martedì 5 novembre 2024

The Substance (2024)

Dopo mesi di attesa, finalmente sono riuscita a guardare The Substance, diretto e sceneggiato dalla regista Coralie Fargeat.


Trama: Elizabeth Sparkle, celebrità in declino, scopre la possibilità di creare un suo doppio, migliore e più giovane, grazie a The Substance. Dopo la prima esperienza positiva, l'esperimento condurrà all'orrore...


Sono riuscita, più o meno, ad evitare la quantità immane di spoiler su The Substance che hanno cominciato ad infestare internet già da prima che arrivassero le anteprime italiane, quindi sono arrivata quasi completamente impreparata a ciò che mi avrebbe mostrato Coralie Fargeat. Mi sarei aspettata di provare disgusto, e l'aspettativa è stata rispettata, soprattutto sul finale, ma non la seria angoscia che mi ha portata più volte a distogliere lo sguardo dallo schermo, colma di pena e tristezza. La storia di The Substance è vecchia quanto il mondo: la protagonista, Elizabeth Sparkle, è una donna inutile. In una società dominata dal male gaze (e ci tornerò su come la Fargeat renda, visivamente, questo gaze), soprattutto all'interno dello show business, i cinquant'anni equivalgono alla morte. Quello che un tempo era un viso senza rughe, adesso (per quanto ancora talmente splendido che qualsiasi donna "normale" vorrebbe averlo) mostra tutti i segni dell'età e lo stesso vale per il corpo, non importa quanto la sua proprietaria sia stata attenta alla dieta o all'esercizio fisico. In un mondo che vuole la donna sessualizzata, desiderabile e quasi aliena, non c'è modo di competere con chi ha dalla sua bellezza e giovinezza, e il risultato è sotto gli occhi di tutti, se volete vi faccio qualche nome: Nicole Kidman, Madonna, Courtney Cox. Donne splendide, che per stare al passo e non finire relegate in un angolo si sono deturpate volto e corpo al punto da diventare irriconoscibili, bambole di plastica dall'espressione perennemente sorpresa. Magari loro si vedono anche belle, poverine, chissà quale sofferenza avranno provato e proveranno nel vedersi superare da ragazze con la metà dei loro anni, pronte a vivere dei fasti che per loro forse non torneranno mai. A noi, a me per prime, sembrano stupide, perché le loro soddisfazioni se le saranno tolte di sicuro, ma cosa posso saperne, se le scintille del successo e dell'adorazione non hanno mai brillato nel mio firmamento? E quante volte io stessa mi sono ritrovata, davanti all'orrore dei 43 anni, ad invidiare ragazzine che oggi sono tutte molto più belle di quanto fossi io alla loro età, ad abbassare lo sguardo davanti allo specchio impietoso che mi ritrae ogni giorno più vecchia, grassa e brutta? A buttare abiti che magari mi andrebbero ancora "tecnicamente" bene ma che su di me risultano ridicoli, l'imbarazzante tentativo di una vecchia di sentirsi ancora giovane? Non stupitevi di leggere che, per me, la sequenza più angosciante di The Substance è stata quella in cui Elizabeth si prepara per un appuntamento a cui non andrà mai, schiacciata dalla consapevolezza di non essere all'altezza del suo io migliore, distrutta da quello che, fino alla settimana prima, sembrava un raggio di speranza in una vita ormai finita. 


Forse io l'ho presa un po' troppo sul personale, ma The Substance è una parabola ben triste. In tanti hanno paragonato il film alla versione distorta di un anime majokko, ma la verità è che nell'opera della Fargeat non c'è speranza nemmeno quando le cose sembrano andare per il verso giusto. Sue è la "versione migliore" di Elizabeth ma, come specificato dall'assioma di The Substance, le due donne sono sempre la stessa persona. Il miglioramento fisico di Elizabeth non corrisponde alla sua liberazione dalle aspettative di un pubblico avido ed impietoso, perché Sue continua ad avere un disperato bisogno di essere guardata e desiderata; le majokko "cambiavano", sfruttavano l'esperienza nei panni dei loro alter ego per crescere, mentre in The Substance l'unica cosa che aumenta sono l'odio e la sofferenza verso una condizione ormai irreversibile. Più il tempo passa, più Sue prova risentimento per Elizabeth, rea di stare sprecando la propria vita e di impedirle di vivere la "sua"; allo stesso modo, Elizabeth detesta Sue in quanto "parassita" e si abbandona sempre più a un marcio, una bruttezza interiore che finalmente raggiungono anche l'esterno. Ma parliamo sempre della stessa persona, incapace di concepire qualcosa che vada oltre una pienezza raggiunta compiacendo il pubblico, due facce di una stessa, sofferente, insoddisfatta medaglia. La Fargeat è molto attenta a portare sullo schermo la natura voyeuristica e narcisista del mondo che circonda Elizabeth/Sue. Le inquadrature che usa sono al limite del pornografico, imperniate al 90% su glutei torniti, seni a malapena contenuti da costumini inesistenti e sgambature che metterebbero alla prova qualsiasi estetista, tutto ciò che è bello e glamour viene filtrato da un pesantissimo sotteso sessuale, come se bellezza e pornografia fossero equivalenti. E' il male gaze di cui parlavo prima, infatti non ci sono donne "rilevanti" all'interno del film, salvo le due protagoniste. Tutto ciò che Elizabeth e Sue vivono, o subiscono, è testimoniato dall'occhio di uomini che, alternativamente, le disprezzano o le bramano, e questo punto di vista distorce, inevitabilmente, la loro realtà. La cosa si ripercuote anche sulla regia, che fa ampio uso di grandangoli, allungando a dismisura corridoi, deformando volti visti attraverso lo spioncino di un appartamento, trasformando un pranzo di lavoro nel trionfo del disgusto. L'apice dell'orrore è il personaggio di Dennis Quaid, la summa di tutto ciò che può rendere un uomo repellente, ma la cinepresa si sostituisce all'occhio di ogni maschio presente nel film, enfatizzando così l'oggettificazione delle vittime di quello stesso sguardo. 


