martedì 25 giugno 2024

Inside Out 2 (2024)

Il giorno stesso dell'uscita mi sono fiondata al cinema per vedere Inside Out 2, diretto e co-sceneggiato dalla regista Kelsey Mann.


Trama: Riley è arrivata a 13 anni aiutata dalle sue emozioni, ma con l'arrivo della pubertà la sua testa si riempirà di nuovi, inquietanti elementi...


Inside Out
mi aveva rapito il cuore e la mente, e ancora oggi ritengo sia uno dei più bei film Pixar mai realizzati. Avevo un mix di aspettative e timori all'idea di un seguito, ma ho deciso comunque di dargli fiducia, perché mi interessava sapere come sarebbe cresciuta Riley. Introdotto da una bella botta di nostalgia, nella forma dello storico score di Michael Giacchino (che ovviamente mi ha spinta alle lacrime quando il film non era neppure ancora cominciato), Inside Out 2 inizia due anni dopo la fine del primo e ci mostra delle emozioni solide ed equilibrate, che lavorano in perfetta sintonia per fare di Riley un gioiellino di ragazza. "Io sono una brava persona" è il nucleo della personalità della protagonista, un nucleo che Gioia e gli altri cercano di preservare con tutte le forze, eliminando e nascondendo tutto ciò che potrebbe intaccarlo; le emozioni "base" non hanno, però, fatto i conti con la pubertà, che introduce altri destabilizzanti colleghi all'interno della mente di Riley. Invidia, Imbarazzo, Ennui e, soprattutto, la terribile Ansia, scuotono dalle fondamenta la semplice e dolce ragazzina, proprio nel momento di transizione tra scuole medie e liceo, quando un breve campo estivo di hockey diventa il fondamentale crocevia per determinare il futuro successo. In maniera non dissimile dal primo Inside Out (di cui ricalca anche la struttura narrativa e una serie di situazioni) anche il secondo capitolo contiene un importante monito a non ignorare né le emozioni né le esperienze negative, perché contribuiscono ad alimentare la complessità e la conseguente ricchezza del nostro carattere, facendoci crescere come persone, per quanto imperfette. L'esperienza evita che le emozioni ci governino e ci permette di controllarle e richiamarle secondo la nostra volontà, salvo inevitabili ricadute in momenti particolarmente stressanti o emotivamente soverchianti, com'è comprensibile per un individuo equilibrato. Nel suo percorso di crescita, l'adolescente Riley si riconferma così un personaggio col quale è facile empatizzare e in cui ci si può riconoscere, e lo stesso vale per Gioia, Tristezza e tutti i loro compagni, che crescono ed evolvono assieme alla loro "umana".


Forse perché l'Ansia è una mia costante esistenziale, mi sono riconosciuta parecchio in quel tarlo insinuante che parla senza sosta, non richiesto, scodellando una serie infinita di scenari mentali da incubo, e ho trovato la rappresentazione del passaggio tra infanzia e adolescenza molto realistica. A parer mio i realizzatori sono riusciti a renderlo molto angosciante, in virtù delle scelte sbagliate intraprese da Riley e per la visione da incubo di un nucleo positivo sempre meno luminoso; i richiami alla morte "figurata" e alla depressione sono palesi, inoltre ho apprezzato tantissimo la rappresentazione di un attacco di panico in piena regola, di quel momento in cui il cervello si blocca in una frenesia terrorizzata e senza via d'uscita. In generale, Inside Out 2 mi è sembrato ancora più dolceamaro del primo e alcune prese di coscienza, sia della protagonista che delle sue emozioni, mi hanno commossa parecchio. Per quanto riguarda la realizzazione, Inside Out 2 è bello quanto il suo predecessore. L'interazione tra mondo reale e mentale non presenta sbavature ed è molto emozionante, soprattutto è bello vedere l'evoluzione dei coloratissimi luoghi introdotti nel 2015, con interessanti aggiunte alla mente di Riley, funzionali alla sua crescita; l'idea di inserire una sorta di lago da cui si dipanano tutte le "ramificazioni" delle esperienze della protagonista è vincente, e si traduce in una miriade di splendide immagini. Passando ad argomenti più faceti, da appassionata (giuro) di La casa di Topolino, ho adorato, tra le tante parodie presenti all'interno del film, la presenza di un simil-Toodles che mi ha fatta piegare dalle risate in più di un'occasione, un colpo di genio forse un po' autoreferenziale, ma comunque sempre un colpo di genio. Anche il character design delle nuove emozioni è assai intelligente, con l'apice di preferenza personale raggiunto con Ennui, talmente molla e scazzata dalla vita da avere un modo tutto suo di muoversi senza spendere troppe, inutili, energie (viceversa, Invidia non mi ha detto nulla, e più che un vergognoso peccato capitale mi è sembrato il comprensibile, per quanto disperato e spesso sbagliato, desiderio di conformarsi a persone che si ammirano). Dopo il deludente Lightyear, nonostante non fosse sequel ma spin-off, la Pixar si è rimessa sul giusto cammino e ammetto di non vedere l'ora che esca un terzo capitolo di Inside Out che faccia luce sul terrificante mondo degli adulti!  


