venerdì 15 marzo 2024

La sala professori (2023)

Pur essendo candidato come miglior film straniero, è uscito in ritardo rispetto alla serata degli Academy Awards, ma sono comunque andata al cinema a vedere La sala professori (Das Lehrerzimmer), diretto e co-sceneggiato nel 2023 dal regista Ilker Çatak.


Trama: dopo una serie di furti avvenuti all'interno della scuola in cui lavora, la giovane insegnante Carla decide di indagare a modo suo, dando il via ad una serie di eventi sempre più stressanti...


Sono andata a vedere La sala professori con, appunto, un professore. Alla fine del film, abbastanza demoralizzato dalla visione, mi ha confermato che, da anni, la scuola è l'inferno che viene rappresentato all'interno della pellicola e che porre rimedio alla situazione è praticamente impossibile. Nel film, tutto nasce da una serie di furti per i quali viene sospettato un bambino figlio di immigrati turchi. Nonostante il sospetto non venga mai formalizzato in un'accusa vera e propria, la vicenda apre una crepa all'interno del delicatissimo ingranaggio che regola i rapporti tra insegnanti, allievi e genitori. La giovane professoressa Carla (alla sua prima esperienza o quasi), onde trovare in modo incontrovertibile il colpevole e sanare così la crepa, decide di ricorrere a un metodo di "indagine" poco ortodosso e, così facendo, scatena una serie di eventi deflagranti che trasformerà un clima di inquieto fastidio, tutto sommato sopportabile, in un delirio di recriminazioni ansiose e vite rovinate. Per parlare dell'intelligenza e della verosimiglianza della sceneggiatura de La sala professori, mi tocca prendere in prestito le parole dell'amico Toto: "la scuola è diventata un'azienda". Ilker Çatak Johannes Duncker descrivono alla perfezione un'ambiente trasformatosi da "tempio del sapere" in un'azienda di servizi gestita da un dirigente scolastico deciso ad accontentare il cliente che ha sempre ragione, ovvero gli studenti presi nel complesso e, soprattutto, i genitori. I docenti si sono trasformati, nel tempo, in dipendenti costretti a mettere burocrazia e beghe legali davanti all'insegnamento, ad assumersi anche il ruolo di psicologo/psichiatra/assistente sociale senza averne le competenze e, soprattutto, senza essere troppo invasivi nell'esercizio di queste funzioni, perché le prime cose da tutelare non sono gli alunni in quanto individui, ma la scuola nella sua totalità, soggetta alla spada di Damocle di azioni legali ecc, quindi i problemi vanno risolti nel modo più rapido possibile. I bisogni dei singoli alunni vengono quindi sacrificati in primis al funzionamento dell'azienda, il dirigente scolastico (che sia competente oppure no) si fa portatore dell'unico verbo accettabile e gli insegnanti, privi di qualsivoglia tutela, devono sopravvivere in due modi: o fregandosene di tutto assimilandosi ad automi privi di passione, oppure cercare di proteggersi a scapito degli studenti. Persone entusiaste e sensibili come Carla fanno una brutta fine, perché se è vero che i ragazzi sono portati, naturalmente, a vedere l'insegnante come "nemico" asservito all'autorità, succede anche che i colleghi si mettano a fare muro e, ancor peggio, che i genitori partano dal presupposto che i loro "piccoli angeli" siano sempre e comunque maltrattati. 


Questo microcosmo angosciante viene reso sullo schermo con il ritmo di un thriller in grado di inchiodare lo spettatore alla poltrona. La sceneggiatura, granitica e priva di sbavature (salvo sul finale, che probabilmente voleva essere una di quelle conclusioni a effetto un po' "artistiche"e che, in realtà, lascia un po' a bocca asciutta, forse perché una vera risoluzione dei problemi della scuola non c'è e non ci sarà mai), è un campo minato di azioni, parole e atteggiamenti dettati dal buon senso che si scontrano col dominio assoluto della burocrazia e della diffidenza. Quest'ultima si concentra sugli sguardi, su ciò che gli occhi colgono o su quello che accade dietro a porte socchiuse o in stanze vuote; da un certo punto in poi, c'è addirittura un accumulo di sguardi, quando tutti gli occhi della scuola sembrano puntati su Carla, pronti a cogliere ogni suo errore, a sottolinearne l'inadeguatezza, e ci sono ben pochi rifugi in un edificio scolastico che, nonostante la quantità di finestre e l'architettura molto ariosa, sembra chiudersi sulla protagonista intrappolandola. Leonie Benesch, dal canto suo, è fantastica. Il suo personaggio compie un'involuzione che la porta dall'essere una fresca insegnante sicura di sé e dai metodi carinissimi (il ritmico battimani iniziale, che diventerà anch'esso fonte di biasimo, è delizioso e rappresenta perfettamente la personalità pratica e sicura di Carla, nonché il suo amore per i ragazzi) a una donna spaventata ed arrabbiata, piena di ansia eppure ancora convinta che i ragazzi possano e debbano essere compresi ed educati, come dimostra l'espressione risoluta sul finale. Sia che siate insegnanti, genitori, studenti un po' più grandini o persone che nulla più hanno a che fare con la scuola, La sala professori è un film che dovreste guardare, innanzitutto per aprire gli occhi su una realtà ancora vittima di pregiudizi e false convinzioni, e poi per riflettere sul fatto che ciò che accade a scuola è la versione in piccolo di un disagio sociale che minaccia di abbruttire tutti noi. 

