epoca), decide di riportare in questa dimensione la dea Ishtar sacrificandole giovani ragazze, i cui organi e sangue diventeranno gli ingredienti di un banchetto. La struttura del film è molto semplice: ad ogni omicidio di Ramses segue una sequenza in cui i due poliziotti affidati al caso brancolano nel buio, nonostante gli indizi piovano loro sulla testa fin dall'inizio, e ciò si ripete fino allo showdown finale, in cui quattro sbirri, di cui due in macchina, non riescono a raggiungere, correndo, un vecchio che arranca zoppicando. Poliziotti pelidi contro killer-tartarughe, un paradosso che mi ha fatta volare, ma mai quanto la povera mentecatta che, sedicente esperta egittologa e fresca di una lezione imperniata sui riti di sangue egiziani, non riesce a cogliere le intenzioni di Ramses, tanto da sdraiarsi con gli occhi chiusi, alla mercé del machete del bottegaro (il quale, all'inizio del film, ha anche poteri ipnotici, dettaglio che la sceneggiatura dimentica subito dopo averlo esternato, regalandoci così questo favoloso siparietto tra Ramses e la bimbo bionda Suzette).


Visti oggi, anche gli effetti speciali fanno sorridere, ma contestualizzerei un attimo il film all'epoca in cui è uscito. Ci sono sequenze in cui Ramses sevizia chiaramente le sue vittime, strappando loro gli organi mentre sono ancora vive, e in un'altra scena addirittura ci sono parti umane amputate in bella vista, alcune persino infilate in un forno a legna (ho riso moltissimo, d'accordo, ma siamo nel 2025, sono passati più di 60 anni!!); ricordatevi che l'intero film si basa sull'idea che un matto raccolga organi per cucinarli e darli in pasto a una festa di compleanno, e una cosa simile, realizzata con i mezzi e la mentalità di oggi, probabilmente darebbe vita a una pellicola capace di spingerci davvero a vomitare. Nel 1963, di sicuro, lo hanno fatto i critici, che hanno piallato Blood Feast senza pietà, tuttavia è anche vero che il film è stato inserito nei video nasties e in Inghilterra è uscito in versione integrale solo una ventina di anni fa, quindi un'idea di "pericolo eversivo" deve averla veicolata per forza. Diciamo che la forza di Blood Feast risiede principalmente nelle poche innovazioni che hanno portato alla nascita di una nuova sottobranca dell'horror, perché tecnicamente era imbarazzante anche 60 anni fa. La colonna sonora, realizzata dallo stesso Gordon Lewis, fa schifo a livelli inenarrabili, la fotografia praticamente non esiste, le inquadrature oscillano tra lo statico, l'amatoriale e il televisivo, gli attori meriterebbero un capitolo a parte. Mal Arnold, nei panni di Ramses, zoppica e strabuzza occhi definiti "di fuoco" (vabbé), a volte si ricorda di essere vecchio altre no, ma i miei preferiti sono indubbiamente il detective Pete e la già citata Suzette. Connie Mason (cagna maledetta come tutte le attrici che le fanno compagnia nel film) all'epoca aveva 34 anni, William Kervin ne aveva dieci di più; le scene che li vedono impegnati in un corteggiamento fanno accapponare la pelle, in quanto lui ha, effettivamente, il sembiante di un uomo di 44 anni (all'epoca i 40enni ne dimostravano almeno 60), ma lei interpreta una studentessa del college che vive ancora con mammà e vederla limonare con uno che sembra un suo vecchio zio è stato peggio di qualsiasi effetto gore concertato da Gordon Lewis. A parte questo, sono contenta di avere visto Blood Feast, perché è un tassello importante del genere che più amo! Dateci un'occhiata indulgente, se lo trovate.


Del regista e co-sceneggiatore Herschell Gordon Lewis ho già parlato QUI.


Il film ha un seguito ufficiale diretto dallo stesso Herschell Gordon Lewis nel 2002, Blood Feast 2: All U Can Eat, mentre nel 2016 è uscito il remake dal titolo omonimo. Non li ho mai visti, quindi non saprei se consigliarveli o meno, ma considerato quanto mi sia "piaciuto" il sequel/remake non ufficiale, Il ristorante all'angolo - Blood Diner, propendo più per il no! ENJOY! 

mercoledì 22 gennaio 2025

Here (2024)

Un altro film che aspettavo con trepidazione era Here, diretto e co-sceneggiato nel 2024 dal regista Robert Zemeckis a partire dalla graphic novel omonima di Richard McGuire.


Trama: dall'epoca dei dinosauri ai giorni nostri, assistiamo a tante piccole storie che si svolgono nel medesimo spazio fisico...