Di Maya Hawke (Ansia), Tony Hale (Rabbia), Diane Lane (Mamma), Kyle MacLachlan (Papà), Paul Walter Hauser (Imbarazzo), Frank Oz (Dave il poliziotto), Pete Docter (Rabbia di papà) e Flea (Jake) ho già parlato ai rispettivi link.

Kelsey Mann è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Americano, è al suo primo lungometraggio e prima ha lavorato principalmente come storyboarder. E' anche animatore e doppiatore.


La doppiatrice originale di Ennui è Adèle Exarchopoulos, la protagonista di Vita di Adèle, mentre in Italia il personaggio è stato affidato a Deva Cassel, la splendida figlia di Monica Bellucci e Vincent Cassel. Se Inside Out 2 vi fosse piaciuto, recuperate Inside Out e Soul. ENJOY! 


venerdì 21 giugno 2024

Kinds of Kindness (2024)

In ritardo rispetto al mondo, per colpa della durata elefantiaca, sono riuscita a recuperare al cinema Kind of Kindness, diretto e co-sceneggiato dal regista Yorgos Lanthimos.


Trama: nel primo episodio un uomo d'affari decide di liberarsi dalla pesante influenza del suo capo; nel secondo, un poliziotto viene assalito dal dubbio che la donna salvatasi dopo un incidente in mare non sia la sua vera moglie; nel terzo, i membri di una setta cercano il loro messia dai poteri miracolosi.


Benché Kinds of Kindness sia un film a episodi, ho deciso di non dedicare a ciascuno di essi un paragrafo come faccio di solito, soprattutto per evitare inutili spoiler a chi dovesse ancora vedere il film. In seconda istanza, preferisco prendere Kinds of Kindness come un'opera unica, profondamente legata ai primi lavori di Lanthimos, all'interno della quale si possono ritrovare tutti i temi che erano preponderanti nel grottesco Dogtooth. Proprio "grottesco" è l'aggettivo giusto per definire le vicende narrate nel film, all'interno del quale tre questioni profondamente serie e drammatiche offrono risvolti inaspettatamente ridicoli, se non addirittura comici, privando i protagonisti della loro importanza di fronte alla vastità dell'universo e dell'inconoscibile. I personaggi principali di ogni episodio sono, infatti, dei poveri inetti con grosse difficoltà a rapportarsi con l'esistenza; forse per questo motivo, attirano su di loro l'altrui volontà di prevaricare o cercano spontaneamente qualcosa che dia loro uno scopo anche a costo di spersonalizzarsi e incappare in grosse cantonate. I kinds of kindness del titolo originale sono atti di devozione che sfociano nell'insano e nel perverso e rappresentano il fil rouge che porta avanti la poetica del regista, fatta di sentimenti distorti che spingono al controllo dei sentimenti (o all'anaffettività) e dei comportamenti altrui, spesso alla ricerca di una perfezione impossibile che sfocia in frustrazione e in inevitabile violenza. L'esempio perfetto di tutto ciò, nonché il mio episodio preferito, è il primo, che scava proprio in un rapporto di inquietante dipendenza da cui il protagonista cerca di fuggire; mirabile sintesi di tutto ciò che adoro in Lanthimos, è espressione del masochismo più puro ma, a modo suo, è anche tristemente tenero. C'è della tenerezza anche nel secondo episodio, ma ammetto di non averlo capito. Probabilmente, sono stata distratta dalle potenziali implicazioni fantascientifiche o horror richiamate dalla trama e dalla generale impressione che il poliziotto protagonista abbia trovato la "soluzione" al suo problema senza rendere partecipe il pubblico, tuttavia non ho capito dove volesse andare a parare il tutto e la "rivelazione" buttata lì en passant con un sogno raccontato non ha granché giovato. Il terzo episodio torna ad essere più comprensibile e ammetto di avere riso parecchio durante la visione, forse perché è costruito come una parodia di tutte le sette religiose che infestano sia il mondo che le opere di finzione. Nonostante l'abbondanza di aspetti e rituali ridicoli, per non parlare della protagonista goffa e di una serie di inenarrabili sfighe, anche questo episodio nasconde un cuore tragico, fatto di persone che hanno perso loro stesse e sono bloccate in un limbo di prospettive sgradevoli, alla mercé di chiunque voglia approfittarsi di loro o, peggio ancora, offrire aiuti non richiesti che minacciano di distruggerle. 