Ilker Çatak è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Tedesco, ha diretto film come I Was, I Am, I Will Be. Anche produttore e attore, ha 40 anni.




mercoledì 13 marzo 2024

Maestro (2023)

Continua la corsa dietro ai titoli nominati per l'Oscar. Oggi tocca a Maestro, diretto e co-sceneggiato nel 2023 dal regista Bradley Cooper e candidato a 7 premi Oscar: Miglior film, Miglior attore protagonista, Miglior attrice protagonista, Miglior sceneggiatura originale, Miglior fotografia, Miglior trucco e Miglior sonoro.


Trama: vita del musicista Leonard Bernstein, dal suo primo lavoro come direttore d'orchestra al legame con la moglie Felicia, complicato dalle pulsioni omosessuali di lui...


Io quest'anno sto facendo una fatica incredibile a farmi trasportare dalle atmosfere dei film che guardo e, soprattutto, ad allinearmi ai giudizi dei cinefili che, oltre ad amarla, s'intendono della settima arte. Maestro è candidato a sette premi Oscar, di cui quattro tra i più importanti, e io riesco solo a pensare all'indicibile noia che mi ha avvinta per tutta sua durata. E d'accordo, io sono ignorante, non conoscevo Bernstein (e il film non mi ha aiutata a colmare la lacuna, beninteso), ma ho guardato Maestro con un appassionato conoscitore di musica classica, e anche lui è uscito sconfitto dalla visione. La cosa, da un lato mi consola, dall'altra mi abbatte. Maestro è uno splendido lavoro a livello di regia e montaggio, entrambi usati in modo estremamente raffinato per sottolineare non solo il passaggio delle epoche (la transizione dal bianco e nero degli inizi al colore), ma anche il rapporto profondo tra Bernstein e la sua musica, con la vita che si fa musical e viceversa, mentre i personaggi passano da un ambiente e una sequenza all'altra senza apparente soluzione di continuità, come se si trovassero su un palcoscenico. Le interpretazioni dei due protagonisti, poi, sono grandiose. Nascosto, ma neppure poi tanto, da un trucco che lo rende somigliantissimo al vero Bernstein e impegnato in un'interpretazione fisica e vocale che ha dell'incredibile, Bradley Cooper riporta in vita l'artista, con tutta la sua logorrea e il suo enorme ego, sottoponendo personaggi secondari e spettatori a un estenuante, continuo confronto con un protagonista che divora lo schermo. Esce vincitrice, da questo confronto, solo un'eterea Carey Mulligan, dotata di una dignità e un carisma delicato ma deciso, che si prende con naturalezza lo spazio che le compete, consentendo a dialoghi e sequenze di "respirare", fare una pausa e cambiare un po' il punto di vista di un film interamente imperniato sul dramma personale di Bernstein, su una storia d'amore "pilotata" dal musicista. E qui passiamo alle note, per me, dolenti.


Maestro
è imperniato per quasi tutta la durata sul rapporto tra Bernstein e Felicia, con la musica "usata" soprattutto come mezzo per enfatizzare la grandeur del protagonista e come plot device per sottolineare come dietro un grande uomo ci sia sempre una grande donna, paziente per la maggior parte del tempo, scanzonata e sognatrice, ma anche dotata di cazzimma alla bisogna, perché va bene l'amore ma Bernstein era filantropo (cit.), caro lui. Il film, in realtà, la fa anche troppo facile. Benché Felicia fosse consapevole dell'orientamento sessuale del marito e cercasse di non ostacolarlo per non renderlo infelice, Bernstein ha passato comunque anni in cura da psichiatri, alcuni dei quali praticavano l'orrida e sbagliatissima "terapia di conversione", e questo in Maestro non viene mai accennato. Al di là di questo dettaglio insignificante, ho trovato, comunque, che due ore e fischia di psicodramma amoroso fossero anche troppe, soprattutto perché, da un certo punto in poi, il film relega in secondo piano l'evoluzione della carriera di Bernstein per concentrarsi su una sequela infinita di ragazzetti piacenti ghermiti dalle grinfie del musicista sotto l'occhio sempre più critico della moglie. Il risultato è quello di avere un film né carne né pesce, indeciso se essere una travagliata storia d'amore, il dramma psicologico di un genio tormentato o il resoconto dei sensi di colpa di un uomo dalla sessualità aperta e, per l'epoca, "scomoda". Tre identità che, a mio parere, non riescono ad amalgamarsi e che mi hanno portata a non provare interesse per nessuna di esse, trasformando la visione di un film plurinominato in una sofferenza che eviterei volentieri di riprovare. Evidentemente, l'estate non canta più dentro di me, che vi devo dire. 


Del regista e co-sceneggiatore Bradley Cooper, che interpreta anche Leonard Bernstein, ho già parlato QUI. Carey Mulligan (Felicia Montealegre), Matt Bomer (David Oppenheim), Sarah Silverman (Shirley Bernstein), Maya Hawke (Jamie Bernstein) e Josh Hamilton (John Gruen) li trovate invece ai rispettivi link.