E' talmente invadente, di fatto, questo male gaze, che arriviamo a percepire brutta una come Demi Moore. O meglio, a dimenticare che la Moore (la quale, vi ricordo, ha avuto la fortuna di essere moglie di Bruce Willis, porca puttana) non ha 50 anni come da copione di The Substance, bensì SESSANTUNO, ed è più gnocca lei di quanto lo fossi io a 20 anni. Eppure, anche prima del terrificante make-up che la renderà irriconoscibile nel corso del film, la suprema interpretazione dell'attrice, unita all'abilità della Fargeat, ce la consegna irrimediabilmente "brutta". Non vi piace questo aggettivo? Allora posso dire "superata","consumata", "sciatta", "invecchiata", che è poi come se la figura l'abietto produttore Harvey, nonché il motivo per cui decide che lui, e per estensione il mondo (non solo dello spettacolo) non ha più bisogno di lei. E' talmente invadente, questo male gaze, che arriviamo a percepire Margaret Qualley come una dea scesa in terra, la perfezione fatta a persona. Ed è indubbiamente bellissima, santa creatura, ma, tolto il fatto che il seno esposto nel film è dichiaratamente prostetico, guardatevi un paio di foto sui red carpet delle due attrici messe insieme e pensate che la Moore ha TRENT'ANNI in più, quindi Margaret, arrivaci tu a quell'età ancora così figa (e trovati un figo come Bruce ad accompagnarti. Adesso userò un po' di female gaze, ma 'sto Jack Antonoff non si può guardare, figlia mia!!). Quindi sì, Coralie Fargeat avrà anche scelto di raccontare una storia vecchia come il mondo, ma vedete quante riflessioni scatena, quante diverse sensazioni, quanti modi di interpretarla e parlarne ci sono? Ci vuole coraggio, a mio avviso, a spiattellarla in faccia al pubblico con tanta raffinatezza a livello di immagini, colori, luci e suono (non dimentichiamoci il suono, inquietante ed invasivo) e tanta brutalità per il contenuto di queste stesse immagini. La Fargeat omaggia Kubrick, Lynch e Cronenberg passando attraverso il grottesco di quel capolavoro de La morte ti fa bella, Yuzna e persino la Troma, demolendo senza pietà non solo gli ideali di bellezza odierni, ma vomitando sopra l'opprimente ipocrisia moderna tonnellate di sangue liberatorio, in una potente affermazione della natura fondamentalmente brutta ed imperfetta del genere umano. Se riuscissimo ad abbracciarla, questa nostra naturale bruttezza, forse saremmo molto più felici, sicuramente meno stressati e cattivi, ma finché ci verrà imposta la perfezione, il rischio tangibile è quello di trasformarci in mostri. 

P.S. Io non lo so se The Substance è l'horror dell'anno. Sicuramente, per quanto mi riguarda, è il FILM dell'anno. Se non altro, quello che è riuscito a coinvolgermi e sconvolgermi di più durante la visione. In tempi di cinema mordi e fuggi è un risultato incredibile. Anche se non sarà la cup of tea di molti, datemi retta comunque, correte in sala a vederlo.


Della regista e sceneggiatrice Coralie Fargeat ho già parlato QUI. Demi Moore (Elizabeth Sparkle), Margaret Qualley (Sue) e Dennis Quaid (Harvey) li trovate ai rispettivi link.


Gore Abrams
, che interpreta il leppegosissimo vicino di casa di Sue, era già "dei nostri", perché ha partecipato a Hell House LLC e a Hell House LLC III: Lake of Fire. Ray Liotta avrebbe invece dovuto interpretare Harvey ma purtroppo è morto prima dell'inizio delle riprese e la regista lo ha ringraziato nei credits. Se The Substance vi fosse piaciuto recuperate La mosca, Videodrome, Society, Titane, La morte ti fa bella, Revenge, Starry Eyes, The Neon Demon e anche un po' Tetsuo. ENJOY!

venerdì 1 novembre 2024

Woman of the Hour (2023)

Incuriosita da un po' di pareri positivi, ho recuperato Woman of the Hour, recentemente uscito su Netflix, diretto nel 2023 dalla regista Anna Kendrick.


Trama: Sheryl, attrice in difficoltà, viene ingaggiata per essere la concorrente single della trasmissione televisiva The Dating Game. Tra i tre pretendenti maschi, però, si nasconde un pericolosissimo serial killer...


Non sono una di quelle persone che va matta per il true crime, ma ammetto di avere (credo come tutti) un po' di morbosa curiosità verso quelle storie vere talmente allucinanti da spingere a mettere in discussione la già scarsa fiducia verso l'umanità e la legge. Rientra nel novero la vicenda di Rodney Alcala, che negli anni '70 ha stuprato e ucciso un numero imprecisato di donne (vi rimando alla pagina Wikipedia per farvi un'idea di quanta incertezza ancora ci sia sul numero delle sue vittime, è sconcertante), riuscendo a farla franca al punto da partecipare persino al popolarissimo programma televisivo The Dating Game. Chi, come me, è una vecchia degli anni '80, ricorderà Marco Predolin e Corrado Tedeschi, sulle reti del biscione, impegnati a condurne la versione italiana, ovvero Il gioco delle coppie. Le regole erano semplici: un single, di entrambi i sessi, cercava di trovare l'anima gemella ponendo domande a tre contendenti anonimi e alla fine del gioco, in base alle risposte, sceglieva "chi portarsi a casa", ovvero con chi andare a fare il viaggio messo in palio. Era un programma basato su un concetto idiota, perché io mai andrei a fare un weekend con una persona che neppure conosco; infatti, nel 1978, la povera "bachelorette" della settimana, Cheryl Bradshaw, ha rischiato di uscire col serial killer Rodney Alcala, risultato vincitore della puntata. La Bradshaw ha fortunatamente rifiutato l'appuntamento (e chissà cosa sarebbe successo se avesse accettato) e Alcala è tornato alla sua vita di tutti i giorni, continuando a stuprare e uccidere donne per un altro paio d'anni. Per il suo film d'esordio come regista, Anna Kendrick si è messa in gioco proprio con questa inquietante vicenda, usandola come fulcro di una riflessione più ampia su quanto sia pericoloso e frustrante essere donne in una società maschilista, dove sì, il peggio che può capitare è un serial killer, ma ogni giorno c'è da combattere contro complimenti indesiderati, consigli non richiesti, molestie travestite, indifferenza e cattiveria, contro un dolore che potrà arrivare in qualsiasi forma. "Quale di voi mi farà del male?" è la domanda più importante di tutte, d'altronde. 