A prescindere da ogni considerazione personale, come ha detto la mia amica a fine visione "il film è zeppo di chicche", quindi anche nell'episodio meno riuscito ci sono momenti di puro genio che valgono la visione di Kinds of Kindness. Un altro aspetto che ho gradito tantissimo è il ritorno a una regia e una fotografia meno barocche rispetto a Povere creature! e, per quanto mi riguarda, molto più efficaci. Lo spaesamento dei personaggi, il loro essere protagonisti di una tragicommedia sulla quale non hanno alcun controllo, vengono enfatizzati da inquadrature dove sono gli sfondi (naturali o artificiali) ad essere preponderanti sulla figura umana; interni eleganti ma asettici diventano gli spettatori della desolazione dei protagonisti, oppure questi ultimi percorrono strade apparentemente senza fine, per non parlare del modo in cui persino la casetta di due sposi innamorati si priva di calore e si trasforma in ulteriore mezzo di incomunicabilità. Aggiungo inoltre che l'assurda colonna sonora di Jerskin Fendrix, inframmezzata da pezzi più pop e accattivanti, mi ha lasciata spiazzata in più di un'occasione, in particolare quando cupi cori arrivano a sottolineare i momenti più inquietanti o rivelatori. Gli attori, infine, meriterebbero un post a parte. Jesse Plemons è patrimonio mondiale, nonché avviato a percorrere la strada di un altro grande a lui molto simile per "colori" e corporatura, Philip Seymour Hoffman, e meriterebbe davvero che i registi gli cucissero addosso ruoli in bilico tra il weird e il drammatico, perché gli calzano alla perfezione. E lo so che tutti siete andati al cinema per Emma Stone, altrettanto a suo agio e palesemente divertita, però stavolta le ho preferito il biondo co-protagonista, che riesce a tenere testa persino a Willem Dafoe (divino, che ve lo dico a fare?) e a LUI. Con lui, intendo Yorgos Stefanakos, fantastico signor nessuno dalla faccia di pancotto, che arriverà a riempire ogni vostro pensiero e a perseguitarvi nel sonno: è forse lui un Dio? E' forse un silenzioso agente del caos? E' forse un tizio che voleva semplicemente mangiarsi un panino senza fare troppo casino, invano? Chissà. Vi toccherà guardare Kinds of Kindness per scoprirlo!


Del regista e co-sceneggiatore Yorgos Lanthimos ho già parlato QUI. Margaret Qualley (Vivian / Martha / Rebecca / Ruth), Jesse Plemons (Robert / Daniel / Andrew), Hong Chau (Sarah / Sharon / Aka), Willem Dafoe (Raymond / George / Omi), Mamoudou Athie (Will / Neil / Infermiere all'obitorio) e Emma Stone (Rita / Liz / Emily) li trovate invece ai rispettivi link.



giovedì 20 giugno 2024

Ciao, Arwen.

Scopro solo oggi che il mese scorso è scomparsa Laura Bisanti, la nostra Arwen Lynch, che da tempo era malata di cancro.

Potrà sembrare ipocrita un post in suo onore, considerato che per avere sue notizie mi affidavo all'algoritmo di Facebook e che non sempre mi ritrovavo con le sue opinioni, ma Arwen era uno dei pilastri di una comunità di blogger cinefili che sta scomparendo e la passione che ci accomunava era più che sincera. Il cinema era la sua vita, il suo sostegno, la sua isola felice: Arwen divorava con lo stesso entusiasmo sia le pellicole d'autore che quelle "pane e salame", e questo suo entusiasmo mi mancherà tantissimo.

Da appassionata Lynchiana qual eri, spero che il tuo spirito abbia raggiunto la Loggia Bianca. O che almeno si sia ricongiunto a tuo fratello e tua mamma. Che la terra ti sia lieve.



martedì 18 giugno 2024

Occhi senza volto (1960)

La challenge Horrorx524 di Letterboxd chiedeva la visione di un film anni '60. La scelta è quindi caduta su un caposaldo del genere che ancora non avevo visto, Occhi senza volto (Les yeux sans visage), diretto nel 1960 da regista Georges Franju e tratto dal romanzo omonimo di Jean Redon.


Trama: un brillante chirurgo plastico cerca di fare ammenda per il ruolo avuto nell'incidente che ha sfregiato irrimediabilmente il volto della figlia, rapendo giovani donne per ottenere la pelle necessaria ai trapianti...


Occhi senza volto
è uno di quegli horror talmente citati che esiste persino una canzone dallo stesso titolo, eppure non lo avevo mai visto. Una fortuna che fosse disponibile su RaiPlay, anche se pesantemente tagliato, ma volendo potete costruire un puzzle aggiungendo da YouTube l'agghiacciante scena dell'operazione, capace di mettere i brividi ancora oggi dopo 60 anni (nell'attesa di acquistare un meritato BluRay). Mettendo un attimo da parte l'idiozia del (dis) servizio pubblico, Occhi senza volto è un horror particolare, dotato di un'eleganza senza tempo, dalle intense sfumature psicologiche nonostante l'orrore in primis fisico che mette in scena. Fulcro della vicenda, infatti, sono il senso di colpa, una gratitudine distorta e l'agghiacciante sensazione di non riconoscere più la propria immagine riflessa in uno specchio, di non avere più futuro né libertà. La giovanissima Christiane è rimasta sfigurata in un incidente causato da suo padre, chirurgo plastico; quest'ultimo, per espiare la propria colpa, decide di dare il via a una crescente spirale di orrore e dolore, rapendo giovani donne dalle quali prelevare la pelle necessaria per i trattamenti sperimentali ai quali sottopone la figlia. Ad aiutarlo c'è Louise, legata a lui da un rapporto di amore e gratitudine, in quanto anche il suo bel viso è frutto della chirurgia spregiudicata del dottore. Impegnati nel loro terribile compito, né il dottore né Louise si accorgono (o fingono di non accorgersi) del disagio crescente di Christiane, venuta a conoscenza del segreto che si cela dietro alle "miracolose" cure del padre e consapevole che simili pratiche renderanno bello il suo viso, ma le sporcheranno irrimediabilmente l'anima. In più, un eventuale successo la priverebbe comunque per sempre dei vecchi affetti e della sua vita precedente, trasformandola, di fatto, in una sconosciuta. Queste potenti sensazioni di disagio, solitudine e terrore, sono veicolate in maniera netta da un film che dura poco più di un'ora, e riesce comunque a lasciare il segno nella memoria dello spettatore nonostante la trama "semplice", soprattutto grazie ad una messa in scena di altissima qualità.


