mercoledì 16 ottobre 2024

Bolle di Recensioni su Netflix: Grave Torture (2024) - Il buco: Capitolo 2 (2024)

Oggi raggrupperò un paio di film sui quali non ero sicura di riuscire a scrivere post di lunghezza standard, ma mi scuso per il titolo impreciso e fuorviante. E' vero, infatti, che Grave Torture si trova su Netflix, ma non nel catalogo italiano. Se vorrete guardarlo, dunque, dovrete cercare un po' oppure aspettare che sia disponibile anche in qui da noi. ENJOY!

Grave Torture - Joko Anwar (2024)

Joko Anwar è un autore indonesiano che mi piace molto in primis per la sua spietatezza e poi per il modo di rendere fruibile anche a un pubblico occidentale miti, leggende e topoi distanti dai nostri. Grave Torture, in particolare, ha un'idea di fondo spettacolare. Nella Sunna islamica si menziona la "punizione della tomba", ovvero un periodo, tra la morte e la resurrezione, in cui il defunto viene interrogato sulla propria fede da due angeli, i quali lo puniscono in maniera raccapricciante nel caso di peccati, negligenze, mancanze e quant'altro (vi ho fatto il riassunto del riassunto di Wikipedia, mi perdonino i credenti e, nel caso, mi correggano); la protagonista del film, Sita, decide di dimostrare che questa "punizione" è una vaccata, e lo fa per esorcizzare orribili eventi che ne hanno segnato l'infanzia. Il concetto base della trama e l'introduzione a orologeria, durante la quale mi si è quasi slogata la mascella, sono due elementi che rendono Grave Torture meritevole di una visione, uniti al fatto che Anwar è un regista consumato, dotato di una padronanza della cinepresa invidiabile. Quello che però mi ha spinta a dedicare al film poco più di un paragrafo è che, per quanto mi riguarda, Grave Torture manca di ritmo e diventa una noia mortale (mi sono addormentata più volte. E' inconcepibile, davanti a un film di Anwar) nell'istante successivo l'inizio dell'esperimento di Sita, forse perché il regista mette troppa carne al fuoco e si adagia su cliché da ghost story non particolarmente entusiasmanti. L'opera si risolleva sul finale, a tratti terrificante, ma ho avuto la sgradevole impressione che Netflix ci abbia messo lo zampino per appiattire il tutto, inoltre non ho apprezzato granché gli effetti speciali troppo computerizzati. Forse forse mi sbaglio, forse ho preso un abbaglio. Nel caso, Lucia ne ha parlato in termini molto più entusiasti e competenti, quindi, prima di decidere di scartare Grave Torture, andate a leggere anche il suo post.

 


Il buco: Capitolo 2 - Galder Gaztelu-Urrutia (2024)

Altro post in breve, perché ammetto di non aver capito una benemerita mazza del finale, quindi avrei delle difficoltà ad elucubrare in merito. Ne stanno dicendo tutti peste e corna de Il buco 2, invece a me e Mirco è piaciuto molto, e non solo per quella stronzissima vocetta familiare che ovviamente ci ha fatto fare la ola sul divano, ma anche per la scelta di mantenere lo stesso setting cambiando un po' le regole. Se nel primo film gli abitanti del "buco" sceglievano o meno di autoregolarsi, in base a un egoismo/menefreghismo più o meno congenito, qui alcuni prigionieri vivono cercando di imporre una legge che prevede la possibilità di mangiare, ogni giorno, solo il piatto prescelto, salvo eventuali scambi concordati. Così facendo, teoricamente, ci sarebbe cibo per tutti, ma la trama de Il buco 2 si sviluppa proprio per permettere allo spettatore di riflettere sull'imposizione talebana (letteralmente) delle regole, sulla libertà, sulla sottilissima linea di confine che impedisce, o consente, al bene di diventare male e viceversa. Come nel primo film, ci sono dei difetti, e mi è parso, soprattutto, che stavolta Galder Gaztelu-Urrutia abbia scelto di mettere un po' troppa ciccia sul piatto (ha-ha) complicando inutilmente la trama e perdendo spesso il filo del discorso, ma un paio di personaggi bucano lo schermo e l'elemento splatter si è alzato di un paio di tacche. L'impressione che ho avuto è che gli autori vogliano tirarla per le lunghe, senza dare spiegazioni (anzi, creando ancora più confusione), nella speranza che venga richiesto a gran voce un terzo capitolo, ma il rischio è quello di giocare col fuoco e con la pazienza dell'utente finale, anche perché di "caracol" ce n'è solo uno. Se non vi è piaciuto Il buco, o lo avete apprezzato poco, il mio consiglio è di stare alla larga da questo Capitolo 2, viceversa guardatelo senza pregiudizi, magari vi divertirete com'è successo a me!



martedì 15 ottobre 2024

Il fantasma dell'opera (1925)

Il tema odierno della challenge horror di Letterboxd era "gothic". La scelta è caduta su Il fantasma dell'opera (The Phantom of the Opera), diretto nel 1925 dal regista Rupert Julian (e molti altri).


Trama: innamorato della cantante Christine, il Fantasma dell'Opera di Parigi, orribilmente deforme, usa ogni mezzo per ottenere il cuore della sua protetta, scatenando il terrore...