La Kendrick sceglie una narrazione non lineare né cronologica, mostrando sprazzi dell'orrore inflitto da Alcala alle sue vittime, alternati alla vicenda chiave del Dating Game. Questa struttura, da una parte, amplifica il senso di angoscia che deflagra nel pre-finale al cardiopalma, durante il quale si arriva a temere seriamente per la vita di Sheryl in una sequenza di rara finezza, ambientata in un bar; dall'altra, consente allo spettatore di toccare "con mano" la differenza tra le maschere indossate dai due protagonisti. Sheryl, per raggiungere il sogno di diventare attrice, reprime i suoi pensieri reali, nascondendoli dietro la maschera della ragazza modesta e accondiscendente, che non fa mai domande scomode. Ciò che scatena l'empatia e alimenta ancor più l'inquietudine, è la triste verosimiglianza delle situazioni in cui viene a trovarsi Sheryl, nelle quali tutte, in misura più o meno maggiore, siamo incappate almeno una volta nella vita, e la sua temporanea ribellione nel corso di The Dating Game è qualcosa di estremamente godurioso, ma anche pericoloso. Questo perché Alcala cela invece la sua natura di predatore proprio sfruttando la necessità delle sue vittime di credere che esistano ancora uomini incapaci di nuocere, se non addirittura pronti ad accettarle a braccia aperte con tutti i loro pregi e difetti. Intelligente ed acculturato, Alcala coglie in un attimo ciò che la sua vittima desidera, lo usa contro di lei fino alle estreme conseguenze, e viene fregato solo quando trova qualcuno in grado di giocare secondo le sue stesse regole. Al netto delle situazioni romanzate per ovvi motivi di sceneggiatura (modalità e personalità dei coinvolti all'interno del Dating Game in primis) ciò che mostra la Kendrick è fin troppo verosimile e mette paura, perché ben poco è cambiato dagli anni '70, il che rende la vicenda di un'attualità sconcertante. 


Oltre a questo, Woman of the Hour è un bel film anche a livello formale. La sceneggiatura cura la caratterizzazione dei personaggi secondari, consentendo di brillare anche ad attori con brevissimo tempo sullo schermo, i dialoghi sono naturali, la regia elegante e attenta sia ai diversi "tempi" che scandiscono la vicenda (non ci sono sbavature tra momenti thriller, assai riusciti, la riproposizione quasi documentaristica di una puntata di The Dating Game e persino sequenze di commedia che strappano una sincera risata) che a costumi, scenografie e colori, enfatizzati da una fotografia splendida. Per essere un'opera prima è di alto livello e, in quanto attrice, la Kendrick è riuscita a tirare fuori il meglio dai suoi colleghi sul set. Prendete Daniel Zovatto. Mi rendo conto solo ora di averlo visto in tantissimi altri film e di essermelo dimenticato, mentre la sua interpretazione di Rodney Alcala colpisce per un'intensità che non sconfina mai in overacting e da vita a un personaggio inquietante nella sua normalità; leggenda vuole che Cheryl Bradshaw abbia rifiutato di uscire con Alcala perché lo trovava "creepy" e che gli altri due concorrenti non fossero proprio a suo agio con lui, e Zovatto dà proprio quest'impressione, di un uomo non così strano da far fuggire a gambe levate, ma dotato comunque di qualcosa di "sbagliato". Anna Kendrick, neanche a dirlo, è bravissima e sembra aver trovato la sua dimensione proprio nelle protagoniste nervose e fragili di thriller al cardiopalma, e ci sono un paio di colleghe in grado di darle manforte nell'interpretazione di personaggi femminili ben caratterizzati, come Nicolette Robinson e la splendida Autumn Best. La spooky season è finita ieri, ma il mio consiglio è quello di non perdervi questo delizioso Woman of the Hour, un'ottima aggiunta a un catalogo Netflix che troppo spesso offre enormi sòle ai suoi abbonati (prossimamente vi parlerò di Don't Move, per esempio). Non è questo il caso, tranquilli!


Della regista Anna Kendrick, che interpreta anche Sheryl, ho già parlato QUI. Daniel Zovatto (Rodney) e Tony Hale (Ed) li trovate invece ai rispettivi link.


Se la storia di Alcala vi interessasse, esiste anche un film per la TV intitolato Dating Game Killer, ma onestamente non garantirei sulla qualità. Quindi vi consiglio di recuperare altri film "a tema" come Watcher, Ted Bundy - Fascino criminale e The Clovehitch Killer. ENJOY! 


martedì 29 ottobre 2024

Visioni dal ToHorror Fantastic Film Fest 2024

Anche quest'anno ho avuto la fortuna di recarmi a Torino per il ToHorror Fantastic Film Fest 2024, un'edizione dedicata al tema dell'Antropocene. Il programma era molto ricco e prevedeva tre lungometraggi tra i migliori usciti quest'anno, In a Violent Nature, Stopmotion (con tanto di masterclass e presenza in sala di Robert Morgan!) e Oddity (risultato vincitore della Menzione Speciale della Giuria nella sezione lungometraggi). Avendoli però già visti, ho optato per altri titoli, quindi ecco un piccolo riassunto di ciò che sono riuscita a godermi sugli schermi del festival e di ciò che vi conviene tenere d'occhio per i mesi a venire! Colgo l'occasione per ringraziare gli organizzatori che, ogni anno, si prodigano per creare un festival ricco, interessante e senza intoppi (riuscendo a tapullare con eleganza quando questi ultimi, inevitabilmente, si presentano!). Nell'attesa della prossima edizione... ENJOY!