Un film che si sviluppa interamente nello spazio di un'inquadratura fissa, all'interno della quale il tempo scorre consegnando all'occhio dello spettatore tutti gli inevitabili mutamenti accorsi a luoghi e persone. Questa l'idea geniale dell'ultima pellicola di Robert Zemeckis, mutuata dall'opera di Richard McGuire, dalla quale Here prende in prestito anche il taglio fumettistico e l'idea di aprire delle "vignette" temporali dentro l'inquadratura, così che lo spettatore possa vedere dipanarsi in contemporanea eventi verificatisi in anni, o secoli, diversi. In Here è il tempo ad essere il vero protagonista, una presenza costante che, pur essendo invisibile, fa sentire il proprio peso, soprattutto addosso a chi pensa di averne ancora in abbondanza e si ritrova invece alla fine del percorso, con pochi granelli di sabbia all'interno di una clessidra svuotatasi troppo presto. C'è chi riesce a sfruttarlo cogliendo l'attimo, seguendo correnti fortunate, chi lo affronta in maniera frenetica perdendone pezzi qui e là, chi è perfettamente inserito nella Storia (o almeno pensa di esserlo), chi si adegua al ritmo naturale del suo scorrere, chi, come molti di noi, rimpiange di non averlo utilizzato meglio, dando per scontati gli affetti più cari e inaridendosi l'animo seguendo gli imperativi sociali, denaro e lavoro in primis. E così, in Here, il tempo non è lineare, è come se passato, presente e futuro convivessero per raccontarci una serie di storie legate più al concetto di "vita" che di "famiglia", anche se è proprio un nucleo familiare il protagonista principale del film, quello che ha vissuto più a lungo all'interno del salone che funge da unico setting. Sullo schermo scorrono dunque scorci di esistenze (stra) ordinarie; nascite e morti, malattie, gioie e dolori, problemi economici e piccole vittorie, importanti lezioni di vita e momenti triviali, con qualche incursione nella storia americana o nel costume di una nazione che, attraverso lo sguardo indulgente di Zemeckis, viene celebrata con tutte le sue contraddizioni. Purtroppo, uno dei difetti di Here è che il suo scopo grandioso, la volontà di essere un enorme affresco temporale, si scontra inevitabilmente contro un metraggio che lo porta ad essere spesso superficiale. Delle tante famiglie che passano sullo schermo, solo quella di Richard è oggetto di approfondimento, le altre sono piccoli tocchi di colore talvolta interessanti (come la deliziosa coppia che arriverà a brevettare la poltrona La-Z-boy), talvolta perplimenti (non ho capito l'importanza di Benjamin Franklin, limite mio), mentre indiani e afroamericani sembrano messi lì giusto per amore di inclusività.


Nonostante abbia trovato la sceneggiatura diversa da come mi sarei aspettata e, forse, un po' deludente, sono comunque rimasta estasiata davanti alla voglia di sperimentare dell'ormai ultrasettantenne Zemeckis, sempre pronto a sfruttare gli ultimi ricavati della tecnologia e ad usarli in maniera innovativa. E' vero che squadra che vince non si cambia (tra Tom Hanks,Robin Wright, Eric Roth e Alan Silvestri, mi aspettavo di sentire pronunciare uno "Stupido è chi lo stupido fa!" o che cicciasse fuori il tenente Dan la sera di capodanno) ma l'utilizzo "in diretta" dell'intelligenza artificiale onde consentire a Zemeckis di constatare i risultati del de-aging non in post produzione, bensì nel momento stesso in cui venivano riprese le varie scene, ha del fantascientifico. Ha anche dell'inquietante, e non solo per le mille implicazioni morali e il tremendo impatto che avrà sugli attori, nell'immediato futuro, l'utilizzo di una simile tecnologia, ma anche perché il risultato su Tom Hanks è perfetto, mentre Robin Wright, nelle scene in cui interpreta una diciannovenne, sembra una quarantenne con addosso dei vestiti vintage. Pertanto, c'è sicuramente da lavorarci un po' su, tuttavia ciò non toglie che Zemeckis abbia rischiato e portato a casa un risultato egregio. Per fortuna, l'AI non può ancora prescindere dalla bravura degli attori. Per quanto riguarda Here, a spiccare su tutti sono Paul Bettany e Kelly Reilly, entrambi quasi irriconoscibili ed impegnati nell'interpretazione di due personaggi imperfetti e sfaccettati, il simbolo spesso triste e malinconico di un'epoca di apparenze mantenute a scapito della salute fisica e mentale di padri abbruttiti dalla guerra e dal lavoro, e di madri rimbecillite dalla TV e condannate ad essere un simbolo nazionale al pari della torta di mele da sfornare quotidianamente per orde di figli. Zemeckis, col suo solito tocco delicato, ci indora un po' la pillola e risparmia le brutture come violenze verbali o fisiche, ciò non toglie però che Here assesti comunque un paio di colpi pesantini, soprattutto se, come me, siete in un periodo di pensieri foschi legati a malattie, vecchiaia e affetti. Nel caso, prendete il film con le pinze, perché potrebbe farvi maluccio.


