venerdì 21 novembre 2025

2025 Horror Challenge: Reazione a catena (1971)

La challenge horror, questa settimana, chiedeva la visione di un film non in lingua inglese. Ho scelto così Reazione a catena, diretto e co-sceneggiato nel 1971 dal regista Mario Bava.


Trama: dopo la morte, per apparente suicidio, di una contessa, speculatori ed eredi si affrontano per il possesso di una baia...


Dopo mesi passati a sbattermi nelle difficili ricerche di horror in lingua non inglese, sono stata colta, quasi alla fine della challenge, da un'illuminazione, ovvero che nella categoria rientrano anche film italiani. A tal proposito, sappiate che sia Chili che Plex vengono incontro, gratuitamente, allo spettatore che dovesse ritrovarsi privo di un DVD/Blu Ray di uno dei capolavori di Mario Bava, Reazione a catena, giustamente considerato il "nonno" dello slasher americano. Un "nonno" plagiato ed omaggiato più volte, soprattutto da Venerdì 13, che con Reazione a catena condivide l'ambientazione naturale e un paio di omicidi particolarmente efferati, ma anche l'indifferenza del killer nei confronti delle vittime, trattate alla stregua di sacchi di carne da uccidere nei modi più sanguinosi ma, attenzione, senza infierire. Non siamo nell'ambito del torture porn, per fortuna, e Reazione a catena ha comunque diverse attinenze col Giallo, di cui Bava era e rimane uno dei maestri indiscussi. Tutto parte, infatti, dall'omicidio di un'anziana contessa, anzi, da un doppio omicidio, in quanto, subito dopo la morte della donna, tocca al suo assassino perire per mano sconosciuta. I motivi sono da ricercarsi nell'eredità della contessa, proprietaria di una baia che fa molta gola agli speculatori edilizi, ma anche questi motivi, in realtà, poco importano a Bava e allo spettatore. Quello che è importante, all'interno di Reazione a catena, è dipingere personaggi sgradevoli che, per via della loro natura bieca, finiscono nelle maglie della reazione titolare ed intrappolati in un vortice di violenza che non risparmia nessuno, per motivi ben futili che si distanziano sempre più dall'idea di "eredità". Un' "ecologia del delitto" intesa, ovviamente, non come salvaguardia dell'ambiente (anche se, in alcuni dialoghi, viene toccato anche questo argomento, sempre usato come strumento per manipolare comunque l'ascoltatore e ripulirsi la coscienza), quanto studio della relazione tra gli uomini, attraverso l'occhio cinico e disincantato del regista. La violenza sembra quasi inevitabile, innata, e questo osservatore esterno si riserva il ruolo di studioso, di entomologo di questi insetti denominati "razza umana" (cit.), che si dibattono e si lanciano l'uno contro l'altro al punto che non importa più nemmeno perché; l'elemento giallo cade in secondo piano, ogni motivazione suona come una scusa perfettamente evitabile, c'è solo il gusto di "giocare" con la vita umana e tornare alla squallida vita di tutti i giorni come se non fosse successo nulla.


Questa scelta tematica è coerente con quella stilistica. I personaggi di Reazione a catena sono immersi in un ambiente naturale, all'interno del quale si muovono da una "tana" all'altra, accompagnati o da suoni naturali come il vento o gli uccelli, oppure da una colonna sonora tribale, che ne sottolinea la natura selvaggia, di scimmie violente. Dette scimmie possono darsi arie di intellettualità o raffinatezza, persino abbracciando hobby eccentrici come entomologia o cartomanzia, ma sempre scimmie restano, grette, violente ed impiccione, oppure, se giovani, mosse da irrefrenabili desideri sessuali. Accanto a questa natura grezza, ci sono le vestigia di una civiltà raffinata. Ville dall'arredamento moderno, night club abbandonati, magioni decadenti, sono tutti palcoscenici di delitti violentissimi, i cui effetti speciali terribilmente realistici sono stati affidati alla mano esperta di Carlo Rambaldi ed hanno assicurato a Reazione a catena un posto di diritto all'interno dei Video Nasties inglesi (ai quali, prima o poi, dovrò dedicare una rubrica). Effettivamente, alcune sequenze sono raccapriccianti. Gli omicidi all'arma bianca includono persone impalate, gole squarciate e teste spaccate come meloni ma, come ho scritto sopra, la caratteristica del film è che la cinepresa di Bava non mostra alcun compiacimento relativamente a queste sequenze. I delitti avvengono, punto, a prescindere che le vittime lo meritino o meno, ma sono rapidi ed efficaci, e la loro violenza indica disinteresse più che perversione. Sembra, insomma, che l'assassino colpisca con quello che ha sottomano, senza pensare alla sofferenza delle vittime, ma solo al modo più rapido di levarsele dai piedi (come dimostra il "due al prezzo di uno") e lo spettatore non può che rimanere angosciato non tanto dall'efferatezza, quanto dall'estrema futilità della vita umana. Nonostante ciò, Reazione a catena, come tutti i migliori gialli dell'epoca, non manca di ironia. E' un'ironia beffarda e gelida, per una volta non affidata a personaggi che ricoprono il ruolo di comic relief (anche se Laura Betti, in tal senso, è tristemente perfetta), quanto proprio alla reazione a catena del titolo, che tocca l'apice in un finale che è un compendio perfetto di humour nero, e che lascia lo spettatore di sale, davanti ad una delle opere più feroci della filmografia di genere italiana. 


Del regista e co-sceneggiatore Mario Bava ho già parlato QUI. Nicoletta Elmi, che interpreta, non accreditata, la figlioletta di Renata e Alberto, la trovate invece QUA.



