venerdì 12 settembre 2025

2025 Horror Challenge: Humanoids from the Deep (1980)

Questa settimana la challenge horror prevedeva la visione di "un emulo di Alien". Nell'elenco c'era anche Humanoids from the Deep, diretto nel 1980 dalla regista Barbara Peeters.


Trama: in un villaggio di pescatori, le persone cominciano a morire per mano di anfibi mutanti dagli istinti pericolosi...


Cominciamo il post dicendo che, stavolta, l'elenco tra cui scegliere i film era un po' ingannevole in quanto, salvo per il finale che non spoilero, è ben difficile pensare ad Alien guardando Humanoids from the Deep. Al limite, ciò che mi è venuto in mente è una versione becera, pornografica e più gore de Il mostro della laguna nera, ma anche questa è una definizione sbagliata, in quanto viziata da un preconcetto che, ancora oggi, sicuramente fa male alla povera Barbara Peeters, regista del film. L'autrice, infatti, aveva in animo di girare (e ha, sicuramente, girato, almeno finché non è arrivato il produttore Roger Corman a metterci mano) un horror un po' più autoriale, privo di inutili inserti soft core, più concentrato sui personaggi e sulla vicenda ecologico-sociale che si intuisce guardando Humanoids from the Deep. Il problema, ovviamente, è che, davanti al film finito, Corman ha deciso che un'opera simile non sarebbe mai stata commercialmente appetibile per il pubblico che aveva in mente, quindi ha fatto girare ex novo scene di nudo, compresi alcuni stupri neppure tanto sottili, e li ha inseriti eliminando altre sequenze a suo parere inutili, senza dire nulla alla Peeters. La regista si è trovata davanti al fattaccio compiuto solo all'anteprima del film, ha chiesto che il suo nome venisse tolto dai credits, e Corman ha accettato a patto che fosse lei a coprire le spese della modifica dei suddetti, cosa che la Peeters ha rifiutato di fare. Quindi, ad oggi Humanoids from the Deep risulta, almeno nominalmente, l'ultimo film di una regista che è poi scomparsa nel limbo di oscure produzioni televisive, e, a fronte di un simile retroscena, è giusto giudicare la qualità del prodotto ignorando le starlette urlanti che sbattono le sise in faccia allo spettatore. E la qualità di Humanoids from the Deep, per quanto mi riguarda e per quanta poca esperienza possa avere relativamente all'exploitation dell'epoca, è superiore ad altri filmacci del genere. La regista cerca di costruire un racconto per immagini, in un efficace crescendo di tensione che parte da un esplosivo incidente in barca, passa per tremende (e tristissime) inquadrature di cani sventrati e, quando entra nel vivo, scatena artigli affilati di mostri orripilanti, che aprono i corpi come fossero di burro.


Sono notevoli non solo le sequenze buie, al crepuscolo oppure acquatiche, che sono tantissime e notoriamente difficili da realizzare, ma anche quelle in cui i mostri coinvolgono i personaggi in terribili corpo a corpo ravvicinati e, soprattutto, il massacro finale al festival del salmone. Quella sequenza in particolare ha dell'incredibile e rivela l'inventiva e l'abilità di Barbara Peeters. I mostri a disposizione della troupe, infatti, erano tre, e solo uno aveva tutte le carte in regola per venire ripreso da ogni angolazione; sfruttando inquadrature e montaggio, senza ricorrere a trucchetti cheap come sequenze ripetute o riciclate, la Peeters è riuscita a realizzare un'invasione cittadina in cui i mostri sembrano la metà di mille e dove la gente muore malissimo, trovando anche il tempo di alternare l'orrore "pubblico" a momenti ancora più ansiogeni ambientati in una claustrofobica casa isolata nel bosco. Indubbiamente, non c'era bisogno delle aggiunte di Corman (tra l'altro, in parte rimosse, perché persino il produttore ha capito che molte sembravano appiccicate con lo sputo, oltre al danno la beffa, povera Barbara!) per creare una profonda sensazione di disagio, in quanto la trama, tra mutazioni genetiche, razzismo, violenza e mostri che aggrediscono fanciulle con scopi palesemente riproduttivi, per di più con quel finale splatterosissimo, metteva già molta carne al fuoco. Per questo, le nudità gratuite di cui è infarcito Humanoids from the Deep danno ancora più fastidio, non tanto quelle in qualche modo direttamente collegate alla vicenda, quanto un paio di inserti aventi per protagonisti personaggi mai visti né nominati prima che mostrano tutte le loro grazie, o l'inevitabile "momento doccia" che fa molto film con Lino Banfi. Comunque, se queste aggiunte da vecchi rattusi non vi turbano (o magari vi interessano pure!) o non vi si rivolta lo stomaco all'idea di "umanoidi dal profondo" col pallino dell'accoppiamento e cercate un bell'horroraccio splatter,  Humanoids from the Deep è un film che vi consiglio. Lo trovate gratis su Tubi, se avete una VPN. 

Barbara Peeters è la regista del film. Americana, ha diretto film come The Dark Side of Tomorrow, Bury me an Angel e Le ragazze pon pon si scatenano. E' anche sceneggiatrice. 


Joe Dante
, da poco reduce dal successo di Piranha, ha declinato l'offerta di dirigere il film. Di Humanoids from the Deep esiste un omonimo remake televisivo del 1996, con  Robert Carradine e Clint Howard, che, pur riutilizzando buona parte delle scene girate al festival, ha livelli di sesso e violenza molto ridotti. Non l'ho mai visto, quindi non posso consigliarvi il recupero, ma se il genere vi piace buttatevi su Piranha e Slither. ENJOY!
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mercoledì 10 settembre 2025

The Conjuring - Il rito finale (2025)

Nel bene e nel male, è finita. Lunedì siono andata a vedere The Conjuring - Il rito finale (The Conjuring - Last Rites), diretto dal regista Michael Chaves.