Del regista e co-sceneggiatore Robert Zemeckis ho già parlato QUI. Tom Hanks (Richard), Robin Wright (Margaret), Paul Bettany (Al), Kelly Reilly (Rose) e Nikki Amuka-Bird (Helen Harris) li trovate invece ai rispettivi link. 

Michelle Dockery interpreta Pauline Harter. Inglese, ha partecipato a film come Anna Karenina, The Gentlemen e a serie quali Downton Abbey. Come doppiatrice ha lavorato in I Griffin e American Dad!. Ha 44 anni e due film in uscita. 


Se Here vi fosse piaciuto, recuperate The Tree of Life e Boyhood. ENJOY!


martedì 21 gennaio 2025

Wolfman (2025)

Sabato, visto che a Savona non è uscito, sono andata a Genova a vedere Wolfman (Wolf Man), diretto e co-sceneggiato dal regista Leigh Whannell.


Trama: alla notizia della morte del padre, da tempo disperso, Blake porta moglie e figlia in Oregon, a sgomberare la sua casa natale. Nei boschi, però, si cela qualcosa di orribile...


Dopo L'uomo invisibile, che rese ben più sopportabile il lockdown del 2020, Whannell è tornato a cimentarsi con un altro mostro classico, l'uomo lupo. Anche in questo caso, il regista e co-sceneggiatore effettua una rilettura moderna della storia, inserendo al suo interno un protagonista già segnato nell'anima da un'infanzia tremenda, alla mercé di un freddo padre survivalista. Da anni Blake non ha notizia alcuna di quest'ultimo, scomparso negli stessi boschi dove lo portava a cacciare da bambino, e si è rifatto una vita cercando di offrire alla figlioletta Ginger il calore e l'affetto che lui non ha mai avuto. L'introduzione del film, concitata e chiara, dipinge la condizione del protagonista senza essere troppo didascalica, anzi, ci consente di empatizzare con un uomo che fa del suo meglio per dare un'infanzia serena alla figlia e anche con la moglie che, per forza di cose, non ha lo stesso rapporto con la piccola, perché costretta a "portare il pane in casa" e vestire i panni della donna in carriera. Il viaggio in Oregon, alla notizia della morte del padre di Blake, diventa una scusa per rimettere insieme un rapporto tra moglie e marito che rischia di soccombere a queste disparità economiche ed affettive. Il fatto che entrambi i protagonisti adulti siano delle brave persone che cercano di venirsi incontro rende ancora più doloroso l'orrore che li aspetterà nei boschi."The way you walked was thorny though no fault of your own, but as the rain enters the soil, the river enters the sea, so tears run to a predestined end"; queste erano le parole che la zingara Maleva offriva a Larry Talbot, il primo uomo lupo cinematografico, e benché l'approccio di Whannell sia diverso, ovviamente, da quello di George Waggner, la sensazione di pena e tristezza che si prova di fronte al progressivo soccombere di Blake alla "malattia" che arriva a divorarlo è identica. Il protagonista di Wolfman, infatti, non si abbandona alla bestia, non è un uomo represso che cerca uno sfogo, ma una povera anima innocente che ha tentato di fuggire per anni all'incomunicabilità che lo ha estraniato dal padre e che, come primo step della maledizione licantropica, si ritroverà a non poter capire moglie e figlia, né a farsi comprendere da loro. Wolfman, dunque, è triste e malinconico come i migliori film a tema "lupo mannaro" che lo hanno preceduto, ma non è questo l'unico motivo per cui gli ho voluto bene.


L'ultimo film di Whannell gestisce molto bene la tensione. Non è angosciante come L'uomo invisibile, ma ha delle ottime intuizioni e non si limita a mettere in scena una sequenza infinita di jump scares. Piuttosto, il film fa un uso efficacissimo delle lunghe attese (come nel caso della scena iniziale e finale, entrambe al cardiopalma) e dell'ambiente inevitabilmente buio; il film si svolge tutto nel corso di una terribile notte, all'interno di una casa vecchia, illuminata da un generatore, e all'esterno di essa, in boschi a malapena rischiarati dall'alba imminente, e l'uomo lupo ha mille occasioni di fondersi con le ombre. E' molto interessante ed efficace anche la resa dei sensi ipersviluppati di Blake, tra esiti amaramente ironici e la rappresentazione tangibile dell'incomunicabilità di cui sopra, che rende incomprensibili le parole di Charlotte e Ginger (il sonoro del film fa accapponare la pelle), trasformate a loro volta in inquietanti alieni, mostri che un protagonista sempre meno umano stenta a riconoscere. Molto bello anche il make up dell'uomo lupo, un po' diverso dall'iconografia solita e "contaminato", è il caso di dirlo, dai tratti tipici di chi contrae una malattia all'interno di un film horror, e ottima anche la scelta degli attori protagonisti. Julia Garner, già abbonata alle atmosfere tipiche del genere, unisce l'eleganza di una donna in carriera alla forza d'animo delle migliori final girls, mentre Christopher Abbott ha finalmente trovato il modo di trasformare quello sguardo da cane bastonato (che tanto mi aveva infastidita in Sanctuary) in un'espressione di sincero dolore e smarrimento, qualcosa che mi ha spezzato il cuore più del finale del film, il quale mi è parso invece un po' posticcio. Wolfman manca di quella critica feroce e di quell'angoscia pura che caratterizzava L'uomo invisibile, e rispetto al film del 2020 risulta un passo indietro, ma è un bellissimo horror, concitato e crudele, quindi non posso fare altro che consigliarvelo!