Il film avrebbe dovuto essere diretto da Steven Spielberg, che ha lasciato il progetto a Cooper per dedicarsi a West Side Story, o da Martin Scorsese. Entrambi figurano come produttori. Se Maestro vi fosse piaciuto recuperate Tick, Tick... Boom!, The Danish Girl e Tár. ENJOY!


martedì 12 marzo 2024

Il labirinto del fauno (2006)

La Challenge HorrorX52 questa volta mi ha dà una gioia immensa. Seguendo la regola "HORRORx52 REWIND. A film someone watched from 2021's rules", oggi parlerò di Il labirinto del fauno (El laberinto del fauno), diretto e sceneggiato nel 2006 dal regista Guillermo del Toro e vincitore di tre premi Oscar: Migliore Fotografia, Miglior Scenografia e Miglior Trucco.


Trama: nella Spagna del 1944, Sofia e la madre Carmen si trasferiscono in una zona montuosa, nel quartier generale dello spietato colonnello Vidal, padre del bambino che la donna porta in grembo. Lì, Sofia viene avvicinata da un fauno, che le rivela di essere la reincarnazione di Moanna, figlia del Re del mondo sotterraneo, e la sottopone a tre difficili prove...


Non so dire perché fossi convinta di avere già visto Il labirinto del fauno ma, a mano a mano che il film andava avanti, mi sono resa conto che o avevo sognato o l'ho sempre confuso con qualche altro titolo. Poco danno, meglio tardi che mai: ci sono capolavori senza tempo e Il labirinto del fauno è uno di quelli, una pellicola splendida con tanti di quei livelli di lettura e capace di veicolare così tante emozioni che una visione non basterà di sicuro. Guillermo del Toro parte dalla rappresentazione di un periodo storico terribile (la guerra civile spagnola verso la fine della Seconda Guerra Mondiale) e la intreccia con una fiaba nera, utilizzando due registri apparentemente diversissimi che si uniscono sotto lo sguardo innocente e sognatore della piccola Sofia. Quest'ultima è una ragazzina che adora leggere, soprattutto fiabe e leggende, e nella sua giovane vita ha già dovuto subire l'orrore della morte del padre e lo shock di essere costretta ad andare a vivere con la madre incinta nel quartier generale del suo nuovo marito, il violento colonnello Vidal. Sul confine temporale che separa l'infanzia dall'adolescenza, Sofia viene a scoprire da una creatura fantastica, un Fauno, la propria natura di principessa perduta del mondo sotterraneo, e mentre attorno a lei la realtà si fa sempre più tragica e complessa (all'interno del quartier generale la domestica Mercedes affronta i pericoli di essere una spia della resistenza, la gravidanza di Carmen è difficile e rischia di compromettere irreparabilmente la salute della donna, Vidal non ha un briciolo di affetto per Sofia o per sua madre), le prove imposte dal Fauno perché Sofia possa tornare nel suo regno, per quanto difficili, sono fiabesche e lineari, per l'appunto. 


Sembrerebbe quasi che la protagonista si rifugi in un mondo di fantasia per venire a patti con le brutture che la circondano, ma in realtà Guillermo Del Toro sta molto attento a non prendere mai una posizione definitiva sulla questione, e a lasciare l'interpretazione allo spettatore, perché questo dualismo è solo la punta dell'iceberg de Il labirinto del fauno. Il film, infatti, parla soprattutto del coraggio necessario per fare la cosa giusta, per disobbedire di fronte ad imposizioni irragionevoli (Sofia, nel suo piccolo, disobbedisce alle chiare istruzioni del Fauno, una volta "egoisticamente", in virtù della natura ingiusta del divieto, la seconda volta per amore di chi non ha modo di difendersi) e dannose per gli altri, per affrontare persino la morte se l'alternativa è un'esistenza vissuta nella paura e nel disgusto di noi stessi; il commoventissimo finale, in particolare, sottolinea come il male e la tirannia possano essere cancellati con un colpo di spugna, condannati all'oblio perpetuo dopo tanta sofferenza, mentre un'esistenza coraggiosa e virtuosa assicura l'immortalità nel ricordo e nell'amore, con valori positivi portati avanti da chi resta, pur col cuore spezzato. In questo, Il labirinto del fauno è lapalissiano, oltre che assai più potente di altre pellicole che veicolano messaggi simili in maniera trattenuta. Benché la protagonista sia una bambina, infatti, Del Toro non nasconde allo spettatore la spietatezza della guerra e della tirannia. Allo stesso modo, il mondo di fantasia abitato dal Fauno è pieno di creature orribili e sanguinarie, in grado di rendere inospitale un regno "dove la bugia, il dolore, non hanno significato", e l'atmosfera del film risulta, pertanto, costantemente impregnata di inquietudine e un senso di tremenda ineluttabilità.