Trama: i Warren si sono ritirati dal loro ruolo di esorcisti e cercano di pensare solo alla famiglia, ma un demone dal passato arriva a minacciare tutto ciò che i due hanno di più caro...


Come ho scritto nell'introduzione, è finita. Il cerchio che James Wan ha cominciato a tracciare con L'evocazione - The Conjuring, nel lontano 2013, si è chiuso per mano di chi ha ereditato il franchise, il regista Michael Chaves, seguendo fino in fondo il ciclo vitale dei Warren. Li abbiamo visti giovani, con una bambina piccola, nel primo film della saga, e oggi li vediamo più anziani e "appannati, persino fiaccati dalla malattia (Ed soffre i tremendi postumi dell'infarto avuto in Per ordine del diavolo) ma non meno innamorati. Anzi, l'amore è la loro ragion d'essere, dopo avere abbandonato la lotta al maligno, e la preoccupazione più grande è conoscere il fidanzato della figlia, ormai in età da marito ed erede dei poteri medianici di Lorraine. The Conjuring - Il rito finale indugia moltissimo, forse troppo, sui problemi familiari dei Warren, la cui felicità è direttamente legata a un passato abbandono, quando i giovani Ed e Lorraine sono fuggiti da un demone e dalle responsabilità legate alla loro professione, per salvaguardare la vita della neonata Judy. Adesso, giustamente, il demone è tornato alla carica, legandosi all'ennesima famiglia in pericolo e realmente esistita, in questo caso gli Smurl. The Conjuring - Il rito finale è "tutto qui". La sua struttura  horror è pressoché identica ai primi due capitoli (il terzo, con l'aggiunta di una strega e di un processo per omicidio istigato dal demonio, prendeva, seppur brevemente, altre strade): una famiglia numerosissima si ritrova bloccata all'interno di una casa infestata e vittima di fenomeni demoniaci sempre più invasivi, arrivano i Warren e, dopo aver fatto amicizia con tutti i membri della famiglia portando in primis conforto morale, ingaggiano una tremenda battaglia contro il demone di turno, uscendone più o meno invitti. L'unica differenza, in questo caso, è che i Warren e gli Smurl ci mettono molto ad entrare in contatto, e non viene a crearsi un legame simile a quello descritto nei film precedenti, il che inficia l'empatia provata verso le vittime. Un altro aspetto da considerare è che, all'interno di un metraggio molto lungo, l'aspetto drammatico della storia è preponderante rispetto all'elemento horror, il che scalda il cuore a chi, come me, vuole bene ai Warren cinematografici e starebbe ore a crogiolarsi nel loro idillio, ma potrebbe frantumare le gonadi a chi vuole solo spaventarsi.


Ci sarebbe da discutere anche su quest'ultimo punto. Gli spaventi messi in scena da Chaves sono meccanici, durano il tempo dello jump scare foriero di bestemmia, ma non lasciano un'inquietudine duratura; per dire, ho fatto più fatica a dormire per la scena post-credit e le registrazioni sui titoli di coda, che per il baraccone di esseri ghignanti e specchi semoventi messo in piedi dal regista. Anche la bambola Annabelle, mia nemica dal 2013 e affiancata da una maledettissima collega gattonante, ormai è messa a mo' di contentino per i fan, così come una serie di guest star"umane", ma non mette più angoscia come i primi tempi, e lo stesso vale per la "stanza degli orrori" dei Warren, a proposito della quale, avendo rivisto tutta la saga per prepararmi, a me è parso fossero ripetuti più o meno gli stessi dialoghi esplicativi. Ovviamente, potrei sbagliarmi, ma non credo. Purtroppo, Chaves non è un fuoriclasse come Wan, che sfruttava tagli di inquadratura e montaggio per fare ancor più paura, e il regista riesce ad azzeccare solo una sequenza veramente spaventosa e ben realizzata, quella che coinvolge Padre Gordon e che è non è stata ovviamente capita da parte dell'audience più giovane presente al cinema (i giovani d'oggi vogliono chiarezza, inquadrature esplicite, che sono queste suggestioni giocate sul montaggio??). Per fortuna, però, ci sono i Warren. Non la figlia, che mi ha detto poco come quel babbeotto del fidanzato, bensì Vera Farmiga e Patrick Wilson, che mettono ogni fibra del loro essere per mostrarci l'amore, la dedizione, l'essere uno l'ancora di salvezza dell'altro in un mondo non solo fatto di demoni, ma soprattutto di solitudine, incomprensioni, rifiuto verso il diverso. A me mette i brividi sentire la Farmiga urlare come una banshee il suo dolore o la sua rabbia, o mentre invoce i nomi dei familiari, mi viene voglia di abbracciarla e dirle che andrà tutto bene; quanto a Patrick Wilson, nella saga Insidious non mi smuove alcun sentimento, ma qui lo trovo umano e dolcissimo, il compagno di vita ideale dovesse mai venirmi in mente di sposarmi. La consapevolezza che The Conjuring - Il rito finale sarà l'ultimo film della saga con loro due come protagonisti mi ha lasciato un senso di perdita dolceamaro, per non dire un discreto magone (nella lunga sequenza introduttiva, quella del parto, ho pianto. Vorrà pur dir qualcosa) e anche se non smetterò di seguire sequel, spin-off, nuove generazioni (per quanto mosce) e chissà che altro, so che non sarà più la stessa cosa. Con buona pace di chi non li sopporta proprio questi adorabili baciapile.