Pur amando il cinema in generale e l'horror in particolare, mi mancano parecchi capisaldi. La challenge di Letterboxd (che, per inciso, do già per fallita, visto che, al momento in cui scrivo, è fine settembre e sono arrivata appena a metà sfida) mi ha spinta a recuperare molte opere che rientrano nel novero di questi capisaldi, e uno è proprio Il fantasma dell'Opera. Del romanzo di Gaston Leroux conosco solo la versione musical e un paio di horror a esso ispirati, oltre a Il fantasma del palcoscenico di Brian De Palma, quindi diciamo che ho una percezione molto falsata della storia, più legata alle sue rappresentazioni teatrali; non a caso, mentre guardavo il film del 1925, stavo molto attenta allo score musicale, e potrei giurare che qualcosina sia finita nel capolavoro di Andrew Lloyd Webber, anche solo a livello di ispirazione. Ma torniamo al film di Rupert Julian, un pastiche a cui ha messo mano sicuramente il regista Edward Sedgwick, responsabile delle sequenze finali, e forse persino Lon Chaney. Julian non era granché rispettato nell'ambiente e cast e troupe facevano, giustamente, quello che volevano, cosa che si riflette sulla resa finale del film. Infatti, Il fantasma dell'Opera è statico anche per gli standard dell'epoca, nonché privo di uno stile riconoscibile, ma spicca per la grandeur delle scenografie, una più spettacolare dell'altra, e per il terrore puro che Lon Chaney è in grado di infondere ancora oggi. L'Erik di Chaney non è il villain romantico, l'"Angel of Music" che affascina Christine con la sua "Music of the Night", sdoganato da quasi tutte le versioni seguenti (lasciamo pure perdere quella di Argento, in cui la Christine più scema di sempre si barcamena, letteralmente, tra lui e Raoul), bensì un folle nato con un sembiante mostruoso, esperto di magia nera e malvagio dentro e fuori. Il Fantasma del 1925 non suscita alcuna pietà e non si limita ad uccidere le persone, arriva persino a torturarle ingannando più volte la terrorizzata Christine; un epilogo privo di compassione come quello girato da Sedgwick risulta dunque più che naturale, sia in termini di spettacolarizzazione, sia per venire incontro a quegli happy ending violenti e risolutivi che tanto piacciono al pubblico americano, ben poco convinto da un finale originale in cui il Fantasma moriva di crepacuore dopo avere rinunciato a Christine per amore. 


Tornando a Lon Chaney, il film è passato giustamente alla storia per il terrificante make-up da lui creato ed applicato personalmente, e non fatico a credere che qualcuno sia svenuto alla rivelazione del volto di Erik, in una delle scene più genuinamente sorprendenti del genere horror. Parlare di jump scare sarebbe improprio, perché la rivelazione viene anticipata dai dialoghi in cui Erik ammonisce Christine a non tentare di togliergli la maschera e dal modo quasi giocoso, pregno di sciocca curiosità femminile, con cui la cantante disobbedisce (per inciso, Mary Philbin è splendida, adorabile); ma la scena della rivelazione, con l'inquadratura che passa da laterale a frontale con uno stacco così subitaneo che il volto di Chaney sembra saltargli fuori dal corpo nemmeno stessimo parlando di uno di quei tremendi pupazzi a molla, mi ha fatto cadere la mascella anche nell'anno del Signore 2024, guardando il film su Youtube. Un'altra cosa che mi ha molto stupita è l'uso del colore, indice dell'enorme sforzo economico infuso dal produttore Carl Laemmle, che evidentemente credeva moltissimo nel progetto. Nella versione che ho visto io (la trovate gratuitamente sul canale Youtube Cult Cinema Classics), la scena della Maschera della Morte Rossa è colorata e sfarzosa, un tripudio di comparse, set dettagliati e abiti sgargianti che surclassa quelle monocrome, già molto sontuose, durante le quali viene rappresentato il Faust, inoltre la chicca del mantello rosso viene mantenuta quando Erik ascolta di nascosto i piani di Christine e Raoul sul tetto dell'Opera. Noterete che mi sono riferita alle sequenze del film usando il termine "monocromo", ora vi spiego. L'utilizzo del Technicolor è una scelta originale della produzione dell'epoca, di questo sono certa, ma la versione de Il fantasma dell'opera che ho trovato su Youtube è praticamente priva di scene in bianco e nero. La pellicola risulta colorata di ambra, giallo, blu, porpora, a seconda degli ambienti rappresentati e dei toni delle scene, e non riesco a trovare informazioni chiare che mi tolgano il dubbio se questa colorazione fosse già presente nel 1925 oppure se sia stata introdotta nei restauri/riedizioni seguenti. Se qualcuno mi illuminasse nei commenti gliene sarei grata, intanto ribadisco la gioia di essermi goduta questa perla horror che conoscevo solo di fama e, neanche a dirlo, vi consiglio di recuperarla!

Rupert Julian è il regista della pellicola. Neozelandese, ha diretto film come The Right to Be Happy, The Kaiser, the Beast of Berlin e Creaking Stairs. Anche attore, sceneggiatore e produttore, è morto nel 1943 all'età di 64 anni.


Lon Chaney
(vero nome Leonidas Frank Chaney) interpreta il Fantasma. Americano, lo ricordo per film come Il gobbo di Notre Dame e Il trio infernale. Anche regista e sceneggiatore, è morto nel 1930 all'età di 47 anni.