Nonostante questo, le immagini del film sono splendide. Le scenografie, giustamente premiate con un Oscar, arricchiscono la vicenda di personalità e ciò non vale solo per la bellezza del labirinto del titolo o dei dettagliatissimi ambienti del mondo sotterraneo (in primis l'antro del Pale Man), che sembrano usciti dritti da una fiaba, ma anche per la cantina in cui Vidal passa buona parte del suo tempo, in cui ogni aspetto, anche il più insignificante, è fondamentale per delineare la personalità dell'uomo. Inoltre, nonostante siano passati quasi vent'anni, le creature risultano non solo naturalissime, ma hanno un character design talmente iconico che è impossibile dimenticarle. Doug Jones, che interpreta sia il Fauno che il Pale Man, ci mette del suo grazie ad una fisicità e una mimica impareggiabili, ma buona parte del merito va agli artisti del make-up che hanno realizzato alla perfezione le fantasie di Del Toro (nel bene e nel male, ovvio. Il Pale Man è un incubo spaventosissimo!). Per quanto riguarda gli attori, Vidal è un personaggio talmente abietto che viene da chiedersi come abbia fatto Sergi López a non sentirsi male durante le riprese e a portare a casa una performance così agghiacciante; per contrasto, il mio cuore è volato non solo alla piccola, bravissima Ivana Baquero, ma soprattutto a chi cerca di arginare la malvagità del colonnello, come l'affascinante Maribel Verdù e il dolcissimo Dottor Ferreiro di Álex Angulo, un personaggio, quest'ultimo, che cresce mano a mano che la pellicola prosegue. Ci sarebbero altre mille cose da dire su Il labirinto del fauno ma è bene scoprirle guardando il film, tenendo ovviamente a portata di mano un pacchetto di fazzoletti perché, come succede con tutte le migliori pellicole di Del Toro, il vostro cuore verrà preso e fatto in tanti piccoli pezzetti. Per tanta bellezza ne vale la pena, ma che dolore!


Del regista e sceneggiatore Guillermo Del Toro ho già parlato QUI. Maribel Verdú (Mercedes), Doug Jones (Fauno / Pale Man) e Álex Angulo (Dottor Ferreiro) li trovate invece ai rispettivi link.


Se Il labirinto del fauno vi fosse piaciuto recuperate PinocchioLa forma dell'acqua, La spina del diavolo e Labyrinth. ENJOY!! 


lunedì 11 marzo 2024

Oscar 2024

Buon lunedì a tutti! Dopo due notti matte e disperatissime, gatta Sandy ha scelto proprio questa per dormire fino alle 5, facendomi perdere la serata degli Academy Awards. Poco danno. Quest'anno il mio tifo da stadio era ai minimi storici e le uniche due cose che m pento di non aver visto sono John Cena ignudo e l'esibizione di Ryan Gosling sulle note di I'm Just Ken, per il resto direi che questa sia stata una delle edizioni più "educate" e prevedibili di sempre, almeno a livello di premi. Sarà, infatti, molto facile scrivere il post visto che un film ha vinto praticamente tutto... ENJOY!


Come ampiamente previsto, Oppenheimer ha vinto la statuetta come miglior film e Christopher Nolan quella come miglior regista. L'esito era scontato fin dall'uscita della pellicola: stavolta il regista britannico ha unito la sua indiscutibile tecnica a una storia universale, perfetta per il periodo storico, realizzando un film evento che, diciamolo senza paura, ha sfruttato anche l'antagonismo verso Barbie, uscito ridimensionato e sconfitto con una cattiveria tale da chiedermi cos'abbia fatto di così male all'industria cinematografica. Oppenheimer si porta a casa altri cinque Oscar. Uno, scontatissimo, per Cillian Murphy come miglior attore protagonista (perfetto, non discuto assolutamente, ma posso comunque spendere una lacrima per Paul Giamatti?), uno per Robert Downey Jr. (avrei preferito il collega Mark Ruffalo ma ogni premio dato a Robertino è cosa buona e giusta) e tre premi "tecnici", il doveroso miglior colonna sonora e i più discutibili miglior fotografia e montaggio, che io avrei dato rispettivamente a El conde e Anatomia di una caduta


Altro Oscar ampiamente prevedibile e doverosissimo è stato quello ad Emma Stone come miglior attrice protagonista in Povere creature! A chi ha non ha dormito per giorni pensando a un colpo di mano di Lily Gladstone ricordo che Scorsese è stato snobbato per film molto migliori della sua ultima opera, quindi un po' di realismo ci stava, su. L'ultimo film di Lanthimos partiva stra-favorito ma, tolto l'oscar alla strepitosa Stone, alla fine si è "limitato" ad ottenere riconoscimenti per gli spettacolari costumi, l'interessantissimo trucco e parrucco e le altrettanto splendide scenografie (anche se avrei preferito che il premio andasse a Barbie, visto tutta la vernice rosa consumata).


Vince l'Oscar come miglior attrice non protagonista Da'Vine Joy Randolph. Quest'anno non c'era nessun'attrice che mi ispirasse per la categoria, quindi una vale abbastanza l'altra. Auguro alla vincitrice di non fare la fine di molte altre sue colleghe esordienti, finite nel dimenticatoio dopo la brillante carriera promessa dalla statuetta.

Comunque la prossima volta scegli un altro abito, please

Anatomia di una caduta
vince la miglior sceneggiatura originale lasciandomi molto soddisfatta. E' l'unico premio andato a un film partito favoritissimo, ma meglio che rimanere a bocca asciutta.


La miglior sceneggiatura non originale è andata a un film che, a me personalmente, ha detto proprio poco ma che ha fatto sfracelli in patria, American Fiction. Forse non era il mio genere, ma era quello che meno preferivo tra tutti i candidati. Meglio questo che altri premi per cui era in lizza, per carità.