Del regista e sceneggiatore Leigh Whannell, che presta anche la voce a Dan, ho già parlato QUI. Julia Garner (Charlotte) e Christopher Abbott (Blake) li trovate invece ai rispettivi link.


Nel 2021 il film avrebbe dovuto venire diretto da Derek Cianfrance, con Ryan Gosling come protagonista, ma quando entrambi hanno abbandonato il progetto, è ri-subentrato Leigh Whannell, che invece ha scelto Christopher Abbott. Tra i film che hanno ispirato Leigh Whannell ci sono La mosca e Shining quindi, se Wolfman vi fosse piaciuto, recuperateli e aggiungete L'uomo lupo, Wolfman e Un lupo mannaro americano a Londra. ENJOY!

venerdì 17 gennaio 2025

Conclave (2024)

Conclave, diretto dal regista Edward Berger e tratto dal romanzo omonimo di Robert Harris, è stato l'ultimo film visto al cinema nel 2024.


Trama: dopo la morte del papa, il decano Lawrence si ritrova a dover presiedere all'elezione del suo successore, nel corso di un conclave complicato da segreti e alleanze...


Siccome è passata ben più di una settimana dalla visione di Conclave, potrei anche avere delle difficoltà a scrivere un post di lunghezza standard. Benché, infatti, mi fossi recata al cinema con le migliori intenzioni e la speranza di vedere un film eccellente (il cast è di altissimo livello, Conclave ha la bellezza di sei nomination ai Golden Globes), devo riconoscere che l'opera non mi ha lasciato granché. Se dovessi usare un termine per definire Conclave sarebbe "poco incisivo". E pensare che la trama, tratta da un romanzo di Robert Harris che non ho mai letto, solleva domande interessanti e offre un paio di punti di vista interessanti, ma è tutto sussurrato, molto all'acqua di rose. Il film esplora i dubbi etici e religiosi del decano Lawrence, estremamente legato al papa ma allontanatosi progressivamente da quest'ultimo a causa di una crisi di fede. Alla morte del pontefice, Lawrence è costretto a tornare in Vaticano e a guidare l'elezione del suo successore, in un momento assai delicato per la Chiesa: rinnovata dalle idee riformiste del defunto papa, l'istituzione rischierebbe di tornare a un atteggiamento di chiusura qualora vincesse il reazionario cardinale Tedesco, ma tutti gli altri candidati hanno pro e contro che verranno gradualmente esplorati nel corso del film, tra segreti inconfessabili e giochi di alleanze mutevoli. Per quanto mi riguarda, l'aspetto interessante del film è stato proprio scoprire i segreti appena accennati dei porporati, e vedere portata sullo schermo un'istituzione anacronistica e ipocrita. In un mondo che va avanti, la Chiesa si arrocca su rituali che cozzano con la modernità dei peccati di chi vive in seno ad essa, sul senso di superiorità del sesso maschile rispetto a quello femminile, promuovendo idee "rivoluzionarie" ma che, in realtà, cercano di non minare mai la tranquillità, la tradizione conquistata nel corso dei secoli precedenti. Una delle scelte più intelligenti di Conclave è di non dare una dimensione temporale precisa alla vicenda, ambientata probabilmente in un prossimo futuro, e di inserire elementi perturbanti, persino violenti, che rendono un rituale come il conclave ancora più anacronistico, per quanto affascinante, specchio di un rifiuto ad aprirsi completamente al mondo esterno che non riguarda solo l'elezione papale, ma ogni aspetto della Chiesa. Il clero viene infine descritto come una micro comunità che ripropone, al suo interno, tutte le dinamiche che i prelati dovrebbero combattere e aborrire, e che governano le istituzioni laiche, e i dialoghi tra Lawrence e i suoi "colleghi" sembrerebbero più adatti sulle bocche di politici smaliziati. Il risultato è che lo spettatore accoglie e comprende alla perfezione la crisi di fede del protagonista, impossibile da condannare neppure quando sceglie di mandare al diavolo i rituali per tentare di porre rimedio a danni potenzialmente irreparabili.