 


martedì 18 novembre 2025

Eddington (2025)

Ho rimandato per via della Nuovi Incubi Halloween Challenge, ma alla fine sono riuscita a guardare Eddington, diretto e sceneggiato dal regista Ari Aster, solo per scoprire che io e lui ormai non andiamo più d'accordo.


Trama: durante la pandemia del COVID, lo sceriffo Cross e il sindaco Garcia si scornano a causa di dissidi sentimentali mai sanati. Le cose precipitano quando Cross decide di candidarsi come nuovo sindaco...


"Ad Aster servirebbe qualcuno di vessante e intimidatorio come la madre di Beau, che lo portasse a fermarsi e dubitare, invece di dare sfogo a tutto ciò che gli passa per la testa convinto che sia sempre cosa buona e giusta. Anche perché (diciamoci la verità senza timore di scatenare l'ira degli dèi) tre ore del pur bravissimo Joaquin Phoenix con la faccia triste del cane bastonato, che sciorina una lamentela dopo l'altra quando non è impegnato ad uggiolare o a balbettare scuse incomprensibili, sono un po' pesanti da sopportare." Apro il post con la citazione di un grande critico, ovvero la sottoscritta, che già ai tempi di Beau ha paura aveva le idee chiare relativamente alla logorrea cinematografica di Ari Aster e sperava che, nel frattempo, l'autore si sarebbe un po' ridimensionato. Aster mi ha ascoltata, in effetti, perché Eddington dura ben venti minuti meno di Beau ha paura. Peccato che, a differenza della sua penultima opera, che comunque non mi aveva spinta tra le braccia di Morfeo se non durante la sequenza dello spettacolo teatrale, Eddington sembri durare quanto un lockdown. Credo e spero fosse una cosa voluta, in quanto il film è ambientato proprio durante i primi tempi della pandemia mondiale, quando ancora pensavamo che non ne saremmo mai usciti e quando lo scontro tra le varie fazioni era all'apice della ferocia, tra mascherine, distanziamenti, decreti, paranoia, dubbi, complotti e quant'altro. Ci ricordiamo tutti (forse) com'era la situazione solo cinque anni fa, anche se sembra passato un secolo, e ricordiamo bene come ogni piccolo problema fosse esacerbato da un orribile clima di incertezza e nervosismo. Eddington parla proprio di questo, di piccole ma ben radicate antipatie e fastidi tutto sommato superabili, che si ingigantiscono fino a trasformare la cittadina di frontiera in una polveriera avente come fulcro due poli opposti. Da una parte c'è lo sceriffo Cross, un conservatore con moglie traumatizzata e suocera complottista a carico, il quale si oppone strenuamente a ogni prevenzione perché asmatico e perché convinto che il COVID non esista; dall'altra c'è lo sceriffo Garcia, sindaco democratico con mani in pasta ovunque e fautore di un progresso comunitario che in realtà porterà denaro solo a lui e pochi altri. Dopo una vita di reciproca diffidenza, alimentata da una (presunta?) passata relazione tra Garcia e Louise, la moglie di Cross, i due si scontrano definitivamente quando lo sceriffo, stufo della politica del rivale, decide di candidarsi sindaco, cominciando un'imbarazzante campagna elettorale a base di frasi fatte e scioccanti video su Facebook.


In mezzo a questo "duello" western 2.0, che avrebbe condotto John Wayne nella tomba tanto i contendenti sono molli, Aster infila le proteste per il black lives matter, il terrorismo, le derive estremiste di buona parte della popolazione americana, la questione delle armi, la pedofilia, gli imbonitori del web e chi più ne ha più ne metta. Un sovraccarico di informazioni e criticità che, sulla carta, sarebbe anche molto interessante, ma che preso così, a spizzichi e bocconi, si traduce in una pluralità di "spunti" assimilabile al bombardamento di informazioni da social e, allo stesso modo, fa poca presa sul cervello dello spettatore. Anche in questo caso, probabilmente, l'effetto era voluto. Per quanto mi riguarda, però, se l'aspetto portante della trama si perde in tanti piccoli punti appena accennati, trovo faticoso continuare a provare interesse per i protagonisti, ancor più se detti protagonisti sono ritratti come persone di rara antipatia, privi di spina dorsale, incapaci di esercitare anche un minimo controllo sulla propria vita. Tanti piccoli Beau, insomma, che non arriveranno ad avere paura di tutto, ma che non trovano altra risposta se non affidarsi alla violenza (che sia verbale, psicologica o fisica) ogni volta che si sentono messi con le spalle al muro. E pensare che Eddington non è privo di momenti coinvolgenti, anche perché Ari Aster, come ha già ampiamente dimostrato, ha un occhio di rara finezza per la messa in scena. Penso al prefinale del film, angosciante e concitato come quello dei migliori horror, alle ampie panoramiche sul grottesco finale, alla perfetta imitazione delle dinamiche che intercorrono all'interno dei social, alla rappresentazione della lucida follia dello sceriffo, a quel doppio, silenzioso schiaffo sulle note di Baby, You're a Firework, che fa crollare l'intera situazione. In quest'ultimo caso particolare, fanno molto Pedro Pascal e Joaquin Phoenix, che trasmettono in maniera incredibile la valenza grottesca e drammatica della sequenza; c'è da dire, purtroppo, che io ormai ho un problema enorme con Joaquin Phoenix e coi suoi "vinti", dopo una lunga serie di interpretazioni che, a mio avviso, hanno ulteriormente appesantito delle storie già non proprio leggere, Beau ha paura in primis. Come ho detto, problema mio, per carità, ma potrei anche aggiungere che avere tra le mani Austin Butler e, soprattutto, Emma Stone e sottoutilizzarli come ha fatto Ari Aster è un crimine punibile per legge. Io aspetto con ansia il momento in cui Aster lascerà un po' da parte la sua strabordante voglia di mostrare "quanto ne sa", per tornare alla carica con un'opera più asciutta e concentrata, magari rientrando nei ranghi dell'horror, a lui più congeniali. Insomma, gli servirebbe un bel trattamento Shyamalano, quella doccia di umiltà che potrebbe farmelo di nuovo amare. Non per augurargli il male, ma aspetto con fiducia.  