Mi dispiace per i patrioti, ma sono molto contenta che l'Oscar per il miglior film straniero sia andato a La zona d'interesse, uno dei pochi film di quest'anno ad avermi convinta in toto, che giustamente porta a casa anche l'Oscar per il miglior sonoro, tratto distintivo e fondamentale della pellicola.


Travolge, giustamente, lo strapotere dell'animazione americana l'ultima opera di Miyazaki sensei, Il ragazzo e l'airone. Sono curiosissima di vedere Il mio amico robot ma, nel frattempo, gioisco per lo Studio Ghibli e il suo fondatore (che, conoscendolo, avrà gettato già la statuetta nel bidone della rumenta).

Siccome il sensei non era presente, è giusto postare della figaggine

Infine, riassumo quell'altro paio di premi "tecnici" andati ad altre pellicole. Godzilla -1.0, che purtroppo non ho visto, vince l'Oscar per i migliori effetti speciali. Barbie, alla fine, ha vinto solo la miglior canzone originale, purtroppo non I'm Just Ken come avrei voluto ma What Was I Made For? (oh, ma mai una gioia, eh). Aggiungo, come ogni anno, quelle categorie di cui non ho assolutamente conoscenza, tranne che per lo spettacolare La meravigliosa storia di Henry Sugar, giustamente vincitore del premio come miglior corto: 20 Days in Mariupol Miglior Documentario (mi è bastato il trailer per sentirmi male e piangere, vi credo sulla fiducia), The Last Repair Shop come Miglior Corto Documentario e War Is Over! come Miglior Corto Animato. Vi lascio con tre foto meravigliose e vi dico che da domani, per fortuna, torno a recuperare horror e affini, ma le recensioni a tema Oscar vi accompagneranno, ahivoi, per moltissimo tempo ancora! 





venerdì 8 marzo 2024

NYAD - Oltre l'oceano (2023)

Sono immersa fino al collo nei recuperi pre-Oscar ed è una fortuna che venga in soccorso anche Netflix, che già qualche mese fa aveva fatto uscire NYAD - Oltre l'oceano (NYAD), diretto nel 2023 dai registi Jimmy Chin ed Elizabeth Chai Vasarhelyi e candidato a due Oscar, Miglior attrice protagonista e Miglior attrice non protagonista.


Trama: all'età di 64 anni, l'ex nuotatrice Diana Nyad decide di compiere una traversata in solitaria, a nuoto, da Cuba alla Florida.


Da brava ignorante in ogni campo, ma soprattutto in quello sportivo, non avevo mai sentito nominare Diana Nyad, nuotatrice che ha fatto delle traversate in mare aperto la sua ragione di vita. Per fortuna, ad arricchire la mia cultura ci pensano annualmente questi biopic realizzati per racimolare Oscar, che ogni volta mi portano a conoscere personaggi della cultura americana a me totalmente avulsi. Di solito, film come questo sono anche di una noia o di una pochezza allucinanti, e spesso mi chiedo come sia possibile che l'Academy li ricopra di candidature, ma fortunatamente non è il caso di Nyad, che ha generato un entusiasmo abbastanza contenuto tra i membri della commissione. La sceneggiatura, tratta dall'autobiografia della nuotatrice (sorvolerei quindi sulle controversie legate al fatto che l'effettivo coronamento dell'impresa sia ampiamente dibattuto), si concentra sui suoi tentativi di percorrere a nuoto la distanza tra la Florida e Cuba, dopo avere fallito all'età di 28 anni, a seguito di una "crisi di età avanzata" (64 anni) in cui Nyad si è ritrovata priva di un obiettivo nella vita. Il film segue, dunque, il pattern tipico delle opere a tema sportivo, con un primo atto scoppiettante in cui l'impresa viene messa in piedi, un secondo atto di tragedia totale e, finalmente, un terzo atto di faticosa e meritata vittoria. Nulla di innovativo, ma se non altro viene data molta attenzione alla caratterizzazione dei personaggi: Nyad non è una protagonista positiva, anzi, è una fanfarona testa di cazzo ed egoista, e il suo orribile carattere viene smussato sia dalla presenza benefica dell'allenatrice ed amica Bonnie, persona capace, paziente e con la testa sulle spalle, sia dal rude capitano John Bartlett, personaggio che mi ha molto commossa sul finale. Nel corso del film, alcuni flashback danno una tragica, ulteriore spiegazione alla cieca determinazione di Nyad, ma a mio avviso si tratta di un di più, perché la storia raccontata è già di per sé interessante, in grado di tenere desta l'attenzione dello spettatore dall'inizio alla fine.