Tratteggiati ed immersi in un bianco e nero profondo, i personaggi del film vagano all'interno di luoghi talmente vasti che sembrano non avere confini (in primis la villa del dottore, persa all'interna di un parco adiacente alla casa di cura), eppure paiono schiacciati da questa stessa vastità, trasformata in un labirinto claustrofobico dal quale è difficile uscire, se non addirittura impossibile. Ad aumentare il senso di angoscia ci pensano i cani chiusi in gabbia nei sotterranei e i pochi esterni parigini, che trasformano la Ville Lumière in un posto cupo e pericoloso, dove è facile perdersi per non venire mai più ritrovati nonostante l'effimera sicurezza di luoghi affollati (i lunghi viaggi in macchina di Louise sembrano usciti da uno di quegli incubi in cui si corre per cercare di tornare a casa, invano). La qualità onirica della pellicola è ulteriormente enfatizzata dalla figura eterea di Christiane. Avvolta in camicie da notte sontuose e candide, uscite dritte da una fiaba nera, l'attrice Edith Scob si aggira con passo leggero, quasi sognante, tra le stanze della villa, con indosso una maschera che lascia scoperti solo due enormi, tristissimi occhi. Gli "occhi senza volto" del titolo, appunto, che da soli fanno traboccare l'inespressiva (benché elegantissima) maschera di tutto il dolore nascosto nel corpo di Christiane, per la quale si arriva a provare una profonda pena. Così non è, ovviamente, per suo padre, connotato come un mad doctor privo di scrupoli, attraverso la cui mano viene perpetrata una delle operazioni chirurgiche più angoscianti viste su schermo, con una verosimiglianza accentuata dall'abile regia di George Franju. Se non avete mai visto questa pietra miliare dell'horror cogliete al volo il mio suggerimento e guardatelo, ne rimarrete sorpresi e affascinati, ve lo garantisco!  


Di Alida Valli, che interpreta Louise, ho già parlato QUI mentre Edith Scob, che interpreta Christiane Génessier, la trovate QUA.

Georges Franju è il regista della pellicola. Francese, ha diretto altri film come Piena luce sull'assassino e Il delitto di Therese Desqueyroux. Anche sceneggiatore, compositore e attore è morto nel 1987 a 75 anni.


Se Occhi senza volto vi fosse piaciuto, recuperate La pelle che abito. ENJOY!

venerdì 14 giugno 2024

The Watchers - Loro ti guardano (2024)

Pur non andando tanto d'accordo col papino, mercoledì sono andata a vedere The Watchers - Loro ti guardano (The Watchers), diretto e co-sceneggiato da Ishana Night Shyamalan a partire dal romanzo omonimo di A.M. Shine.


Trama: Mina, ragazza dal passato tormentato, rimane bloccata all'interno di una foresta durante un viaggio in macchina. Mentre cerca una via d'uscita, incontra altre tre persone che tentano di sopravvivere senza incorrere nelle ire delle creature che, di notte, vagano tra gli alberi...


Leviamoci subito il dente. The Watchers, opera prima di una dei figli di M. Night Shyamalan, dalle pellicole di quest'ultimo ha preso la quantità di puttanate col botto che nascono dalla scelta di mescolare favola, horror e approfondimento psicologico universale. Quest'ultimo aspetto, fortunatamente, non si avverte troppo in The Watchers. Ishamalan non ha lo stesso presumin arrogante dello Shyabadà "impegnato" e, nonostante anche il suo film sia imperniato su persone incapaci di vivere un'esistenza piena e di affrontare i propri mostri, se non altro non sottovaluta il cervello dello spettatore reiterandogli più volte il concetto, neanche fosse lo studente più stupido del mondo. Purtroppo, in famiglia hanno il vizio di prendere creature del folklore e appiccicarci attorno con con lo sputo una storia che le rende ridicole, totalmente avulse dal contesto, e questo perché non curano i dettagli. Stephen King, per esempio, in uno dei suoi racconti brevi più terrificanti utilizzava un fauno in guisa di tagliaerbe, e giuro che non c'era nulla di ridicolo in questa scelta. Qui, senza fare spoiler, ci sono altre creature lontane dall'iconografia alla quale siamo abituati ad associarle, però ce ne sarebbero potute essere altre, perché il fatto che siano state scelte proprio loro, fra tutte, non è fondamentale ai fini della trama. Peggio ancora, la loro presenza non sconvolge né mette paura perché la sceneggiatura sembra scritta da un bambino che vuole far succedere determinate cose senza rispettare alcuna logica. Un paio di esempi che possono essere ricavati anche dal trailer: Mina arriva in questa fantomatica foresta dalla quale non si può uscire, ma lì dentro dovrebbe esserci mezza popolazione irlandese, visto che Google Maps la ritiene l'inevitabile zona di passaggio per andare da una grande città all'altra, invece ci sono solo tre persone (quattro, se contiamo quello che fa una brutta fine all'inizio). Insomma, non stiamo parlando di Aokigahara, dove la gente va apposta a suicidarsi. Le tre persone obbligano Mina a rifugiarsi in un bunker da cui non si può uscire di notte e dove bisogna seguire determinate regole, pena punizioni orribili, ma le regole vengono disattese dopo nemmeno 15 minuti di film e succede ben poco a chi trasgredisce, considerato che le creature potrebbero entrare lì dentro quando vogliono. Potrei continuare per righe e righe, tra dettagli apparentemente importantissimi, in quanto enfatizzati da dialoghi e inquadrature, che verranno dimenticati dopo pochissimo per non venire mai più ripresi, o la spiegazione su come sia finito un bunker in una foresta da cui non si può uscire né comunicare verso l'esterno, ma non sparo sulla croce rossa.
 