Del regista e sceneggiatore Ari Aster ho già parlato QUI. Joaquin Phoenix (Joe Cross), Emma Stone (Louise Cross), Pedro Pascal (Ted Garcia), Luke Grimes (Guy Tooley), Clifton Collins Jr. (Lodge) e Austin Butler (Vernon Jefferson Peak) li trovate invece ai rispettivi link.


Micheal Ward
, che interpreta Michael Cooke, era il coprotagonista del film Empire of Light, mentre Amélie Hoeferle, ovvero Sarah, era nel cast di Night Swim. ENJOY!

venerdì 14 novembre 2025

2025 Horror Challenge: Ginger Snaps (2000)

La Horror Challenge della settimana prevedeva la visione di un film uscito nel secondo millennio. Ho scelto Ginger Snaps, conosciuto in Italia col terrificante titolo Licantropia: Evolution, diretto e co-sceneggiato nel 2000 dal regista John Fawcett. Ginger Snaps si inserisce anche negli On Demand perché, neanche a farlo apposta, qualche settimana fa Patrizia mi aveva chiesto proprio di guardare la trilogia (lo farò più avanti, giuro!). 


Trama: Ginger e Brigitte sono due sorelle adolescenti morbosamente affascinate dalla morte. Un giorno, Ginger viene morsa da un lupo mannaro e Brigitte tenta disperatamente di arrestarne la progressiva trasformazione...


La saga di Ginger Snaps è un altro di quegli oggetti di culto che ho sempre evitato di guardare, forse perché, da sempre, ai licantropi preferisco i vampiri o forse perché i titoli italiani mi hanno sempre dato l'idea che i film fossero delle cretinate col botto. In realtà, almeno per quanto riguarda il primo capitolo, l'unica cretinata col botto è stata la distribuzione italiana: Ginger Snaps, infatti, è uscito col titolo Licantropia: Evolution (per sfruttare il richiamo commerciale del secondo capitolo di un'altra saga uscita in quegli anni, Underworld Evolution appunto) nel 2007, DOPO il terzo capitolo, intitolato in Italia Licantropia. Aiutami a guarire da questa mia malattia/affetto da una strana forma di licantropia, insomma. Scherzi a parte, è un peccato che queste scelte vengano portate avanti ciecamente, perché poi ci sono persone come me che aspettano 25 anni e una challenge per recuperare film molto belli ed interessanti, che si distinguono per originalità rispetto ad altre opere coeve. Ginger Snaps è la storia del rapporto tormentato di due sorelle, Ginger e Brigitte, che trovano l'una nell'altra la forza di sopravvivere allo schifo dell'adolescenza. Affascinate dalla morte, le due passano il tempo a mettere in scena suicidi splatterosissimi e si promettono di morire assieme prima dei 16 anni, nel caso la loro vita non cambi. Purtroppo, la svolta arriva quando Ginger viene morsa da un lupo mannaro e comincia, inesorabilmente, a trasformarsi; prima, le sue ferite guariscono nel giro di pochissimo tempo, poi cominciano a spuntarle i peli, e anche la sua psiche cambia di conseguenza. L'incidente coincide con l'arrivo della "maledizione", che per Ginger e Brigitte altro non è che il ciclo mestruale, un evento naturale che loro vivono come l'inizio della fine, la metafora di un'adolescenza sporca e disgustosa, sulla quale l'unico controllo è, appunto, una morte decisa da loro. La sceneggiatura di Ginger Snaps, attraverso l'elemento horror del lupo mannaro, racconta in primis lo schifo dell'adolescenza, un'età in cui tutto è difficile ed estremizzato, dove l'istinto sarebbe quello di fare branco per "appartenere" a qualcosa e afferrare una normalità anche squallida, ma spesso subentra l'autoconservazione che porta a starsene in disparte, al sicuro in una bolla di statica autocommiserazione e disprezzo. Il legame tra Ginger e Brigitte è quasi simbiotico, e nocivo per entrambe, ma tutto sommato consente loro di rimanere "sane". Quando Ginger viene morsa, il suo cambiamento in lupo mannaro diventa la metafora di una crescita incontrollata, in cui la ragazza diventa consapevole di tutte le sue possibilità inespresse, tra cui bellezza, sensualità, forza. Il disperato tentativo di salvarla, da parte di Brigitte, viene vissuto come l'azione di una sorella gelosa, ancora bambina (Brigitte non ha ancora avuto le mestruazioni), incapace di uscire dall'ombra di una ragazza più carismatica, e questo porta al doloroso, sanguinoso scontro tra le due.