Mary Philbin
, che interpreta Christine Daae, ha partecipato anche al film L'uomo che ride. Se Il fantasma dell'opera vi fosse piaciuto recuperate, ovviamente, Il fantasma dell'opera di Joel Schumacher , Il fantasma del palcoscenico e Il fantasma dell'Opera con Robert Englund. ENJOY!

venerdì 11 ottobre 2024

Salem's Lot (2024)

Appena possibile ho recuperato Salem's Lot, diretto e sceneggiato dal regista Gary Dauberman e tratto dal romanzo Le notti di Salem di Stephen King.


Trama: Ben Mears, scrittore in crisi d'ispirazione, torna a Salem's Lot, suo luogo di nascita. Lì scopre che la città e i suoi abitanti sono presi di mira da un antico vampiro...


Uno dei grandi misteri dell'horror recente sarà il motivo per cui questo Salem's Lot è rimasto nel limbo distributivo per ben due anni. Girato nel 2021, completato nel 2022, ha aspettato fino a fine 2024 per vedere l'uscita, per di più direttamente in streaming, sul servizio americano Max. Va bene il Covid, va bene lo sciopero SAG-AFTRA, ma secondo me è un ritardo comunque eccessivo. Sia come sia, Salem's Lot è finalmente arrivato, quindi com'è? Meno peggio di quanto pensassi ma comunque non un lavoro memorabile né capace di rendere finalmente giustizia a uno dei miei romanzi preferiti del Re. Il problema è sempre quello, probabilmente impossibile da evitare per chiunque non sia Mike Flanagan e non abbia a disposizione miniserie di almeno sei puntate: Salem's Lot manca di anima. E non parlo del film, ma della cittadina. Questa però è anche una delle note di merito che darei a Dauberman, perché, memore delle mattonate sui coglioni de Le notti di Salem televisive, lo sceneggiatore non ci ha nemmeno provato ad approfondire la natura della città, degli abitanti e le tante piccole magagne che fanno sì, come dichiarato dallo sceriffo Gillespie, che Salem's Lot fosse già morta "dentro" prima ancora dell'arrivo di Barlow. Questi approfondimenti, appunto, o si fanno bene o è meglio evitarli. Purtroppo, così facendo si hanno anche dei protagonisti e comprimari con lo spessore emotivo di un foglio di carta, al punto che la loro sopravvivenza o meno diventa poco importante (perlomeno, poco sentita dallo spettatore), per non parlare poi dei legami che arrivano a crearsi tra gli stessi. Nel nuovo Salem's Lot, l'unico personaggio leggermente tridimensionale è Matt Burke, gli altri sono dotati di maggior vivacità rispetto ad altre loro controparti televisive/cinematografiche ma è il loro unico pregio (anche stavolta, il mio personaggio preferito, il doloroso, cinico padre Callahan, è una macchia di colore che passa e va) quanto al Dr. Cody dà talvolta l'impressione di essere poco più di un comic relief. Barlow e Straker risultano invece cartonati, e il primo funziona nello stesso modo in cui funzionava quello del 1979, ovvero come mero veicolo di jump scare. L'intenzione di Dauberman era quella di privare la figura del vampiro di attrattiva, e la trovo lodevole, così purtroppo l'ha però prosciugata anche di carisma, ma c'è da dire che, per quanto riguarda Straker e il suo destino, lo sceneggiatore ha avuto un'unica, buona idea originale (che non vi spoilero), perfettamente in tema con la poetica kinghiana e il suo parterre di personaggi ai quali basta una spintarella minima per diventare matti in culo. 


Dunque il Dauberman sceneggiatore ci è andato cauto, tenendosi abbastanza fedele al testo da cui ha preso un paio di note di colore, ma senza allontanarsi troppo dai cliché dell'horror medio recente. A livello di regia ha un paio di belle intuizioni, come l'introduzione di Barlow attraverso la visione limitata di un bambino terrorizzato e il precedente rapimento dello stesso, oppure l'elegantissimo momento in cui basta il riflesso di una finestra per svelare un'umanità già perduta, e in generale è bravo quando si tratta di creare atmosfera e giocare a carte coperte. Più aumenta la consapevolezza dei personaggi, più a me è sembrato però che certe finezze si perdessero, e che Dauberman puntasse esclusivamente a "fare paura", con risultati discontinui, anzi più fallimentari che altro. I jump scare sono infatti prevedibili, lo showdown finale abbastanza sciocco (SPOILER: Nascondersi nei cofani delle macchine al drive-in? Ma mi tiri il belino, esistono le cantine, che senso ha? Alla faccia del caldo!) e il distacco emotivo derivante da personaggi poco approfonditi rende difficile il coinvolgimento anche nei momenti più concitati. Lì la colpa è anche di un casting poco efficace, forse. Lewis Pullman è un Ben Mears ancora più moscio di Hutch, con la differenza che David Soul a 36 anni sembrava già mio nonno, Mears all'epoca delle riprese non ne aveva nemmeno 30 e sembra un ragazzino al college, quindi risulta anche poco credibile. A parte il giovanissimo attore che interpreta Mike e il bravo Bill Camp, poi, appaiono tutti un po' spaesati o pronti a recitare col pilota automatico, anche se il vero spreco, per quanto mi riguarda, è aver ingessato quel gran bel fanciullo di Pilou Asbæk nei panni di old fart britannica, sprecandone il potenziale. Detto ciò, non posso dire che Salem's Lot non sia un prodotto ben confezionato, zeppo di difetti evidenti oppure noioso al punto da indurre al sonno, ma la mancanza di anima lo rende l'ennesimo horror dimenticabile e, passatemi il termine, inutile di questo 2024.