Pertanto, siccome il finale, grossomodo, salva il film in virtù di un simpatico twist shyamalano e un'apertura verso un'eventuale seguito che A.M. Shine pubblicherà a fine anno, è giusto anche parlare degli aspetti positivi di The Watchers, i quali riguardano essenzialmente gli aspetti tecnici della pellicola. Ishana usa bene la macchina da presa, soprattutto nelle sequenze iniziali o comunque il quelle ambientate all'interno del bosco; grazie all'ausilio dell'ottima fotografia di Eli Arenson, ci sono dei momenti in cui le ombre sembrano letteralmente muoversi e inghiottire i protagonisti lasciando loro solo un piccolo cerchio di luce a proteggerli, per non parlare dei colori vividi e caldi di tutto ciò che è "buono" o comunque salvifico. Molto suggestive anche le immagini dello specchio nel bunker, che dal trailer mi avevano fatto pensare a un altro genere di trama (probabilmente migliore di questa, ma non si può essere tutti Jordan Peele), e buono anche il montaggio, mentre ho patito parecchio la resa grafica delle creature, i soliti pupazzoni brutti in CGI a cui ricorre chi vuole buttare giù un mostrillo quanto più generico possibile. A tal proposito, tutti scomodano le grandi opere Shyamalane come Signs o The Village, mentre a me è sembrato che The Watchers avesse molti punti in comune con Wayward Pines, serie prodotta da Shyamalan padre che era partita molto bene per poi sgonfiarsi nel tempo. Il che mi porta a pensare che Ishana abbia tutte le carte in regola per realizzare opere di grande impatto visivo, ma dovrebbe tirare fuori un po' di coraggio ed affrancarsi dall'ombra di papà, onde intraprendere un percorso personale. Viceversa, il rischio è quello di continuare a sfornare opere belline ma superficiali come i protagonisti del film, i quali, nonostante i traumi raccontati nei dialoghi, hanno lo stesso spessore psicologico dei protagonisti di un qualsiasi reality, come quello che costituisce l'unica fonte di intrattenimento all'interno del bunker. Non scherzo se dico che mi interessava di più sapere chi sarebbe stata la coppia vincitrice della trasmissione, rispetto a se i personaggi sarebbero riusciti a salvarsi. Provaci ancora, Ishana. 


Di Dakota Fanning (Mina), Georgina Campbell (Ciara) e Olwen Fouéré (Madeline) ho già parlato ai rispettivi link.

Ishana Night Shyamalan è la regista e co-sceneggiatrice del film. Al suo primo lungometraggio, ha diretto anche episodi della serie Servant. Americana, anche produttrice, ha 24 anni.


John Lynch
interpreta Kilmartin. Inglese, ha partecipato a film come Hardware, Nel nome del padre, Sliding Doors, Boys from County Hell e a serie quali Le avventure del giovane Indiana Jones e The Terror. Anche sceneggiatore e produttore, ha 63 anni. 


Se The Watchers vi fosse piaciuto recuperate The Hole in the Ground, The Village e Signs. ENJOY! 

martedì 11 giugno 2024

The Strangers - Chapter 1 (2024)

Approfittando di un sabato piovoso e malaticcio, ho guardato The Strangers - Chapter 1, diretto dal regista Renny Harlin.


Trama: due ragazzi sono costretti a fermarsi in un Airbnb in mezzo ai boschi dopo che la loro macchina è finita in panne. Lì verranno aggrediti da tre folli mascherati...