Ginger Snaps
potrebbe sembrare un horror adolescenziale come tanti, a base di licei fighetti all'interno dei quali c'è una determinata tipologia di personaggi mutuati dai cliché anni '80-'90, ma in realtà non è così. Il liceo dove vanno Brigitte e Ginger è lo specchio di un disagio generalizzato, verosimile nel suo essere vittima dello squallore provinciale, e lì dentro persino le persone integrate o cool non sono nulla di che. I ragazzini sono goffi e poco carismatici e non fa eccezione quello che, in un film diverso, sarebbe connotato come il love interest della protagonista, e le ragazzine sono tutte bruttarelle, a partire dalla protagonista, tutte accomunate da frustranti problemi di insicurezza sociale. Anche la madre di Ginger e Brigitte è un personaggio peculiare, disperatamente desiderosa di condividere ogni esperienza, positiva e negativa, con le figlie, fino ad arrivare a dichiarazione estreme sul finale; a differenza del povero papà clueless, più vicino ai genitori assenti degli horror adolescenziali, Pamela si interessa attivamente di tutto ciò che riguarda le sue figlie, arrivando persino a giustificare ed appoggiare i loro passatempi morbosi, ma purtroppo nella sua foga ottiene risultati diametralmente opposti a quelli sperati. Se i personaggi sono interessanti e particolari, è anche merito delle due bravissime attrici protagoniste, senza le quali il film non funzionerebbe. Katharine Isabelle incarna una bellezza nervosa e ferina che, almeno nelle prime fasi della mutazione, sboccia libera come un'affascinante farfalla, salvo poi mostrare una mostruosità inaudita e una ferocia dolorosa nella solitudine della stanza condivisa con la sorella. Emily Perkins fa, per contro, tanta tenerezza nella sua interpretazione dimessa di una ragazza bruttina ed incolore, che è costretta a crescere e a prendere le redini della vita di entrambe, nel modo peggiore. Anche gli effetti speciali sono molto belli e, grazie anche ad accortezze di regia e fotografia che ovviano al budget limitato nei momenti in cui i lupi mannari si vedono nella loro interezza, resistono ancora all'usura del tempo. In particolare il make-up di Ginger si distingue per una progressione sottile, che inizialmente ne sottolinea la sensualità, per poi renderla, a poco a poco, sempre più mostruosa. Insomma, non avrei dato una lira a Ginger Snaps e invece l'ho molto apprezzato. Cercherò di non aspettare troppo a vedere i due film successivi!


Di Emily Perkins (Brigitte), Katharine Isabelle (Ginger), Kris Lemche (Sam), Mimi Rogers (Pamela), Jesse Moss (Jason) e Lucy Lawless (annunciatrice nell'audio della scuola) ho parlato ai rispettivi link.

John Fawcett è il regista e co-sceneggiatore del film. Canadese, ha diretto episodi di serie quali Nikita, Xena: Principessa guerriera, Taken e Queer as Folk. Anche produttore, ha 57 anni.


Il ruolo di Ginger era stato inizialmente offerto a Sarah Polley e Natasha Lyonne, ma entrambe hanno rifiutato. Il film ha un seguito, Gingers Snaps: Unleashed (in Italia, Licantropia apocalypse) e un prequel, Ginger Snaps Back: The Beginning (in Italia, Licantropia), che prima o poi finiranno negli On Demand. ENJOY!

mercoledì 12 novembre 2025

Hell House LLC: Lineage (2025)

Sono molto triste. Ho guardato Hell House LLC: Lineage, uno degli horror che aspettavo di più quest'anno, e Stephen Cognetti, regista e sceneggiatore dell'intera saga, mi ha delusa senza pietà.


Trama: sopravvissuta alla distruzione dell'Abaddon Hotel, Vanessa torna ad Abaddon e comincia ad avere incubi e visioni, come quasi tutti gli abitanti della città...


Cosa posso dire se non "sono costernata", come diceva il povero maggiordomo di un vecchio Dylan Dog? Cognetti aveva promesso, con Lineage, di risolvere tutti i misteri seminati negli anni dalla saga di Hell House LLC. Aveva anche promesso (e pare che, nonostante tutto, non abbia ritrattato) che Lineage sarebbe stato l'ultimo capitolo della saga. Peccato che Cognetti, durante la realizzazione del film, non abbia tenuto conto del budget e che abbia finito i soldi prima di rendersi conto che, ohibò, non sarebbe riuscito a tirare le fila del tutto. Il risultato è che Lineage non solo non svela nulla, ma aggiunge ulteriori domande e si conclude col colpo di scena più frustrante dai tempi di All Cheerleaders Die, soprattutto considerato che, come già il film di Lucky McKee, nemmeno questo prevede un seguito. La cosa, per inciso, sarebbe perdonabile, se non fosse che Cognetti passa l'intero film a ciurlare nel manico. Avesse dedicato meno tempo agli incubi di Vanessa, agli sproloqui della sua psichiatra, al marito della protagonista, alla sua coinquilina, ad altri settecento personaggi di cui non frega nulla ad anima viva e che, peggio ancora, muoiono off screen, sarebbe riuscito a concentrarsi sul passato dei due terrificanti adepti di Tully e su come Patrick Carmichael sia riuscito a confezionare la maledizione più terrificante del cinema recente. Dal momento in cui, già con The Abaddon Hotel, Cognetti aveva deciso di abbandonare l'efficace mistero del primo film e creare una lore di Abaddon, era giusto che andasse fino in fondo, ma così è una presa dei fondelli nei confronti dei fan. La cosa mi fa ancora più rabbia perché Cognetti, nel tentativo di ingraziarsi questi ultimi, ha commesso un altro errore imperdonabile, ovvero basare il film interamente sulla comparsa a intermittenza dei maledetti clown che ci fanno compagnia fin dal primo capitolo. Per chi, come me, soffre di coulrofobia, è ovviamente una sofferenza e non posso dire che non mi sia cagata in mano per tutta la durata di Lineage, scusate la finezza. Razionalmente, però, riconosco che ricorrere all'idea più iconica della saga per tutta la durata del film indica che di idee ne sono rimaste ben poche o, se ci sono, sono mal organizzate.