Del regista Michael Chaves ho già parlato QUI. Vera Farmiga (Lorraine Warren), Patrick Wilson (Ed Warren) e Steve Coulter (Padre Gordon) li trovate invece ai rispettivi link.


Aguzzate bene la vista sul finale, durante il quale compaiono James Wan e alcuni protagonisti dei capitoli precedenti, come Carolyn e Cindy Perron (da L'evocazione - The Conjuring), Peggy e Janet Hodgson (The Conjuring - Il caso Enfield) e David Glatzel (The Conjuring - Per ordine del diavolo). Ovviamente, se The Conjuring - Il rito finale vi fosse piaciuto, il mio consiglio è guardare tutti e tre i film precedenti, aggiungere Annabelle, Annabelle: Creation, Annabelle 3, The Nun, The Nun 2 e La llorona - Le lacrime del male, e recuperare il film TV La casa delle anime perdute, che racconta la vicenda della famiglia Smurl. ENJOY!  

martedì 9 settembre 2025

I Roses (2025)

Non so nemmeno io perché ma, spinta da curiosità, lunedì sono andata a vedere I Roses (The Roses), diretto dal regista Jay Roach e tratto dal romanzo La guerra dei Roses di Warren Adler.


Trama: dopo un colpo di fulmine e un matrimonio durato dieci anni, qualcosa si spezza nell'idillio tra la cuoca Ivy e l'architetto Theo, che devono correre ai ripari prima di perdere tutto ciò che hanno di importante...


La guerra dei Roses
è sempre stato uno dei miei film preferiti e lo ricordavo ancora benissimo, anche se non lo avessi riguardato in occasione dell'uscita di questa rilettura del romanzo di Warren Adler. Uso il termine rilettura, perché anche se il succo della vicenda è la stessa, tra una casa contesa e sentimenti che si raffreddano fino a trasformarsi in odio, la sceneggiatura di Tony McNamara (lo stesso di La favorita e Povere creature!) si concentra, fin dal titolo che lascia cadere il termine "guerra", esclusivamente sui Roses. Sulle due individualità che compongono la coppia, sullo sviscerare, senza un attimo di pausa, i rispettivi pensieri, le riflessioni sul proprio carattere, le convinzioni relative all'educazione dei figli, i problemi e le soddisfazioni lavorative. I Roses 2.0 sono figli della generazione Z, che necessita di essere presa per mano e affrontare i conflitti spiegazione dopo spiegazione, anche a costo di ribadire l'ovvio, tanto che la sofferenza dell'architetto Theo, costretto a diventare "mammo" dopo aver perso ogni oncia di prestigio, è costellata di monologhi in cui il personaggio si ammonisce a non essere un maschio tossico ed invidioso, ma non solo. Tra dialoghi e monologhi, quello de I Roses è uno stream of consciousness in cui wit inglese, punzecchiature e pensieri messi in parole danno voce a due persone confuse che la guerra non vogliono proprio farla, ma che a un certo punto decidono che il loro ego è più importante di tutto il resto, e proprio nel momento in cui l'altro avrebbe più bisogno di aiuto. E' il grido disperato di un uomo narcisista che mal sopporta il successo della moglie, e di una donna che vorrebbe tutti i pro di carriera e famiglia e nessun contro, un grido che esplode quando i due, privi di figli e lavoro a distrarli, sono costretti finalmente ad affrontarsi e rivelarsi come due persone fondamentalmente piccine e superficiali, quindi perfette l'uno per l'altro. I Roses è, dunque, un film cerchiobottista che sceglie di appesantirsi stordendo lo spettatore di parole, facendo tutto sommato una satira innocua delle coppie moderne e di alcuni vezzi tutti americani (i figli, in questa versione della storia, sono usati in maniera egregia) e puntando su un registro più demenziale che grottesco, cosa che smorza parecchio l'amarezza e il pessimismo della vicenda originale. 


Fortunatamente, I Roses è anche un film graziato da una coppia di ottimi attori, anche se sarebbe meglio goderseli in lingua originale visto che buona parte dell'umorismo viene dallo scontro culturale tra inglesi e americani. Olivia Colman e Benedict Cumberbatch hanno un'alchimia tutta particolare, risultano affascinanti e carismatici pur non essendo delle bellezze canoniche, e le loro espressioni spesso stralunate fungono da perfetto contraltare ad un mondo di comprimari idioti. Questo però, a mio parere, è un altro difetto del film. Non è che non abbia riso davanti alla coppia formata da Andy Samberg e Kate McKinnon, quest'ultima pazza come non mai, ma tra loro, l'amico architetto stronzo e le due macchiette etniche di Ncuti Gatwa e Sunita Mani, c'erano troppi elementi bizzarri atti a distrarre dal fulcro della vicenda e, soprattutto, molta poca verosimiglianza, visto che sembra di avere avanti delle caricature più che delle persone vere. Apprezzabilissimo, invece, il lavoro svolto a livello di scenografia, arredamento e "cucina". Il gusto della splendida casa che diventa il pomo della discordia è stato aggiornato, diventando il sogno di ogni architetto moderno, e c'è da togliersi il cappello davanti all'abilità dello scenografo Mark Ricker, che ha ricostruito gli ambienti in studio. Il genio e l'ego di Theo vengono così ottimamente rappresentati, mentre l'estro creativo e la volontà di Ivy di essere anticonformista a tutti i costi trovano espressione negli splendidi piatti e nelle particolari torte degustati dai vari personaggi. In definitiva, I Roses non è un film da buttare e, appena sarà disponibile in streaming, credo che lo guarderò in lingua originale sperando di apprezzarlo di più, ma mi ha lasciata tutto sommato abbastanza fredda e in molti punti ho provato persino noia. Fortunatamente, c'è sempre il bluray del film di DeVito, di cui spero di riuscire a parlare nei prossimi giorni. 