Inutile dire che Conclave è un film che, più di altri, si regge sugli attori e forse questo è il motivo per cui non l'ho apprezzato tanto quanto hanno fatto gli spettatori americani o inglesi. Impossibilitata, come sempre, a godere al cinema di una versione v.o., ho dovuto accontentarmi di un doppiaggio ben poco ispirato, e a vedere spiccare, all'interno di un cast di signori attori come Ralph Fiennes, Stanley Tucci, John Lithgow (mai così sprecato) e Isabella Rossellini (mai così sprecata), il nostrano Sergio Castellitto col suo modo di fare arrogante e verace, immaginandomi i dialoghi in italiano tra lui e Fiennes, inevitabilmente appiattiti dall'adattamento. Mi ha poco convinta anche la fotografia cupa di Stéphane Fontaine, nonostante fosse perfetta per accrescere il senso di claustrofobia e reclusione provato dal decano Lawrence alla chiusura delle imposte che segnano l'inizio del conclave. Nulla da dire, invece, sulla regia, rigorosa ed attenta, sui ricchissimi costumi e sulle scenografie, per non parlare dell'attenzione dedicata agli oggetti di scena come anelli e sigilli, e alla riproposizione quasi certosina di rituali che potrebbero anche non scaldare il cuore di chi, come me, non apprezza granché la Chiesa, ma risultano comunque interessanti e affascinanti. Paradossalmente, il vero punto debole di Conclave è proprio la sceneggiatura, il che, per un film che viene presentato come un thriller religioso e invece risulta abbastanza prevedibile negli snodi (salvo per il finale che mi ha lasciata, effettivamente, a bocca aperta) e non granché incisivo nel sviscerare le questioni legate alla fede, non è proprio un bel biglietto da visita. Il fatto che sia stata candidata ai Golden Globes mi porta a temere per la qualità di ciò che mi toccherà sorbirmi prima degli Oscar ma, a parte ciò, nel caso di eventuale vittoria di Fiennes o della Rossellini, mi riservo il diritto di rettificare il mio tiepido giudizio complessivo dopo aver riguardato Conclave in lingua originale.  


Del regista Edward Berger ho già parlato QUI. Ralph Fiennes (Lawrence), Stanley Tucci (Bellini), John Lithgow (Tremblay), Isabella Rossellini (Sorella Agnes) e Sergio Castellitto (Tedesco) li trovate invece ai rispettivi link.




mercoledì 15 gennaio 2025

2025 Horror Challenge: Licantropus (2022)

La challenge horror chiedeva, per la terza settimana, di guardare l'horror più famoso tra quelli non ancora visti e non sulla watchlist. La scelta è caduta su Licantropus (Werewolf by Night), diretto nel 2022 dal regista Michael Giacchino.


Trama: un gruppo di cacciatori di mostri si riunisce per superare una prova, alla fine della quale il vincitore entrerà in possesso della gemma Bloodstone. Qualcosa, però, renderà la prova molto più movimentata...


Licantropus
è uno special televisivo che, ai tempi dell'uscita, ha fatto parlare parecchio di sé, in quanto prodotto "sperimentale" della Marvel. Il film è tratto dalla serie a fumetti omonima uscita negli anni '70 e il personaggio, nato da un'idea di Roy Thomas, faceva parte del revival horror seguito all'alleggerimento del Comics Code Authority. Ciò che rende particolare la pellicola, è il fatto che Licantropus è stato realizzato proprio come un horror della Universal, con tanto di immagini in bianco e nero (salvo per la presenza di una bloodstone rosso brillante), e all'inizio dà proprio l'illusione di mantenere le atmosfere dei film dell'epoca. Tra personaggi sopra le righe, umorismo nero e un'aura di mistero a circondare la famiglia Bloodstone e la reliquia da essa custodita, è facile lasciarsi coinvolgere dalla storia e cadere nell'illusione di avere davanti un omaggio ai tempi che furono (anche se il look dei cacciatori di mostri è troppo moderno e fighetto), anche in virtù del ritmo "rilassato" con cui vengono introdotte le basi della trama. Dopodiché, essendo comunque un mediometraggio da 50 minuti prodotto dai Marvel Studios e distribuito direttamente su Disney +, le cose si velocizzano e viene anche meno quell'aria gotica che rendeva Licantropus così particolare. Benché, infatti, a un certo punto venga a crearsi una situazione potenzialmente angosciante e perfetta per un horror più "adulto", l'umorismo nero regredisce a siparietti slapstick e le sequenze si riempiono di adrenalinici corpo a corpo, con qualche lievissima concessione ad eleganti macchie di sangue che impattano contro la macchina da presa, la quale pur non mostra nulla di particolarmente splatter o disgustoso, nemmeno quando artigliate e pesanti ferite all'arma bianca lo richiederebbero. Si può dire che, dopo l'inizio promettente, Licantropus si adagia sullo stile di una serie TV Marvel un po' più violenta e spaventosa del normale, ponendo però dei paletti "morali" che non vengono mai superati e che privano i mostri della carica orrorifica ed eversiva che dovrebbero possedere di diritto. 