Di origine sconosciuta
(George Cosmatos, 1983)

L'unico film che sono riuscita a guardare della rassegna Antropocene Now! è questo divertente e grottesco "home invasion" dove uno yuppie (interpretato nientemeno che da Peter Weller) si ritrova a dover combattere un ratto all'interno di un lussuosissimo appartamento in centro a New York. La battaglia che segue è una parabola amara su quanto l'uomo non abbia alcun controllo sulla sua vita e, soprattutto, su quanto il Dio capitalismo si basi su sistemi fragilissimi, al punto che basta un piccolo imprevisto per rivelarne per intero le falle e la pochezza. Per quanto gli effetti speciali del film siano un po' datati, è una pellicola che sconsiglio a chiunque abbia la fobia dei topi; vero è che la bestia protagonista cambia forma, specie e dimensione a seconda delle inquadrature e delle esigenze di sceneggiatura, ma il risultato complessivo è abbastanza schifosetto e l'idea di avere in casa una roba simile mi farebbe venire voglia di consegnarli le chiavi senza nemmeno impegnarmi nella disinfestazione. 


Fréwaka
(Aislinn Clarke, 2024)

Era il film su cui puntavo di più quest'anno, purtroppo è quello che mi ha lasciato di meno. Ambientato in Irlanda (Fréwaka, in gaelico, vuol dire "radici") racconta la storia di Shoo, infermiera esperta di cure palliative che viene inviata in un remoto villaggio irlandese per seguire l'anziana abitante di una sinistra magione sperduta nel bosco. Le radici del titolo affondano nel traumatico passato di Shoo, che si rivela a poco a poco allo spettatore, in quello dell'anziana e nelle oscure tradizioni del villaggio dove risiede, il che incasella Fréwaka nel genere folk horror, solitamente a me molto gradito. Purtroppo, nonostante interessanti suggestioni, splendide intuizioni visive e protagoniste molto brave, l'opera sa un po' di già visto e la sua natura di slow burn non aiuta a tenere destissima l'attenzione. Mi riservo comunque di riguardarlo (magari assieme al film precedente della regista, The Devil's Doorway) in un altro momento, forse ero un po' stanca in partenza. 


Infinite Summer
(Miguel Llansó, 2024)

Su questo non avrei puntato un euro, quando invece è stata una delle visioni più interessanti del festival. Già solo vedere scritto "Tallifornia" all'inizio mi ha messa istantaneamente di buonumore (per mera ignoranza, credevo fosse una presa in giro, ma trattasi di casa di produzione realmente esistente!), dopodiché mi sono lasciata catturare da questo mix di coming of age estivo e sci-fi che, con leggerezza e senza pretesa di offrire allo spettatore chissà quale interpretazione del mondo, introduce il tema del transumanesimo. Il regista, presente per un breve Q&A, è stato così sincero da ammettere di non aver voluto dare un significato particolare al film, voleva solo girarne uno che fosse interessante per lui, con un finale aperto all'interpretazione dello spettatore. Personalmente, l'ho trovato dolceamaro e molto gradevole, e ho apprezzato non solo lo sviluppo psicologico di una protagonista nella quale ho riconosciuto molto della me stessa ragazzina ma anche gli effetti speciali particolarissimi. Purtroppo, Infinite Summer è uno di quei film che, molto probabilmente, non avrà mai distribuzione in Italia. Nel caso fortuito in cui arrivasse anche qui, dateci un'occhiata!


Sayara
(Can Evrenol, 2024)

Dopo quella bomba di Baskin e quella mezza sòla di Housewife, avevo perso completamente di vista Can Evrenol. Il suo ritorno al ToHorror coincide con un rape and revenge brutalissimo e terribilmente realistico (o, meglio terribilmente plausibile) per quanto riguarda la violenza sessuale scatenante, la gioia di umiliare una donna, per di più immigrata, e tutto il codazzo di compiaciuta corruzione che mira a proteggere i suoi ricchi carnefici. La parte revenge, meno verosimile ma molto soddisfacente a livello di violenza e sangue, vede impegnata una ragazza davanti alla quale persino John Wick abbasserebbe lo sguardo fuggendo a gambe levate, dotata di una cazzimma tale che è difficile non mettersi ad applaudire. In sostanza, un film non originalissimo ma che si lascia guardare, anche se so che il regista potrebbe fare di più.


House of Sayuri
(Kouji Shiraishi, 2024) - Vincitore del premio del pubblico al miglior lungometraggio

In rete troverete tantissime recensioni che lo stroncano per il modo "leggero" con cui affronta una cosa tremenda come la violenza sessuale verso i minori. Ammetto io stessa che sarebbe servita un po' di delicatezza in più, ma avendo visto altri film di Shiraishi non mi ha neppure sorpresa la commistione tra horror serio, quasi tragico, e momenti di pura locura nipponica, che magari a noi occidentali sembra strana, mentre in Giappone potrebbe essere la norma. A prescindere, mi sono parecchio spaventata e, spesso, sinceramente divertita guardando House of Sayuri, anche se avrei sforbiciato un po' qui e là. Non fosse per i due film che ho visto in seguito, la nonnina protagonista sarebbe assurta ad idolo incontrastato del festival ma, anche così, è un gran bel personaggio.


Steppenwolf
(Adilkhan Yerzhanov, 2024) - Giusto vincitore del premio ufficiale come miglior lungometraggio

La bombetta del festival. Appena cominciato ho pensato "c'è dell'inquadratura in questa figaggine", poi in seguito è andato in crescendo. Graziato da una regia e una fotografia splendide, che consegnano allo spettatore un Kazakistan desolato e affascinante allo stesso tempo, Steppenwolf vive proprio di questi contrasti e contraddizioni. Sequenze grottesche lasciano posto a profonda commozione, per un sorriso strappato dal protagonista sale la voglia di prenderlo a ceffoni forti e di vederlo morto, mentre l'unica costante è la determinazione di una madre tanto spezzata nella mente e nell'eloquio quanto brillante e profonda nel cuore. A prescindere dai sentimenti che Steppenwolf saprà suscitarvi, il consiglio è di recuperarlo e godere dell'interpretazione di due attori favolosi, sperando che la vittoria al festival contribuisca a spingere qualche distributore illuminato a portarlo anche in Italia. 