Del regista Jay Roach ho già parlato QUI. Olivia Colman (Ivy Rose), Benedict Cumberbatch (Theo Rose), Kate McKinnon (Amy), Andy Samberg (Barry), Sunita Mani (Jane) ed Allison Janney (Eleanor) li trovate invece ai rispettivi link. 


Ncuti Gatwa
, che interpreta Jeffrey, è stato Il dottore delle recenti stagioni di Doctor Who. Se I Roses vi fosse piaciuto recuperate, ovviamente, La guerra dei Roses. ENJOY!

venerdì 5 settembre 2025

2025 Horror Challenge: Ghostwatch (1992)

La challenge horror di oggi prevedeva la visione di un'opera diretta da una donna. Ho scelto così Ghostwatch, film per la TV diretto dalla regista Lesley Manning nel 1992.


Trama: La notte di Halloween, un programma televisivo presenta una diretta da una casa presumibilmente infestata. La serata comincia all'insegna dello scetticismo, ma qualcosa di terribile inizia a succedere...


Ghostwatch
è un'altra di quelle opere di cui ho sentito parlare moltissimo e bene, nel corso degli anni, tuttavia non ero mai riuscita a vederla finché non è arrivato il momento di sceglierla per la challenge. Ghostwatch è anche uno dei motivi per cui mi piacerebbe avere una macchina del tempo e poter vivere in prima persona la notte di Halloween del 1992, quando la BBC ha mandato in onda, per la serie antologica Screen One, il mockumentary diretto da Lesley Manning, causando enorme scompenso in tutti quei telespettatori che o non hanno fatto caso alla schermata iniziale, oppure hanno acceso la TV in medias res; anzi, vorrei proprio essere stata una di quegli spettatori, visto che all'epoca avevo 11 anni, e poter dire di aver vissuto un ghost panic talmente reale da aver generato critiche, denunce e persino (purtroppo) causato un suicidio. Il fatto è che, nonostante il blando "avvertimento" iniziale, in cui si derubricava Ghostwatch a mera fiction, il film TV della Manning è realizzato con tutti i crismi ed è estremamente verosimile dall'inizio fino agli ultimi cinque minuti. In primis, perché coinvolge celebrità televisive dell'epoca conosciute per programmi reali, come i presentatori Michael Parkinson e Sarah Greene (qui presente come inviata, all'epoca presentatrice di un programma TV per bambini, nel quale ha dovuto dichiarare di stare bene, durante i giorni successivi alla messa in onda di Ghostwatch); poi, perché ha la stessa struttura di un programma in diretta, con un presentatore in studio, affiancato da un'esperta di paranormale, che segue e commenta il collegamento esterno in cui gli inviati intervistano gli abitanti del quartiere oppure, nel caso di Sarah Green, riprendono assieme a una troupe gli avvenimenti che accorrono all'interno di una casa presumibilmente infestata. Il tutto, mentre un centralino raccoglie le telefonate in diretta degli spettatori, ai quali viene chiesto di raccontare le loro esperienze paranormali, chiacchierandone appunto con Parkinson e con l'esperta che lo affianca in studio. Probabilmente, non vi sto rendendo l'idea di quanto sia perfetta l'illusione creata dalla Manning e dallo sceneggiatore Stephen Volk. In pratica è come se, nel 1992, Maurizio Costanzo avesse condotto una diretta a tema, sfruttando Cristina Parodi come inviata, testimoniando impotente non solo come la povera Parodi si trovasse sempre più in difficoltà con gli avvenimenti sovrannaturali accorsi in casa durante il collegamento, ma ricevendo telefonate sempre più inquietanti e legate alla diretta in corso, affiancato da un'esperta sempre più preoccupata e incerta, mentre sullo schermo cominciavano a mostrarsi strane ma inequivocabili manifestazioni di qualcosa di "sovrannaturale". Considerato quanta gente, all'epoca, si ritrovava le dita legate a causa di Giucas Casella, probabilmente ci saremmo tutti cagati in mano.