Poiché la sceneggiatura non è particolarmente innovativa, a catturare lo spettatore ci pensano soprattutto le interpretazioni intense di Annette Bening e Jodie Foster (che non vinceranno nulla, ma è un altro discorso). La Bening è irriconoscibile, distante anni luce dalla bellissima donna che percorre solitamente i red carpet. Bruciata dal sole e dalla salsedine, nonché priva di trucco, l'attrice diventa il perfetto doppelgänger della vera Nyad, della quale riporta sullo schermo il modo di parlare e gli atteggiamenti tronfi e teatrali. A farle da degna spalla, in guisa di amica del cuore, c'è una Jodie Foster asciuttissima, in perfetta forma fisica, la voce della ragione in una vicenda di volontà impetuose ed ego smisurati; le sequenze in cui le due dialogano e si confrontano vivacizzano moltissimo la vicenda e, alternativamente, strappano risate e lacrime, queste ultime enfatizzate da un'interpretazione stranamente misurata di Rhys Ifans, degno completamento di un triangolo perfetto. Non particolarmente entusiasmante, invece, la regia. Le riprese (intervallate da spezzoni in cui si intravede la vera Nyad, che accompagnano anche i titoli di coda) sono state realizzate da Jimmy Chin ed Elizabeth Chai Vasarhelyi, solitamente impegnati come documentaristi. Il risultato è un mix di eleganti riprese in mare aperto, camera a mano più "rozza" ma comunque efficace per le sequenze subacquee o ravvicinate, scene in interni degne di un film per la TV ed inquietanti momenti "fantasy" a rappresentare le allucinazioni di una Nyad sull'orlo del tracollo fisico, cosa che contribuisce a non rendere la pellicola particolarmente memorabile. Se vi piacciono, comunque, le storie di riscatto sportivo e cercate un film da vedere per una serata in relax, NYAD - Oltre l'oceano merita almeno una visione. 


Di Annette Bening (Diana Nyad), Jodie Foster (Bonnie Stoll) e Rhys Ifans (John Bartlett) ho già parlato ai rispettivi link.

Jimmy Chin ed Elizabeth Chai Vasarhelyi sono i registi della pellicola. Marito e moglie, hanno diretto assieme documentari come Free Solo - Sfida estrema e The Rescue - Il salvataggio dei ragazzi. Americani, entrambi produttori e sceneggiatori, Jimmy ha 50 anni ed Elizabeth ne ha 45.  


 

mercoledì 6 marzo 2024

Dune - Parte due (2024)

Domenica siamo corsi a vedere Dune - Parte 2 (Dune - Part 2), diretto e co-sceneggiato da Denis Villeneuve a partire dal romanzo Dune di Frank Herbert.


Trama: dopo l'incontro-scontro con la tribù dei Fremen, Paul ne impara i costumi diventando uno dei guerrieri più potenti. Ma l'ombra di un futuro sanguinoso come Messia incombe su di lui...


Sarò priva di mezze misure: Dune - Parte 2 è un trionfo. Lo dico da profana, perché dal 2021, anno di uscita di Dune, non ho mica trovato il tempo di leggermi il romanzo di Herbert e, in tutta sincerità, ero persino riuscita a dimenticarmi il primo capitolo (guardato con estrema soddisfazione, per la seconda volta, nel weekend), quindi il mio è il commento a caldo di una mente fresca. Ripeto quello che avevo giù dichiarato tre anni fa: "Gli ultimi Star Wars, ma anche quelli vecchi, con tutto il rispetto, a Dune spicciano casa", e gli spiccia casa qualsiasi saga moderna, in primis i fumettoni Marvel da cui il regista ha preso tre quarti del cast. Serio ed epico, senza alcuna concessione nemmeno alla più piccola briciola di umorismo, Dune - Part 2 mette in scena la crescita di Paul Atreides, da rampollo in fuga di una nobile famiglia a ragazzo maturo, deciso a prendere il futuro tra le sue mani senza seguire un cammino che qualcuno ha scelto per lui, almeno per buona parte del film. Il desiderio di vendetta verso chi ha sterminato la sua casata lascia presto il posto a un sentimento più complesso verso la tribù dei Fremen, alimentato sì dall'amore verso la bella Chani, ma anche dall'ammirazione verso la tenacia, l'intelligenza e gli usi di un popolo ben lontano dall'accozzaglia di selvaggi dipinta dalla nobiltà ignorante. Purtroppo per Paul, il mondo di Dune è fatto di complotti vecchi di secoli, invischiato in una tela tessuta in primis dalle Bene Gesserit, ed è difficile sottrarsi ad apocalittiche visioni di un tragico futuro, quando quella stessa ignoranza che rende ciechi i nobili viene sfruttata per aizzare il fondamentalismo di popolazioni isolate, istigandole a combattere una guerra santa in nome di segni e profezie assai facili da manipolare e fare avverare. Se i terribili Harkonnen sono i nazisti, quindi orribili e malvagi per definizione, le Bene Gesserit sono la Santa Inquisizione, gli Atreides i Crociati e gli invasati Fremen dei fondamentalisti islamici, e ben sappiamo a cosa possa portare ogni tipo di estremismo, anche quello che nasce con intenti "buoni", soprattutto quando ci si distanzia sempre più dal popolo che si vorrebbe guidare, e subentrano interessi personali. 