Per quanto riguarda la realizzazione, mi permetto di citare Lucia, costernata quanto me, e chiedere a Cognetti "ma perché non sei rimasto a fare found footage?". Lineage ha qualche momento efficace, perché comunque Cognetti ha un'ottima mano nel gestire i luoghi bui, i corridoi lunghi e tutto quello che non viene messo a fuoco alle spalle dei personaggi, e mentirei se non dicessi che, in più di un'occasione, ho guardato appena oltre l'angolo superiore dello schermo per non soccombere all'infarto. Purtroppo, però, Lineage è un film molto dialogato, e qui si inserisce un altro problema comune a tutti i film della saga, ovvero gli attori cani. Se, per motivi di budget, sei costretto a ricorrere ad attori poco espressivi o intensi, metterli all'interno di un found footage o un mockumentary potrebbe anche essere una carta vincente, per aumentare la verosimiglianza o la spontaneità del tutto, e tapullare eventuali difetti, cosa che, effettivamente, vale per i capitoli precedenti della saga (tranne per quella martellata sulle balle di Lake of Fire, di cui purtroppo Lineage riprende la protagonista). Utilizzare una tecnica classica, con abbondanza di di campi e controcampi, evidenzia tutti i limiti dell'operazione, e la povera Elizabeth Vermileya non è proprio eccelsa, così come non lo sono quasi tutti i suoi colleghi, col risultato che, spesso, Lineage ricorda tanto un episodio di una serie televisiva "media". Mi sento sporca a parlare male di questo film, giuro, perché quello con Hell House LLC è stato un amore improvviso e coltivato in poco più di un anno ma comunque intenso, e il mio cuore di fan si è riscaldato davanti a tutta una serie di citazioni, omaggi e rimandi agli altri capitoli della saga. Purtroppo, però, è un po' poco anche solo per definire Hell House LLC: Lineage un bel film. Cognetti ha dichiarato che la sua esperienza con Hell House LLC è finita, e che la sua idea sarebbe quella di passare la palla a un altro regista. La mia speranza è che Cognetti metta comunque mano alla sceneggiatura, che Shudder sganci dei soldi, e che qualcuno mi dia almeno una degna conclusione, fosse anche con uno spin-off a fumetti, una serie animata, un telefilm, perché altrimenti non mi riprenderò mai da questa delusione.

Stephen Cognetti è il regista e sceneggiatore della pellicola. Americano, ha diretto i film Hell House LLC, Hell House LLC II: The Abaddon Hotel, Hell House LLC III: Lake of Fire, Hell House LLC Origins: The Carmichael Manor e 825 Forest Road. E' anche montatore e produttore. 

Ma ti mangiassero, guarda.

Elizabeth Vermilyea
, che interpreta Vanessa, riprende il ruolo dal terzo capitolo della saga. Oltre a lei, tornano anche tutti gli attori che, in Hell House LLC Origins: The Carmichael Manor, interpretavano le due vlogger protagoniste e i ragazzi della famiglia Carmichael. Lineage è, a quanto si evince dalle dichiarazioni di Cognetti, l'ultimo film di una saga che comprende Hell House LLC, Hell House LLC II: The Abaddon Hotel, Hell House LLC III: Lake of Fire, Hell House LLC Origins: The Carmichael Manor. Fino a ieri vi avrei consigliato di vederli, ma vista la frustrazione di sapere la saga incompiuta, non so neppure io che fare. ENJOY!

martedì 11 novembre 2025

The Toxic Avenger (2023)

Nei cinema, ad Halloween, è stato distribuito The Toxic Avenger, diretto e co-sceneggiato nel 2023 dal regista Macon Blair.


Trama: Winston vive solo col figliastro e sbarca il lunario come uomo delle pulizie di una losca ditta farmaceutica. Quando scopre di avere un tumore incurabile, Winston cerca di derubare la ditta, ma finisce in una pozza di liquami tossici e diventa un mostro...


Io mi chiedo in che mondo viviamo. The Toxic Avenger, remake di uno dei film più iconici e remunerativi della indipendente Troma, è stato presentato in un paio di festival nel 2023, dopodiché è finito in un limbo distributivo in quanto ritenuto troppo violento, praticamente impresentabile al pubblico odierno. Due anni dopo, The Toxic Avenger è arrivato in tutto il mondo, persino da noi, nella sua versione "unrated", e io mi chiedo se ormai sono diventata insensibile o se i produttori si sono rincoglioniti del tutto (propendo più per la seconda ipotesi, ma non metto limiti ai miei problemi). Se un film come The Toxic Avenger è impresentabile a un pubblico "generalista" (ma poi, a parte gli appassionati di horror, chi è che va a vedere gli horror al cinema, scusatemi?), Bring Her Back non avrebbe dovuto nemmeno uscire, perché guardando il lavoro di Macon Blair sembra di avere davanti un cartone animato. Questo non è un complimento, ovviamente. Non sono mai stata fan del Toxic Avenger della Troma, visto troppo tardi per elevarlo a cult e, comunque, troppo distante dai miei gusti, ma ne riconosco la carica sovversiva, l'ironia infantile ma comunque caustica, la patina grezza che lo rende disgustoso a più livelli, e che conferisce "spessore" al personaggio di Toxie proprio per la contrapposizione tra la sua natura buona e lo schifo che lo ha generato. Il film di  Michael Herz e Lloyd Kaufman dissacrava la figura del supereroe dotandolo di tutti i simboli del successo (potenza fisica, una fidanzata procace, l'ammirazione delle persone, persino una base segreta) ma declinati in chiave "trash", nel senso più letterale del termine, spingendo lo spettatore a tifare per lui pur provando un inevitabile disagio. Stessa cosa valeva per la origin story di Toxie, un povero verginello disagiato trasformato in un mostro per lo scherzo di un gruppo di bulli psicopatici che uccideva gente a caso; la casualità del tutto, e la crudeltà inaudita di ogni malvivente sul suolo di Tromaville, erano essenziali alla deriva violentissima intrapresa da un vendicatore non proprio brillante in partenza, preda di un odio sviscerato ed irrazionale verso il male. 