Visto "in differita", dopo decenni di mockumentary visionati a casa o al cinema, ovviamente Ghostwatch perde il vantaggio dell'illusione quasi perfetta, ma non risulta meno efficace. La sua natura, a patto di stare al gioco, lo rende molto coinvolgente e spaventoso, in particolare per il modo progressivo in cui il pericolo (già di per sé inquietante) legato alla casa da cui va in onda il collegamento si estende alla relativa sicurezza di uno studio televisivo, "protetto" dal cinico distacco di un presentatore razionale e scafato. Inizialmente, lo spettatore si ritrova testimone di ombre sbagliate, figure umanoidi confermate da poche telefonate assimilabili a episodi isterici, dopodiché i dettagli stridenti aumentano, diventando inequivocabili, così come la sensazione di trovarsi di fronte ad un pericolo insidioso e molto più articolato di una banale casa infestata. Per quanto mi riguarda, ho visto Ghostwatch in casa da sola, al buio, e ammetto di avere avuto parecchie difficoltà a prepararmi per andare a dormire dopo la visione, non tanto per il finale un po' "baracconesco", quanto per il fastidio causatomi da effetti sonori inquietanti, porte che si spalancano su un'oscurità terrificante, la generale sensazione di stare assistendo ad eventi orchestrati da un malvagio burattinaio invisibile, pronto a sfruttare il desiderio di sensazionalismo tipico della televisione, accompagnato da quella superficialità supponente di cui non ci si pente se non quando è ormai troppo tardi. Una superficialità che, per inciso, la BBC non ha mai più mostrato, almeno per quanto riguarda Ghostwatch: il film è stato bandito dalla televisione inglese (all'estero è stato invece trasmesso da alcuni canali), ed è stato distribuito in DVD solo 10 anni dopo, per il suo anniversario. Parlare di superficialità è però improprio. Purtroppo, Ghostwatch è un esempio di televisione all'avanguardia, intelligente a livello di scrittura e di messa in scena, e si sa che il pubblico televisivo è fondamentalmente stupido, tanto quanto la critica del settore è feroce. Forse sarebbero serviti avvertimenti ancora più chiari di quelli inseriti dalla BBC prima della messa in onda, ma così non avremmo avuto l'oggetto di culto che è oggi Ghostwatch, con tutto il suo codazzo di leggende metropolitane annesse, né tutta una serie di mockumentary,  a partire da The Blair Witch Project, che a quest'opera devono moltissimo, soprattutto per quanto riguarda il modo in cui giocano con le aspettative e i dubbi dello spettatore. Se non avete mai visto Ghostwatch recuperatelo, non ve ne pentirete! 

Lesley Manning è la regista del film, nonché la voce di Mary Christopher. Inglese, ha diretto film come The Agent, Leila e Honeycomb Lodge. E' anche produttrice, sceneggiatrice e attrice.


Nel 2013 è uscito il documentario Ghostwatch: Behind the Curtains, dedicato alla realizzazione del film e alle reazioni suscitate dopo la sua messa in onda. Non ho ancora avuto modo di vederlo ma, se Ghostwatch vi è piaciuto e l'argomento vi interessa, non posso fare altro che consigliarvelo! ENJOY! 

mercoledì 3 settembre 2025

Hallow Road (2025)

Nella sfera social horror che conta, la settimana scorsa si è fatto un gran parlare di Hallow Road, diretto dal regista Babak Anvari, quindi ho deciso di recuperarlo il prima possibile.


Trama: Maddie e Frank ricevono una telefonata dalla figlia, rimasta coinvolta in un incidente. I due partono in macchina per andare ad aiutarla, ma cominciano a succedere cose strane...


Hallow Road
è uno di quei film che, forse, non sarebbero da definire horror tout court. La maggior parte degli spettatori, infatti, potrebbero lamentarsi perché, nel corso del film, "non succede nulla", non si vede niente di spaventoso, non ci sono scene splatter né jump scares. Eppure, Hallow Road, per quanto mi riguarda, E' un horror, perché è interamente giocato su atmosfere più che angoscianti e sfrutta il non visto per spalancare un abisso di terrificanti possibilità interamente immaginate o, ancor peggio, ragionate a seguito della visione. Purtroppo, per chi apprezza solo le opere chiare dall'inizio alla fine, Hallow Road non offre risposte né soluzioni, ed ha un finale definitivo ma aperto, che non spiega, di preciso, cosa sia successo ad Alice durante la fatidica notte raccontata nel film. Hallow Road si apre con una lenta carrellata su un sottobosco notturno, che si conclude con l'immagine di una scarpa da ginnastica insanguinata, dopodiché presenta un'altra lenta carrellata, questa volta di una sala da pranzo in cui una cena è stata lasciata a metà e durante la quale si è rotto un bicchiere. E' passato del tempo dalla cena, perché Maddie e Frank, i padroni di casa, dormono entrambi e vengono prima svegliati dall'allarme antincendio scattato senza apparente motivo e, poi, costretti ad uscire dalla telefonata della figlia Alice, che comunica di avere avuto un incidente. La trama del film, scritta da William Gillies, verte interamente sul dialogo telefonico tra Alice e i suoi genitori, e l'unica cosa certa, per lo spettatore, è ciò che accade all'interno della macchina, durante il viaggio verso Hallow Road; ciò che invece accade nel luogo in cui si trova Alice, che noi non vediamo mai, è affidato interamente alle parole di una narratrice inaffidabile (giovane, preda dello shock, probabilmente alterata da sostanze stupefacenti) e agli inevitabili limiti del mezzo telefonico, tra linee che cadono e utenti irraggiungibili, atti a creare ancora più buchi all'interno di una storia di cui non è facilissimo rimettere insieme i pezzi. A un certo punto, poi, subentrano eventi inspiegabili a scombinare ancor più le carte, e l'orrore, che prima faceva affidamento sul montaggio e sulla bravura degli interpreti, diventa un incubo sonoro, fatto di violenti suoni scricchiolanti, da fare accapponare la pelle, e voci misteriose ma stranamente familiari.