Come già succedeva nel primo capitolo, Villeneuve fa corrispondere il valore della storia narrata alla grandeur di una fantascienza visiva fatta di mostruose navi spaziali che si muovono e crollano con la lentezza di giganti, trascinando con sé buoni e cattivi, di paesaggi sconfinati che lo schermo fa fatica a contenere, di battaglie epiche girate e montate con nitida chiarezza anche a fronte del limite del PG13 (che non impedisce la percezione di torture e morti orripilanti, soprattutto quando si ha a che fare con i mostruosi Harkonnen), il tutto con l'ausilio di una CGI mai invasiva né "finta". Un'altra cosa che adoro di Villeneuve è la capacità di dare ad ogni ambiente la sua personalità, sfruttando non solo la regia, ma anche la scenografia e i costumi, oltre che la coinvolgente colonna sonora di Hans Zimmer. Le inquadrature ampie della zona nord di Arrakis, la ricostruzione di questo deserto sconfinato, benché pericoloso, dove una comunione con la natura inclemente può garantire libertà e un futuro tranquillo, fanno a pugni con le sequenze realizzate per rappresentare la zona sud dei fondamentalisti, più claustrofobiche, con lo schermo che si riempie di impenetrabili tempeste di sabbia e folle di persone adoranti, chiuse all'interno di sotterranei dove la novella Reverenda Madre Jessica (sulla quale poi tornerò) tesse le sue trame. Il pianeta degli Harkonnen è invece un glaciale, geometrico orrore in odore di espressionismo tedesco, dove prevalgono il bianco e il nero di tristissimi fuochi d'artificio che "esplodono" silenziosi come macchie di inchiostro, mentre la natura "medievale" dei luoghi dove risiedono l'imperatore e la figlia viene richiamata da chiostri, mise che sembrano uscite dal ciclo arturiano e interni che, per quanto moderni, contengono elementi architettonici assimilabili a quelli di un castello. Alcune chicche, come l'inquadratura ravvicinata di formiche brulicanti sul cranio e sull'orecchio di un certo personaggio, oppure la rappresentazione iniziale delle truppe Harkonnen come silenziosi scarafaggi volanti, mi hanno fatto apprezzare la regia ancora di più e chissà quante cose ci sarebbero da dire dopo una seconda visione.


Per quanto riguarda gli interpreti, a me pare che Villeneuve sia riuscito a tirare fuori il meglio da ognuno dei coinvolti. Per quanto non mi sia mai strappata i capelli né per le doti recitative di Chalamet né per il suo fisico da twink, il ruolo di Paul Atreides gli calza a pennello, con quell'espressione malinconica e fiera che si ritrova, e ammetto di essermi parecchio emozionata nei momenti decisivi della sua ascesa a messia, con tanto di vecchia che urlava all'abominio e altri istanti di pura esaltazione che vi lascio scoprire. Il legame che si va a creare tra Paul e Chani viene reso alla perfezione non solo da un regista che rifugge la via dell'amore bimbominkia, ma soprattutto da due giovani attori dall'interessante alchimia, capaci di mantenere l'innocenza dei ragazzi e la consapevolezza quasi rassegnata di due persone adulte che ne hanno viste di cotte e di crude, scambiandosi sguardi e gesti che, sul finale, diventano commoventi. Tra le nuove aggiunte al cast spicca, neanche a dirlo, un irriconoscibile Austin Butler, affascinante nell'assoluta empietà di un personaggio che tiene tranquillamente testa al sempre valido Stellan Skarsgård e ad annientare il povero Bautista, mentre tra i "vecchi" non si può non citare un ottimo Javier Bardem assurto al ruolo di Paolo Brosio della situazione (grazie a Kara Lafayette, alla quale ho rubato la citazione!). Il mio cuore, però, sarà per sempre di Rebecca Ferguson. Se nel primo film l'attrice viveva di pochi sguardi fragili che la rendevano umana anche a fronte di una natura tenace e dura, ottimamente dissimulata, in Dune - Parte 2 Jessica perde ogni traccia di umanità (sia in una realtà che la vede spesso celata dietro veli e tatuaggi, ma anche in visioni da incubo) e diventa un'invasata dallo sguardo folle, pronta a tutto pur di favorire il figlio e metterla nello stoppino alle maledette vecchiacce che l'hanno resa così, trasudante di fascino e carisma dalla prima all'ultima inquadratura. Aspettare altri quattro anni per rivederla, conoscere il destino finale di Paul e cogliere più di uno scintillio della bellezza particolare di Anya Taylor-Joy sarà una cosa durissima, ma se Villeneuve riuscirà a confezionare un altro film come questo, varrà la pena soffrire!


Del regista e co-sceneggiatore Denis Villeneuve ho già parlato QUITimothée Chalamet (Paul Atreides), Zendaya (Chani), Rebecca Ferguson (Jessica), Javier Bardem (Stilgar), Josh Brolin (Gurney Halleck), Austin Butler (Feyd-Rautha), Florence Pugh (Principessa Irulan), Dave Bautista (Rabban), Christopher Walken (Imperatore), Léa Seydoux (Lady Margot Fenring), Stellan Skarsgård (Barone Harkonnen), Charlotte Rampling (Reverenda Madre Mohiam) e Anya Taylor-Joy (Alia Atreides) li trovate invece ai rispettivi link.