Del regista e sceneggiatore Gary Dauberman ho già parlato QUIAlfre Woodard (Dr. Cody), Bill Camp (Matt Burke), Spencer Treat Clark (Mike Ryerson), Pilou Asbæk (R.T. Straker) e William Sadler (Parkins Gillespie) li trovate invece ai rispettivi link.

Lewis Pullman interpreta Ben Mears. Americano, figlio di Bill Pullman, ha partecipato a film come The Strangers: Prey at Night7 sconosciuti a El Royale Top Gun: Maverick, Ha 31 anni e un film in uscita, Thunderbolts


Nicholas Crovetti
, che interpreta Danny Glick, è il gemello di Cameron, che interpreta il figlio di Homelander in The Boys, e assieme a lui aveva partecipato al dimenticabile remake di Goodnight MommyDerek Mears ha partecipato col ruolo di Hubert Martens, ma le sue scene sono state tutte tagliate in fase di montaggio. Se Salem's Lot vi fosse piaciuto recuperate Le notti di SalemIt e It - Capitolo 2. ENJOY!

mercoledì 9 ottobre 2024

Le notti di Salem (1979)

Siccome mentre sto scrivendo queste righe manca pochissimo all'uscita streaming della nuova versione diretta da Gary Dauberman, ho deciso di riguardare Le notti di Salem (Salem's Lot), miniserie diretta dal regista Tobe Hooper nel 1979 e tratta dal romanzo omonimo di Stephen King.


Trama: lo scrittore Ben Mears torna nella cittadina di Salem's Lot per scrivere il suo nuovo romanzo, proprio nel momento in cui un vampiro pluricentenario la sceglie come covo e terreno di caccia...


Mamma mia, la monnezza che ho visto. Monnezza "ridotta", ma pur sempre tale. E ringrazio, per una volta, tutti gli dèi per l'esistenza di una divisione in zone per DVD e BluRay, il che impedisce al DVD acquistato in Australia, contenente la versione da 183 minuti de Le notti di Salem, di funzionare in Italia, cosa che mi ha costretta ad accontentarmi del film da 112 minuti recuperato al Libraccio. Ricordo benissimo di essermi addormentata, in Australia, durante la visione della miniserie, e ho dovuto usare spesso il tasto rewind anche stavolta, benché abbia cominciato alle 20.30, dopo una giornata neppure tanto stancante. Il problema de Le notti di Salem è che è soporifero da matti, a prescindere che sia una mattonata di miniserie o una sua riduzione pensata per i cinema europei, un'opera che ridefinisce il concetto stesso del "non succede nulla". L'enorme problema è la scelta (salvo alcuni cambiamenti di personalità, scambi di personaggi e altre "libertà" che, di per sé, nulla toglierebbero alla qualità dell'adattamento) di seguire pedissequamente lo spirito di un romanzo che vive delle esistenze private degli abitanti di Salem's Lot, molti dei quali già diretti verso l'oscurità prima ancora dell'arrivo dei malvagi Barlow e Straker. Ciò che su carta è entusiasmante, reso vivo dall'abilità Kinghiana di realizzare opere corali ambientate nelle piccole cittadine, su pellicola rallenta tantissimo il ritmo del racconto (questo non solo nella versione "ridotta", dove alcune storie sembrano non portare da nessuna parte, in primis quella del cornuto Sawyer e della moglie fedifraga, ma anche nella lunghissima miniserie), al punto che quando i vampiri arrivano è già passato l'interesse, e la loro presenza centellinata non aiuta. Personaggi importanti come Padre Callahan e il piccolo Mark, per esempio, sono due macchiette le cui peculiarità servono solo per dare una nota di colore, tanto che la questione della fede del prete si riduce a due parole dette en passant prima che quest'ultimo scompaia dalla storia senza lasciare traccia, e anche il trauma subito da Ben proprio per colpa di Casa Marsden è talmente posto male che perde di qualsiasi importanza, al punto che ci si chiede perché mai lo scrittore sia così ossessionato dall'edificio (un'altra delle case maligne di King, la cui sola presenza basta ad avvelenare tutto ciò che entra in contatto con loro, ma se non avessi letto il romanzo o non conoscessi il Re non sarei riuscita ad evincerlo guardando Le notti di Salem). 


Mi sono chiesta spesso perché mai un adattamento così malfatto sia assurto a livello di cult e mi sono risposta che moltissima gente l'avrà guardato solo nel 1979 e probabilmente conserverà lo stesso ricordo che ho io della miniserie di It (un'altra di quelle opere che, riviste con occhi scevri di nostalgia, esce con le ossa rottissime). Capisco però anche perché molti registi lo apprezzino e lo citino ancora oggi, visto che un paio di sequenze hanno retto alla perfezione l'usura del tempo. La più famosa è, ovviamente, quella in cui un Ralphie Glick ormai vampirizzato va a far visita al fratello e bussa alla sua finestra; la tecnica con cui è stata realizzata, unita al trucco terrificante del pargolo e al taglio delle inquadrature, crea materiale da incubo, e anche il paio di jump scares che vedono Barlow protagonista, con quella pelle blu e gli occhi gialli, rimangono notevoli. Lo stesso aggettivo si può applicare alla scenografia di Casa Marsden, la cui splendida facciata posticcia, messa davanti a un edificio fatiscente, è costata, in dollari, l'equivalente di una casa vera acquistata all'epoca. Tutto il resto, purtroppo, è da dimenticare. Regia ed interpretazioni sono televisive nell'accezione più brutta del termine perché, salvo per quel paio di sequenze già citate, non c'è un'idea originale né un'immagine che sorprenda, solo un piattume infinito messo assieme da un montaggio impersonale, quanto agli attori stenderei un velo pietoso. David Soul sarà stato anche un ottimo manzo biondo in Starsky e Hutch ma qui sembra spaesato e, pur essendo il protagonista, non ha un briciolo di carisma. Per sua fortuna, chi lo affianca non ha alcun modo di eclissarlo, in quanto ogni attore sembra voler andare da punto A a punto B e recitare le battute giusto per portare a casa lo stipendio e infilare in curriculum una miniserie tratta dal romanzo di uno scrittore all'epoca giovane ma già sulla cresta dell'onda. Ho già capito, da un paio di anteprime, che il nuovo Salem's Lot sarà poco meno deludente, ma spero che almeno la presenza di quell'ottimo patatone di Pilou Asbæk mi impedirà di addormentarmi, così come spero di non dover rivedere mai più questa versione de Le notti di Salem.