Ricamare ulteriormente sulla trama di Hallow Road sarebbe un po' un delitto ma, oltre all'inquietudine legata alla comprensione di ciò che è accaduto ad Alice, c'è anche l'angoscia di vedere due esseri umani che, messi in condizioni di profondo stress, vomitano tutto ciò che li tormenta, nascosto a loro stessi e alla famiglia, mostrandosi nudi di fronte a verità dolorose e rendendosi conto, tragicamente, che il male, troppo spesso, ce lo attiriamo addosso con i nostri silenzi, la testardaggine e la diffidenza. In questo, Hallow Road non funzionerebbe senza l'incredibile bravura dei due attori principali. Rosamund Pike si riconferma un'attrice impressionante, un mostro di controllo che, a poco a poco, si sgretola rivelando una fragilità tristemente umana; Matthew Rhys le tiene testa nei panni di un uomo buono, ma disabituato al vedere andare all'aria i suoi progetti, pronto ad arrivare a conseguenze estreme pur di non deviare dal percorso stabilito per sé o per gli altri. Ai due grandissimi attori è consentito brillare grazie alla sinergia tra il regista Babak Anvari e il montaggio di Laura Jennings, la quale scandisce alla perfezione il ritmo della vicenda con tantissimi, importanti stacchi in grado di rendere incredibilmente vario quello che, potenzialmente, avrebbe rischiato di essere un noioso film ridotto ad un singolo ambiente, per di più buio. Invece, regia e montaggio catturano l'interesse dello spettatore alimentandone l'ansia (la sequenza della rianimazione cardiopolmonare è magistrale, spinge proprio a seguire le istruzioni di Maddie, muovendosi a ritmo con le sue mani esperte), dirigendo lo sguardo verso dettagli inquietanti, creando un importantissimo legame con una persona che non vediamo mai se non in foto, e per quanto mi riguarda questo è grande cinema. Ho un paio di teorie sul finale e, in generale, sull'intera vicenda, ma se volete ne parliamo nei commenti. Intanto, vi consiglio di recuperare appena possibile questo film (lo trovate a noleggio su tutte le piattaforme di streaming legale), tenendo in conto però che vi aspetta una serata all'insegna dell'ansia!


Del regista Babak Anvari ho già parlato QUI. Rosamund Pike (Maddie/voce della signora gentile) e Matthew Rhys (Frank/voce dell'uomo gentile) li trovate invece ai rispettivi link.



martedì 2 settembre 2025

Il sorpasso (1962)

A Ferragosto ho deciso di guardare un film che, con mia somma vergogna, non avevo mai visto prima, nonostante sia un cult famosissimo, ovvero Il sorpasso, diretto e co-sceneggiato nel 1962 dal regista Dino Risi.


Trama: Bruno Cortona, fannullone rimasto solo a Ferragosto, per una serie di circostanze invita un ragazzo appena conosciuto, lo studente Roberto Mariani, a fargli compagnia durante la festività...


Mi ci sono voluti decenni, e un post su Facebook della mia sistah Alessandra, per decidere di fare ammenda ed affrontare, finalmente, una pietra miliare della commedia all'italiana. Che poi, ha senso parlare di commedia nel caso de Il sorpasso? Cercherò di non fare spoiler, perché magari, tra i lettori, c'è qualche bestia ignorante come me vittima di lacune enormi, ma Il sorpasso racchiude in sé tanta di quella amarezza da bastare per giorni, altro che allegria di Ferragosto. Anzi, Il sorpasso ha proprio il sapore triste delle feste comandate, quelle in cui bisogna divertirsi ad ogni costo ed ostentare, sempre e comunque, senza rimanere mai soli, altrimenti sai che vergogna; probabilmente, se oggi decidessero di girare un inopportuno remake, Bruno sarebbe un influencer, o comunque uno di quelli che riempie i suoi social di status accattivanti, con foto di luoghi esclusivi, piatti raffinati, sorrisoni a cinquanta denti e abbondanza di grazie femminili. La verità, con tutto il bene che voglio a un Gassman affascinante e gigione, è che Bruno è un uomo vuoto come la società del boom economico anni '60 rappresentata nel film, una persona invadente e sbruffona che probabilmente manderei a cagare dopo dieci minuti. Nelle sue grinfie, poverino, finisce lo studente Roberto, il quale vorrebbe passare una tranquilla giornata sui libri, magari nell'attesa che compaia la sua vicina di casa, di cui è segretamente innamorato. Roberto si ritrova ad essere l'unico abitante di una Roma vuota, quindi il solo a cui Bruno può chiedere di telefonare a degli amici che (possiamo dar loro torto?) hanno scelto di non aspettarlo e di passare il Ferragosto senza di lui. Piuttosto che rimanere solo, Bruno decide di trascinare Roberto in due folli giornate on the road, a bordo di una Lancia Aurelia lanciata a tutta birra per le strade del Lazio prima e della Toscana poi. Nel corso del viaggio Roberto, così come lo spettatore, ha modo di istaurare con Bruno un rapporto di amore e odio, una fascinazione che gli impedisce di essere risoluto nei suoi saltuari tentativi di tornare a casa per conto proprio; il modo di vivere libero e sfacciato di Bruno, così diverso da quello del timido Roberto, apre la mente del ragazzo a possibilità mai prese in considerazione, sul mondo e sui propri famigliari, sull'amore e le donne, ma anche su se stesso. 