Nel film di Macon Blair, invece, tutto è normalizzato. Quella di Winston, uomo delle pulizie all'interno di una ditta farmaceutica, è una vita come tante. Il protagonista del nuovo Toxic Avenger è un uomo assolutamente normale, pur avendo la sua dose di problemi, e la sua origin story è legata a gravissimi problemi di salute e al disperato tentativo di risolverli o, perlomeno, di non lasciare privo di sostentamento il figlio dell'ex fidanzata, già traumatizzato dalla morte di quest'ultima e, per giunta, autistico. La vendetta di Winston/Toxie è comprensibile e lineare, in quanto va alla fonte di tutte le disgrazie che affliggono lui e la città di St. Roma, ovvero Bob Garbinger e la sua ditta farmaceutica, che fingono di curare le stesse malattie di cui sono la causa, per via di un inquinamento scellerato. Anzi, mi spingo persino a dire che il pattern per cui il villain decide di diventare un mostro ancora peggiore per battere Toxie è una strada battuta mille volte, stravista quanto il ripensamento di uno degli scagnozzi, le beghe familiari, la tizia ribelle che cerca di instillare un po' di coscienza sociale nel protagonista. Insomma, nel nuovo The Toxic Avenger non c'è un minimo di originalità, e non solo perché il film è un remake, ma soprattutto perché, quando si distanzia dall'originale, ricicla topoi vecchi quanto me. Inoltre, Macon Blair, che pur si professa amante indefesso della Troma, non riesce a fare a meno di dare un'immagine ripulita e patinata anche delle discariche a cielo aperto, degli scopettoni, di qualsiasi cosa dovrebbe destare istintivo disgusto.  


Questa tendenza a "ripulire" riverbera anche nelle sequenze che i trailer vendono come esagerate e scabrose, accomunando The Toxic Avenger alla saga di Terrifier. Allora, non scherziamo. Io non sono una "bimba di Leone", per carità, e lungi da me elevare i film dedicati ad Art il clown a capolavori dell'horror, ma se non altro Leone non teme di scatenare il vomito nello spettatore e si appoggia quasi in toto ad ottimi effetti speciali artigianali. The Toxic Avenger, di artigianale, ha solo il trucco di Toxie (sul quale poi torno...) e quel meraviglioso uccello mutante, il resto è schifezza digitale, splatter finto come i soldi del monopoli, macellate da sbadiglio compulsivo, che unite ad un umorismo tutto sommato ben poco corrosivo, contribuiscono alla palpebra calante nonostante qualche buona idea, un paio di citazioni azzeccate, e lo schermo smarmellato di colori acidi. In tutta sincerità, a me sono sembrati svogliati anche gli attori, nonostante il cast facesse ben sperare. In effetti, gli unici che meritano sono Kevin Bacon, ormai abbonato ai ruoli di villain fascinoso che non disdegna però l'essere preso a pesci in faccia come merita, e un Elijah Wood sempre più weird e perfettamente a suo agio nei panni del Pinguino/Gollum. Peter Dinklage, con tutto il rispetto, è una barzelletta, nel senso che recita solo al naturale, mentre sotto il pesante trucco di Toxie c'è una donna, e l'attore si limita a dargli la voce. La cosa risulta abbastanza ridicola perché non solo, effettivamente, Toxie somiglia ben poco a Dinklage (e ci sta, anche i due attori che interpretavano l'originale erano diversi), ma anche perché la voce a volte risulta falsata rispetto ai movimenti labiali dell'attrice e, soprattutto, il trucco di Toxie nelle sequenze in ospedale è completamente diverso da quello che definisce il personaggio in tutto il resto del film. Su Jacob Tremblay, povero amore, stendo un velo pietoso. A 15/16 anni, calcolando a spanne l'epoca delle riprese, il creaturo era in quell'età in cui i ragazzini non sono né carne né pesce, e qualunque cosa facciano sembrano molli come un'oloturia, il che probabilmente ha avuto ripercussioni sulla sua interpretazione. Purtroppo, la pubertà non è stata tenera con chi era un bimbo splendido e puccioso, quindi c'è solo da sperare che Mike Flanagan o altri trovino un modo per valorizzare gli altri suoi talenti. Purtroppo, Macon Blair non ne ha avuto la capacità, così come non è riuscito a rendere omaggio alla Troma, nonostante le buone intenzioni. Vi consiglio dunque di stare ben lontani da questa monnezza ripulita, e di dedicarvi ad altri horror più interessanti.


Del regista e co-sceneggiatore Macon Blair, che interpreta anche Dennis, ho già parlato QUI. Peter Dinklage (Winston/Toxie), Jacob Tremblay (Wade), Lloyd Kaufman (Lloyd), Kevin Bacon (Bob Garbinger), Elijah Wood (Fritz Garbinger) li trovate invece ai rispettivi link.

Taylour Paige interpreta J.J. Doherty. Americana, ha partecipato a film come Ma Rainey's Black Bottom e a serie quali Welcome to Derry. Anche produttrice, ha 35 anni e un film in uscita. 


Non c'è Peter Dinklage sotto il make up di Toxie, bensì un'attrice inglese di nome Luisa Guerreiro. Il film è il remake di The Toxic Avenger - Il vendicatore tossico, che vi consiglio di guardare a prescindere. ENJOY!

venerdì 7 novembre 2025

Bugonia (2025)

Ho aspettato tantissimo, per i miei standard, ma fortunatamente il Multisala ha tenuto in programmazione Bugonia, l'ultimo film diretto da Yorgos Lanthimos, abbastanza perché potessi andarlo a vedere.


Trama: Teddy e Don, fermamente convinti che la Terra sia stata invasa da alieni responsabili di ogni male che affligge il pianeta, rapiscono la CEO di una multinazionale farmaceutica...