Del regista Tobe Hooper ho già parlato QUI. Bonnie Bedelia (Susan Norton), George Dzundza (Cully Sawyer), Fred Willard (Larry Crockett) e Geoffrey Lewis ( Mike Ryerson) li trovate invece ai rispettivi link.

James Mason interpreta Richard K. Straker. Inglese, lo ricordo per film come E' nata una stella, Intrigo internazionale, Lolita e Il verdetto. Anche produttore, sceneggiatore e regista, è morto nel 1984, all'età di 75 anni. 


David Soul
, che interpreta Ben Mears, era l'Hutch della serie Starsky e Hutch. George A. Romero era stato contattato per dirigere un film tratto da Le notti di Salem, ma dopo che erano stati annunciati sia il Dracula con Langella, sia Nosferatu - Il principe della notte, la Warner Bros. ha deciso di realizzare una miniserie, cosa che ha spinto Romero a rinunciare. Le notti di Salem ha una sorta di sequel, I vampiri di Salem's Lot, e un remake, Salem's Lot, miniserie del 2004. Nell'attesa della più volte posticipata versione di Dauberman, se il genere vi piace recuperateli e aggiungete la serie Chapelwaite. ENJOY!

martedì 8 ottobre 2024

Joker: Folie à Deux (2024)

Venerdì sono andata al cinema a vedere Joker: Folie à Deux, diretto e co-sceneggiato dal regista Todd Phillips.


Trama: Arthur Fleck è rinchiuso in carcere, ma l'influenza di Joker è ben lungi dall'essersi estinta nelle strade di Gotham City.  Le cose si complicano ulteriormente quando Arthur si innamora, ricambiato, di Lee, una paziente del Manicomio Arkham...


E' ormai qualche giorno che parlo di Joker: Folie à Deux (da qui in poi Joker 2) con Mirco e altri amici che lo hanno visto. Più che una recensione, quindi, scriverò una raccolta di riflessioni nate a seguito di queste conversazioni. Tralasciando per un istante la bravura dei due attori principali, iniziamo col dire che Joker 2 non è un film brutto nel senso stretto del termine. Non può esserlo in virtù dello sforzo produttivo infuso e dell'enorme budget a disposizione di Todd Phillips, il quale è riuscito a confezionare un film gradevole alla vista e all'orecchio, senza sbavature a livello di regia, con alcune sequenze musical assai notevoli; l'idea di ampliare il concetto di un Arthur Fleck "malato" di cinema e televisione, già introdotto in Joker, dà vita a fantasie a tempo di musica dove immaginazione e realtà si fondono in omaggi ai film musicali della vecchia Hollywood, tra momenti più glamour e altri in cui il mondo reale muta impercettibilmente (deliziosa la scena in cui gli ombrelli cambiano colore senza uno stacco di montaggio percettibile), filtrato dalla malattia mentale del protagonista. In generale, tutto il film segue cliché che inquadrano i vari eventi in generi cinematografici ben definiti, dal dramma carcerario alla commedia d'amore, fino ad arrivare al courtroom drama, al punto che ogni snodo di sceneggiatura, salvo un paio di colpi di scena nel prefinale e sul finale, sono ampiamente prevedibili. Credo e spero fosse una cosa voluta, così come voluto era l'omaggio a Scorsese nel primo Joker, purtroppo il risultato stavolta è stato ben diverso, e Todd Phillips è caduto vittima di quella sofisticata semplicità che ha parlato alla pancia della maggior parte degli spettatori e dei critici nel 2019. Buona parte dell'empatia provata verso un personaggio oggettivamente sgradevole, derivava dalla scelta (condivisibile ma paracula) di affiancargli un parterre di comprimari ancora più sgradevoli, pronti a rendergli la vita un inferno anche e soprattutto per motivi futili, come se Arthur fosse la perfetta valvola di sfogo di stronzi da primato, riccastri con la puzza sotto il naso e madri inadatte al ruolo. Questo "trucco" era talmente tanto efficace che lo spettatore arrivava non solo a plaudere la violenta rivalsa di Arthur verso i suoi aguzzini e la società corrotta, con conseguente rivoluzione proletaria nelle strade di Gotham, ma persino a disprezzare chi, come la vicina di casa Sophie, risultava immune al suo fascino.