Per quanto riguarda Bruno, invece, Roberto è una delle tante "comparse" di una vita vissuta sempre ai 130 all'ora, curandosi degli altri solo quando sono necessari ad alimentare vanità ed egoismo, magari a scroccare una cena o una scopata. Bruno percepisce il vuoto che lo divora, lo si evince da alcune espressioni, da alcuni dialoghi, dall'irrequietezza che fa del personaggio un uomo sempre in movimento; da questo vuoto, Bruno è in fuga perenne, e probabilmente Roberto rappresenta una momentanea ancora di salvezza, un giovane animo malleabile da impressionare, sì, ma forse anche "educare", in un modo tutto distorto, almeno finché non arriverà qualcos'altro a cui aggrapparsi. E' soprattutto per questo che Il sorpasso mette tristezza, per la profonda differenza dell'importanza che Roberto e Bruno rivestono l'uno per l'altro. Questo, ovviamente, prima dello scioccante finale, che arresta il ritmo scatenato del film con una brusca frenata e un'inquadratura da pelle d'oca sul volto sconvolto di chi, per la prima volta in vita sua, si ritrova faccia a faccia con quel vuoto, quella solitudine da cui cerca di fuggire da sempre. A proposito di ritmo scatenato, la regia di Dino Risi è molto originale e varia. Le riprese delle corse forsennate della Lancia sono da mal di mare e, viste con gli occhi di chi non ha mai vissuto un'epoca di tale "libertà" stradale, sono al tempo stesso esilaranti e angoscianti. In esse, come nella scelta di utilizzare un "io pensante", la voce fuoricampo di Roberto che esterna i pensieri del ragazzo, si sente molto la mano dell'autore, ma personalmente ho apprezzato tantissimo anche gli inserti quasi documentaristici de Il sorpasso, quelle sequenze corali in cui il regista lascia che gli usi e costumi dell'epoca vivano sullo schermo senza filtri. Sembra quasi di trovarsi in una macchina del tempo, e non è difficile lasciarsi catturare dal fascino materialistico di un momento storico in cui tutto sembrava possibile, la povertà della guerra solo un incubo lontano, cancellato da automobili da corsa, sigarette, alcool, abiti e pettinature all'ultima moda, provocanti bikini e juke box. Ne Il sorpasso, si respira la speranza di affrancarsi da una vita retta ma banale, di venire portati via almeno per un paio di giorni dalla monotonia e dall'angoscia di un futuro inquadrato (col posto fisso, moglie/marito, figli), facendo un tuffo nel mare accompagnati da canzonette leggere. E forse, è per questo che guardarlo in un 2025 dove questa sciocca innocenza non esiste più, dove ci si sente stupidi anche solo a pensare di potersi distrarre per un giorno, mette ancora più tristezza. 


Del regista e co-sceneggiatore Dino Risi ho già parlato QUI mentre Jean-Louis Trintignant, che interpreta Roberto Mariani, lo trovate QUA.

Vittorio Gassman interpreta Bruno Cortona. Nato a Genova, lo ricordo per film come Riso amaro, I soliti ignoti, La grande guerra, L'armata Brancaleone, Brancaleone alle crociate, Profumo di donna, C'eravamo tanto amati, Il deserto dei tartari, I nuovi mostri, Caro papà, Sono fotogenico e Sleepers. Anche sceneggiatore e regista, è morto nel 2000, all'età di 78 anni. 


Catherine Spaak
interpreta Lilli Cortona. Francese, la ricordo per film come L'armata Brancaleone, Il gatto a nove code, Febbre da cavallo, Rag. Arturo De Fanti bancario-precario, Io e Caterina; inoltre, ha partecipato a serie come Un medico in famiglia. Anche sceneggiatrice, è morta nel 2022, all'età di 77 anni. 


venerdì 29 agosto 2025

2025 Horror Challenge: Maniac (1980)

Il tema della challenge horror, questa settimana, era Slasher: Classic era. Ho scelto così Maniac, diretto nel 1980 dal regista William Lustig. Se volete vederlo, potete trovarlo all'interno del catalogo Prime Video senza abbonamenti/acquisti aggiuntivi, ma attenzione perché la versione presenta tagli drastici in tutte le scene clou o vagamente splatter, e dovrete ricorrere agli spezzoni di Youtube o Vimeo per avere il quadro completo dell'opera.


Trama: Frank Zito, traumatizzato da una madre violenta, gira per la città di New York uccidendo giovani donne, per poi inchiodare i loro scalpi sui manichini che popolano il suo appartamento...


Come sempre, Maniac era un altro di quegli horror cult e imprescindibili che, fino a qualche giorno fa, avevo solo sentito nominare. Nonostante, come ho scritto sopra, la versione presente su Prime Video sia mutilata delle scene più scioccanti, Maniac è uno slasher adulto e malato, distante, come idea di fondo, da quella del boogeyman che si accanisce contro vittime solitamente giovani e stupide. Il film di Lustig racconta, infatti, una storia di profondo disagio urbano, attraverso gli occhi di un uomo che, come si evince dai dialoghi e da alcune allucinazioni che diventano invasive e mortali sul finale, ha passato l'infanzia seviziato da una madre orribile. Questo trauma si traduce nello straziante, perverso desiderio di uccidere donne, togliere loro lo scalpo ed inchiodarlo su dei manichini, trasferiti poi nello squallido, claustrofobico monolocale dove Frank passa le sue notti. Lo sguardo del regista, e la sceneggiatura alla quale ha collaborato anche Joe Spinell, l'attore che interpreta Frank, non è mai indulgente verso quest'ultimo; Frank Zito è un'ulteriore involuzione del Norman Bates di Psyco, e ciò che fa non è giustificabile, nemmeno a fronte di un'infanzia orribile. Piuttosto, Zito diventa la personificazione dell'alienazione urbana, di un male che sta ai margini di una "civiltà" fatta di persone che spesso si limitano a sopravvivere, oppure si perdono in un vortice di individualismo, opportunità mancate e legami labili, che durano il tempo di un lavoro (ciò vale per le prostitute, ovviamente, ma anche per fotografe, fotomodelle, infermiere, tutte vittime di una profonda solitudine, a prescindere da quanto sia"glamour" la loro vita). Perse in una città caotica, queste donne (e alcuni uomini con loro) diventano le vittime perfette di un uomo che vive esclusivamente all'interno della propria testa, dialogando con la madre defunta e col bambino che era un tempo, disperatamente desideroso di un contatto ma anche disgustato dalla natura di un'umanità di cui, inevitabilmente, ha una percezione distorta. Avere attorno dei manichini, resi "vivi" dai capelli di donne reali, è il perverso surrogato di una comunione col prossimo altrimenti ingestibile, se non per i pochissimi istanti in cui Frank riesce a "mascherarsi" da essere umano, risultando persino una compagnia piacevole per le donne così sfortunate da incontrarlo.