Dal mio punto di vista, ovviamente, questa mancanza di coraggio è un peccato, nonostante mi sia comunque divertita a guardare Licantropus, anche perché l'unione di due stili così diversi manca di equilibrio e di un raccordo che la renda meno stridente. Peccato, perché Giacchino (anche autore, naturalmente, della colonna sonora) dietro la macchina da presa mostra di saperci fare e confeziona delle sequenze estremamente rispettose dello stile Universal, sfrutta bene i giochi di luce ed ombra, quando si tratta di passare alle scene d'azione non entra in confusione e, coadiuvato da un buon montaggio, rende tutto chiaro e comprensibile. Ho apprezzato molto anche il trucco e gli effetti speciali artigianali, affiancati da un'ottima CGI necessaria per dare vita a uno dei personaggi horror più iconici della Casa delle Idee. Infine, Licantropus vanta un ottimo cast. Gael García Bernal è caratterizzato da un perfetto mix di fascino e goffaggine, Laura Donnelly mi ha ricordato tantissimo Krysten Ritter in Jessica Jones (quando le serie Marvel erano meglio, mannaggia!) e Harriet Sansom Harris si mangia tutti con un'interpretazione così sopra le righe che è una gioia per il cuore. Purtroppo, come ho scritto sopra, le potenzialità di Licantropus sono state sacrificate alle necessità della Marvel, che lo rendono automaticamente un'opera non così "sperimentale" come l'avevano pubblicizzato all'epoca. Il mio cervello se n'è reso conto, perché da metà special in poi ha cominciato a venire intaccato da quella sensazione di superficialità consumistica evocata ormai da ogni prodotto del MCU, che lo spinge ad inserirli, man mano che il tempo passa, nel limbo dei film dimenticati. Di solito ci vuole una settimana, magari a Licantropus servirà un mese, ma temo che il destino sarà il medesimo. 
 

Gael García Bernal
, che interpreta Jack Russell, ho già parlato QUI.

Michael Giacchino è il regista della pellicola, al suo primo e, finora, unico lungometraggio. Americano, principalmente attivo come compositore, ha 58 anni.


Nel 2023 è stata distribuita una versione a colori del film, per omaggiare gli horror della Hammer. Se Licantropus vi fosse piaciuto recuperate L'uomo lupo. ENJOY!

martedì 14 gennaio 2025

Emilia Pérez (2024)

Quando ho saputo che venerdì scorso avrebbero proiettato, al cinema d'élite e in v.o., Emilia Pérez, diretto e co-sceneggiato dal regista Jacques Audiard, mi ci sono fiondata senza pensarci due volte, visti i tre Golden Globe che si è portato a casa!


Trama: l'avvocatessa Rita riceve un'insolita richiesta da un pericoloso boss del cartello messicano e si ritroverà l'esistenza stravolta...


Mi è capitato recentemente, durante una conversazione in inglese per un corso, che mi venisse chiesto quale fosse per me l'elemento più importante di un film. E' una domanda difficile ma, riflettendoci un po', ho risposto "la sceneggiatura". Ciò non vuol dire necessariamente che io apprezzi solo i film con una sceneggiatura perfetta, anzi, ma esigo un film che mi coinvolga ed alimenti la mia peraltro già altissima suspension of disbelief, che non mi porti a distrarmi con domande "terra terra", che mi apra gli occhi su questioni a cui solitamente non penso, che mi appassioni alle vicende dei personaggi e mi spinga ad amarli, possibilmente, nel caso di film drammatici, commuovendomi fino alle lacrime (senza ricorrere però a mezzucci scorretti). Sono corsa a vedere Emilia Pérez aspettandomi, se non tutti, buona parte di questi elementi, e sono uscita dalla sala un po' delusa. Prima che i fan di un film vincitore di tre Golden Globe mi accusino di mancanza di rispetto, però, fatemi mettere le mani avanti: non mi sentirete mai dire che Emilia Pérez è brutto. Innanzitutto, Jacques Audiard ha fatto una scelta molto coraggiosa, quella di realizzare un musical per raccontare una storia che, tutto sommato, poco si presterebbe al genere, eppure funziona all'interno di questa stessa contraddizione in termini. Non tutti i numeri musicali mi hanno estasiata (quello ambientato all'interno della clinica coreana l'ho trovato talmente di cattivo gusto che mi sono agitata sulla sedia, la canzone di Selena Gomez mi ha ricordato un'ottantarata italiana e, nonostante fosse perfetta per il personaggio e i suoi desideri più reconditi, mi ha portata a sbuffare sonoramente dal naso), ma alcuni li ho trovati calzanti e commoventi, e quelli interpretati dalla Saldana molto energici e moderni, anche a livello visivo. Le attrici, a tal proposito, sono bravissime. Ho trovato un po' esagerata la candidatura di Selena Gomez, onestamente, ma comunque mi è piaciuta anche lei. Notevole la Saldana, finalmente in un ruolo impegnato che non richiedesse l'ausilio di effetti speciali o un trucco posticcio; l'attrice ha una voce bellissima, sa cantare ed è l'unica delle tre protagoniste che si impegna in coreografie più elaborate, oltre ad avere un ruolo più importante persino di quello della protagonista titolare. Quanto a Karla Sofía Gascón, che non conoscevo, l'ho trovata di una delicatezza incredibile, mai macchiettistica, nemmeno quando il personaggio (in entrambe le versioni) la espone ad una possibilità concreta di scadere nel ridicolo. Nel complesso, non mi sono mai annoiata e ho apprezzato il modo in cui Audiard ha messo in piedi un'opera che attinge da tanti generi diversi, non solo il musical, riuscendo persino a sfruttare i cliché da soap opera secondo una precisa scelta stilistica. Ha però voluto mettere troppa carne al fuoco, il che si è tradotto, almeno per come l'ho percepita io, in una superficialità fastidiosa, ma per elaborare meglio mi tocca andare nel terreno minato dello SPOILER, quindi fermatevi qui se non avete ancora visto il film.