In Joker 2, come ho scritto, Phillips inciampa nelle sue stesse premesse facendo il passo più lungo della gamba. Attorno ad Arthur, infatti, si muovono personaggi che lo trattano comunque con rispetto ed attenzione, come l'avvocatessa e il giudice, davanti ai quali ogni rimostranza del protagonista risulta palesemente il frutto della mente di un pazzo; peggio ancora, durante il processo ad Arthur Fleck viene messo in evidenza proprio il suo narcisismo allucinato da parte di due personaggi già presenti nel primo film, due testimonianze che mettono i brividi per il tragico realismo che veicolano. Non è che la guardia carceraria Jackie e i suoi colleghi siano "simpatici", così come non lo sono il giornalista Paddy Meyers o il procuratore Harvey Dent, ma torno a dire che sono costruiti come dei cliché, probabilmente esasperati dalla percezione alterata di un punto di vista inaffidabile. Senza mostri a giustificarne le azioni, Arthur Fleck perde di credibilità, l'empatia viene meno, il disgusto che veniva messo a tacere durante il primo film qui riemerge veemente, e lo stesso Joker risulta una caricatura priva di fascino o carisma. La Folie à Deux che tanto ha fatto palpitare i cuori di chi pensava all'amore folle tra Joker e Harley Queen, con un ragazzo e una ragazza che si incontrano e incendiano il mondo, si riassume facilmente con un "tira più un pelo di Lee che un carro di buoi", e risulta molto più cringe quando tornano alla mente le immagini porno che inframmezzavano il diario di Arthur nel primo film. Non si può nemmeno dire che Lee sia la Bedelia (chi legge Ortolani sa) della situazione, poiché gli intenti della bionda sono chiari e palesi fin dall'inizio, ed è proprio la sua presenza a sgretolare il mito di Arthur Fleck e di Joker, rendendo il film ancora più inutile perché, nonostante l'aggiunta di questo agente del Caos al femminile, Joker 2 non racconta nulla di nuovo. 2 ore e 18 di film servono a ripercorrere più volte le vicende della prima pellicola secondo diversi punti di vista, il personaggio principale non solo non evolve ma ricompie errori già commessi, Todd Phillips ripropone persino le stesse sequenze e gli stessi snodi di Joker con un paio di piccolissime varianti.


A farne le spese per primo, purtroppo, è Joaquin Phoenix. Premesso che quest'ultimo potrebbe interpretare un sasso e sarebbe comunque affascinante e convincente, il problema subentra quando il regista non è all'altezza e questo, purtroppo, salta all'occhio ancor più dopo aver riguardato il primo Joker. Lì il modello era il primo De Niro, un po' Travis Bickle in Taxi Driver un po', soprattutto durante la transizione da Fleck a Joker, Max Cady de Il promontorio della paura (per intenderci: Cady era una creatura repellente e razionalmente nessuna donna lo avrebbe toccato con un dito. Infatti subentrava il senso di colpa nel pensarlo affascinante e in Joker accadeva la stessa cosa). Qui Phoenix è perfetto negli atteggiamenti dimessi di Arthur, che mi hanno ricordato a tratti l'intensità di Daniel Day Lewis, ma quando veste i panni di Joker la mente corre inevitabilmente all'ultimo De Niro, quello con la faccia da "mecojoni" che ormai non crede più nemmeno in quello che recita, che va avanti solo per il nome e il suo passato glorioso. A maggior ragione, in un paio di duetti con Lady Gaga ho pensato a Sandra e Raimondo, forse perché Sbirulino era un clown a sua volta, e per quanto mi riguarda la scena di sesso in carcere può tranquillamente vincere l'Oscar per la sequenza più imbarazzante del 2024, a pari merito con quelle di Napoleon (c'è sempre Phoenix di mezzo. Coincidenze? Noi del Bollalmanacco, e Giuseppina, pensiamo di no). Lady Gaga, bella stella, è una cantante divina. Ogni sua performance musicale in Joker 2 mette i brividi, con quella voce splendida che riesce a modulare come vuole e il carisma naturale che le fa divorare ogni scena. Ma toglile il canto, santa creatura, e mettila accanto a uno come Phoenix, e mi fa la figura di un comodino impagliato, occhio spento e viso di cemento compresi, col risultato che tra Arthur e Lee non c'è la minima alchimia, quindi neppure coinvolgimento emotivo da parte dello spettatore. Per tutti questi motivi, posso serenamente dire che Joker: Folie à Deux è un film inutile. Non bello, non brutto, ma sicuramente uno spreco di tempo, denaro e talenti. Ma d'altronde non mi aveva convinta neppure Joker, un'opera migliore sotto tutti i punti di vista, quindi non sono rimasta né sorpresa né delusa. 


Del regista e co-sceneggiatore Todd Phillips ho già parlato QUIJoaquin Phoenix (Arthur Fleck), Lady Gaga (Lee Quinzel), Brendan Gleeson (Jackie Sullivan), Catherine Keener (Maryanne Stewart), Zazie Beetz (Sophie Dumond), Steve Coogan (Paddy Meyers) e Ken Leung (Dr. Victor Liu) li trovate invece ai rispettivi link.


Se Joker: Folie à Deux  vi fosse piaciuto recuperate, ovviamente, Joker. ENJOY!

venerdì 4 ottobre 2024

Il mistero della donna scomparsa (1988)

Il tema della challenge di oggi era "horror uscito quando avevi 7 anni" (sospiro), così ho scelto Il mistero della donna scomparsa (Spoorloos), diretto e sceneggiato nel 1988 dal regista George Sluizer.