Krazy House
(Steffen Haars, Flip van der Kuil, 2024)

Se Steppenwolf ha parlato, giustamente, alla mia parte più "cinefila", di testa, Krazy House ha scatenato la mia parte cazzona, de panza, e, com'è ovvio, è diventato il mio film preferito del festival. Un Nick Frost in stato di grazia (insieme a un'Alicia Silverstone ormai abbonata a horror e film strambi) ci accompagna sul set della sit com Krazy House, nella quale i Christian conducono una vita apparentemente idilliaca, pregni della Grazia del Signore. Ci vorrà poco perché l'idillio si sgretoli e due folli registi olandesi mettano alla berlina tutto ciò che vi è di più sacro, puro ed intoccabile, neonati e cani compresi. Produce Amazon, quindi la speranza è quella che Krazy House venga distribuito ovunque, perché non posso accettare che qualcuno rimanga privo di tanta, arrogante stupidera. Pregate Cristo, magari vi ascolterà, se non sarà impegnato altrove. Nel caso, cercatelo bene, forse potrebbe essere dentro di voi. Molto dentro. Pure troppo.



venerdì 25 ottobre 2024

Smile 2 (2024)

Dopo che il multisala di Savona ha fatto incularella, siamo dovuti emigrare a Genova per recuperare Smile 2, diretto e sceneggiato dal regista Parker Finn. Ne è valsa la pena? (Sì, assolutamente)


Trama: tornata sulla cresta dell'onda dopo un durissimo periodo di riabilitazione, la cantante Skye Riley comincia ad avere terribili allucinazioni e a convincersi di essere perseguitata da un'entità maligna...


Smile
era un esordio che mi era piaciuto molto. L'ho rivisto prima di andare a vedere il seguito ed è una pellicola che, non so perché, tocca alcune corde sensibili del mio essere, tanto che è uno dei pochi horror che mi scatena un magone incredibile in almeno un paio di sequenze (soprattutto quella in cui la protagonista si ritrova vittima di un trauma orrendo, circondata da persone che la credono pazza, e alle ferite psicologiche si aggiungono anche quelle fisiche causate da un tavolo di vetro. Giuro, è la seconda volta che mi ritrovo con le lacrime agli occhi davanti alle sue urla disperate). Il "problema" di Smile è il terribile modus operandi dell'entità maligna, la quale non si limita a perseguitare i vari personaggi, ma li conduce al tracollo psichico isolandoli da amicizie e affetti, riducendoli a larve spaventate che non riescono più ad avere il controllo della propria vita, e lo fa con una spietatezza agghiacciante. In Smile, toccava a una psichiatra ritrovarsi a perdere credibilità e salute mentale, in Smile 2 la cosa si complica ulteriormente, perché la protagonista, Skye Riley, è già di suo terreno fertile per la follia. Skye è una cantante alle prese con un difficile ritorno sulle scene, dopo un anno passato a riprendersi da un incidente d'auto che le ha lasciato dolorose cicatrici, sia nel corpo che nella mente. La disintossicazione da alcool e droghe è resa più difficile non solo dalle conseguenze fisiche dell'incidente, ma anche dalla pressione costante che la madre e tutto l'entourage le riversano addosso alla vigilia dell'importante tour che ne rilancerebbe l'immagine. Inoltre, Skye non era una bella persona neppure prima della tragedia e ciò l'ha resa una persona sola, priva di appoggi e prona ad inveire contro il mondo alla prima occasione. La sceneggiatura di Parker Finn, con tutti questi elementi, crea una bomba ad orologeria, un crudele viaggio senza freni verso un annientamento che, forse, sarebbe arrivato anche senza l'aiuto dell'entità malevola, perché Skye è una pentola a pressione pronta ad esplodere. Nonostante la natura della protagonista non sia totalmente positiva, lo spettatore viene spinto comunque a provare pietà per lei e per tutto l'orrore che si porta dentro, a sentirsi soffocare dal labirinto all'interno di cui la rinchiude il demone, spingendola verso l'orrore senza che Skye neppure se ne accorga ed illudendola di avere il totale controllo della sua vita, come se il personaggio "di facciata" venduto alle folle adoranti potesse magicamente tramutarsi in realtà.


Smile 2
è quindi uno Smile "più lungo, più grosso e tutto intero", nel senso che prende tutti gli elementi positivi del primo film e li potenzia creando un film spaventosissimo, dove lo jump scare arriva a tradimento sfruttando, tra l'altro, ciò che lo spettatore sa o pensava di sapere dopo avere visto la prima pellicola (ammetto di averne guardato almeno metà bestemmiando, l'altra metà protetta dalla solita rete di dita. E ora mi spiegate perché il cervello ritiene sia meno spaventoso guardare un film attraverso uno spazietto piccolino delimitato da cornici di ossa e carne? E' insensato, ma un minimo, con me, funziona). Parker Finn inizia col botto, confezionando una sequenza d'apertura degna di un thriller, e continua alternando momenti di terrore cieco ad altri di terribile bellezza, sfruttando con incredibile maestria tutto ciò che ruota attorno alla vita di una cantante e performer; in particolare, alcune coreografie sono ipnotiche e offrono spunti per infliggere tormenti ancora più terribili a Skye, tanto che quella del "corpo di ballo" all'interno dell'appartamento della protagonista è, mia modesta opinione, una delle sequenze horror più belle del 2024. In tutto questo, Naomi Scott si è rivelata una scream queen di prim'ordine. Lontana dalla bellezza surreale che la caratterizzava nell'Aladdin di Guy Ritchie, il suo aspetto più prosaico (ma non meno affascinante) accompagna una performance fisica di altissimo livello, anche perché Smile 2 non è particolarmente dialogato, e sono moltissimi i momenti in cui, a parlare, sono le scene dove c'è sinergia assoluta tra attrice, regia, montaggio e colonna sonora; dolorosi flashback, lampi di pura sofferenza, sono i mezzi attraverso cui arriviamo a capire a fondo l'oscurità dell'animo di Skye, i suoi demoni interiori, e la perversione di un'entità che di questo si nutre, sfruttandoli per fare ancora più male alla sfortunata vittima. A proposito di perversione, aggiungo che Parker Finn è deviato quanto me, perché fin dalle prime scene ho sperato che il film si concludesse in un certo modo, e il regista ha assecondato le mie aspettative in maniera egregia. Ora, c'è solo da capire che direzione prenderà la sua carriera, perché un eventuale Smile 3, con le premesse del secondo capitolo, sarebbe molto stuzzicante, ma sarei anche curiosa di vedere la sua eleganza, la sua ricerca di angoli e stacchi di montaggio particolari, il suo gusto estetico, al servizio di qualcos'altro. Nel frattempo, vi invito a godervi Smile 2 anche se il primo vi aveva detto poco, perché potreste rimanere molto sorpresi!