Per scrivere una recensione onesta su The Strangers - Chapter 1 bisognerebbe farlo alla fine della trilogia progettata da Renny Harlin e basata sul The Strangers di Bryan Bertino. I tre film, infatti, sono stati girati uno dietro l'altro e andranno a comporre un affresco di cui questo è, ovviamente, solo la base preparatoria. Mi riservo dunque di riguardare Chapter 1 alla fine di tutto ma, per il momento, è innegabile che il film risenta del confronto con The Strangers. Dire che è "più brutto" sarebbe ingiusto. Bertino aveva dalla sua l'effetto sorpresa e il merito di aver ri-sdoganato l'home invasion "realistico", mescolandolo alla crudeltà della new wave francese, privando i killer di una motivazione reale salvo quella di voler fare del male perché sì, perché le vittime "erano in casa" (e presentando anche personaggi che non avevano fatto nulla di male per meritarsi un destino simile, o meglio, non avevano infranto nessuna regola degli horror anni '80-'90). Harlin deve lavorare su un canovaccio già visto e reiterato dieci anni dopo con The Strangers: Prey at Night (di cui Chapter 1 riprende alcune idee che lo rendono più spettacolare rispetto al primo The Strangers), quindi lo spettatore che conosce la saga sa già dove andrà a parare. Viene dunque meno il coinvolgimento emotivo del pubblico verso la coppia protagonista, e tutta l'introduzione che vede i due piccioncini interagire ha un po' il sapore del brodo allungato; si riduce, inevitabilmente, anche la tensione della prima parte ambientata all'interno della casa, in quanto le dinamiche sono identiche a quelle del film di Bertino, senza contare che vengono riutilizzate persino alcune delle sue inquadrature più iconiche. La seconda parte se ne distacca per buona parte o, comunque, vengono scelte soluzioni narrative simili ma non identiche a quelle dell'originale, ma, purtroppo, si riduce anche l'intelligenza dei due protagonisti, che a un certo punto fanno tutte quelle cose stupide tipiche degli horror (Cristo, hai un fucile? Per Dio, sei americano, SPARA. SPARA come se non ci fosse un domani e poi, semmai, fai domande, vantati, grattati la testa con la canna del fucile, quello che vuoi). 


Un elemento che differenzia Chapter 1 dai film precedenti è soprattutto il tentativo di creare un worldbuilding o, comunque, di spingere lo spettatore a farsi delle domande relativamente all'identità dei tre assassini mascherati. Se, infatti, i protagonisti di The Strangers e del suo seguito arrivavano sulla futura scena dei delitti senza interagire con nessuno, nel primo quarto d'ora di Chapter 1 facciamo la conoscenza di alcuni abitanti di Venus (il paese dov'è ambientato il film), quasi tutti dotati di rara simpatia e di atteggiamenti quantomeno sospetti. Considerato che lo sceriffo ha la faccia ben poco rassicurante di Richard Brake, l'idea è che i prossimi capitoli  scavino un po' nel passato della cittadina e nei suoi segreti. Ma potrei anche sbagliarmi e potrebbe anche solo essere stata una pennellata di colore, al momento non è dato sapere. Quello che è certo è che i due protagonisti mi sono sembrati un po' più vivaci rispetto a Liv Tyler Scott Speedman, ma anche più "stereotipati" per quanto riguarda la loro relazione sentimentale e vari atteggiamenti che li inseriscono all'interno di cliché ben precisi. La sensazione generale è stata quella di avere davanti un film meno cupo rispetto all'originale, più dinamico, più legato ad alcuni elementi "pop", soprattutto a livello di dialoghi e colonna sonora, e anche maggiormente allineato all'iconografia degli slasher più famosi. Ci sono dei momenti in cui la caratterizzazione redneck di chiunque incontrasse i due protagonisti mi ha ricordato Non aprite quella porta e i suoi mille sequel/remake/emuli, mentre Scarecrow è molto più fisicato dei suoi due predecessori e sembra Jason Voorhees nel remake di Nispel, quando non aveva ancora la maschera da hockey. In definitiva, per me è nì. Ho visto di meglio, ho visto di peggio, ma preso come film a sé stante mi è parso piuttosto dimenticabile. Sarò comunque molto felice di rivedere il mio giudizio alla fine della trilogia, nel caso!  


Del regista Renny Harlin ho già parlato QUI mentre Richard Brake, che interpreta lo sceriffo Rotter, lo trovate QUA


La protagonista Madelaine Petsch è una delle star di Riverdale e aveva già partecipato al film Polaroid. Se The Strangers - Chapter 1 vi fosse piaciuto recuperate, ovviamente, The Strangers e The Strangers - Prey at Night. ENJOY!

venerdì 7 giugno 2024

L'esorcismo - Ultimo atto (2024)

Mercoledì sono andata al cinema a vedere L'esorcismo - Ultimo atto (The Exorcism), diretto e co-sceneggiato dal regista Joshua John Miller.


Trama: reduce da due anni di alcolismo e tossicodipendenza, Anthony vede un barlume di speranza quando gli viene offerto il ruolo del prete in un film horror, almeno finché finzione e realtà non iniziano a mescolarsi...