Cominciamo con un momento culturale, e spieghiamo cosa significa la parola "Bugonia". Il termine deriva da un episodio delle Georgiche di Virgilio e descrive un fenomeno per cui, dalle carcasse di tori, nascono delle api vive. Le api sono molto importanti per il film di Lanthimos, in quanto sono il termometro della salute del nostro pianeta, e la loro estinzione significherebbe l'inizio della sua lenta morte; la "bugonia", inoltre, si collega direttamente al finale del film, ma lì entrerei nel territorio dello spoiler e sarebbe meglio evitare. Torniamo alle api. Sono decenni che questi importantissimi insetti, che assicurano la proliferazione delle piante attraverso l'impollinazione, diminuiscono costantemente, a causa dell'inquinamento, delle malattie, del cambiamento climatico. Il protagonista di Bugonia, Teddy, le alleva ed è quindi dolorosamente consapevole di quanto, col tempo, siano diventate fragili. Questa consapevolezza è un ulteriore tassello atto a comprovare la sua teoria: la Terra è segretamente manipolata da alieni che stanno facendo di tutto per uccidere gli umani e distruggere il pianeta, avvelenando in primis le api. Gli alieni sono anche particolarmente "fissati" con Teddy, la cui vita è un inferno fatto di morte, malattia, povertà e disagio proprio per colpa loro. La forte personalità di Teddy, alimentata da podcast, siti e video a tema complottista, gli consente di convertire alla causa il suo unico amico, il problematico Don, il quale decide di aiutare Teddy a rapire Michelle, CEO di una multinazionale farmaceutica, sospettata di essere un'aliena in incognito. La prima metà di Bugonia è interamente imperniata sullo scontro tra le granitiche, folli convinzioni di Teddy e la pragmaticità arrogante di Michelle, un confronto tra due persone egoriferite e non particolarmente gradevoli, che pongono lo spettatore in una posizione scomoda. Da una parte, Teddy e soprattutto Don fanno pena, sono due animi solitari che cercano dei capri espiatori per una vita orrenda, squallida (di Don non sappiamo nulla ma Teddy ha visto tutti i membri della sua famiglia ammalarsi o morire, e ha subito sevizie durante l'infanzia); razionalmente, non si può dare la colpa della loro condizione a chi, come Michelle, dalla vita ha avuto tutto, ma viene anche il nervoso a pensare che queste persone non facciano comunque niente per aiutare i poveri disgraziati, anzi, fanno soldi sulla pelle di quelli come loro. Dall'altra parte, però, anche Michelle fa pena, perché le accuse che le vengono rivolte non sono razionali, ed è angosciante pensare che la sua logica rischi di condannarla a subire violenze o a morire per mano di chi è perso in un mondo completamente distorto. In seguito, i punti di vista di Bugonia si fanno ancora più estremi e grotteschi, un continuo avvicendarsi di rivelazioni scioccanti che prendono alla sprovvista lo spettatore, il quale si ritrova a dover testimoniare una situazione che precipita senza possibilità di recupero, una serie di casualità tali che ogni lotta razionale per la salvezza dell'umanità risulta non solo inutile, ma anche dannosa.


Non ho mai visto Save the Green Planet!, di cui questo Bugonia è un remake, quindi non posso fare paragoni, ma il grottesco thriller di Lanthimos è leggermente meno glaciale dei suoi precedenti lavori, veicola una rabbia grezza che probabilmente fallisce nel trovare un vero obiettivo verso cui rivolgersi, e lascia spiazzati perché, a parer mio, si chiude con un tragico afflato di speranza, dopo essersi un po' perso in un prefinale troppo squilibrato sui toni della commedia nera. Pur non essendo il film che preferisco di Lanthimos, è un'opera che affascina, creando un mondo "parallelo" radicato in una realtà tristemente verosimile e conosciuta. Parte di questa alterità si ritrova nello score di Jerskin Fendrix, perfetto per un film di fantascienza, il resto deriva tutto da un allucinante combinazione tra la scelta di girare in Vista Vision, che rende ogni sequenza di Bugonia incredibilmente nitida, e i movimenti di camera e le inquadrature sghembe tipici di Lanthimos, un mix che non solo crea un ironico distacco verso la scenografica violenza spesso mostrata, ma sfida anche le percezioni dello spettatore dando l'illusione che lo schermo si stringa e si allunghi, deformando la realtà. A questa sensazione di avere davanti un warp si unisce la claustrofobia derivante da uno dei due ambienti creati dal geniale scenografo James Price, la cantina di Teddy (l'altro è il delirio rivelatorio di vetro e forme geometriche dove lavora Michelle), dove si svolge buona parte del film. All'interno della cantina, la cinepresa di Lanthimos evita panoramiche troppo ampie e si concentra essenzialmente a riempire l'inquadratura coi volti dei due contendenti, i quali offrono due performance tra le migliori delle loro carriere. Jesse Plemons, ripreso quasi sempre dal basso a sottolinearne l'aggressività, è una bomba pronta a esplodere, un uomo in grado di alternare una lucida follia addomesticata a podcast cretini e una furia che lo rende un mostro bruciato dal sole; Emma Stone, al contrario ripresa dall'alto e quindi messa in una condizione di "sottomissione", sembra davvero un'aliena, con quegli occhioni enormi, il viso pallido e la testa rasata, ma la fredda determinazione che le brucia nello sguardo è la cosa forse più inquietante di tutto il film. Nel mezzo, un attore con reali problemi di autismo, Aidan Delbis, che non si limita a fare da cuscinetto, ma con la sua interpretazione realistica e misurata enfatizza ancora più l'orrore derivante da estremismi egoistici che hanno ben poca attenzione per coloro che dicono di voler difendere. La presenza di Delbis è il valore aggiunto di un film che scava in scomode magagne sociali, meritevole di una visione anche se non siete fan dello stile spesso involuto del regista, perché Bugonia mi è parso una delle sue opere più "accessibili".


Del regista Yorgos Lanthimos ho già parlato QUI. Jesse Plemons (Teddy), Emma Stone (Michelle) e Alicia Silverstone (Sandy) li trovate invece ai rispettivi link.