Stephen McKinley Henderson
e Tim Blake Nelson hanno girato delle scene nei panni, rispettivamente, di Thufir Hawat e del Conte Hasimir Fenring, ma sono state tagliate e i due attori sono stati ringraziati nei credit, mentre Sting ha rifiutato di comparire in un cameo. Non ce l'hanno fatta, invece, Bill Skarsgård e Barry Keoghan, in lizza per il ruolo di Feyd-Rautha; addirittura, per il ruolo di Margot Fenring si erano fatti i nomi di Elizabeth Debicki, Eva Green, Amy Adams, Natalie Dormer, Olivia Taylor Dudley e Gwyneth Paltrow. Inutile dire che Dune - Parte due va visto dopo Dune e, nel caso non vi basti, potete aggiungere anche il Dune di David Lynch o la miniserie televisiva Dune - Il destino dell'universo, oltre a leggere i libri. ENJOY!

martedì 5 marzo 2024

Night Swim (2024)

Pur boicottata da orari incivili, ho recuperato comunque Night Swim, diretto e co-sceneggiato dal regista Bryce McGuire.


Trama: Ray è un giocatore di baseball affetto da una malattia degenerativa. In cerca di una nuova casa con la famiglia, si imbatte in una proprietà dotata di piscina, innamorandosene all'istante. Purtroppo la piscina nasconde un orribile segreto...


Il multisala di Savona ci aveva provato ad avvertirmi, relegando Night Swim alla fascia oraria delle 18, quella dei bambini, dei pensionati e degli statali. Ma io, di coccio, ho voluto ugualmente vedere l'ultima produzione targata Wan/Blumhouse, tratta dal corto omonimo sempre di Bryce McGuire. Ammetto che, dopo la visione, non ho nemmeno voglia di recuperare il corto, quindi non starò a disquisirne, e l'unica cosa che mi viene da dire su Night Swim è che trattasi di un Welcome to the Blumhouse che, non si sa come né perché, è stato promosso al grande schermo. Ora, chi mi segue da almeno due o tre anni sa che i Welcome to the Blumhouse sono dei film prodotti dalla casa in questione, finiti direttamente su Amazon Prime Video, accomunati (salvo un paio di lodevoli eccezioni) dall'essere lavori di rara pochezza, scarsamente inquietanti e anche un po' noiosini. Ecco, Night Swim ha tutte queste caratteristiche. In primis, non fa paura neanche per sbaglio. L'unica sequenza "tesa" è quella che si vede nel trailer, in cui la figlia di Ray gioca a Marco Polo col ganzo di turno, per il resto, come potete immaginare, è difficile che una PISCINA INFESTATA, per quanto risulti lunga e quasi infinita come il campo da gioco di Holly e Benji grazie a un paio di trucchi di regia e montaggio, metta paura. Basterebbe, di fatto, non entrarci più e la piscina si attaccherebbe al *azzo, soprattutto alla terza volta che i protagonisti rischiano di annegarci dentro dopo aver visto cose strane, invece come carico a coppe qui decidono anche di organizzare un party a tema. Aggiungeteci, inoltre, che la trama è il bignami dell'horror d'accatto, e comprende cliché inevitabili come possessioni demoniache (?), signore spiegoni, ricerche su internet, incontri con esperti poco raccomandabili e un finale in cui una tragedia terribile viene affrontata col "vabbé" dipinto in volto, a fronte di un bodycount di due persone e un gatto che, ovviamente, è la vittima per la quale mi sono dispiaciuta di più.


A livello di regia c'è poco o nulla da dire, un dispiego di inquadrature subacquee o a pelo dell'acqua con aggiunta di luci inquietanti per fare atmosfera, nulla di più rispetto a quanto mostrato dal trailer. A livello di effetti speciali, direi che si sono accontentati di abbozzare un'orribile creatura posticcia dagli occhi in stile Gollum che si riuscirebbe a vedere bene giusto con un fermo immagine, per il resto non ricordo qualcosa di particolarmente notevole. A livello di attori, c'è da chiedersi perché Kerry Condon, dopo avere sfiorato l'Oscar l'anno scorso, si sia prestata a 'sta ciofeca. Il personaggio di Eve Waller è caratterizzato da "paura delle piscine", tratto che la porta, per l'appunto, a lanciare sguardi di biasimo dubbioso alla piscina e le impedisce di affezionarsi in toto alla casa, ma non di farsi lunghi bagni di notte (!) e impedire ai figli di fare la stessa cosa dopo averci quasi lasciato il pacco, quindi trattasi di interpretazione non particolarmente memorabile. Meglio, neanche a dirlo, di Wyatt Russell. Il povero patatone non ha preso né il fascino rustico del padre né la verve frizzante della madre, e sta lì a fare la figura della bietola con velleità da Jack Torrance sul finale, ispirando solo tanta voglia di rispedirlo tra i campi, o a prendersi due lezioni di recitazione, che non guasterebbero. Continuo a dire che, quest'anno, l'horror mi sta deludendo abbastanza. Lucia, si sono messi in pausa per te? Torna, ti prego, così magari tornerà anche il buon cinema di genere!!


Di Kerry Condon, che interpreta Eve Waller, ho già parlato QUI.

Bryce McGuire è il regista e co-sceneggiatore della pellicola, al suo primo lungometraggio. Americano, anche produttore, ha 54 anni.


Wyatt Russell
interpreta Ray Waller. Americano, figlio di Kurt Russell e Goldie Hawn, ha partecipato a film come Fuga da Los Angeles, Cowboys & Aliens, Overlord e a serie come Falcon and the Winter Soldier. Anche produttore, ha 38 anni e dovrebbe tornare a interpretare US Agent in Thunderbolts.


 

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