Stavolta produttori e distributori si sono impegnati per fare il colpaccio, riuscendo a gabbare più di uno spettatore (io sono andata al cinema perché gli horror non si perdono a prescindere, non faccio testo, gné). L'esorcismo - Ultimo atto è un film girato nel 2019, rimasto a frollare nel limbo della distribuzione mondiale finché, l'anno scorso, non è arrivato L'esorcista del papa a sdoganare Russell Crowe in versione nemico lambrettato del demonio, conquistando il cuore di tutti noi. Con un titolo inglese quanto più vago possibile (e uno italiano ancora più infingardo), nonché un poster praticamente identico a quello de L'esorcista del papa per colori, posa del protagonista e persino font, L'esorcismo - Ultimo atto si è proposto, a tradimento, come sequel/prequel/spin-off o comunque parte dell'Amorth Cinematic Universe, invece non potrebbe essere un film più diverso, per atmosfere e ambizioni. Che poi queste ultime si siano tragicamente infrante contro un secondo tempo ridicolo e banale è qualcosa di cui parlerò più avanti, adesso vi accenno un po' cosa dovete aspettarvi da L'esorcismo - Ultimo atto. Il film è diretto e co-sceneggiato da Joshua John Miller, il quale altri non è che il figlio di Jason Miller, l'attore che interpretava padre Karras ne L'esorcista. Ora, il capolavoro di Friedkin, benché non venga mai nominato, è l'opera a cui si rifà The Georgetown Project, ovvero il "film nel film" per il quale il personaggio di Russell Crowe decide di fare il provino. La sceneggiatura de L'esorcismo - Ultimo atto parte dalle suggestioni biografiche del regista figlio d'arte, spingendosi fino a includere ed enfatizzare gli incidenti reali accorsi sul set de L'esorcista e altri film a tema demoniaco, per raccontare il dramma di un attore fallito che ha scelto di scappare dalla malattia della moglie diventando un alcolizzato e drogato, abbandonando così anche la figlia. Questo dramma, caricato nella prima parte del film sulle ampie spalle di Russell Crowe, viene ulteriormente ingigantito dal palese affetto esistente tra Tony e la figlia Lee e dalla speranza che il film possa segnare la rinascita della carriera dell'uomo, brutalmente stroncata quando il demonio decide di metterci lo zampino sfruttando le traumatiche esperienze infantili che Tony ha avuto con la Chiesa. 


L'idea che vuol dare di sé L'esorcismo - Ultimo atto, almeno nella prima parte, è quella di un elevated horror con riferimenti cinefili e c'è da dire che, per un po', funziona. La ricostruzione quasi filologica degli ambienti de L'esorcista, con tanto di interessantissimo set a tre piani raffigurante una villetta, la riproposizione di luci, fotografia (purtroppo scurissima quando finiscono gli omaggi al film di Friedkin, tanto che alla riaccensione delle luci ho rischiato di perdere la vista) e persino inquadrature è affascinante, e rende molto sottile la distanza che separa realtà, "leggenda" e finzione cinematografica. E' bello anche che Joshua John Miller si prenda il tempo di approfondire il personaggio di Tony, il legame con la figlia e il concetto di perdono, così difficile da concedere ma ancor più difficile da accettare, e che sfrutti le fredde regole dello showbusiness come veicolo per far precipitare definitivamente la situazione. Purtroppo, a un certo punto devono avergli ricordato che il film si chiama L'esorcismo - Ultimo atto, mettendogli una fretta boia, e il risultato è che tutto il precedente lavoro di "costruzione" della tensione viene mandato in vacca per diventare l'ennesimo, loffio horror a base di démoni importuni. Personaggi che fanno cose idiote (gli attori chiamati ad interpretare il prete, per contratto, devono fare le prove di notte, da soli, sul set deserto. Anche se quelli prima di loro sono morti male facendo la stessa cosa), Russel Crowe che si torce come un cavatappi e neanche una persona che chiami un medico, sempre le solite voci demoniache con insulti annessi, un prete simil-Fassino che si improvvisa esorcista dopo aver passato l'intero film a dire che lui a queste cose non crede, un esorcismo finale durante il quale l'esclamazione "grazie ar cazzo, così sono capaci tutti" ha raggiunto apici di non ritorno, una Chiesa FORSE infestata da pedofili ma forse sono adoratori di Satana, chissà, tanto sono meri plot device per dare colore. E' inevitabile che una seconda parte così frettolosa e ridicola afflosci, in retrospettiva, anche quanto è stato mostrato prima, che si fa di rimando pesante e presuntuoso quanto quel finale poetico che sembra aggiunto con lo sputo. E' un vero spreco, perché Crowe è un signor attore e sia lui che la brava Ryan Simpkins si impegnano anche troppo per un film simile, al quale avrebbe giovato molto di più rimanere in ambito psicologico con qualche venatura sovrannaturale, oppure giocare maggiormente con l'idea dei set maledetti senza diventare, paradossalmente, l'ennesima imitazione mal riuscita de L'esorcista


Di Russell Crowe (Anthony Miller), Ryan Simpkins (Lee Miller), Sam Worthington (Joe) e Adam Goldberg (Peter) ho già parlato ai rispettivi link. 

Joshua John Miller è il regista e co-sceneggiatore della pellicola, inoltre interpreta il tecnico degli effetti speciali. Americano, è al suo secondo film dietro la macchina da presa. Anche produttore, ha 50 anni. 