L'idea di unire aspetti tipici dello slasher anni '80 a un ritratto di serial killer che si sarebbe affermato solo anni dopo al cinema, è l'elemento che mi ha impedito di annoiarmi, come spesso mi accade guardando slasher puri, e mi ha fatto provare un disagio costante. Questa sensazione è legata anche ad un paio di aspetti tecnici. Partendo dal più "professionale", Maniac è un film girato con uno stile abbastanza grezzo e documentaristico, questo perché Lustig e Spinell non avevano sempre i permessi necessari per filmare gli esterni a New York, il che si traduceva in riprese rapide, realizzate quasi di straforo, con l'ansia di un controllo della polizia sempre sul collo (ciò vale, soprattutto, per la famigerata scena in cui la testa di Savini esplode in un trionfo di sangue, che ovviamente è stata tagliata nella versione del film presente su Prime Video). Tutto ciò conferisce a Maniac una rozza verosimiglianza assente in altri film, e si ha l'illusione di camminare per le strade di New York in mezzo ad ombre da cui potrebbe saltare fuori qualsiasi malintenzionato, pronto a gettarci in mezzo a vicoli maleodoranti e sporchi, dove il nostro cadavere rischia di non venire mai trovato. L'altro aspetto è, invece, puramente "personale". Oggettivamente, Joe Spinell offre un'interpretazione grandiosa, si annulla in un personaggio sgradevole trascinando lo spettatore nel suo mondo allucinato, ma mentirei se dicessi che non ho provato schifo a pelle, prima ancora che il film entrasse nel vivo, per quest'uomo baffuto, sudaticcio, leppegoso; vedere la bellissima Caroline Munro interagire col rattuso Spinell con intenti più che amichevoli, tra cene, telefonate entusiaste e baci sulle guance mi ha causato più di un conato. Lo so, il body shaming è una pratica orribile e io sono una brutta persona, ma lo stesso eew, no, grazie.  Tornando un po' più seri, sottolineerei anche come Maniac abbia un comparto effetti speciali pratici di tutto rispetto. Savini si è letteralmente superato, andando spesso oltre i limiti del buongusto anche per questo genere di film (sapete che ho una fissazione per i video nasties banditi in Inghilterra; Maniac non rientra nella lista ma ci è andato molto vicino e la sua versione non censurata è stata distribuita solo nel 2022 nel Regno Unito), e il finale allucinato, che vira nel sovrannaturale, lascia letteralmente a bocca aperta per la ferocia e il profluvio di sangue che lo caratterizza. Credevo che Maniac mi avrebbe fatto schifo oppure mi avrebbe annoiata, invece ho scoperto un film notevole, che vi consiglio caldamente, se apprezzate il genere. 


Di Tom Savini, che interpreta l'uomo che viene ucciso dentro la macchina e ha realizzato gli effetti speciali del film, ho già parlato QUI.

William Lustig è il regista della pellicola. Americano, ha diretto film come Poliziotto sadico, Maniac Cop - Il poliziotto maniaco e Maniac cop 3 - Il distintivo del silenzio. Anche produttore, attore e sceneggiatore, ha 70 anni. 


Joe Spinell
interpreta Frank Zito ed è il co-sceneggiatore del film. Americano, ha partecipato a film come Il padrino, Il padrino - Parte II, Taxi Diver, Rocky, Un mercoledì da leoni,  Rocky II, Cruising e Una vedova allegra... ma non troppo. Anche produttore, è morto nel 1989, all'età di 53 anni. 


Caroline Munro
interpreta Anna D'Antoni. Inglese, ha partecipato a film come James Bond 007 - Casino Royale, L'abominevole Dr. Phibes, 1972: Dracula colpisce ancora! e Frustrazione. Ha 76 anni. 


Secondo alcune dichiarazioni di Lustig, il regista Dario Argento avrebbe dovuto essere il co-produttore del film in quanto a Daria Nicolodi, all'epoca sua moglie, era stato offerto il ruolo di Anna; sfortunatamente, la Nicolodi ha dovuto rinunciare in quanto ancora impegnata con le riprese di Inferno, così è sfumata anche la collaborazione con Argento. Pare inoltre che i Goblin fossero il primo gruppo scelto per realizzare la colonna sonora di Maniac, ma alla fine Lustig è ricorso a Jay Chattaway. Non esiste un vero e proprio sequel di Maniac, tuttavia Joe Spinell era rimasto molto scosso dalle accuse di misoginia rivolte al film e, anni dopo, ha proposto al regista Buddy Giovinazzo di realizzare un seguito del film (nonché remake di Psychopath), in cui il presentatore di un programma per bambini si sarebbe messo ad uccidere i genitori colpevoli di abusi; l'idea è diventata un corto promozionale di 10 minuti intitolato Maniac 2: Mr. Robbie, ma la morte improvvisa di Spinell nel 1989 ha fatto sì che il progetto venisse abbandonato. In compenso, nel 2012 è stato realizzato un remake omonimo di Maniac, diretto da Alexandre Aja e con Elijah Wood nel ruolo di Frank Zito, che non ho mai visto ma che vi consiglio comunque di recuperare, nel caso vi fosse piaciuto il film di Lustig. ENJOY!

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