Del regista e sceneggiatore Parker Finn, che compare anche nei panni di un fotografo, ho già parlato QUI. Rosemarie DeWitt (Elizabeth Riley), Kyle Gallner (Joel) e Drew Barrymore li trovate invece ai rispettivi link.

Naomi Scott interpreta Skye Riley. Inglese, ha partecipato a film come Aladdin e Charlie's Angels. Anche produttrice, regista e sceneggiatrice, ha 31 anni e due film in uscita. 


Ray Nicholson
, figlio di Jack, interpreta Paul Hudson e aveva già partecipato ai film Una donna promettente e Licorice Pizza. Smile 2 segue direttamente gli eventi di Smile quindi, se vi fosse piaciuto, consiglio di recuperarlo e aggiungere It Follows. ENJOY!


mercoledì 23 ottobre 2024

Mr. Crocket (2024)

Attirata dalla locandina e dal fatto che fosse già disponibile su Disney+, ho recuperato Mr. Crocket, diretto e co-sceneggiato dal regista Brandon Espy.


Trama: Mr. Crocket, presentatore di un programma per bambini, corre in soccorso dei piccoli bisognosi di aiuto, eliminando i genitori inadatti...


C'è qualcosa negli anni '90 che mette paura più degli '80 e i filmmaker se ne stanno rendendo conto. Lungi da me definire Mr. Crocket, divertissement senza troppe pretese prodotto e distribuito da Hulu, inquietante quanto I Saw the TV Glow, ma le atmosfere mi hanno ricordato quelledella prima stagione di Channel Zero. Saranno le videocassette? Sarà quello squallore anche un po' drogato nascosto sotto i tappeti fluo dell'epoca? Vai a sapere. A prescindere, Mr. Crocket mi ha messo i brividi. La storia è piuttosto semplice. C'è uno show per l'infanzia distribuito in VHS, Mr. Crocket’s World, e i bambini ne vanno matti, anche perché Mr. Crocket è la versione "colorata" di Mr. Rogers, affabile e sempre pronto ad elargire divertenti insegnamenti. A differenza di Mr. Rogers, però, Mr. Crocket non ama i genitori, soprattutto quelli incapaci di esserlo e che, per un motivo o per l'altro, fanno soffrire i figli. Sfruttando terrificanti poteri, il presentatore si trasferisce così dalla realtà del nastro magnetico ai salotti di quelle che diventeranno le sue vittime. Partendo da questo incipit, Mr. Crocket si sviluppa come un horror piuttosto banale nei suo snodi narrativi, e si focalizza su una madre decisa a risolvere il problema seguendo tutta la trafila tipica del genere, personaggio "spiegone" compreso. Uno dei difetti del film è proprio la motivazione cretina che porta costei a diventare bersaglio del villain titolare. Tutte le vittime di Mr. Crocket sono genitori orribili, senza possibilità di errore: drogati, violenti, cattivi. Summer ha solo la sfiga di essere rimasta vedova e, per sovrappiù, sola con un figlioletto stronzo, ma talmente stronzo che il solo pensiero di partorire una creatura simile mi priva di quel briciolo di istinto materno rimasto. Major è talmente merda da fare i capricci persino durante il funerale del padre, vittima di una rappresentazione di "trauma infantile" probabilmente scritta da gente che odia/non capisce i bambini, o da qualcuno che non ha avuto voglia di elaborare su eventuali problemi cognitivi del pargolo. Il perché Summer voglia riprendersi Major o perché Mr. Crocket voglia portarsi questa pittima nel suo mondo ha preso a schiaffi la mia suspension of disbelief al punto che persino l'idea di un presentatore demoniaco, al confronto, mi è sembrata più plausibile.


Più che la trama, in effetti, va apprezzato in Mr. Crocket il ricorso a effetti speciali artigianali. Nonostante sia un film arrivato dritto in streaming, Mr. Crocket è piuttosto violento e mostra un gusto spiccato per il gore fin dalla prima scena, complice la giusta necessità di affiancare al folle protagonista il tipico bestiario di animaletti "pucciosi" tramutati in materiale da incubo. Abbiamo così sedie affamate di carne umana, struzzi dai denti affilati, orrori pelosi senza nome, orologi perfetti per un eventuale nuovo capitolo di Evil Dead, tutti affidati alla perizia di marionettisti e artigiani, con giusto un po' di CGI impiegata nel realizzare passaggi dimensionali e terrificanti antitesi agli allegri sfondi dei Teletubbies. Il mondo di Mr. Crocket rispecchia alla perfezione la definizione di "disturbante" e lo stesso vale per il sorriso dell'attore Elvis Nolasco (mai sentito nominare prima d'ora, va detto, anche se Imdb dice che l'ho già visto nel volutamente dimenticato Il sangue di Cristo di Spike Lee), che carica a molla la sua interpretazione regalando agli spettatori un matto forse non memorabile, ma comunque più che dignitoso. C'è anche da dire che gli altri attori non sono minimamente all'altezza, e che Brandon Espy è evidentemente privo del coraggio sconsiderato di buttare tutto in caciara come nelle vere "perle" horror anni '90, come I gusti del terrore, che era lurido, fastidioso e sbagliato in un modo che avrebbe giovato moltissimo anche a questo Mr. Crocket. Rileggendolo, mi sono accorta che questo post potrebbe sembrare una stroncatura. In realtà, mi sono divertita molto guardando il film, quindi ve lo consiglio anche nel caso abbiate voglia di guardare horror non troppo impegnativi ad Halloween, magari con persone che normalmente hanno paura o non bazzicano il genere. Mr. Crocket potrebbe andare bene anche per loro, anzi, sembrerebbe realizzato apposta!