David Hyde Pierce
, che interpreta padre Conor, è famoso per aver partecipato alla sit-com Frasier. Se L'esorcismo - Ultimo atto vi fosse piaciuto, recuperate L'esorcista, che è meglio. ENJOY!


martedì 4 giugno 2024

Vincent deve morire (2023)

E' uscito in questi giorni al cinema un film che, sulla carta, mi ispirava molto, Vincent deve morire (Vincent doit mourir), diretto e co-sceneggiato nel 2023 dal regista Stéphan Castang.


Trama: Vincent lavora come grafico e conduce una vita tranquilla, almeno finché le persone non cominciano ad aggredirlo senza motivo...


Vincent deve morire
parte da un assunto assai intrigante che funge da metafora per la situazione sociale attuale. Se fino a qualche tempo fa c'era la road rage, adesso c'è la rage e basta e le persone, come posso testimoniare tranquillamente ogni giorno sui social ma anche fuori, nell'azienda dove lavoro o per strada, sono sempre più pronte a scattare per ogni minima cazzata. Vero è che la gente, a me, pare sempre più scema e la voglia di prendere a schiaffi certe persone, anche solo per svegliarle inculcando loro un po' di senno là dove le parole sembrano non fare breccia, è un desiderio legittimo, ma il problema è che nessuno sembra avere più voglia di fare un po' di sano esercizio di pazienza, soprattutto davanti a delle cretinate. Vincent deve morire rappresenta questa triste situazione sociale sfruttando l'idea di "qualcosa" (un morbo? un'arma chimica? una cometa che ci scompensa il campo magnetico? non lo sapremo mai, non è importante.) che spinge la gente a volere corcare di mazzate il povero Vincent del titolo. Quest'ultimo non è connotato come particolarmente simpatico (altra scelta vincente della sceneggiatura) e di sicuro meriterebbe più di un vaffanculo, ma quello che succede è che le persone che lo guardano vengono prese da un insano desiderio di ucciderlo, che siano amici, parenti o sconosciuti. Il film, soprattutto nella prima parte, conquista l'attenzione dello spettatore creando un'atmosfera di paranoia e claustrofobia totale, centellinando abilmente le aggressioni ai danni di Vincent, aumentando ogni volta la gravità di queste ultime e prolungando, allo stesso tempo, le situazioni di potenziale pericolo in cui si aspetta, col cuore in gola, che succeda qualcos'altro. Ho apprezzato anche il modo intelligente in cui, a poco a poco, viene introdotta l'idea di una minaccia globale, di una casualità che si fa caos ingestibile ed incomprensibile, con sfumature apocalittiche che esplodono prepotenti poco prima del finale, altro vero punto di forza della pellicola. Quello che però non mi sarei aspettata da un film così intrigante è che sarebbe subentrata la noia e che, per superarla, mi sarei dovuta mettere a fare le pulci alla sceneggiatura.


A mio parere, l'enorme difetto di Vincent deve morire è l'introduzione dell'elemento sentimentale, che porta con sé non solo una perdita generale di ritmo, ma anche tutta una serie di difetti tipici degli horror di serie Z fatti coi piedi. A un certo punto Vincent decide che, nonostante la consapevolezza di dover rimanere solo per il resto dei suoi giorni, pena la morte, potrebbe essere un'ottima idea incapricciarsi di una cameriera appena conosciuta, solo perché quest'ultima non lo ha rovinato di mazzate. Non sto a dirvi come evolverà la cosa, perché sconfinerei nel territorio dello spoiler, ma a partire da quel momento viene meno l'intero assunto iniziale su come funzioni la "maledizione" di Vincent (per carità, assunto mai confermato al 100%) e quest'ultima viene sospesa oppure ripresa a seconda di come conviene alla sceneggiatura: per dire, un minuto prima Vincent entra in un supermercato ed esce di corsa con tutti gli avventori alle calcagna, pronti a ucciderlo, un minuto dopo dei poliziotti lo lasciano andare senza colpo ferire, e ciò succede sempre più spesso, senza alcun tipo di logica. So che ciò potrebbe, per l'appunto, indicare la casualità di questa rabbia sociale di cui il film è metafora, priva di spiegazioni razionali o schemi da decifrare, tuttavia, a livello di sceneggiatura, mi è sembrato anche un ottimo esempio di paraculaggine che mi ha fatto scendere l'entusiasmo per Vincent deve morire. Peccato, perché, come ho scritto su, l'idea di partenza era molto buona, e ho trovato apprezzabile la scelta di non basare l'intero film sull'effetto shock di partenza, nonostante la tragica perdita di ritmo da metà in poi; inoltre, Karim Leklou ha la perfetta faccia da "vittima", di sfigatello che, ottenuto qualche privilegio, lo esercita senza troppa coscienza risultando antipatico e, una volta rimesso al suo posto, indossa una perenne espressione da cane bastonato, assai simile a quella dello storico Droopy. Nonostante io sia rimasta poco entusiasta di Vincent deve morire, comunque, il film è piaciuto alla maggior parte del pubblico, quindi guardatelo e fatemi sapere la vostra!

Stéphan Castang è il regista e co-sceneggiatore della pellicola, al suo primo lungometraggio. Francese, anche attore, ha 51 anni.



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