Trama: durante una vacanza in Francia, Saskia scompare misteriosamente. Il compagno, Rex, non si arrende e continua a cercarla anche dopo tre anni, fomentato dalle cartoline inviate periodicamente dal rapitore...


Ricordo che, quando ero ragazzina, passava spesso in televisione The Vanishing - Scomparsa. In tutta onestà, quando Letterboxd mi ha proposto The Vanishing, credevo intendesse proprio quel film, perché non avevo affatto idea che esistesse un originale olandese, e non ero molto per la quale all'idea di riguardarlo. Infatti, non credo di averlo mai finito, all'epoca (o forse sì, ma chissà) e l'unica cosa che mi è rimasta, ripensandoci, è un'indefinita sensazione di noia. Questa sensazione, invece, non si è presentata per nulla durante la visione di Spoorloos (il titolo italiano è troppo lungo da scrivere), film che più angosciante non si può, in grado di catturare lo spettatore con una sceneggiatura e un montaggio che molte opere moderne si sognano. Il che è buffo, se ci si pensa, perché la trama è semplicissima. Durante un viaggio in Francia, Saskia sparisce senza lasciare traccia, lasciando il compagno Rex preda dell'angoscia e condannandolo a vivere nel suo ricordo, impegnato in una forsennata ricerca della verità e "pungolato" dalle cartoline del rapitore, il quale, di tanto in tanto, gli propone incontri perennemente disattesi. Ciò che viene rappresentato in Spoorloos, tuttavia, non sono le indagini di Rex, né tantomeno la sua eventuale caccia al rapitore, ma un continuo alternarsi di punti di vista tra vittima e criminale, tra un presente in cui Saskia non c'è più e un passato in cui un omino insignificante ma dalle tendenze sociopatiche ha deciso di sfidare il concetto di destino dimostrando di poter rapire una persona. Probabilmente non riuscirò a spiegarvi la tensione, l'angoscia e il nervoso che suscita la visione di Spoorloos, perché non credo di avere sufficienti mezzi espressivi a disposizione, ma il risultato di questi continui shift temporali e del montaggio alternato è quello di ritrovarsi in costante tensione, sperando stupidamente in un miracolo che sappiamo non essere mai avvenuto. Il rapitore, infatti, incarna la banalità del male, è meticoloso ma alle prime armi, e ha dalla sua un'enorme fortuna che bilancia i neri, ironici momenti in cui dimostra tutta la sua inesperienza. E' lì che tu preghi in un intoppo stupido che possa salvare Saskia dal suo destino, in un lampo che illumini Rex e lo spinga a ridurre Raymond a un grumo sanguinolento, dimenticando, scioccamente, che tutto ciò che Sluizer mostra sullo schermo è già avvenuto anni prima, ed è questa la forza del film.



E' stato proprio George Sluizer, anni dopo, a dirigere il remake americano, e mi fa strano pensare di essermi annoiata guardandolo, quindi immagino che la struttura del film sia diversa e, in qualche modo, ulteriormente semplificata, con qualche aggiunta di dettagli inutili ma fondamentali per il pubblico americano. Spoorloos, invece, è scevro di orpelli, asciutto nel suo delineare con pochi dettagli sia il legame tra Saskia e Rex (molto realistico, soprattutto durante il litigio in galleria, funzionale ad aumentare l'angoscia dello spettatore) sia la personalità distorta di Raymond, un manipolatore la cui vera natura viene probabilmente percepita solo dalla figlia maggiore, palesemente a disagio in sua presenza, a differenza della sorellina più solare. La cosa più interessante di Spoorloos è indubbiamente il montaggio, che disorienta lo spettatore e lo rigira come vuole, mettendolo ora nei panni di Raymond, ora in quelli di Rex (illudendoci, tra l'altro, di godere di una conoscenza a lui preclusa e di conseguente, maggior sicurezza, quando alla fine basta un attimo a fregare anche noi e farci ripiombare nell'incubo), e c'è almeno una sequenza che, con eleganza infinita, ci dice esattamente come andrà a finire il film, ma anche le interpretazioni degli attori sono spettacolari. In particolare, Bernard-Pierre Donnadieu dà vita a uno dei criminali più abietti della storia del cinema, con quell'aria di perenne soddisfazione e superiorità che farebbe perdere la pazienza a un santo, per non parlare della serenità con la quale compie alcune delle azioni più aberranti che si possano pensare solo per il gusto di sfidare il fato (se ripenso al "vous l'avez-violée?" seguito dall'espressione alla "ma che orrore, figuriamoci, non sono mica un mostro!!!" mi viene da vomitare), ma anche Johanna ter Steege e Gene Bervoets rimangono impressi con la loro naturalezza, e viene istintivo affezionarsi ai loro personaggi. Se non avete mai visto Spoorloos, o Il mistero della donna scomparsa, il mio consiglio è dunque di dimenticarvi di The Vanishing - Scomparsa e di dare una chance al suo predecessore, perché film così non se ne girano più!

George Sluizer è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Francese, ha diretto anche il remake USA del film, The Vanishing - Scomparsa. Anche produttore e attore, è morto nel 2014, all'età di 82 anni.


Bernard-Pierre Donnadieu
, che interpreta Raymond, ha partecipato al film L'inquilino del terzo piano. Se il film vi fosse piaciuto recuperate The Vanishing - Scomparsa. ENJOY!

mercoledì 2 ottobre 2024

Cuckoo (2024)

Altro film che puntavo da un po' e che non ha ancora una data di uscita in Italia, è questo Cuckoo, scritto e diretto dal regista Tilman Singer.