Brandon Espy è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Americano, è al suo primo lungometraggio. Anche produttore e attore, ha 37 anni.


Jerrika Hinton
, che interpreta Summer, era la Millie Morris della serie Hunters. Mr. Crocket è tratto dall'episodio omonimo (sempre diretto e scritto da Brandon Espy) della serie Bite Size Halloween, che vi consiglio di recuperare assieme a I Saw the TV Glow se il film vi fosse piaciuto. ENJOY!


martedì 22 ottobre 2024

Alien³ (1992)

Seguendo la challenge di Letterboxd, oggi avrei dovuto parlare di Alien - La clonazione, ma che senso avrebbe avuto guardarlo se prima non avessi rivisto Alien³, diretto nel 1992 dal regista David Fincher?


Trama: Ripley sopravvive a un atterraggio di fortuna sul pianeta-prigione Fiorina "Fury" 161 ma scopre che con lei è atterrato anche un alieno...


A dimostrazione di quanto la saga Alien non abbia mai fatto presa sulla mia coscienza di cinefila, neppure ora che, a 43 anni suonati, ne sto riguardando/recuperando i film, comincerò il post dicendo che Alien³ non mi è sembrato così aberrante rispetto ai suoi predecessori. Certo, la coerenza, la solidità che c'erano in Alien e Aliens - Scontro finale qui non si percepisce, ma come potrebbe? David Fincher era al suo primo lavoro importante e, tra ingerenze degli studios, cambi quotidiani di sceneggiatura, pressioni per finire di girare in tempo entro una data d'uscita già definita, è un miracolo che il regista non sia fuggito a gambe levate lasciando la produzione dopo mezza giornata. Tutto ciò ha riempito innanzitutto il film di incongruenze a livello di sceneggiatura e contribuito a rendere alcuni passaggi oscuri, per non parlare di un paio di personaggi che perdono o acquistano importanza apparentemente senza alcun senso, eppure l'atmosfera di tragico, ineluttabile nichilismo, che sarebbe poi esplosa nell'opera più famosa di Fincher, Seven, qui è palpabile fin dall'inizio. In Alien³ non c'è speranza per nessuno. Un potenziale nucleo familiare viene spazzato via con una spietatezza agghiacciante, un sentimento in boccio stroncato alla radice da fiotti di sangue, una flebile speranza di sopravvivenza viene consegnata a chi ne è privo da anni ma l'unica, reale fonte di salvezza e autodeterminazione è la morte. Una morte temuta, certo, ma chiesta più volte come dignitosa conclusione di una battaglia perduta a causa delle macchinazioni di chi non rispetta la vita umana e guarda solo ad uno squallido profitto. E' difficile, se non addirittura impossibile, affezionarsi ai detenuti di Fiorina 161, questo è certo, ma è altrettanto impossibile non amare la Ripley umanissima e stanca di Alien³, la fragilità che trasuda da una tempra d'acciaio ormai fiaccata da innumerevoli traumi, sia fisici che psicologici. Il film di Fincher non diverte mai, piuttosto angoscia per il suo "mai una gioia" reiterato, eppure lo trovo apprezzabile proprio per questo motivo, chiamatemi pazza.


In Alien³, poi, ho trovato quello che per me, al momento, è il miglior personaggio della saga, il medico "decaduto" Clemens di Charles Dance. Pacato, gentile, dotato di britannico aplomb e mai fuori posto (tranne in una scena, porca di quella miseria...), sarei stata ore a guardarlo e sentirlo raccontare la sua triste storia, aggrappandomi alla sciocca speranza di un happy ending che negli Alien in generale, e Alien³ in particolare, è più raro dell'ossigeno. Anzi, a dire il vero mi ha intrattenuto più l'elemento umano di quello alieno. Per quanto mi riguarda, infatti, il vero difetto di Alien³ è, innanzitutto, uno xenomorfo abbastanza orripilante, realizzato con effetti speciali che sembrano molto più vecchi di quelli utilizzati nel '79, poi uno scontro finale che a me è sembrato soporifero. Mai avrei pensato di addormentarmi guardando un Alien (soprattutto perché Alien³ è molto gore), eppure è successo, e l'ultima mezz'ora si è trasformata in un'ora di click sul tasto rewind del telecomando. Non so se è stata colpa dei setting tutti uguali, resi ancora più uggiosi da una cupa monocromia, se è un problema della regia inesperta, del montaggio o del sembiante assai simile dei vari detenuti (avendo ormai difficoltà a ricordare i nomi dei personaggi, l'unica speranza è avere personaggi interpretati da attori dal volto molto familiare, come quello di Pete Postlethwaite), ma prima del gran finale ammetto di essermi persa più volte, ben poco convinta dalla trappola architettata ai danni dello xeno-cane. So che del film esiste una "Assembly Cut", chiamata così perché Fincher, ancora rivoltato dall'esperienza a distanza di anni, si è rifiutato di rimettere mano al girato e ha dato via libera a chiunque volesse riproporlo senza tagli, e forse il modo migliore per fruire di Alien³ sarebbe guardarla prima di emettere giudizi, ma al momento sono a posto così e mi accontento di quanto di buono è rimasto nella versione che potete trovare su Disney +.


Del regista David Fincher ho già parlato QUI. Sigourney Weaver (Ripley), Charles S. Dutton (Dillon), Charles Dance (Clemens), Paul McGann (Golic), Ralph Brown (Aaron), Holt McCallany (Junior), Lance Henriksen (Bishop II) e Pete Postlethwaite (David) li trovate invece ai rispettivi link.