Santa, santa Emilia. Madre de todos los niños. De los tiranizados, de los desaparecidos. De (algunas) mujeres, del México.
Perdonatemi se cito un altro musical, con un'altra bionda per protagonista, un'altra santa dalla natura ambigua e oscura, con le stesse iniziali, ma dubito che la scelta del nome di Emilia Pérez sia casuale. E perdonatemi se, come il "Che" di Evita, mi faccio portatrice di un po' di cinismo, di un po' di delusione di fronte a questo film, che mette in tavola una marea di argomenti importantissimi e li lascia cadere, ad uno ad uno, senza mai approfondirli. Emilia Pérez inscena il desiderio (e la triste impossibilità) di abbracciare la propria natura reale, di bramare l'amore senza convenzioni, di cambiare noi per primi affinché la società possa farlo di conseguenza, e racconta la disperazione nel trovarsi davanti muri enormi quando, nel profondo, non riusciamo a liberarci dei condizionamenti passati, ma tutto ciò passa per un narcotrafficante che, diventato donna, un giorno decide di espiare la sua esistenza passata fondando un'associazione per ritrovare i desaparecidos. E' sicuramente un mio limite, ma ho fatto fatica ad accettare il nesso tra l'aspetto "umano" del film e la denuncia sociale di un problema reale, dolorosissimo, che viene comunque visto come accessorio al racconto di una transizione, quasi un cliché per contestualizzare l'ambientazione messicana. Allo stesso modo, mi ha sconcertata il fatto che Emilia Pérez lasci cadere, nell'ordine, la denuncia a un maschilismo imperante e pericoloso (nel giro di una canzone vengono introdotte corruzione, disparità sessuali, salariali, sfruttamento lavorativo, vite appese a un filo, argomenti mai più affrontati in seguito se non come note di colore caratterizzanti i vari personaggi femminili), la presenza di altri cartelli criminali che avrebbero massacrato Manitas ma non muovono un dito contro una donna sconosciuta che solleva un polverone nazionale decidendo di ritrovare i luoghi di sepoltura dei desaparecidos (la "fine" di Emilia arriva con un mezzuccio talmente gratuito e di cattivo gusto che, quando l'auto è esplosa, mi sono venuti in mente gli incidenti de I Griffin dove prende fuoco la qualsiasi e, per cortocircuito mentale, tra commozione e risate mi si sono annullate le emozioni) e un'altra denuncia alla società corrotta a mo' di riempitivo (Emilia, belin, conosci gli altarini di tuttə, intanto che trovi i desaparecidos fai anche saltare qualche sedia, altrimenti a cosa serve che Rita si contorca e punti il dito nel numero musicale più figo del film?). Mi è sembrato, a fine film, che Audiard avesse per le mani una serie di argomenti da spuntare per mostrarsi autore impegnato ed attento alle problematiche sociali e di genere, ma senza particolare investimento emotivo, e questa impressione che ho avuto, purtroppo, mi ha tenuta distante anche dal percorso delle due protagoniste, dal loro progressivo avvicinarsi, da un legame nato sotto i peggiori auspici eppure tramutatosi in una rispettosa, profonda amicizia. Non abbastanza, come ho scritto su, per sconsigliare Emilia Pérez (anzi, andatelo a vedere, perché è comunque un'opera originale e curiosa), però quanto mi dispiace non avere trovato il gioiello che tutti decantano!