Trama: dopo la morte della madre, Gretchen viene trascinata dal padre e la matrigna, assieme alla sorellastra muta, nelle montagne bavaresi, dove l'uomo dovrebbe progettare un resort. Lì scoprirà un inquietante segreto...


Tilman Singer
è un autore che mi è nuovo, anche se ricordo di aver letto belle cose sul suo precedente lavoro, Luz. In realtà, il motivo per cui ho recuperato Cuckoo è il mio desiderio di non perdere neppure un horror con Dan Stevens, e non sono tuttora sicura che il film abbia incontrato al 100% i miei gusti. Sì perché Cuckoo è un film che va a braccetto col weird e, probabilmente, per fare breccia nel mio cuore avrebbe dovuto essere dichiaratamente un b-movie; mi è parso, invece, che Cuckoo avesse delle velleità autoriali che poco si confanno alla sceneggiatura leggermente zoppicante. Il film mi ha riportata a 4 anni fa, quando, durante il lockdown, proliferavano i film allucinanti dove i protagonisti (per la maggior parte problematici o ben poco simpatici) erano costretti ad avere a che fare con bizzarri esperimenti che li vedevano coinvolti loro malgrado. In questo, Cuckoo è molto simile. Abbiamo, infatti, una famiglia disfunzionale dove la comunicazione tra i membri è assente, in un caso letteralmente, e questa famiglia si ritrova in un luogo isolato dove cominciano ad accadere strane cose e da dove, neanche a dirlo, è impossibile uscire. Questo pesa soprattutto a Gretchen, vittima di un lutto pesantissimo e costretta a trasferirsi nelle Alpi Bavaresi con un padre distante, una matrigna oca e una sorellastra piccolina ed innocente che vorrebbe invece esserle amica. Ora, a Gretchen non si può non voler bene, non solo perché la bravissima Hunter Schafer si carica sulle spalle tutto il film, quanto piuttosto per l'immenso dolore che la schiaccia e che, nonostante ciò, non le impedisce di essere umana e creare legami con una sorellina che avrebbe ogni motivo di disprezzare. Proprio il tentativo di rendere Gretchen un personaggio tridimensionale, però, porta Cuckoo ad essere uno slow burn dal ritmo discontinuo, che si perde in dettagli che ho trovato personalmente inutili (ma quell'abbozzo di love story, santo cielo, a cosa belin serve che è recitato con la stessa verve che aveva Natolia negli sketch dei Bulgari?) e lascia cadere nel limbo domande ed eventi ai quali forse serviva dare un minimo di risoluzione. Ammetto, dunque, di avere avuto qualche difficoltà a rimanere sveglia, questo almeno finché il film non entra nel vivo, mettendo da parte sfasamenti temporali che mi perplimono tutt'ora e arrivando alla ciccia in pieno stile mad doctor.


Cuckoo
mi sarebbe piaciuto molto di più se la locura dell'ultimo atto avesse permeato anche quelli precedenti, con le sue allucinanti spiegazioni pseudo evolutive/fantascientifiche messe in bocca a personaggi serissimi, mostri scatenati che fanno cose brutte (lo slime!! Ewwww!!) e una protagonista che regge l'anima coi denti ma continua imperterrita a lottare, con lo scazzo dipinto in volto di chi ha a che fare con degli abelinati e non li sopporta più. Uno di detti abelinati, per inciso, ha la meravigliosa faccetta di Dan Stevens, che per l'occasione sfoggia un favoloso accento tedesco in grado di condannare ad ignominia perpetua ogni eventuale tentativo di doppiare Cuckoo in italiano, come troppo spesso accade negli ultimi tempi (ho ancora le orecchie che sanguinano per Immaculate, uno dei film migliori dell'anno trasformato in vaccata proprio dall'adattamento e doppiaggio nostrani). A proposito di Italia, ad arricchire tutta una serie di scelte stilistiche che accentuano l'effetto weird di Cuckoo (in primis una cura certosina del sonoro, ma anche tesissime scene in notturna e l'inserimento di dettagli stranianti nelle immagini, che sconcertano sia la protagonista che lo spettatore) c'è nientemeno che LORETTA GOGGI con la canzone Il mio prossimo amore, utilizzata con gusto eccezionale all'interno di una sequenza in cui la tensione si taglia col coltello e che non sfigurerebbe all'interno dell'eventuale top 5 delle scene horror migliori del 2024. In virtù di tutti questi motivi, direi che i pro superano i contro e che Cuckoo, riflettendoci, mi è piaciuto. Forse mi aspettavo qualcosa di meglio e di diverso, ma è uno di quei film che bisogna guardare senza farsi condizionare dai giudizi altrui, perché le sue particolarità potrebbero non essere la cup of tea di tutti e diventare ugualmente la bevanda preferita di qualcun altro. Fatemi sapere nei commenti!


Di Marton Csokas (Luis), Dan Stevens (Herr König) e Jessica Henwick (Beth) ho parlato ai rispetti link.

Tilman Singer
è il regista e sceneggiatore della pellicola. Tedesco, ha diretto il film Luz. Anche produttore, ha 36 anni.


Hunter Schafer
interpreta Gretchen. Americana, ha partecipato al film Kinds of Kindness e doppiato la versione inglese di Belle. Anche regista, produttrice e sceneggiatrice, ha 26 anni e un film in uscita. 



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