Richard E. Grant
aveva fatto il provino per il ruolo di Clemens, in quanto David Fincher è un grande fan di Shakespeare a colazione e avrebbe voluto riunire Grant a Paul McGann e Ralph Brown. La produzione, purtroppo, ha ritenuto l'attore troppo mite per l'ambiente carcerario e ha preferito dare il ruolo a Charles Dance. Ciò detto, se Alien³ vi fosse piaciuto, recuperate Alien, Aliens - Scontro finale, Alien - La clonazione, Prometheus e Alien: CovenantENJOY!  

venerdì 18 ottobre 2024

Hold Your Breath (2024)

Siccome mi piace molto Sarah Paulson, ho recuperato Hold Your Breath, uscito in queste settimane su Disney +, diretto e sceneggiato dai registi Karrie Crouse e William Joines.


Trama: nell'Oklahoma degli anni '30, Margaret e le sue figlie vivono in una fattoria isolata, in una zona colpita da ripetute tempeste di sabbia. La loro vita scorre più o meno tranquilla, finché un predicatore non arriva a sconvolgerla insinuando dubbi e paranoie nella mente di Margaret...


Ammetto senza troppi problemi di aver faticato tantissimo con Hold Your Breath, quindi vi do un consiglio spassionato: se siete stanchi, proni ad addormentarvi per un nonnulla, in cerca di un film dinamico, rimandate la visione di Hold Your Breath a un periodo più consono. Lo dico perché la pellicola di Karrie Crouse e William Joines impiega tantissimo prima di entrare nel vivo della vicenda, e nel corso della prima parte insiste molto (anche troppo) sulla lotta di Margaret contro la sabbia, in un avvicendarsi continuo di gente che ramazza e infila pezzi di stoffa nelle fessure tra le porte. E' una scelta sensata, ci mancherebbe, perché la cosiddetta Dust Bowl è una dei protagonisti principali del film, così come il paesaggio brullo che circonda le sfortunate donne Bellum. La Dust Bowl è uno dei primi disastri ecologici causati dall'uomo e dall'agricoltura intensiva, che riduceva le Grandi Pianure ad aride distese prive di erba; questo, combinato con una lunga siccità, ha portato alla comparsa di devastanti tempeste di sabbia che sono durate decenni e che hanno costretto moltissimi americani a migrare verso zone più favorevoli climaticamente ed economicamente. Così ha fatto il marito di Margaret, ma lei è rimasta nella fattoria di famiglia per non abbandonare la tomba della figlia Ada, morta di malattia in tenera età, e la speranza è quella di riunirsi all'uomo non appena ci saranno i soldi necessari a poter vivere tutti insieme. Nel frattempo, Margaret si carica addosso l'arduo compito di proteggere le due figlie superstiti (una adolescente in boccio, l'altra bambina segnata da una malattia che l'ha resa sordomuta) in una realtà che non perdona né gli incauti che si avventurano all'esterno senza precauzioni, né le donne sole, viste con sospetto da una comunità che non aspetta altro se non definirle pazze e incapaci a gestire i figli. Alla perenne ansia da "prestazione" di Margaret si aggiungono, inoltre, un passato già pregiudicato da comportamenti non proprio normali e l'arrivo di un misterioso predicatore proprio nel momento in cui, in famiglia, si comincia a leggere la terrificante storia del Gray Man, colui che riesce a trasformarsi in polvere e possedere le persone che lo respirano senza saperlo, spingendole a compiere le peggio nefandezze.


Hold Your Breath
dissemina, per tutta la sua durata, tante piccole micce che deflagrano (senza troppo clamore né danni, a dire il vero) sul finale, ma la vera forza del film è quella di avere un doppio setting claustrofobico, reso ulteriormente tale dall'utilizzo di colori desaturati che enfatizzano la cupezza dell'ambientazione e creano un contrasto disperato con le visioni solari e verdissime della protagonista. Da una parte, c'è la casa di Margaret, un luogo fragile che offre temporanea sicurezza dalla sabbia all'esterno, permeabile tuttavia non solo a quest'ultima, ma anche a una cabin fever alimentata da terrore, solitudine e diffidenza; dall'altra, c'è l'esterno fatto di praterie sconfinate ma impossibili da affrontare senza maschere protettive, privo di punti di riferimento e a rischio di venire sferzato da mortali tempeste di sabbia che cancellano in un attimo l'odiato sole, facendo piombare i personaggi in una cupa oscurità. Ambientazioni simili sono perfette per una storia di paranoia crescente, dove la sanità mentale dei personaggi viene invasa dal pulviscolo del dubbio, in un parallelo reso evidente dalle persistenti inquadrature della polvere che turbina nell'aria e contribuisce ad aumentare la disperazione della protagonista. Quanto a quest'ultima, Sarah Paulson è una garanzia, come sempre. Abbonata ai ruoli di donna sull'orlo di una crisi di nervi, alla quale basta una spintarella per diventare matta come un cavallo, fomentata dall'odio verso chi rifiuta di assecondare la sua follia (la scena in cui il predicatore brucia la lettera del marito per toglierle ancora più credibilità è allucinante), l'attrice ci si abbandona con consumata abilità e i suoi fan non potranno che apprezzare. A me piacerebbe che la bravissima Paulson riuscisse finalmente a staccarsi da quel genere di storie che vivono solo dello stereotipo dentro cui è stata incatenata, ma probabilmente sono in minoranza. In definitiva, come succede a molte delle produzioni streaming che escono durante la Spooky Season, non ho trovato Hold Your Breath  particolarmente entusiasmante ma neppure così brutto da sconsigliarne la visione, anzi, si vede che Karrie Crouse e William Joines sono autori eleganti, però mi è parso mancasse loro il coraggio. Comunque a molt* amic* della mia amata cerchia horror è piaciuto, quindi recuperatelo e fatemi sapere cosa ne pensate!


Di Sarah Paulson (Margaret Bellum) e Frances Lee McCain (Bertha Bell) ho già parlato ai rispettivi link.

Karrie Crouse e William Joines sono i registi della pellicola (la Crouse è anche sceneggiatrice). Americani, sono al loro primo lungometraggio.


Amiah Miller
, che interpreta Rose, era la Gretchen di My Best Friend's Exorcism. Se Hold Your Breath vi fosse piaciuto recuperate Run. ENJOY!

 

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