Del regista e co-sceneggiatore Jacques Audiard ho già parlato QUI. Zoe Saldana (Rita), Selena Gomez (Jessi) ed Edgar Ramírez (Gustavo Brun) li trovate invece ai rispettivi link. 



venerdì 10 gennaio 2025

2025 Horror Challenge: Bodies, Bodies, Bodies (2022) e The Boy - La maledizione di Brahms (2020)

Nonostante l'anno scorso abbia fallito malissimo, ho deciso di riprovare, anche per il 2025, questa Horror Challenge di Letterboxd, perché la precedente mi aveva dato molte soddisfazioni, nonostante la mia impossibilità a finirla. L'idea sarebbe pubblicare un post alla settimana, ma a causa di festività e Golden Globes la prima settimana di gennaio è già andata, quindi ho scelto di accorpare, per pignoleria, i primi due film. ENJOY!


1. L'horror più popolare nella tua wishlist: Bodies, Bodies, Bodies di Halina Rejin

Tra una cosa e l'altra, non ero riuscita a guardarlo nel 2023 ed era rimasto lì, perso nella miriade di titoli della mia wishlist. E pensare che è stato prodotto dalla A24, casa alla quale, solitamente, do la massima priorità. A onor del vero, non si è rivelato uno di quei film da recuperare a tutti i costi, anche se io mi sono divertita moltissimo a guardarlo. Bodies, Bodies, Bodies è un teen horror basato sul gioco omonimo, quello che da bambini facevamo con le carte e chiamavamo "Killer", in cui una persona è l'assassino e gli altri le vittime che devono indovinarne l'identità (noi avevamo anche il detective tra i personaggi, mi pare che qui invece non ci sia). Come da prassi, un gioco innocente condotto durante una serata di tempesta, all'interno di un'enorme casa, diventa la base per tirare fuori scazzi accumulati nel tempo, reciproche invidie, tradimenti, insomma, tutto quello che può far uscire di testa un gruppo di Gen X falsi come i soldi del Monopoli, per la maggior parte ricchi ed annoiati. L'aspetto assai divertente di Bodies, Bodies, Bodies, oltre al finale da applauso, è la perfidia con la quale la sceneggiatura bolla i personaggi (anche quelli in apparenza "positivi") come delle superficiali minchie di mare egocentriche, asservite al Dio cellulare e al linguaggio da social, tanto che ogni dialogo sembra preso di peso da pagine blog, deliri da ticktockers e frasi fatte da instagrammer. Niente male, per un film che era nato come un semplice slasher e la cui sceneggiatura è stata rimaneggiata pesantemente, per risultare meno banale. Bella la regia, bellissimo l'utilizzo creativo delle luci artificiali (cellulari e braccialetti al neon) e interessante il cast, all'interno del quale spicca la sempre adorabile Rachel Sennott, che si mangia il resto dei colleghi non solo in un monologo da antologia, ma in ogni scena in cui compare. Se vi piace il genere teen, e non temete di sentirvi dei boomer senza speranza, potreste divertirvi parecchio. 


Al momento, lo trovate ancora a noleggio su Prime e Apple TV. 
Se Bodies, Bodies, Bodies vi fosse piaciuto recuperate le fonti di ispirazione dichiarate della regista, come Le ieneSchegge di follia e Kids, aggiungendo anche Sissy.


2. L'horror col voto più basso nella tua wishlist: The Boy - La maledizione di Brahms di William Brent Bell

Non so neppure come mai fosse in wishlist, visto che non ritengo il precedente The Boy particolarmente memorabile, ma tant'è. Prima di affrontare La maledizione di Brahms non l'ho neppure riguardato ma, tra Wikipedia e la mia recensione dell'epoca, qualcosa è tornato alla memoria, quanto basta per ritenere il sequel una paraculata che si gira un po' come vuole i presupposti del primo, non disprezzabile film. Al quale,  La maledizione di Brahms, pur non essendo orribile come molti vorrebbero far credere, non è degno nemmeno di allacciare le scarpe. Trattasi infatti di ennesimo, banale film a base di pupazzi demoniaci che tentano di traviare un povero pargolo già traumatizzato da una famiglia composta da padre clueless e madre inaffidabile, tra l'altro dotata dell'"espressività" della dawsoniana Joey. Brahms, col suo sembiante tremendo, mette sempre ansia, ma il body count è bassissimo, così come il livello di tensione o la preoccupazione per il destino dei protagonisti. La cosa peggiore, però, è che La maledizione di Brahms non sfrutta né le potenzialità della bellissima villa che era il fiore all'occhiello del suo predecessore, né l'ambientazione inglese, tanto che persino Ralph Ineson risulta sprecato. Non sarà il film peggiore che ho visto nella mia vita, ma rimane comunque un horrorino senza infamia e senza lode, che, nonostante la durata brevissima, mi ha anche fatto calare un po' la palpebra.


Al momento, il film non è disponibile nei servizi streaming italiani. 
Se The Boy - La maledizione di Brahms vi fosse piaciuto recuperate The Boy, anche se non è indispensabile ai fini della comprensione del sequel, e i film della serie Annabelle




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