Il film è il remake di Save the Green Planet!, che ora mi toccherà vedere e che vi consiglio di recuperare, se Bugonia vi è piaciuto. ENJOY!

martedì 4 novembre 2025

Good Boy (2025)

La sorpresa di Halloween è stata quella di vedere uscire su tutti i servizi streaming italiani il film Good Boy, diretto e co-sceneggiato dal regista Ben Leonberg.


Trama: Todd, in ripresa da una grave malattia, si trasferisce col cane Indy nella casa del nonno, in mezzo ai boschi. Lì, il cane comincia a percepire una presenza maligna...


Good Boy
aveva fatto parlare di sé ancor prima dell'uscita, per essere il primo film horror girato attraverso il punto di vista del cane; dopo la prima ondata di interesse, erano subentrati i timori del pubblico relativamente al fatto se il cane sopravvivesse o meno, e ciò ha contribuito ad aumentare ancora di più la popolarità di Good Dog e, ovviamente, l'hype nei confronti del film. Non vi starò a dire se Indy sopravvive o meno, perché dovete soffrire come me, ma purtroppo non posso nemmeno dirvi che l'attesa è valsa la pena, in quanto Good Boy non mi ha particolarmente entusiasmata. Il lungometraggio d'esordio di Ben Leonberg vive essenzialmente della sua originalissima idea, ma non va più in là di essa, e si rivela un horror a base di oscure presenze e case infestate abbastanza banale, legato ai canovacci tipici del genere. Todd, afflitto da una malattia polmonare cronica non meglio specificata (probabilmente un cancro) decide di passare la convalescenza nella casa del nonno, morto proprio lì qualche tempo prima. Tutti, in primis la sorella, cercano di dissuaderlo, in quanto la leggenda narra che la casa sia infestata, e che i suoi abitanti facciano una brutta fine; in effetti, fin da subito il cagnolone Indy capisce che qualcosa non va, e che una presenza non particolarmente amante degli animali è pronta a passare letteralmente sul suo cadavere per portarsi via Todd. Leonberg, che è anche il padrone del Nova Scotia Indy, sa bene quanto sia forte il legame tra un cane e il suo essere umano, e quanto l'idea che detto legame si spezzi (che sia per una presenza demoniaca o la malattia/morte dell'uno o dell'altro) riduca in frantumi i cuori degli spettatori più o meno sensibili, e giustamente rende questo potentissimo snodo emotivo il fulcro del film. D'altronde, il "good boy" del titolo si riferisce proprio alla natura stessa dei cani, animali fedeli, buoni, coraggiosi fino all'estremo, devoti ai loro padroni. Ad Indy manca la parola, ma ugualmente ci prova a mettere in guardia Todd, a seguito di incubi e visioni terrificanti, legate al passato della casa; quando la situazione precipita, Indy lotta con le unghie e coi denti per impedire che la presenza ottenga ciò che vuole. La valenza emotiva di Good Boy, quindi, è l'unica cosa che non metto in discussione, soprattutto perché la natura oscura ed incomprensibile della presenza potrebbe anche essere il modo in cui la mente di Indy processa la malattia di Todd dandole un "aspetto" e il potere di alterare la personalità e l'odore di un padrone che il cane quasi stenta a riconoscere, e che sicuramente lo terrorizza, nonostante l'amore che lo spinge a restargli sempre vicino. 


Il problema, almeno per me, di Good Boy è che Leonberg non è riuscito ad unire questi concetti interessanti ad una trama altrettanto coinvolgente. Il film ha dei grossi problemi di ritmo e ripetitività; durante la sua breve durata si alternano visioni, incubi, scorci di passato, momenti in cui Indy compie le stesse identiche scelte scellerate dei colleghi umani all'interno degli horror altrimenti "la storia non va avanti", ma è tutto abbastanza superficiale, confuso. E' come se Leonberg avesse in testa tante belle suggestioni ma non riuscisse a legarle tra loro se non ricorrendo sempre al terrore che ad Indy possa accadere qualcosa, "gioco" che, alla fine, dopo un po' logora. E anche l'utilizzo del POV di Indy (pur dimostrando la bravura di Leonberg, il quale gira tutto il film ad altezza cane, sfoca i volti degli esseri umani e rende Indy ancora più espressivo grazie ad inquadrature ad hoc) è, scusate il gioco di parole, un cane che si morde la coda, in quanto di Todd ci importa soltanto perché importa alla povera bestiola, o perché se dovesse morire, Indy ne soffrirebbe tantissimo. D'altronde, come si fa a non parteggiare in toto per un musetto splendido come quello di Indy, animale che unisce in sé la pucciosità e i colori di una volpotta e l'espressività senza pari di un cane dolce ed intelligentissimo? Indy è meglio di tantissimi altri attori a due zampe e mi piacerebbe molto vedere, un giorno, il backstage delle riprese, durate tre anni proprio per via della speciale star del film, che immagino non sarà stata facilissima da addestrare e gestire, a prescindere dal legame tra lei e il regista. Nonostante la mezza delusione, probabilmente derivante da aspettative diverse rispetto ad un prodotto finale tutto sommato "elevated", quando io pensavo a qualcosa di più dinamico e vario, Good Boy non è un brutto film, e sarebbe scorretto da parte mia sconsigliarvi di vederlo. State solo attenti a come utilizzate i soldi, perché è un noleggio che non costa poco e, cosa più scorretta di un mio eventuale consiglio negativo, non prevede la presenza di una traccia in lingua originale, né di sottotitoli. Midnight Factory, ma cosa mi combini??


Di Larry Fessenden, che interpreta il nonno, ho già parlato QUI.


Ben Leonberg
è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Anche produttore, attore, montatore e scenografo, è al suo primo lungometraggio.

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